INDIVIDUO E COSTRUZIONE DEL SAPERE - Formazione e apprendimento informale. Intervista ad Anna Maria Ajello

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* In “Formazione & Cambiamento”, n. 40, 2006
 
Tutti noi apprendiamo non solo passando attraverso percorsi formativi appositamente progettati da specialisti. L’apprendimento che sviluppiamo quando siamo alle prese con le attività che hanno luogo nei contesti delle nostra vita quotidiana, in campo lavorativo o nel tempo libero, rimanda ad un ambito di formazione di competenze per certi versi “invisibile” (per citare il bel titolo del convegno AIF 2004) perché non coinvolge gli elementi che tradizionalmente associamo alle attività di apprendimento strutturato (un’aula, materiali e tecnologie didattiche, staff di formatori, docenti, certificazioni etc.).
Cerchiamo di capire insieme alla professoressa Anna Maria Ajello, quali siano le caratteristiche di questo tipo di apprendimento “informale” e quali suggerimenti e considerazioni ne possano scaturire per chi è interessato a sviluppare pratiche formative sempre più avanzate.
 
D. Professoressa, in che modo i soggetti apprendono continuamente nella propria vita e più specificamente nelle pratiche lavorative che hanno luogo nelle organizzazioni?
 
R. Alla luce della prospettiva socioculturale, sviluppata a partire dal lavoro svolto dello psicologo Vygotskij agli inizi del secolo scorso (2), l’apprendimento è visto come un processo coessenziale all’individuo umano in quanto si lega ad un modo di funzionare delle persone in qualsiasi tipo di situazione. Da questa prospettiva, infatti, i soggetti imparano tutte le volte che prendono parte attiva alle loro pratiche e danno senso ai loro comportamenti. Questo richiama la funzione di partecipazione consapevole alle attività della vita quotidiana, nel tempo libero come nel lavoro.
In questa cornice, lo psicologo sociale Engestrom (3) , più recentemente, rileva come gli individui apprendono trovando soluzioni a problemi pratici che hanno luogo nelle attività. In questo senso la discussione delle pratiche nasce da un disagio, un’impasse rispetto ad un funzionamento che non procede nel modo che riteniamo giusto. Quando qualcosa non ci funziona bene, non in linea di principio, ma per necessità pratiche, noi decidiamo di cambiarlo e cerchiamo di organizzarci in modo da rimediare al disagio incontrato.
Questo avviene anche nelle organizzazioni produttive. Quando si tratta di un’impasse di grandi dimensioni, questa diviene, spesso su spinta del vertice, oggetto di una discussione e di un’azione più ampia orientata al rinnovamento. Quando si tratta di problemi di dimensioni ridotte, spesso gli individui “aggiustano” le pratiche precedentemente definite in senso formale. Questo è un fatto corrente nelle organizzazioni ed è legato al fatto che il lavoro non può essere visto solo come ripetizione ma anche come improvvisazione e capacità di relazione con elementi imprevisti.
In particolare nelle organizzazioni che si rapportano ad ambienti turbolenti, soggetti a cambiamenti continui, questa produzione di “aggiustamenti” da parte dei soggetti può legarsi all’individuazione di problemi e soluzioni che possono condurre ad un miglioramento delle pratiche anche rispetto ai fini organizzativi.
 
D. Soprattutto per le organizzazioni soggette ad elevata concorrenza, o comunque interessate ad elevare la propria competitività, diviene dunque particolarmente importante riuscire a riconoscere, non disperdere, e curare la circolazione e lo sviluppo di queste nuove conoscenze. Quali implicazioni ha per la formazione il riconoscimento del processo per cui i soggetti rielaborano autonomamente le proprie pratiche e le modificano quando incontrano un’impasse?
 
R. Ovviamente, non è sufficiente affermare che le persone imparano solo perché fanno delle cose o comprendono il compito. Anche secondo questa concezione noi dobbiamo mettere le persone in una condizione di riflessione e di elaborazione su quello che normalmente fanno. Supportare la rielaborazione dei motivi alla base di questa operazione di “aggiustamento” nella pratica, del senso che ha, del perché produce risultati positivi, favorisce una formazione veramente efficace. L’individuo apprende continuamente e se noi vogliamo potenziare queste sue capacità, la rielaborazione deve essere parte della formazione. Non si tratta, è chiaro, di occasioni che invitano ad una riflessione individuale, solitaria. E’ molto più utile il confronto in gruppo perchè le pratiche coinvolgono sempre più soggetti. Le pratiche devono essere oggetto di una riflessione comune, proprio per essere cambiate ed arricchite. Questa rielaborazione deve essere supportata da specialisti che dunque non assumono la funzione tradizionale dal formatore come soggetto che trasmette conoscenze.
Si tratta di quanto prefigurato ad esempio da Schon (4) , nel suo lavoro sul “professionista riflessivo”. Il punto è come riuscire a sollecitare l’elaborazione delle pratiche professionali. Se abbiamo l’obbiettivo fornire occasioni di rielaborazione delle pratiche, dobbiamo decidere quando e come farlo perchè nella vita delle organizzazioni organizzazioni non esiste un’occasione specifica già data. Produrre questo tipo di eventi implica un coinvolgimento reale delle organizzazioni.
 
D. Le organizzazioni possono inibire le capacità di problem setting e problem solving dei soggetti?
 
R. In effetti se si può parlare di “blocchi” dell’apprendimento organizzativo, questi sono da collegare più all’esistenza di climi che possono facilitare o impedire l’apprendimento, più che a blocchi dovuti ai soggetti, e a loro carenze. I “blocchi” si producono quando le persone non sentono attorno a loro una situazione di fiducia, per cui non si sentono autorizzate ad avere idee diverse, a proporle e a proporsi. Per poter mettere in questione ciò che succede, per avere la possibilità di pensare in termini diversi, bisogna avere la sensazione che altri possono accettare il nostro parere, e che in ogni caso la proposta non ci comporti delle penalizzazioni.
Un altro fattore è quello della stereotipia, dell’accettazione della presunta “normalità” del fatto che alcune categorie siano meno dinamiche e più limitate nell’apprendimento. Un esempio di stereotipia che riguarda il genere è osservabile nel rapporto tra donne e tecnologia, un tema che sto studiando in questo momento. La ricerca mostra che anche le donne che lavorano nell’informatica, che non dovrebbero, dunque, manifestare particolari problemi nell’uso del computer, sono più portate a chiedere aiuto al computer o al collega esperto, lì dove gli uomini più facilmente “smanettano”, provano. Il problema non dipende dal fatto di essere donna ma dal fatto che le donne si guardano dal rischio di produrre danni, mentre gli uomini comunque tentano. La conseguenza è che le donne imparano meno e gli uomini imparano di più, perché quando si prova, è possibile produrre danni ma alcune volte si trovano soluzioni efficaci che vengono dunque apprese.
Gli uomini inoltre hanno tra loro molti più legami di dibattito e scambio su ciò che hanno appreso. E’ utile notare che chi prova e dibatte con altri, sviluppa un gergo che finisce con l’escludere chi non prova e che avrà difficoltà crescente a comprendere i termini del dibattito e a seguirne lo sviluppo.
Questo conduce a prestare attenzione a più piani che vengono a intrecciarsi. Oltre alla dimensione del sé, di come i soggetti si percepiscono e interiorizzano i limiti, rassegnandosi all’idea che alcune materie, e non altre, rimangano fuori dalla propria portata, dobbiamo tener conto anche della dimensione interattiva: le donne si rivolgono agli uomini aspettandosi che siano più competenti, anche quando non lo sono. Inoltre c’è l’aspetto culturale: le organizzazioni sono strutturate tenendo conto delle differenze di genere.
Il blocco può derivare dunque dalle aspettative dei soggetti su di sé e su gli altri. In un’organizzazione queste aspettative possono arrivare a sedimentarsi sia dal basso che dall’alto.

D. In alcune culture organizzative, la capacità autonoma dei soggetti di scorgere e analizzare problemi ed escogitare soluzioni, propria dell’apprendimento informale, può essere considerata più come una fonte di rischi eversivi piuttosto che una potenzialità da valorizzare ai fini del miglioramento delle pratiche.
 
R. Spesso l’immagine che si ha dell’organizzazione efficace ed efficiente somiglia a quella di meccanismo composto da routine che procedono automaticamente, che “funzionano come un orologio”: ogni comportamento è previsto e si coordina con quello degli altri attori al momento giusto e nel modo giusto, secondo programma. In questa concezione l’eccezione assume i contorni di una cosa non giusta, se non riprovevole, e chi incontra situazioni incidentali, in cui deve operare da sé perchè non ha a disposizione modalità di risposta chiare e già legittimate, finisce spesso per considerare le soluzioni sviluppate autonomamente come un fatto privato, un segreto da tenere nascosto, come se dovesse coprire un’irregolarità. Tuttavia anche l’impresa che tradizionalmente inibisce l’autonomia ha bisogno di apprendere per migliorare e se gli individui comunque apprendono, allora un’azione formativa più efficace è quella del coinvolgimento, della canalizzazione di questi apprendimenti in una forma che sia positiva anche per l’organizzazione. Bisogna considerare che, senza adeguato supporto, i modi elaborati autonomamente come un escamotage per affrontare le difficoltà incontrate, possono spesso svilupparsi in modo autoreferenziale e non tradursi in una maggior efficacia dal punto di vista dei fini organizzativi e spesso ancor meno in efficacia percepita dall’utente.
La rielaborazione operata da un gruppo omogeneo di soggetti può cambiare una pratica ma, anche attraverso un’azione formativa di supporto ad hoc, deve essere aiutata a negoziare i risultati del cambiamento della pratica stessa con il gruppo prossimale oltre che con le istanze del beneficiario finale del servizio e, ovviamente, del vertice. Quando l’organizzazione mette in questione una pratica è perché questa non funziona granché, presenta delle difficoltà, ma è chiaro che nel momento in cui la soluzione è elaborata all’interno occorre porsi il problema di come metterla in comunicazione con l’esterno.
 
D. Quando parliamo di formazione come supporto alla rielaborazione delle pratiche, i destinatari sono evidentemente dei soggetti già coinvolti nelle attività. La formazione richiesta dalle organizzazioni, invece, si configura spesso come un momento di addestramento e preparazione dei destinatari a pratiche future. Che rapporto c’è tra i due tipi di approccio?
 
R. Stiamo parlando di due situazioni di apprendimento: quella del novizio che apprende una serie di informazioni che è chiamato a trasformare in pratica, e quella del soggetto coinvolto in pratiche che è chiamato ad innovare da parte di aziende abbastanza attente a cogliere i segnali di funzionamento non ottimale o migliorabile.
Spesso sono le necessità organizzative di inserire rapidamente persone nel ciclo produttivo a spingere ad adottare interventi formativi orientati a trasmettere rapidamente delle informazioni da un soggetto che sa ad uno che non sa. Al destinatario è richiesto di incamerare nuove informazioni secondo un approccio che, ponendo attenzione alle rappresentazioni mentali delle persone, punta a determinare trasformazioni nelle pratica correggendo ciò che gli attori pensano, intervenendo sulle loro mappe cognitive e modificandole, appunto, attraverso nuove informazioni.
Al novizio che entra in un’organizzazione, o al novizio rispetto ai cambiamenti decisi dal vertice della sua organizzazione, ad esempio nuove tecnologie da implementare, è chiesto in questo modo di accettare una sorta di “cambiale in bianco” sull’ipotesi che quello che sta imparando servirà in futuro. Questa “cambiale in bianco” può essere ancora più rischiosa, anche sul piano economico, per l’organizzazione che decide di scommettere su quelle conoscenze aspettandosi da loro delle conseguenze di miglioramento reali sul piano della pratica. Dunque non stupisce che le organizzazioni siano particolarmente attente a porre la questione della reale efficacia della formazione.
Se la via della rielaborazione delle pratiche che hanno luogo nei contesti reali può comportare tempi più lunghi, bisogna tuttavia considerare che una formazione trasmissiva e indifferenziata, può presentare costi minori, ma non garantisce un’efficacia complessiva e dovrebbe dunque essere ripresa, completata. Le pratiche infatti costituiscono l’esperienza su cui si può lavorare mentalmente e se non c’è questa base il soggetto non impara. Si deve consentire al soggetto di riflettere sulle proprie attività lavorative concrete, riconoscendone il funzionamento, il senso, la modificabilità, partendo anche dalle tensioni verificate nelle proprie pratiche nei contesti reali. Spesso la formazione non valorizza sufficientemente i contesti per il valore formativo che potrebbero avere e conduce i soggetti in spazi neutri. L’intervento formativo che coinvolge il contesto concreto di esecuzione delle pratiche può favorire una rielaborazione sugli aspetti delle attività che possono essere corretti o modificati, migliorati.
Anche negli interventi trasmissivi, le conoscenze proposte devono essere saldate alle conoscenze sviluppate nelle pratiche concrete. Le informazioni devono essere calate su quella situazione specifica in cui acquistano davvero senso.
Agganciarsi a quello che i soggetti già sanno o credono di sapere su quel tema, è ancor più importante se i soggetti già lavorano nell’organizzazione e dunque il problema è piuttosto quello di ridurre l’effetto di estraneità del formatore.
I soggetti possono innovare e migliorare le pratiche quando sono portati a riflettere e rielaborare su quanto avviene concretamente nei contesti delle loro attività. E’ però comprensibile che questa possibilità sia ridotta nel caso dei soggetti in situazione di prima acquisizione. In questo caso il soggetto è posto in una situazione asimmetrica in cui non ha, o non gli viene attribuita, la capacità, né il ruolo, di rielaborare gli aspetti di ciò che gli viene trasmesso. Possiamo essere contrari a quest’atteggiamento, ma è esattamente quello che facciamo per esempio con i bambini piccoli. Prima gli insegniamo a fare delle cose e solo in seguito potranno eventualmente metterle in questione. Lavorare molto in fase di progettazione sulle caratteristiche dei destinatari, su cosa vogliamo da loro, cosa vogliamo implementare e promuovere, richiede più tempo ma è anche una garanzia che quello che faremo potrà avere maggiore successo.

D. Queste indicazioni implicano un forte coinvolgimento delle organizzazioni committenti nel sostegno e nella legittimazione delle azioni formative. In che modo questo può essere favorito?
 
R. Credo che il coinvolgimento della committenza costituisca un aspetto di grande importanza. Dato che l’interazione con la committenza è l’unica garanzia di agganciare la formazione alle risorse dell’organizzazione e di ottenere efficacia, occorre vincere la tentazione delle organizzazioni a delegare tutto, per motivi di tempo, agli specialisti incaricati della formazione. I manager, invece, dovrebbero essere coinvolti nel team di progettazione come “consulenti dei consulenti”, ossia come gli esperti del mondo del lavoro per il quale il consulente è chiamato a fare formazione, e dovrebbero essere particolarmente presenti nelle scelte riguardanti la valutazione dell’efficacia dell’intervento.
E’ importante, infatti, arrivare a individuare con loro gli indicatori che possono dare il senso dell’efficacia dell’intervento e consentono di verificare che l’intervento formativo ha ridotto effettivamente le difficoltà che hanno sollecitato l’intervento. La committenza deve essere aiutata perciò a riflettere inizialmente su quello che è a monte dell’esigenza formativa, sulle ragioni per cui si è deciso di fare formazione. Gli indizi del disagio e della difficoltà che si ricavano da questa analisi, possono rappresentare degli utili indicatori per verificare l’efficacia dell’intervento stesso. L’analisi dei fabbisogni deve essere insomma ben collegata all’individuazione degli indicatori di efficacia.
Il coinvolgimento della dirigenza nella progettazione dell’intervento, può avere inoltre un’importanza ulteriore perché può effettivamente avere valore formativo per i dirigenti stessi.
Il ruolo di “consulenti dei consulenti” richiede ai dirigenti una posizione di decentramento per assumere il punto di vista dell’altro cui devono destinare la formazione. I dirigenti sono spinti così a riflettere sul processo produttivo nel quale sono inseriti, sui comportamenti da migliorare, modificare, implementare. Pensare a cosa sia utile per i suoi dipendenti, induce il dirigente a riflettere su ciò che manca nell’organizzazione, su ciò che è importante e ciò che non lo è. E pensare a cosa un altro dovrebbe fare per me, inevitabilmente mi porta a riflettere su ciò che sto facendo io. “Formare alla formazione” i dirigenti, attraverso il loro coinvolgimento nel team di progettazione, potrebbe essere utile a far sì che, anche al termine dell’intervento formativo, rimanga nell’organizzazione un’attenzione alle dinamiche di apprendimento che hanno luogo nelle pratiche e una sensibilità a cogliere i segnali di difficoltà o di disagio, prima che questi arrivino a sedimentarsi in situazioni di difficile gestione.
In questo modo, si potrebbe contribuire a promuovere una più densa domanda di formazione continua da parte delle imprese. 
 
Note
1 Anna Maria Ajello è Professore di Psicologia dell’Educazione presso la Facoltà di Psicologia II dell’Università di Roma “La Sapienza”. I suoi ambiti di interesse riguardano i problemi di acquisizione di conoscenza in contesti scolastici e organizzativi. Tra le sue pubblicazioni: A.M. Ajello (a cura di), 2002, La competenza, Il Mulino, Bologna; C. Pontecorvo, A.M. Ajello, C. Zucchermaglio (a cura di), 1995, I contesti sociali dell’apprendimento. Acquisire conoscenze a scuola, nel lavoro, nella vita quotidiana, LED, Milano.
2  L. Vygotskij, 1992, Pensiero e linguaggio, Giunti, Firenze, (ed. or. 1932).
3 Y. Engestrom, 1987, Learning by Expanding: An Activity Theoretical Approach to Developmental Research, Orienta Konsultit, Helsinki.
4 D.A. Schön, 1993, Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Ed. Dedalo, Bari. 
 

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