Scendo. Buon proseguimento.
Giorgio Caproni , Congedo del viaggiatore cerimonioso

Per il medico moderno il tallone di Achille non è la capacità tecnica,
bensì la partecipazione umana verso il malato
Gianni Bonadonna,
“Lectio magistralis”
3° Convegno nazionale
Medicina narrativa e malattie rare
Istituto Superiore di Sanità
Roma, 13 giugno 2011

Raccontami di te, ma anche raccontati, sono espressioni che contengono almeno due importanti presupposti. Il primo è che siamo dei raccontatori nativi, dotati di una memoria autobiografica, nel senso che pensiamo e ricordiamo per immagini e possiamo, attraverso le parole, lo sguardo, le pause, il tono della voce, raccontare qualsiasi cosa. Il secondo è che, all'atto del racconto, ci sarà qualcuno che ascolterà, che mi guarderà, che mi leggerà, che sosterà nelle mie parole. E le parole s'incarneranno, acquistando una tridimensionalità, uno spessore e trasferiranno significati, frammenti di vita, attese, delusioni, passato, presente, un'idea di futuro.
Potremo farlo in prima o in terza persona, richiamando personaggi di fantasia, anche dal mondo animale, supereroi, metafore, analogie, paragoni. Protagonisti di un racconto autobiografico, di un diario, o di un taccuino occasionale per pensieri fermati al volo, appunti di vita, che potranno essere sviluppati in modo libero, secondo quello che viene definito flusso di coscienza, una scrittura svincolata da regole e sintassi, o una cronologia puntuale, dettagliata; oppure a ritroso, passo dopo passo, una successione di capitoli in sequenza o secondo episodi importanti, incontri, iniziazioni, svolte, eventi, incidenti.

La scrittura in genere, e in particolare la scrittura di sé, aiuta a ricomporre, a ri-densificare, a ri-mettere insieme, a ri-tessere. Una scrittura quindi non solo riparatrice, riunificatrice, ma anche ri-generatrice, confidente. Una scrittura che si mette in moto, indaga cause, motivazioni e aiuta a ri-comporre quella giusta distanza, protegge da coinvolgimenti estremi ed è infine capace di donare una rotazione dello sguardo, una nuova prospettiva, un nuovo punto di vista. Una scrittura che assolve, che si concede permessi, che cerca riparo e consolazione dagli affanni, dai dispiaceri, dalla malattia, dal dolore. Una scrittura nido in cui rifugiarsi, meditare, ascoltare, ascoltarsi, ripensarsi. Una scrittura a volo d'uccello per allontanarsi, scrutare nuovi confini, accedere all'ignoto, allo sconosciuto, al mistero. La scrittura diviene così asilo, risorsa, allenamento, contenitore, cantina per accedere a ricordi lontani e finestra per scoprire altre distanze e perché no, altri significati.

La scrittura di sé inoltre non conosce tempo, non chiede spiegazioni e soprattutto asseconda la logica dello scrivente e lo aiuta a tradurre in parole riflessioni, considerazioni, timori, tensioni, emozioni. Un corredo di sensazioni a disposizione del linguaggio, che pur essendo uno strumento insufficiente e ingannevole, inadeguato a rappresentare la realtà, può veicolare significati a volte impensabili.
Nell'ambito delle relazioni di cura la scrittura di sé può diventare un potente strumento, una risorsa preziosa per accedere e accogliere interrogativi, richieste di ascolto, sentimenti di fragilità, di paure. La scrittura dell'esperienza personale nel solco della propria malattia, si trasforma in esperienza condivisibile, e contribuisce ad alleviare la solitudine del malato. "La scrittura autobiografica è vissuta e condivisa come possibilità di sopravvivenza. Un farmaco per curare il dolore che proviamo come esseri umani..." (Lorenzo Barani)

La medicina narrativa, nata proprio per colmare la distanza tra la Medicina Basata sull'Evidenza e la necessità di prendere in considerazione per la cura gli aspetti personali del malato, si arricchisce quindi di un dispositivo universale, la scrittura, e "aiuta medici, infermieri, operatori sociali e terapisti a migliorare l'efficacia di cura attraverso lo sviluppo della capacità di attenzione, riflessioni, rappresentazione e affiliazione con i pazienti e i colleghi" (Rita Charon). Ed anche: "Mai come oggi, nella storia della medicina, i clinici sono stati in grado di offrire tanto ai loro pazienti; però è altrettanto vero che mai i pazienti si sono mostrati così insofferenti, poco soddisfatti e talora irrispettosi nei confronti della classe medica... Il paradosso è che le nuove possibilità curative sembra stiano allontanando il medico dal paziente" (Gianni Bonadonna “Lectio magistralis”).
Quando il paziente entra in ospedale o in una struttura di diagnosi e cura, perde lo status d'individuo unico con bisogni e tensioni, e si trasforma in un corredo di dati anamnestici, è inserito in un ambiente di cura assimilato a un sistema azienda, in cui anche l'operatore (medico, infermiere, parasanitario) risponde in termini di profitto e perdite, lasciando poco o nessuno spazio a una relazione più completa che metta al centro della relazione l'operatore e il paziente, e includa un'alleanza con la sua parte sana per ottenere informazioni su stili di vita, abitudini, credenze, opinioni, contesto e storia personale. Un'alleanza terapeutica di là della semplice prescrizione del farmaco, o della raccolta di specifici patognomonici che caratterizzano il quadro clinico di una malattia. Un'alleanza che partecipi nella determinazione della migliore cura, un empowerment e concordance nella gestione del trattamento farmacologico, con maggiore soddisfazione sia per il paziente che per l'operatore.

Potersi raccontare, esprimere il proprio stato d'animo, il proprio disagio permette al paziente di non sentirsi più una cartella clinica, di prendere decisioni con più consapevolezza e agli operatori di avere una visione più completa, di poter condividere esperienze e testimonianze, che potranno rivelarsi utili ad altri medici o ad altri pazienti.

Una esperienza in campo

A novembre scorso (nel 2015) sono stata invitata a Sorrento, nell'ambito del XXII Convegno Nazionale organizzato dalla SICP (Società Italiana di Cure Palliative), come esperta di scrittura autobiografica e narrativa, per condurre due laboratori di scrittura autobiografica per operatori ospedalieri tra cui medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, sanitari, studenti, volontari.

Quattordici iscritti il primo giorno e diciassette il secondo. Tra i partecipanti solo un uomo, il resto donne. Un vero primato se si considera che i laboratori erano inseriti nell'agenda del convegno per la prima volta, non riconoscevano crediti, e duravano ognuno quattro ore senza coffee break e gadget di richiamo.

Parlare di medicina narrativa in questo contesto ha significato far vivere a ogni partecipante un'esperienza di auto narrazione in una situazione di ascolto dedicato.
Per prendere confidenza con il raccontarsi e raccontare l'altro, allenando un ascolto attento e disponibile, scegliendo le parole, i tempi e le modalità proprie, ho deciso di cominciare con un'autopresentazione incrociata.

Ognuno si è raccontato, ha scelto cosa dire di sé in coppia. L'altro, in ascolto inesigente, poteva prendere appunti, stabilire una cronologia di eventi, soffermarsi su alcune parole, metafore, o significati che avessero una risonanza particolare.
Nella fase di gruppo l'altro è stato presentato in prima persona, cominciando dal nome di battesimo preceduto da: “io sono...”, e continuando la narrazione come se fosse stata lei o lui, restituendo quegli elementi che lo avevano incuriosito, divertito, commosso, lasciato una traccia più duratura, una permanenza del ricordo.

Un'esperienza del parlare, del raccontare e dell'ascolto che si è rivelata intensa e coinvolgente anche per le molte coincidenze e sincronie presenti.

Ho alternato, durante le quattro ore d'aula, scritture personali e lettura di poesie o di brani letterari con la visione di poche ed evocative slide e due brevi filmati.

L'uso di un taccuino, costruito e impaginato dai partecipanti utilizzando fogli a4, e l'ausilio di pastelli, pennarelli, matite, forbici, colle e rafia, ha reso possibile fermare spunti, evocazioni, immagini e storie di vita professionale e personale, accedendo a ricordi, suggellando emozioni a volte forti, trattenute o elaborate parzialmente.
La partecipazione è stata generosa, non sono mancati momenti “caldi” di personale resistenza, di richieste di maggiori spiegazioni, di opposizione a indicazioni di scrittura che sembravano, a tutta prima, troppo coinvolgenti in una dimensione d'aula.

La richiesta di scrivere di un'esperienza personale, di accompagnamento a un malato terminale, ha prodotto scritture “tattili” dolenti, grevi, ironiche, qualcuna anche gioiosa. Lo scrivere a mano è un gesto incisivo in cui testa e testo si fondono in modo perfetto, dove mentale è l'atto creativo di ordinare pensieri per raccontare storie, comunicare emozioni; e corporeo è l'atto delle dita che muovono la penna sul foglio seguendo il pensiero che scorre.

"Il testo non lo penso e non lo immagino. Attendo che arrivino le parole e mi lascio sorprendere, le mastico, le ripeto ad alta voce, entro nella radura e penetro negli squarci. Attendo. Lascio che emerga ciò che riposa in me. So che darà frutti inaspettati, il nuovo si affaccerà portando frutti in abbondanza. Io divento quelle parole e sono quelle immagini, così posso chiedere: chi vi ha partorito? Quale seme vi ha generato? Indicatemi i sassi sui quali avete poggiato i vostri piedi affinché possa a mia volta sperimentare la vostra stessa gioia, come la sofferenza. Voi ed io non siamo separate." (Lorenzo Barani)

La seconda parte dell'elaborato consisteva nel mettersi nei panni del malato terminale assistito e nel cercare di raccontare la sua esperienza di fine vita, attraverso i “suoi” occhi, come avrebbe fatto lui o lei, con le sue parole. Una visione meno presbite, di vicinanza, di assonanza, di contatto con uno stato a volte sfuggente, imperscrutabile. Complessa richiesta di scrittura a tutta prima, che si è svelata trasformativa, generatrice di soluzioni rispetto a decisioni da prendere, trascurate, lasciate in sospeso...Si ri-nasce nelle infinite pieghe del testo (...) la vita è iscritta nella parola e nel linguaggio. Lorenzo Barani "Derrida e il dono del lutto".

Il contenimento della commozione, della tristezza, in questa fase d'aula è importantissimo. Non si tratta semplicemente di consolare, sostenere, rincuorare, ma di “esserci”, anche col silenzio, con lo sguardo, con le mani, con la postura. Di accompagnare e di guidare i partecipanti attraverso un'esperienza di scrittura e di riconoscimento della vita anche in un essere umano prossimo alla morte, di forte impatto.

Una poesia, col suo potenziale di espandere e restituire significati differenti ha chiuso i lavori di ogni giornata laboratoriale.

Rinascere

toglimi la fretta
che s'avvinghia
alle mie sere
come fame
toglimi questo orizzonte
fitto imposto
la vista breve
il raggio modesto
toglimi da me
fino a quando non
ritorno gesto
nel silenzio del bosco
dove rinasco
fibre fili spiragli
facendo il giro delle foglie
ritorno figlia
passo dopo passo
ricresco