1. Roland Barthes ha notato che la narrativa è come la vita: "esiste per sé, è internazionale, trans-storica, trans-culturale" (1). Forse ciò accade anche perché senza la capacità di narrare, come scrive Tabucchi, "non riusciremmo più a vivere dentro noi stessi; la vita diventerebbe un caos completo, una grande schizofrenia in cui esplodono come in un fuoco d'artificio i mille pezzi delle nostre esistenze, perché per ordinare e capire chi noi siamo dobbiamo raccontarci [...]. L'uomo è entrato nella civiltà che conosciamo quando ha imparato il racconto" (2).

2. C'è una struttura narrativa nell'esperienza umana che nel narrare si configura attraverso l'elaborazione di intrecci. È attraverso gli intrecci – e dunque entrando in una narrazione – che l'esperienza temporale dell'essere umano può acquistare un significato, in qualche misura condivisibile perché si narra sempre a qualcuno, a un destinatario presente o assente, oppure a se stessi (3). In altri termini, con i racconti di cui diveniamo capaci variano le configurazioni che possiamo riconoscere nell'esperienza, riposizionandoci di conseguenza rispetto al passato e al futuro (4). Le narrazioni permettono inoltre cioè di esplorare l'infinità degli significati possibili di un'azione (5), nelle variabili connessioni che si possono istituire tra antecedenti, coincidenze, conseguenze e implicazioni: in tal senso c'è un nesso tra il narrare e il conoscere.

3. Anche l'etimologia segnala l'esistenza di un profondo legame tra il narrare e il conoscere: narrare, narrativa e narrazione (con gli analoghi in altre lingue, come in inglese narrative e narration) discendono infatti da precedenti latini che includono gnarus (esperto, conoscitore) e narro (racconto), i quali trovano a loro volta corrispondenze nella lingua greca (verbo gignosko, “conosco”) e rimandano ad una radice sanscrita (gnâ), che contiene in sé l'idea del “conoscere” (6). Nell'estensione semantica della coppia legein-logos del greco antico, poi, troviamo tanto il “raccontare”, quanto il “pensare” e il “raccogliere”.

4. L'etimologia tuttavia non basta a illustrare il modo in cui il narrare si connette al conoscere. Anche la “comunicazione” in senso lato – ad esempio nel senso del “fare informazione” o del “dare informazioni” – potrebbe infatti essere associata al conoscere, come la narrazione. Ma quali sono le differenze tra i piani qui evocati? Walter Benjamin metteva in guardia dal confondere tali piani e, anzi, introduceva una forte contrapposizione tra la narrazione e l'informazione, arrivando a sostenere che "se l'arte di narrare si è fatta sempre più rara, la diffusione dell'informazione ha in ciò una parte decisiva" (7). La tesi presuppone una particolare concezione della figura del narratore, che secondo Benjamin è "persona di “consiglio” per chi lo ascolta [...]. “Consiglio”, infatti, è meno la risposta a una domanda che la proposta relativa alla continuazione di una storia (che è in atto di svolgersi)" (8). In tale prospettiva, rispetto all'informazione, la narrazione si caratterizza per una peculiare potenza germinativa, che le deriva dal fatto che essa non dà una spiegazione, ma resta disponibile a spiegazioni molteplici (9).

5. Ci sono scienziati che attribuiscono un ruolo cruciale alla narrazione. Eldredge e Tattersall ad esempio hanno scritto che "la scienza consiste proprio nel raccontare storie, sia pure di un genere particolare: nell'invenzione, cioè, di spiegazioni sulla natura delle cose, sulla loro origine, sul loro modo di procedere" (10). In che senso però le storie che racconta la scienza sarebbero di un genere particolare? Cosa le distingue da quelle narrate al di fuori della scienza? Consegnando queste domande al lettore, mi limito di seguito ad offrire alcuni spunti per riflettere sul nesso tra narrazione, conoscenza e apprendimento, facendo riferimento a un'esperienza educativa condotta con gruppi di bambini dai cinque anni in su.

6. Mi riferisco un'esperienza educativa incentrata su esperimenti mentali ispirati a problemi classici della filosofia, proposti a gruppi di bambini dai 5 anni in su. In particolare, farò l'esempio dell'esperimento mentale dell'utopia e di ciò che esso comporta (11). Quello dell'utopia è uno degli esperimenti mentali classici del pensiero filosofico e introduce chi lo affronta in gruppo in un singolare spazio di ricerca cooperativa e di scoperta reciproca. I singoli partecipanti e i gruppi sono chiamati ad esprimersi e a fare scelte su casi intricati che riguardano le differenze tra i paesaggi della propria vita effettiva ed un paesaggio immaginato/desiderato. Durante il lavoro bambine e bambini affrontano le questioni più varie: come abitare in un'isola di Utopia, quali vie e mezzi di comunicazione preferire, quali tecnologie, come curare l'ambiente, quali ruoli per gli adulti (nel caso, non scontato, che la loro presenza sia ammessa sull'isola immaginata dai bambini), quale forma di governo, quali leggi, cosa succede a chi non rispetta le leggi, come passare al meglio il tempo, come gestire i confini e le relazioni con eventuali “sconosciuti” e così via. Nell'affrontare tali problemi, bambine e bambini fanno ipotesi e si muovono tra due piani narrativi, relativi al mondo effettivamente percepito e al mondo ritenuto desiderabile,  esplorando le tensioni tra il possibile e l'impossibile, tra l'essere parte di un coro e l'essere fuori dal coro, tra l'autonomia e la dipendenza, tra lo spazio privato e quello pubblico, tra la bellezza e l'angoscia dell'incontro con l'altro e con la diversità.

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Le immagini proposte sono l'esito di questi racconti e potrebbero essere a loro volta il punto di partenza per altre narrazioni (disegni dalla Scuola primaria Clarina di Trento; classi seconde delle maestre Antonella Demattè e Giovanna Faes).
 

 

 


7. Cosa si nota, a proposito del rapporto tra narrazione, conoscenza e apprendimento. Innanzitutto, che la definizione di alcuni concetti – ad esempio, quello di “giustizia” – passa attraverso la narrazione e varia al variare degli esempi che si riescono a raccontare.

8. C'è un interessante esperimento mentale sul senso della giustizia, che ben si presta al lavoro con i bambini, proposto da Amartya Sen attraverso un racconto. In sintesi, tre bambini si contendono lo stesso flauto. Anne lo vuole perché è l'unica a saperlo suonare, Bob lo vuole perché dice di essere così povero da non avere altri giochi, mentre Carla dice di esserne la legittima proprietaria in quanto lo ha costruito.

"Anne pretende il flauto perché è l'unica dei tre che lo sappia suonare (circostanza che gli altri riconoscono), e certo sarebbe ingiusto negare lo strumento all'unica persona che sa davvero adoperarlo. Se l'unica informazione in nostro possesso fosse questa, saremmo fortemente orientati ad assegnare il flauto alla bambina.
In una scena alternativa, però, parla Bob, il quale giustifica le proprie pretese sul flauto con il fatto di essere così povero da non avere neanche un giocattolo: nel flauto troverebbe qualcosa con cui giocare (e le due bambine non negano di essere più ricche e di avere molti giocattoli con cui divertirsi). Se ascoltassimo soltanto Bob, senza sentire le bambine, avremmo tutte le ragioni per dare a lui il flauto.
Una terza scena ci presenta Carla, che fa notare di essersi applicata per mesi e mesi e con diligenza a costruire il flauto con le proprie mani (e gli altri due confermano) e, appena terminata l'opera, “proprio allora” protesta “questi ladri di cose altrui sono venuti a portarmi via il flauto”. Se non avessimo altra dichiarazione che quella di Carla, saremmo con ogni probabilità propensi a dare il flauto a lei, riconoscendo ragionevoli le sue pretese su un oggetto che ha creato con le sue mani" (12).

Chi dovrebbe avere il flauto e cosa è più giusto fare? Ecco una conversazione al riguardo tra bambini attorno ai nove anni d'età, in cui emerge subito la centralità dell'amicizia nel definire l'opzione giusta:

RAFFAELE: "Ma sono amici? Se sono amici, Carla lo dovrebbe dare a Bob. Se non sono amici, lo potrebbe tenere perché lo ha fatto lei". "Ma glielo hanno rubato!", ribatte qualcuno; "Non glielo hanno rubato, se lo litigano", obietta un altro.
MARTINA: "Anche se non sono amici, Carla se lo può sempre ricostruire".
SIMONE: "Allora, per me Carla ne potrebbe fare altri due".
CECILIA: "Secondo me, Carla se ne potrebbe fare uno per sé e quello darlo a Bob; Anne, visto che è più ricca, se lo potrebbe comprare".
EDOARDO-1: "Carla dà il flauto a Bob, e Carla e Anna se lo comprano perché sono più ricche" (IV primaria).

Chiediamoci però una cosa. Pare che la situazione cambi aspetto a seconda che i bambini siano amici oppure no. Se non sono amici, vale la regola della proprietà (lo tiene Carla perché lo ha fatto lei). Se sono amici, Carla potrebbe anche lasciarlo a Bob. Si è tuttavia ritenuto che, considerando che Anne è ricca e Bob è povero, il flauto potrebbe essere dato a Bob proprio perché è povero. In tal caso, che fare se arriva un altro bimbo povero?

EDOARDO-1: "Se arriva questo altro bimbo povero e magari Carla nemmeno lo conosce, non glielo può dare".
CECILIA: "Non sa nemmeno chi è".
TOMMASO: "Potrebbe anche fare finta di essere povero, l'altro bimbo, e fa finta di essere povero".
DIEGO: "Di solito i flauti li dividono in tre pezzi. Visto che sono tre, la parte dove c'è la bocca per suonare la possono dare a Anne [che sa suonare], gli altri alle altre due...".
JACOPO: "Si potrebbe dividere in tre pezzi, la bocca a Anna, poi l'altro a Bob perché non ci vuole suonare e Carla se lo può rifare... e rifà altri due pezzi da metterci".

A questo punto un bambino, che ha aspettato pazientemente il proprio turno per parlare, introduce al gruppo uno scenario diverso, facendo riferimento non ad un'amicizia già in essere, ma a quella che potrebbe nascere fra i tre:

EDOARDO-2: "Anche se tipo non sono amici, le due ragazze essendo più ricche potrebbero cedere a Bob che è più povero e lì potrebbe sbocciare un'amicizia e aiutarsi a vicenda con le cose che mancano e con le cose che hanno". Se poi arriva un altro bimbo, supponiamo povero, "con un altro bimbo, essendo diventati un gruppo di amici collaborano e ne costruiscono uno tutti insieme [un nuovo flauto]: essendo diventati amici, lo danno insieme al bimbo povero... riprendendo sempre un altro amico e si aiutano sempre a vicenda".
RAFFAELE: "Con il flauto si suona", tornando all'esempio della divisione del flauto in tre pezzi come non praticabile. "Almeno Bob ha qualcosa per sfogarsi", dice però qualcuno ricordando che Bob non sa suonare e vuole comunque un gioco; per lui forse non farebbe differenza averne un pezzo o averlo intero. Ma c'è chi pensa che Bob, avendolo intero, potrebbe tentare di imparare a suonarlo.  
GABRIELE: "Potrebbero prestarselo a vicenda, una settimana a turno... e così almeno tutti hanno modo di provarlo".

Con questa soluzione ci si affida ad una regola che sembra fare contenti tutti; ma ben presto si nota che la regola introduce un modo di condividere che, anziché unire, tiene separati i tre bambini; inoltre, la regola a lungo andare potrebbe diventare noiosa o inefficace.

CECILIA: "Secondo me se Carla insegna a Bob e Anne a costruire il flauto... [tutti ne avranno uno]".
REBECCA: "Quello che ha costruito Carla lo dà a Bob e poi Carla insegna a Anne come si fa...".
EDOARDO-2: "E Anne per ripagare il favore insegna a Carla come si suona, e Gianni sempre con l'amicizia di loro tre impara a suonare e impara meglio avendo due istruttrici".
MANASEB: "Lui prima ha detto che diventano amici e se lo potrebbero dividere... invece di farselo a turni... Carla potrebbe insegnare a tutti e due e le due bimbe comprano una cosa per Bob che è povero e fanno una produzione di flauti".
EDOARDO-2: "Se arriva un altro bimbo e ha un'altra qualità, che ha, e potrebbe insegnare agli altri questa qualità e con tanti bimbi che sanno fare tante cose potrebbero regalarli a quelli più poveri".
JACOPO: "Potrebbero fare così: Carla insegna agli altri due bambini a fare dei flauti e ne fanno molti, aprono un mercatino, Bob diventa ricco".
EDOARDO-2: "E chi dice che diventa ricco Bob? Lì, nel caso dell'amicizia, se loro [Anne e Carla] volessero che [Bob] diventasse tanto ricco a livello di loro, i primi acquisti li potrebbero dare a Bob... Così diventa al pari suo... poi mano a mano che Bob sta diventando un poco più ricco... [anche Anne e Carla iniziano a prendere i guadagni]".
JACOPO: "Quasi tutte le nostre soluzioni questi tre bambini li fanno diventare amici".

In molti modi si potrebbe riprendere e proseguire una conversazione del genere. Qui interessa sottolineare come l'esperimento mentale alimenti ipotesi e aiuti a dare corpo ad un significato sufficientemente condivisibile del termine “giustizia”.

9. Il raccontare in gruppo estende lo spazio del pensabile: l'utopia che un bambino sarebbe capace di immaginare da solo è molto diversa da quella che può immaginare in gruppo. Se si citano degli esempi – su cose accadute di cui si è stati testimoni e su cose che potrebbero accadere – si nota che gli stessi avvenimenti, o avvenimenti analoghi, possono essere raccontati in modi diversi e che, a seconda dello sfondo su cui sono collocati, assumono un senso diverso. Si comprende che, come scriveva Veyne, "un avvenimento non ha senso che all'interno di una serie; e d'altronde il numero delle serie è indefinito, esse non sono organizzate gerarchicamente e, come si vedrà più oltre, non convergono neppure a formare un geometrale di tutte le diverse prospettive" (13). Il tessuto delle storie è un intreccio in cui gli avvenimenti non sono enti, ma "crocevia di itinerari possibili" (14), colti "sempre indirettamente e in modo incompleto, per via di documenti o testimonianza; diciamo per via di tekméria, di tracce" (15).

10. Nel narrare accade che i bambini intreccino anche motivi, dubbi, riferimenti e tensioni che fanno parte dei loro vissuti. Se, come scrisse Nietzsche, "noi esprimiamo sempre i nostri pensieri con le parole che abbiamo sottomano", al punto che "[...] a noi viene in mente sempre solo il pensiero per il quale abbiamo sottomano le parole che ci consentono di esprimerlo approssimativamente" (Aurora 1881, 257), la conversazione e la narrazione in gruppo permettono di allentare tale vincolo delle "parole che ci svolazzano intorno" individualmente (Nietzsche, Frammenti postumi (1880, 2 [31]), poiché esse moltiplicano le parole disponibili e i pensieri possibili, introducendo chi dice e chi ascolta in un campo di vincoli e possibilità differente da quello accessibile “in proprio”, dove si può apprendere a formulare il proprio pensiero e a riconoscere meglio i propri limiti e i propri dintorni grazie alla conoscenza degli interlocutori. È questo peraltro l'esito delle buone letture, delle narrazioni e delle storie già inventate da altri, lontani o vicini nello spazio e nel tempo.

11. In tal senso, inventare un racconto in gruppo è come impegnarsi in una danza estremamente complessa, che si svolge costantemente sulla soglia tra l'ordine emergente (la forma presa in un dato momento) e la caoticità potenziale degli itinerari possibili che si affacciano alle menti conversanti (le molteplici forme successive a cui predispongono i movimenti precedenti).

12. Lo spazio della narrazione, come quello del gioco, è anche uno "spazio transizionale" (16) in cui elaborare spinte pulsionali, fantasmi, paure e desideri; si mettono in relazione figure e sfondi, si distinguono ruoli e punti di vista, si ipotizzano connessioni più o meno persistenti sullo sfondo caotico del fluire degli avvenimenti, si colgono le possibili interazioni tra “mondo interno” e “mondo esterno”. In tal senso è significativo che la capacità di raccontare storie compaia nel bambino più o meno alla fine del secondo anno di vita, poco dopo la capacità più generale di “fare finta”, in cui trovano espressione la capacità e il giusto di sostituire, di nascondere e svelare, di prendere una cosa per un'altra, di immaginare assente il presente e presente l'assente, di cercare il riconoscimento del punto di vista dell'altro.

13. Ma chi è questo essere che ha tanto bisogno di narrare? È un animale che esita in ragione della pensosità che lo caratterizza e che, grazie a quella stessa pensosità, può elaborare la propria capacità di esitare. La pensosità rientra tra le nostre possibilità come tratto specifico distintivo (17), insieme alla possibilità di esitare (Zögern), che presuppone, seguendo Blumenberg, la capacità di distanziarsi dall'agire, la quale a sua volta amplia il campo delle possibilità che ci diventano accessibili, mentre bilanciamo con l'esperienza lo svantaggio emergente in una particolare situazione. Ma l'uomo "è un animale che esita perché e finché conserva la distanza da ciò che provoca il suo agire" (18): quando vengono meno la "libertà di divagare" e la "libertà dallo scopo" – da cui soltanto può nascere secondo Blumenberg una civiltà (Kultur) – l'essere umano assorbito dall'agire e incapace di “sospenderne” i motivi economici rifugge dall'esitazione come da un inciampo anti-economico, privando così se stesso delle possibilità di fare ipotesi, di creare, di apprendere. Tutte possibilità incentrate sull'esitazione e – potremmo aggiungere – sulla capacità di narrare e rinarrarsi.

Note:

1) R. Barthes, Introduzione all'analisi strutturale dei racconti, trad. it in AA. VV., L'analisi del racconto, Bompiani, Milano 1969, p. 7.
2) A. Tabucchi, Dove va il romanzo? Il libro che non c'è, Omicron, Roma 1995, pp. 6-7.
3) J. Topolski, Narrare la storia. Nuovi principi di metodologia storica, Bruno Mondatori, Milano 1997, p. 35; cfr. P. Ricouer, Tempo e racconto, voll. 1-3, Jaca Book, Milano 1986-88.
4) D. Carr,  Time, Narrative and History, Indiana University Press, Bloomington (Indiana) 1986, p. 9.
5) Cfr. P. Jedlowski, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Bruno Mondadori, Milano 2000, pp. 190 sgg.
6) Hayden White, The Value of Narrativity in the Representation of Reality, in W.J.T. Mitchell (ed.), On narrative, The University of Chicago Press, Chicago and London 1981, pp. 1-23, cfr. p. 1, nota 2.
7) Cfr. W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull'opera di Nicola Leskov, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. it., Einaudi, Torino 1962, pp. 235-260, cit. da p. 241.
8) Ivi, p. 238.
9) Ivi, p. 242.
10) N. Eldredge, I. Tattersall, I miti dell'evoluzione umana, trad. it., Boringhieri, Torino 1984, p. 7. Sarebbero qui da distinguere i termini “storia”, “racconto” e “narrazione”. Seguento Gérard Genette, si può intendere con “storia” l'oggetto di cui si racconta, il contenuto del discorso; con “racconto”, il discorso che evoca la storia; con “narrazione”, l'atto con cui qualcuno racconta (a un destinatario, presente o assente, in una determinata situazione). Cfr. G. Genette, Figure III. Discorso del racconto, trad. it., Einaudi, Torino 1976.
11) Mi limito qui ad alcune considerazioni generali. Per chi volesse avere un'idea più precisa della documentazione sulle conversazioni, rinvio al sito preparato in occasione di un viaggio in Italia alla ricerca di utopie immaginate da bambini tra i 5 e gli 11 anni, che ho organizzato per l'anno scolastico 2015-2016: www.giocodelle100utopie.it (si tratta di un progetto realizzato tramite crowdfunding, che tocca Trentino, Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Liguria, Lazio, Campania, Puglia, Sicilia e Sardegna).
12) A. Sen, L'idea di giustizia, trad. it. di L. Vanni, Mondadori, Milano 2011.
13) P. Veyne, Come si scrive la storia, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1973, p. 47.
14) Ivi, p. 68.
15) Ivi, p. 11.
16) P. Jedlowski, Storie comuni, cit., p. 130. Cfr. D.W. Winnicott, Gioco e realtà, trad. it., Armando, Roma 1974.
17) H. Blumenberg, Nachdenklichkeit, in "Neue Zürcher Zeitung", Zürich, 21 novembre 1980, trad. it. di L. Ritter Santini, Pensosità, Elitropia, Reggio Emilia 1981.
18) H. Blumenberg, Die Sorge geht über den Fluß, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1987, trad. it. di B. Argenton, L'ansia si specchia sul fondo, Il Mulino, Bologna 1989, p. 17.