Yuval Noah Harari, 21 lezioni per il XXI secolo

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Yuval Noah Harari, 21 lezioni per il XXI secolo, Milano, Bompiani, 2021.

Yuval Noah Harari, lo storico israeliano noto al grande pubblico per i suoi straordinari contributi sulla dinamica evolutiva della specie umana (Sapiens. Da animali a dei del 2014 e Homo Deus del 2017 – opere tradotte in oltre cinquanta lingue), in 21 lezioni per il XXI secolo propone una nuova riflessione che ha lo scopo di problematizzare l’attuale momento storico in cui tutti siamo chiamati ad interrogarci sui (e tentare di comprendere i) problemi e i dilemmi più urgenti delle società umane: «Che cosa sta accadendo proprio adesso? Quali sono oggi le sfide più grandi e le opzioni disponibili? A che cosa dovremmo porre attenzione? Che cosa dovremmo insegnare ai nostri figli?» (p. 8). A questi interrogativi e a molti altri ancora tra quelli che caratterizzano lo stato di incertezza divenuta endemica per gli attori sociali del mondo contemporaneo globalizzato, Harari non dà (e come potrebbe farlo?) risposte, ma, al contrario, propone riflessioni approfondite ed ampiamente documentate (l’apparato di note e di riferimenti bibliografici è davvero molto denso) che inducono il lettore alla consapevolezza di una realtà complessa la cui comprensione reclama nuovi schemi interpretativi. Il volume, a differenza di quelli che lo hanno preceduto, non ha la struttura di una “narrazione storica”, ma presenta una raccolta di 21 saggi (composti in varie forme ed alcuni già pubblicati negli ultimi anni) il cui filo conduttore è rappresentato dalle domande appena enunciate; si tratta «di un corpus di lezioni che non si concludono con risposte semplificatorie: lo scopo è stimolare ulteriori riflessioni e aiutare i lettori a partecipare a qualcuna delle conversazioni più importanti del nostro tempo» (p. 9). In quest’ottica, Harari svolge una riflessione articolata in una serie di 21 temi rilevanti che, partendo da quello della disillusione conseguente al fallimento della profezia degli anni Novanta del secolo scorso secondo cui il crollo del muro di Berlino avrebbe generato la “fine della storia” (cfr. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992), si snoda lungo un percorso che affronta una varietà di questioni altamente problematiche: dalla sfida tecnologica alle dinamiche del mondo del lavoro; dai rischi per la della democrazia, alla crescente disuguaglianza; dalla guerra alla religione; dalla indeterminatezza dell’idea di verità al bisogno di politiche educative rigorose e al tempo stesso aperte e flessibili. Ogni questione è affrontata e sviluppata in termini molto ben argomentati senza tuttavia la pretesa di fornire facili soluzioni o risposte definitive (lo stesso autore non le possiede) e una simile scelta offre il vantaggio di lasciare il necessario spazio allo spirito critico del lettore che potrà cercare autonomamente la via più coerente con i suoi interessi.


Le politiche educative

Poiché è impossibile nello spazio di questa recensione esplorare nella sua ampiezza il ventaglio delle suggestioni contenute nel volume di Harari, scelgo di dar conto brevemente di uno tra i temi affrontati: è il tema, direttamente legato agli interessi prevalenti del nostro blog, dell’apprendimento e più in generale delle politiche educative (l’autore lo etichetta, secondo una visione tradizionale, come “istruzione”).
La questione educativa (o più in generale della formazione delle giovani generazioni) pone dilemmi di un certo spessore in un mondo caratterizzato da cambiamenti che si susseguono a ritmo incalzante: un’innovazione (quale che sia il campo in cui è generata) non fa in tempo a consolidarsi che un’altra la rende rapidamente obsoleta: «L’umanità sta vivendo rivoluzioni senza precedenti, tutte le nostre storie stanno andando in frantumi, e nessuna nuova narrazione è finora emersa per prenderne il posto. Come possiamo preparare noi stessi e i nostri figli per un mondo scosso da tali inediti sconvolgimenti e radicali incertezze? Un bambino nato oggi avrà poco più di trent'anni nel 2050. Se tutto gli/le va bene, sarà ancora in vita intorno al 2100, e potrebbe perfino essere un cittadino attivo del XXII secolo. Che cosa dovremmo insegnare a questo/a bambino/a per aiutare lui/lei a sopravvivere e avere successo nel mondo del 2050 o in quello del XXII secolo? Che cosa dovremmo insegnare a questo/a bambino/a per aiutare lui/lei a sopravvivere e avere successo nel mondo del 2050 o in quello del XXII secolo? Quali competenze professionali dovranno avere lui/lei per trovare un'occupazione, comprendere quello che gli/le succede intorno per orientarsi nel labirinto della vita?» (p. 339). Sono domande impegnative specie se si consideri la realtà dei sistemi formativi (scuole, extra-scuola, università, ecc.) ancora dominata, quasi ovunque nel mondo, da una cultura “istruzionista”, una cultura che affonda le sue radici in una tradizione basata sull’accumulo di nozioni. Tale approccio, che nel passato aveva una sua plausibilità – date le condizioni di stabilità nel tempo e nello spazio di saperi consolidati e di penuria delle informazioni disponibili –, nel mondo in cui viviamo, caratterizzato da un diluvio di informazioni non sempre rilevanti e da fenomeni continui e costanti di cambiamento, si pone il problema di rifondare radicalmente i contenuti e i metodi dei sistemi formativi in una direzione che metta al centro la promozione e la facilitazione dei processi di apprendimento. Non è tanto di informazioni che hanno bisogno gli studenti (esse sono ormai sovrabbondanti e facilmente acquisibili), quanto degli strumenti che sollecitino le loro capacità di apprendimento e per questa via la costruzione autonoma di un bagaglio personale (che si affina e si consolida nel tempo modificandosi anche) di conoscenze pertinenti e coerenti con il progetto formativo e di vita di ciascuno. «Cosa dovremmo insegnare?» – si chiede dunque Harari. Non fornisce una sua risposta, ma suggerisce quanto proposto dal pedagogista americano C. N. Davidson (The New Education. How to Revolutionize the University to PrepareStudents for a World in Flux, New York, Basic Books 2017): una prospettiva aperta al futuro in un contesto di radicale incertezza dovrebbe basarsi sulla didattica delle “quattro C” (critica, comunicazione, collaborazione e creatività). «Più in generale le scuole dovrebbero ridurre le conoscenze tecniche specifiche e sviluppare le abilità utili alla vita in generale. La più importante delle quali sarà la capacità di gestire il cambiamento, di imparare nuove cose, e di mantenere il controllo in situazioni di emergenza» (p. 343).
Per i nostri sistemi formativi dunque la sfida, davvero vertiginosa a pensarci bene, è quella di una riconversione radicale ed è legata innanzitutto alla consapevolezza del fatto che i giovani proiettati nel mondo del 2050 e oltre avranno certamente bisogno di inventare “nuove idee e nuovi prodotti”, ma avranno soprattutto bisogno di rimotivarsi costantemente assumendo consapevolezza della necessità di dover reinventare continuamente se stessi e le loro identità personali e professionali.


"Il tempo è scaduto"

Vorrei concludere richiamando un caveat contenuto nella parte finale di un’intervista a “la Repubblica” (Y. N. Harari, Nell’epoca digitale, la conoscenza è potere, a cura di A, Longo, “la Repubblica”, 18 marzo 2019) in cui Harari segnala l’urgenza di ripensare radicalmente i sistemi educativi occidentali: «Adesso il tempo è scaduto. Le decisioni che prenderemo nei prossimi decenni condizioneranno il futuro della vita e potremo operare tali scelte soltanto in base alla nostra attuale visione del mondo. Se questa generazione non riuscirà ad avere una visione complessiva del cosmo, il futuro della vita sarà deciso dal caso».

Il comitato redazionale

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