Se mettono davanti a te un foglio a righe, scrivi su qualcos'altro

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Sono Erika Nemes, ungherese nata nella splendida città di Budapest. Sono cresciuta in un paese dove a scuola era obbligatorio studiare la lingua russa in classe (cosa che odiavamo in quei tempi) e alle ricorrenze nazionali dovevamo cantare l’inno sovietico subito dopo quello ungherese. Come tutti, anche io ho fatto tutti i percorsi obbligatori: piccola tamburina in divisa e cravatta blu e poi pioniere con la cravatta rossa.

Vengo da una famiglia apparentemente classica, come il regime richiedeva negli anni '70-80, ma con dei genitori contraddistinti da una visione liberale senza cravatta e in una piccola casa colma di libri. Mamma era appassionata di arte e gli scaffali si piegavano affannosamente sotto grandi volumi di pittori classici e impressionisti. Il mio primo amore non era il classico principe azzurro della Disney, bensì Henri de Toulouse-Lautrec. Papà invece, attraverso centinai di libri di storia, di George Orwell e delle Cronache Marziane, non poteva che contaminarmi con una generosa dose di indipendenza e di pensiero critico.
Sono sempre stata educata in modo da seguire la mia strada, a prendere decisioni autonomamente e i miei genitori mi hanno cresciuta senza impormi limiti.

Mi ricordo l’edizione ungherese Fahrenheit 451di Ray Bradbury, in cui la prima pagina conteneva una frase di Juan Ramon Jimenez: “Se mettono davanti a te un foglio a righe, scrivi su qualcos'altro". Non ho mai ritrovato quella frase in nessun’altra prefazione di edizioni straniere. Ma nonostante questo è rimasta impressa dentro di me e non solo mi sono sempre rifiutata di scrivere in fogli a righe, ma ho messo in pratica quel messaggio, che ha profondamente influenzato la mia visione del mondo.

Oggi vivo in un’altra splendida città, Roma, di cui sono profondamente innamorata.
Proverò a riassumere quale delle tante strade mi abbia portato a Roma.
La mia storia europea inizia nel lontano 1992, quando lasciai la mia città all’età di 19 anni, appena finiti gli studi della scuola superiore. Cosa mi stavo lasciando alle spalle? Da poco era caduto il muro di Berlino e le truppe russe si erano ritirate dal territorio ungherese. Con il grande cambiamento, in quel periodo iniziarono ad arrivare prodotti dai paesi capitalisti che durante il regime erano vietati. Giungono a noi “emtìvì” (Music Television), i walkman con le audiocassette scricchiolanti e copiate dagli amici. Lo Spotify dell’epoca consisteva nell’attendere che il brano passasse alla radio e lo registrassi rapidamente nella speranza che lo trasmettessero fino alla fine. Non c’era internet, quindi si scambiavano lettere.

Da adolescente curiosa, mi rimase impressa una particolare rivista: Gioia. Oltre ai prodotti e vari oggetti di bellezza in mini formato gratuiti (cose mai viste prima!), sulle ultime pagine di questa rivista erano numerosi gli annunci di richieste di penpal friend. I miei messaggi preferiti riguardavano spesso giovani coetanei italiani con i quali scambiavo foto, audiocassette con musica italiana e brevi discorsi che cercavo di sostenere utilizzando diligentemente vari vocabolari, dizionari e libri di grammatica italiana. Questa esperienza mi sarà molto utile nel mio prossimo futuro.

Sono partita in un’epoca in cui la nostra generazione ha visto gradualmente aprire le frontiere, per noi chiuse quasi ermeticamente fino al 1989. Negli anni precedenti si poteva viaggiare, soprattutto attraverso gruppi organizzati, negli altri paesi socialisti (Jugoslavia, Cecoslovacchia, Bulgaria, Polonia, ecc.) e si potevano intrattenere rapporti solo con persone provenienti dal blocco sovietico. In alcuni casi la “libertà di viaggiare” veniva data per altri paesi al di fuori del blocco su invito di parenti o per turismo, ma con un piccolo impedimento “tecnico”: non si potevano esportare dal paese oltre 50 o 70 dollari. La quantità di valuta acquistata e l'importo rimanente al rientro, venivano registrati su un allegato al passaporto. Portare fuori più valuta era un crimine. Quindi se viaggiavi, lo facevi in pratica con le tasche vuote.
Partire, viaggiare, essere fermati alle frontiere, entrare in un altro paese per me (ma per molte altre persone che conosco) significava anche tante sensazioni spiacevoli, un forte nodo alla gola davanti ad una divisa, lo stomaco che si stringe mentre attraversi la frontiera. Solo chi ha vissuto in un regime chiuso può comprendere appieno la sensazione.
In quei tempi partivano in molti, il che sembrerebbe per certi versi una contraddizione in quanto il Paese stava riacquistando una libertà negata fino a quel momento. Di libertà prima non si parlava e non si scriveva, non si era liberi di viaggiare e io respiravo una ventata di libertà grazie a quelle vite libere vissute epistolarmente.

A un certo punto ho voluto approfittare di un’opportunità a cui non potevo assolutamente rinunciare: andare all’estero e finalmente conoscere una vita al di fuori del mio paese.
Mamma non voleva che partissi, ma nulla poteva trattenermi. Racimolando 60 sterline lavorando in un albergo, e cercando di non vedere le lacrime di mia madre, un giorno salii sul pullman per affrontare il mio primo viaggio della durata di 23 ore fino a Londra.
L’obiettivo del viaggio era quello di migliorare il mio inglese e di restare per circa sei mesi. E così fu. Trascorso questo periodo, ritornai a Natale a Budapest con l’intenzione di proseguire la mia vita normale. Mi resi subito conto che per quanto amavo la mia Budapest, ormai mi stava stretta. Londra offriva una moltitudine di nazionalità, di persone diverse, di opportunità e di sogni non paragonabile. Per la seconda volta, nulla poté bloccarmi dal prendere la mia valigia e tornare nuovamente a Londra. La mia vita all’estero era piena di emozioni, di novità ma anche di impegni. Alternavo i miei studi in un college inglese, frequentando amici di varie nazionalità e lavori di diversa natura, vivendo in famiglie turche e greche. A dire la verità, non mi sono mai sentita una straniera e mi sono adattata sempre subito a vivere anche con culture molto diverse dall’ambiente in cui sono cresciuta. Le famiglie in cui ero ospite mi accolsero con affetto, forse perché non ho mai avuto la sensazione di essere diversa da loro. Ho partecipato a pieno titolo come parte della famiglia a grossi grassi matrimoni greci e, a detta della capofamiglia turca, il caffè turco più buono lo preparavo io durante le partite di bridge del venerdì.
All’epoca l’Ungheria non era uno stato membro dell’Unione Europea, per cui la mia permanenza in Inghilterra non poteva durare più di due anni.
Dovevo ritornare per forza a Budapest lasciando a Londra, oltre i sogni, anche un amore.
In fondo, due anni non sono poi così tanti, ma lo sono se succedono molte più cose di quelle che sono successe nel resto della tua vita: novità, successi, esperienze, persone, amici, amore, gioia, lacrime, addii. Rientrata nuovamente a casa, faticavo a reintegrarmi nella mia città natale perché la mia vita all’estero mi aveva ormai completamente travolta. Sentivo troppa nostalgia. Ma un giorno, del tutto inaspettatamente, si presentò l’amore londinese di origine italiana in Ungheria, a sorpresa davanti casa con in mano una grande mappa automobilistica d’Europa, esausto, stanco dopo aver attraversato in macchina tre paesi per riportarmi con lui a Roma.

E qui, per la terza volta, nessuno ha potuto fermarmi. L’impatto con l’Italia è stato travolgente, meraviglioso. Mi piaceva tutto, TUTTO. Il sole, il cielo sempre azzurro, il mare, le persone, i mercati rionali, il suono della lingua italiana, il romanaccio, i monumenti… l’ananas fresco e il fico conosciuto finora solo di nome in una favola della mia infanzia.
Poi ovviamente, con il tempo sono arrivate anche le difficoltà. L’Ungheria non era un Paese europeo. Formalmente ero una extra-comunitaria e i miei titoli di studio non erano riconosciuti. All’età di 24 anni, dovevo ricominciare da capo la scuola superiore per potermi iscrivere all’università. Presi il fatto (e il fato) con filosofia, perché frequentare la scuola significava avere ancora altre esperienze, altre occasioni di migliorare la lingua e di trovare un lavoro, e poi di incontrare tanti, tanti amici, ottimi amici, persone stupende, italiane e straniere. La mia classe sembrava il college londinese, colorato e pieno di multiculturalismo che adoravo così tanto anni prima. L’avventura proseguì fino all’università. Scelsi la facoltà di Economia, perché nel frattempo purtroppo l’amore finì, ma decisi comunque di rimanere a Roma, che cominciavo a considerare la mia città adottiva. Studiare in un’università italiana si rivelò una bella sfida sia in termini di impegno che di lingua, ma superai gli ostacoli della micro e macroeconomia, dei codici tributari, degli indici di bilancio laureandomi entro i tempi previsti.
Poche settimane dopo la discussione della tesi di laurea ero ancora inebriata del mio nuovo traguardo raggiunto, quando una compagna d’università mi parlò di un concorso europeo EPSO, a cui questa volta potevo partecipare perché nel frattempo l’Ungheria era diventata uno stato membro nel 2004. Presi dei libri in prestito, in francese, lingua che di fatto masticavo appena, mi preparai studiando politiche, funzionamento e organi di questa “nuova” Unione Europea. Passai il concorso al primo tentativo.
Tra diverse offerte di lavoro, scelsi di andare a Bruxelles, nella sede della Commissione Europea dove cercavano una lingua “esotica” (l’ungherese) per fare parte di un team di controllori finanziari. In un batter d’occhio fui catapultata in questo gigantesco mondo chiamato Europa, variopinto, multiculturale, pieno di stimoli, di ambizioni e con la possibilità di viaggiare negli stati membri per controllare progetti europei. In quegli anni, proprio mentre svolgevo controlli tra i beneficiari di progetti finanziati dalla Commissione europea, spesso mi sentivo chiedere perché non creassi qualche struttura per aiutare a gestire i progetti europei. Di fatto è proprio lì che cominciò a delinearsi l’idea di lavorare nel mondo della progettazione europea. Ma queste idee non erano compatibili con la posizione che ricoprivo allora. Lavoravo nella Commissione Europea, nel centro dell’Europa, cosa poteva darmi “più Europa” di così?

Il destino però è capriccioso, imprevedibile e confesso, imprevedibile era anche la mia nostalgia per l’Italia. E fu così che accettai senza troppe riflessioni un posto di Capo Amministrazione e il trasferimento alla Rappresentanza in Italia della Commissione Europea con sede a Roma. Sono nella mia città adottiva, con i miei amici, accanto a un nuovo amore (nuovamente italiano!). Potevo finalmente vivere insieme nello stesso momento sia Roma che l’Europa!
Passano altri tre anni stupendi, spensierati e professionalmente stimolanti a gestire budget, finanze, appalti, personale, finanziamenti ma, come al solito, il bivio arriva sempre puntuale davanti a me: alla scadenza del mio contratto, potevo tornare a Bruxelles, nella sicurezza ma sola, oppure dare seguito alla mia idea di un’organizzazione che si occupassw di progetti europei, qui in Italia. Dopo lunghe e, confesso, tortuose riflessioni, la bilancia pendeva verso quell’idea che molte persone intorno a me, consideravano come pazzia totale. Nella mia mente però riecheggia sin da bambina la frase della prima pagina di Fahrenheit 451: “Se mettono davanti a te un foglio a righe, scrivi su qualcos'altro”.
E così, cominciai a scrivere insieme a due ragazze, Cristina e Gianna, conosciute proprio in Rappresentanza, su quelle pagine bianche, candide, senza righe, la nostra idea di Europa.
Nel 2014 abbiamo dato vita ad un’associazione, Euphoria, che da una parte mi permetteva di mettere a frutto tutta l’esperienza europea e di non perdere, anzi, di sviluppare ulteriormente le competenze acquisite in Commissione Europea, ma mi dava anche un modo di portare avanti (phéro), quello che per me ha il significato non solo etimologico della parola EU: il bene.

Oggi lavoro come Project Manager di Euphoria e sono anche una libera professionista autonoma. Incontro ogni giorno molte persone di nazionalità diverse e le mie giornate sono arricchite sempre di nuove culture, tradizioni, lingue, colori, profumi, sapori.
Coordino progetti europei e quindi attraverso molte frontiere senza più avere quel nodo alla gola. Probabilmente, anzi mi auguro, che la maggior parte di coloro che stanno leggendo, non abbiano sperimentato cosa voglia dire vivere in un regime autoritario. Ma la mia esperienza mi ha insegnato a non dare nulla per scontato.
E quindi continuo a entusiasmarmi proprio per quella sensazione che ho cercato di trasmettere con qualche piccolo aneddoto. Poter fare tutto ciò liberamente. Ecco, penso che in quest’ultima frase è racchiuso quello che per me significa l’Europa, quello che per me è il mio sentimento europeo più importante: la libertà

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