Un invito a rileggere “La chiave a stella” di Primo Levi per riflettere sulla formazione

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Primo Levi (Torino, 1919-1987), scrittore che fa dell’esperienza vissuta la materia prima del suo scrivere, ne La chiave a stella (1978), mette in scena la conversazione tra un Narratore (Levi stesso, chimico e scrittore) e Libertino Faussone, un tecnico piemontese, montatore e collaudatore di strutture metalliche, che racconta le sue imprese lavorative vissute in giro per il mondo. Nei quattordici capitoli del libro, ciascuno dei quali contiene un racconto che potrebbe anche essere letto autonomamente, confluisce la materia di diversi contatti e conversazioni sul lavoro che Levi stesso, in altre occasioni, dichiara di aver avuto con montatori in carne e ossa e operai specializzati conosciuti personalmente nella sua lunga esperienza lavorativa di chimico e di industriale. Lo stile è quello dell’intervista: il Narratore sollecita con una serie di domande e asseconda con delicatezza i racconti del protagonista, che sembrano quasi audio-registrati e trascritti.
È forse possibile leggere questo libro come il resoconto di un’azione formativa, se intendiamo la formazione come una forma di relazione che accompagna il soggetto a mettere in parola il sapere dell’esperienza, sollecita a raccontare storie e per questo richiede rispetto, attenzione, ascolto, interesse per la storia altrui e capacità di coinvolgersi nella relazione anche con la narrazione della propria. Non è che Levi metta esplicitamente a tema la questione della formazione, se non con brevi cenni dedicati per la verità più all’esperienza scolastica che a quella formativa (non senza battute polemiche sul sapere astratto della scuola), ma forse l’operazione non è priva di una certa plausibilità. L’idea di una formazione come paziente accompagnamento alla messa in parola del sapere maturato nell’esperienza si lega del resto alla ricerca etnografica, con la quale Levi aveva maturato una forte affinità, tanto da esprimere una cura da vero e proprio etnografo non solo ne La chiave a stella, ma in tutte le sue opere testimoniali. Il Levi “formatore” corrisponde un po’ al Levi etnografo delle esperienze brutalmente patite nel Lager nazista (Se questo è un uomo, 1958) e al Levi etnografo di vari mestieri (Il sistema periodico, 1975). Proprio il coinvolgimento relazionale e riflessivo dei vari soggetti che la pratica etnografica attiva, attribuendo loro il duplice statuto di fonti e strumenti di una conoscenza rilevante, assume del resto valore formativo e trasformativo per tutti coloro che sono in gioco.
La formazione consiste innanzitutto nel creare uno spazio in cui sia possibile far emergere o far rintracciare un senso nel lavoro che si fa. E questo può avvenire attraverso la narrazione, che è in se stessa attribuzione di senso – e di forma – a ciò che si vive. Il gusto del lavoro ben fatto e l’amore per il lavoro sono, per Faussone, al tempo stesso, indizio di un senso incontrato e motore che spinge a rigenerarlo continuamente. Nel dialogo, egli riesce a dare senso e forma alla sua passione per il lavoro e proprio questo è ciò che muove anche il suo desiderio di narrare. Non è che Levi non veda anche le ambiguità del lavoro, soprattutto la durezza e l’iniquità del lavoro servile e alienante; solo si rifiuta di identificare il lavoro tout court con il lavoro servile, come un’antica tradizione culturale (quella che contrappone appunto otium e ne-gotium) e il clima fortemente ideologizzato degli anni Settanta (che tendeva a considerare il lavoro, soprattutto quello di fabbrica, come pura alienazione) avrebbero invece indotto a fare. Per Levi, quando si ha la percezione che il lavoro è utile e ha un senso, il lavoro stesso diventa uno spazio di fioritura dell’umano; questo vale addirittura nel brutale contesto del Lager (Levi, 1958), che pure è il luogo della forma più radicale di de-umanizzazione.
La formazione si nutre di ascolto. Il personaggio Faussone racconta la sua storia secondo un suo stile particolare, nel registro tipico del parlato, che spesso lo porta a perdere il filo; il suo modo di raccontare è caratterizzato dalla concretezza che all’enunciato teorico fa sempre seguire un esempio pratico. Il Narratore riesce a sintonizzarsi col suo interlocutore, a distinguerne la voce singolare e a creare quel clima di fiducia che apre al reciproco ascolto. L’ascolto dell’altro richiede anche vigilanza e ascolto di sé. Per questo il Narratore-intervistatore inserisce spesso delle note riflessive in cui dà conto di accorgersi delle sue intromissioni e dell’effetto che esse fanno sul parlante. In realtà, è lo stesso dispositivo narrativo di sdoppiarsi, distinguendo un “io” narrante e un “io” narrato, che rivela quel distanziamento da sé che è necessario all’autoriflessione e consente di guardare da un punto di vista esterno tanto all’altro che a sé. Per Levi, ascoltare l’altro significa ascoltare anche se stessi, astenersi dal giudizio, non interrompere, rispettare, alimentare interesse per le parole dell’altro, immergersi nel suo mondo, chiedere quando non si capisce qualcosa. C’è un’arte dell’ascoltare, che è utile allo scrittore e – possiamo aggiungere noi – è essenziale anche al formatore. Solo un ascolto attento genera vera narrazione e la qualità di questo ascolto, così come la chiarezza dell’espressione nello scrivere e nel parlare, è in Levi direttamente collegata a una postura etica di responsabilità nei confronti dell’altro.
La formazione può essere vista come un modo per riconoscere e dare valore alle “malizie del mestiere”, ai trucchi e agli stratagemmi che si imparano – e non si finisce mai di imparare – con l’esperienza. Proprio l’esperienza, fatta di dimestichezza, di incontri e scontri con i materiali e le cose, affina infatti la conoscenza e rende i soggetti competenti e inventivi. La conoscenza che porta impresso il segno dell’esperienza è una conoscenza tacita, corporea, sensibile, che passa prevalentemente attraverso le mani. Di questa forma di conoscenza, che non disgiunge intelletto e manualità, che arriva al concetto proprio attraverso il lavoro delle mani e di tutto il corpo e si costruisce lentamente, a contatto con situazioni concrete sempre uniche e sfidanti, Faussone è un autentico campione. È una conoscenza che non si lascia rinchiudere in definizioni e leggi causali, ma si offre all’evidenza solo nel racconto. Dar voce al mestiere significa dar voce anche alla consapevolezza meta-riflessiva propria del lavoratore competente, che non solo sa fare, ma sa anche riflettere su ciò che sa e sul suo stesso percorso di apprendimento, su come ha imparato a fare quello che sa fare e sull’effetto che tale apprendimento ha in lui generato. Imparare dall’esperienza significa acquisire una sicurezza che fa camminare nella vita, ma anche sviluppare un senso di prudenza, una forma di saggezza che si apprende anche – o forse solo – attraverso “i guai”. Sono proprio gli errori, i “collaudi negativi” e, in genere, i feedback che provengono dalla realtà rispetto a ciò che si crea con le proprie mani ciò che fa imparare non solo il mestiere ma anche come stare al mondo.
Le malizie, la pazienza di imparare dagli errori e tutti gli altri saperi connessi con l’esperienza, come dicevamo, sono proprio ciò di cui la formazione è chiamata a facilitare una messa in parola. L’idea stessa di formazione che si può ricavare da Primo Levi coincide con l’accompagnamento a rendere dicibile un sapere che altrimenti sarebbe condannato a restare inespresso e inerte. La narrazione e il pensiero che nasce da essa resistono alla tentazione di semplificare la realtà e tengono insieme in modo complesso anche elementi apparentemente tra loro distanti. Proprio le difficoltà e le difformità con cui la pratica mette a confronto sono le situazioni ideali che fanno pensare e rendono piacevole il raccontare. La narrazione è un fondamentale atto conoscitivo, consente di accorgersi retrospettivamente, attraverso la riflessione, di come sono andate le cose e contribuisce così a una comprensione più profonda della vita, ma anche all’apertura prospettica di ulteriori possibilità di pensare e di agire.
Nel gesto a cui Primo Levi dà efficace rappresentazione letteraria sta molto del lavoro del formatore che consiste nel raccogliere le storie che vengono donate e nel restituirle, generando così un sapere inedito sull’esperienza, ma anche nell’intrecciare le storie proprie con quelle degli altri, costruendo così una comunità di racconto. Le storie di Faussone – o dei tanti Faussone che Levi ha incontrato nella sua vita – sono storie regalate, germogliate da atti di fiducia che hanno reso possibile la comunicazione reciproca. L’etnografo-scrittore osserva, raccoglie i racconti, li trasforma in testi ben levigati e restituisce al parlante – e, attraverso la scrittura, non solo al parlante ma a ciascun futuro lettore – un racconto di racconti, e così facendo genera nuova conoscenza. Anche la formazione può essere vista in modo analogo, come opera di tessitura, che porta a cucire insieme storie e parole ricevute e a riconsegnare testi/tessuti che, proprio in questa tessitura, guadagnano un valore aggiunto di significato, come se diventassero i tasselli che vanno a comporre un unico mosaico.
La narrazione di Primo Levi, soprattutto se messa a confronto con i vissuti di chi opera nel mondo della formazione e delle organizzazioni, può ancora oggi ispirare e aprire possibilità nuove di pensare e di configurare l’agire formativo. Nel modus operandi del Levi Narratore-intervistatore de La chiave a stella, ma anche in quello del Levi scrittore, è possibile rintracciare alcuni spunti rilevanti per chi opera nel campo della formazione. L’esperienza è materia prima sia per lo scrittore che per il formatore. Forse non è un caso che proprio quella letteratura che si alimenta di un interesse autentico per il reale, e che per questo esprime anche una sensibilità etnografica, riesca a dar conto in modo così ricco e profondo anche del nesso che si dà tra agire lavorativo e costruzione di significati, che è poi il terreno privilegiato su cui sono chiamate a muoversi anche la formazione e la ricerca sulle pratiche formative.