Oltre la formazione apparente
La formazione nelle amministrazioni pubbliche è da tempo oggetto di attenzione e di interesse sia di attori politici ed istituzionali, che ad essa attribuiscono una certa importanza ai fini del cambiamento degli apparati pubblici, sia di agenzie pubbliche e private, di studiosi e consulenti, che proprio sulla formazione nelle PA concentrano gran parte delle loro attività. Il tema merita nuove attenzioni tanto più in una fase del dibattito pubblico caratterizzata da una focalizzazione degli sforzi sulle politiche di riforma degli apparati dello Stato. In questo articolo cercherò di chiarire il contributo che la formazione può dare ai processi di innovazione. L’idea centrale è quella di assumere la conoscenza del funzionamento organizzativo degli apparati pubblici come referente principale della formazione e in tale prospettiva, indirizzare le pratiche formative oltre il giuridicismo che ne caratterizza i contenuti ed oltre lo scolasticismo dei metodi prevalenti. Si tratta di andare oltre la “formazione apparente” (Maggi 1974), ossia di superare le attività di facciata (le si fa per vincoli di legge, ma sono irrilevanti rispetto alle dinamiche dell’organizing) tipiche di gran parte delle esperienze del nostro Paese, per assumere la relazione tra formazione e processi organizzativi come nucleo centrale di ogni politica formativa. Una simile prospettiva richiede – oltre che un intenso cambiamento di culture e abitudini cristallizzate – una nuova consapevolezza dell’importanza delle principali dimensioni tecniche dell’agire formativo.

Per una formazione pertinente    
Una riflessione preliminare sull’azione formativa nelle PA muove dalla consapevolezza della crescente rilevanza che va assumendo la questione del cambiamento organizzativo e culturale degli apparati pubblici. Non c’è dubbio sul fatto che le misure normative degli ultimi quindici/venti anni, al di là di ogni analisi sulla loro concreta attuazione, abbiano cominciato ad introdurre, almeno sul piano formale, qualche innovazione nel corpo degli ordinamenti dell’amministrazione (e su tale constatazione la maggior parte delle riflessioni disponibili sembra convergere).
Il vero problema si pone quando si passa dalla dimensione normativa a quella delle azioni capaci di sostenere i processi di cambiamento: in effetti, il successo di una strategia di innovazione non può essere affidato solo alle leggi le quali, come è noto, sono una condizione indispensabile, ma del tutto insufficiente. Occorrerebbe insomma essere in grado di accompagnare il cambiamento. Ma per riuscire in una simile impresa non basta una visione strategica; è necessario conoscere il campo d’azione, poiché, da questo punto di vista, è più che mai vero, come è stato notato da Weick, che “un’organizzazione non può sapere dove va se non sa che cosa è” (Weick 1997). Purtroppo, su questo terreno, in Italia occorre misurarsi con un grave deficit di conoscenze sistematiche riguardanti il funzionamento delle PA a tutti i livelli della loro articolazione. Mancano, infatti, analisi sul fenomeno burocratico italiano che siano, ad esempio, comparabili per spessore e paradigmaticità agli studi crozieriani sulla burocrazia francese (Crozier 1969 e 1988). La ricerca promossa nei primi anni ‘80 del secolo scorso dall’allora ministro della Funzione Pubblica Giannini (Formez 1983), data la sua impostazione prevalentemente giuridica descrittiva dei dispositivi procedurali degli apparati, non ha potuto affrontare in termini interpretativi la questione del funzionamento dei sistemi d’azione della pa. È dunque cruciale che le autorità pubbliche e la comunità scientifica assumano un impegno di ricerca finalizzato a colmare i limiti conoscitivi ed a portare indicazioni utili all’azione di sostegno delle politiche di cambiamento. Tuttavia, partendo dalle conoscenze disponibili, comprese quelle intuitive e di senso comune rintracciabili nel dibattito corrente, vi sono alcuni punti di attacco condivisi che aiutano ad immaginare percorsi virtuosi e potenzialmente efficaci. Uno di essi è costituito dalla critica del garantismo e della cultura della conformità normativa che sono i capisaldi che storicamente hanno determinato quello scambio perverso tra basse retribuzioni da un lato e garanzia del posto di lavoro dall’altro: uno scambio che, a sua volta, ha di fatto generato un sistema burocratico pesante e fondato sulla bassa qualità delle prestazioni lavorative. Alla cultura lavorativa tradizionale bisogna cercare di sostituirne una basata sulle seguenti opzioni di principio: a) decentramento decisionale; b) responsabilità; c) riconoscimento dei meriti; d) orientamento al cittadino; e) professionalismo.
Queste opzioni di principio assumono una rilevanza cruciale dal nostro punto di vista, poiché valgono come ancoraggio di azioni che facciano leva non solo sull’applicazione delle riforme, ma anche e soprattutto su una strategia di ri-motivazione che restituisca senso, dignità e identità organizzativa e sociale al lavoro dei quadri pubblici. L’ultima in particolare, quella legata al professionalismo, ci porta direttamente sul terreno della formazione.
Ma occorre chiedersi quale formazione bisogna promuovere per le PA. Una prima risposta segnala una formazione che sappia superare i limiti che ne caratterizzano l’esperienza tradizionale, la quale – se si escludono rare eccezioni – è emblematicamente contrassegnata da forme acute di scolasticismo sul piano delle pratiche e di giuridicismo su quello dei contenuti.
A questo livello, sul versante metodologico l’innovazione dovrebbe investire sia l’azione progettuale sia gli stili di realizzazione. Quanto ai contenuti, bisognerebbe introdurre nella struttura della formazione dei quadri pubblici (specie se dirigenti) alcune aree di saperi tradizionalmente semi-clandestine nelle (o del tutto escluse dalle) attività didattiche – come, ad esempio, l’implementation e la valutazione delle politiche, la conoscenza organizzativa, la cultura dei servizi, il management delle risorse umane. Occorrerebbe inoltre favorire lo sviluppo di una cultura della formazione che sia in grado di assumere e valorizzare alcuni tra i più promettenti contributi della ricerca in campo formativo ed organizzativo tra i quali bisogna segnalare la nozione di competenza professionale (Cepollaro 2008) con tutte le implicazioni che da tale recupero potrebbero derivare per una formazione efficace: poiché infatti la nozione di competenza si riferisce a comportamenti organizzativi osservabili (sono saperi di base reintrepretati contestualmente dai soggetti che ne detengono i contenuti), costituisce un punto di snodo che rende feconda la relazione tra azione organizzativa e processi formativi. Sulle competenze (ed a partire dal loro sviluppo per via didattica), la formazione per le PA può agire a crescenti gradi di impegno, nella consapevolezza del fatto che ogni intervento orientato allo sviluppo di competenze (di base, tecnico-specialistiche e comportamentali) implichi almeno un minimo retroterra di esplorazione dell’organizzazione.

Centralità della relazione tra azione formativa e dinamiche organizzative
La rilevanza del rapporto tra organizzazione e formazione è da tempo oggetto di riflessioni (Maggi 1974 e 1988; Quaglino 1985 e 2005; Morelli, Varchetta 1998; Lipari 1995, 2002 e 2010) influenzate da  orientamenti oscillanti tra due opposti punti di vista: da un lato, si punta a precisare l’utilità della formazione in rapporto alle (e in quanto “variabile dipendente” delle) scelte di politica organizzativa; dall’altro, si cerca di costruire in modo autonomo il senso tecnico e l’identità professionale di un insieme di pratiche la cui utilità nelle organizzazioni è ormai ampiamente riconosciuta. In ogni caso, è fuori discussione il fatto che in tale relazione trovi fondamento il variegato campo di culture professionali della formazione. Inoltre tale relazione esibisce una sua dinamica che riflette i cambiamenti ai quali sono interessati tanto il mondo delle organizzazioni quanto quello della formazione. Infine, pur essendo in questa relazione largamente reciproca l’influenza dei due mondi, l’approdo ad una visione integrata è un processo non facile né scontato: si è infatti passati, nel tempo, da prospettive (teoriche e pratiche) nettamente separate, a configurazioni interpretative in cui emerge una crescente sensibilità sulla necessità di nette convergenze tra le due dimensioni, per giungere in tempi più recenti al progressivo consolidamento dell’idea secondo cui l’azione formativa da un lato è parte integrante delle pratiche organizzative delle quali talora anticipa rilevanti fenomeni innovativi (Lipari 2002), dall’altro è associata alla dimensione dell’apprendimento dei soggetti coinvolti e delle stesse organizzazioni. Tale lettura, che enfatizza l’importanza per l’azione formativa di una sua connessione con le dinamiche dell’organizing, non intende affatto subordinare le istanze soggettive degli individui in formazione a quelle dell’organizzazione. La dinamica tra attore e sistema (Crozier, Friedberg 1978) è oltremodo complessa e non ammette operazioni riduzioniste tendenti a descriverla nei termini della prevalenza dell’uno sull’altro: da un lato, infatti, esiste il sistema con le sue oggettivazioni, i suoi vincoli, le sue regole e le sue logiche di funzionamento; dall’altra il soggetto con le sue preferenze, le sue intenzioni, i suoi obiettivi e i suoi desideri che non sempre coincidono con (anzi, spesso divergono da) quelli del sistema al cui interno agisce. Tale interpretazione – secondo cui nessuno dei due “elementi” è riducibile all’altro – consente di meglio cogliere la dinamica delle relazioni tra soggetti che vivono concretamente l’organizing ed aiuta l’azione formativa a misurarsi con questi fenomeni senza pregiudizi e formule precostituite. Alla luce di questa considerazione sembrano condivisibili le preoccupazioni di Quaglino (2005) quando mette in guardia dalle possibili derive deterministiche di una visione troppo ancorata al “mondo organizzativo” e dunque dai possibili rischi di appiattimento delle istanze individuali alle logiche dell’organizzazione. Allo stesso modo bisogna fare attenzione anche alle fughe nel soggettivismo che, di fatto, rischiano di costruire mondi astratti difficilmente compatibili con la realtà: per chi “fa formazione” mantenere il necessario l’equilibrio tra le due dimensioni rappresenta sempre un esercizio faticoso e impegnativo.  
La relazione costitutiva con l’organizing rappresenta il punto di ancoraggio da cui emergono e si affermano le principali categorie concettuali e di metodo dell’azione formativa in progressiva presa di distanza e affrancamento rispetto alle culture, agli orientamenti e alle modalità operative tipiche dell’educazione stricto sensu dalle quali la formazione trae la sua origine. È la stessa dinamica di tale processo (oltre che le culture tecniche che ne hanno ispirato i tratti fondamentali) ad accompagnare la trasformazione dell’intero apparato concettuale e di metodo della formazione. Da un lato, infatti, la cultura e le pratiche formative evolvono man mano che, distanziandosi sempre di più dagli ambiti originari delimitati dai confini dell’educazione tradizionale, si situano in contesti d’azione caratterizzati da un riferimento diretto al mondo del lavoro e a quello delle organizzazioni: in questo senso, si dà formazione solo se e nella misura in cui essa è associata ad un’idea di accrescimento di competenze professionali (e da questo punto di vista si può effettivamente parlare di formazione pertinente (Lipari 1995)1. Dall’altro, la graduale affermazione ed il consolidamento di un bagaglio di teorie, tecniche e metodi segue un movimento di progressiva presa di distanza dai fondamenti pedagogici delle culture di origine basati, come è noto, sull’ipotesi dell’addestramento di chi “deve essere formato”, per accedere (sempre più decisamente) a visioni e pratiche in cui irrompe anche la soggettività (dunque la disponibilità) di chi partecipa alle attività formative con la consapevolezza di essere dentro un processo di apprendimento.

Riferimenti bibliografici
Cepollaro G. (2008), Le competenze non sono cose, Milano, Guerini e Assocaiti
Crozier M. (1988), Stato modesto, stato moderno, Roma, Edizioni Lavoro (nuova ed. con nuova “Introduzione” di D. Lipari, 2010) [ed. or. 1987]
Crozier M. (1969), Il fenomeno burocratico, Milano, Etas [ed. or. 1964]
Crozier M., Friedberg E. (1978), Attore sociale e il sistema, Milano, Etas [ed. or. 1977]
Formez (1983), Ricerca sull'organizzazione ed il funzionamento delle Amministrazioni Centrali dello Stato (indice generale + 3 volumi), Roma, Formez
Lipari D. (2010), Formatori. Etnografia di un arcipelago professionale, Milano, FrancoAngeli
Lipari D. (2002), Logiche di azione formativa nelle organizzazioni, Milano, Guerini e Associati [nuova ed. 2010]
Lipari D. (1995), Progettazione e valutazione nei processi formativi, Edizioni Lavoro [nuova ed. con “Prefazione” di G. Cepollaro, 2009]
Maggi B. (1974), La formazione apparente: alcune ipotesi di ricerca, in «Studi organizzativi», n. 1
Maggi B. (1988), Formazione e organizzazione, Roma, Ediesse
Morelli U., Varchetta G. (1998), Cronaca della formazione manageriale in Italia: 1946-1996, Milano, Angeli
Quaglino G. P. (1985), Fare formazione, Bologna, Il Mulino [2a ed., Milano, Cortina, 2005]
Quaglino G. P. (2005), «Posfazione» a Fare formazione, Milano, Cortina, 2005, 2a ed.
Weick K. E. (1997), Senso e significato nell'organizzazione, Milano, Cortina [ed. or. 1995].




1 Con l’espressione “formazione pertinente” (Lipari 1995) intendo designare le attività formative coerenti con le esigenze concrete dei contesti (organizzativi e istituzionali) ai quali esse si rivolgono. Si contrappone alle pratiche che con efficace e fortunata formulazione Maggi (1974) definisce in termini di “formazione apparente”: attività slegate dai processi organizzativi che possono essere utili per i singoli partecipanti, ma ininfluenti per l’organizzazione.