0. Le suggestioni derivanti dalla linea di riflessione sui processi di apprendimento proposta da Gianluca Cepollaro e Giuseppe Varchetta nel loro La formazione tra realtà e possibilità. I territori della betweenness (Milano, Guerini Next, 2014) sollecitano un confronto ravvicinato tra tale prospettiva e la visione sulle dinamiche dell’apprendere racchiuse nel costrutto “comunità di pratica” (CdP)1. Cercherò di fornire nelle pagine che seguono una lettura di alcune categorie interpretative presenti nel lavoro di Cepollaro e Varchetta alla luce della prospettiva dell’apprendimento situato su cui si basa l’idea di comunità di pratica. Lo scopo non è solo quello di cogliere sintonie e sensibilità comuni, ma anche quello di rafforzare – anche in chiave metodologica – le potenzialità di sviluppo di riflessioni molto rilevanti per il rinnovamento delle pratiche formative. In quest’ottica, dopo una breve descrizione delle idee che stanno alla base del costrutto “comunità di pratica” e un riepilogo dei tratti più significativi della “prospettiva betweensess” elaborata da Cepollaro e Varchetta, metterò in evidenza alcuni tratti costitutivi delle comunità di pratica che le caratterizzano come “luoghi” par exellence dell’inter-medietà; cercherò infine di “attraversare”, sia pure rapidamente, i “territori della betweenness” mostrando per alcuni di essi le affinità (e in qualche caso le coincidenze) con i tratti che caratterizzano le comunità di pratica.

1. In quanto contesti sociali di apprendimento e di produzione e circolazione delle conoscenze, le comunità di pratica si caratterizzano come aggregazioni informali di attori sociali che in ambiti delimitati di attività (organizzazioni o altre forme di agire coordinato) si costituiscono spontaneamente attorno a pratiche di lavoro comuni nel cui ambito sviluppano solidarietà organizzativa sui problemi, condividendo scopi, saperi pratici e linguaggi e generando, per questa via, forme di strutturazione dotate di tratti culturali peculiari e distintivi. Si tratta di gruppi che: (a) nascono attorno ad interessi condivisi (in genere problemi comuni da gestire e risolvere in condizioni di interdipendenza cooperativa); (b) si alimentano di contributi e di impegni reciproci; (c) durano fino a quando persistono gli interessi comuni e fino a quando l’energia che alimenta l’insieme riesce a riprodursi con regolarità; (d) sono tenuti in vita da un presupposto di fondo: la relativa libertà da vincoli organizzativi di tipo gerarchico. Per cogliere concretamente il senso dell’idea di CdP e delle sue potenzialità è utile riprendere i risultati dello studio etnografico condotto alla fine degli anni ’80 da Orr (1995) all’interno della Xerox allo scopo di analizzare le pratiche lavorative dei tecnici addetti alla riparazione delle macchine fotocopiatrici.
L’organizzazione prevede che, i riparatori, nello svolgimento dei loro compiti, si riferiscano ai manuali di manutenzione e alle indicazioni che “conducono” dal problema alla soluzione e quindi alla riparazione. Ma i manuali hanno un limite: non sono in grado di fornire soluzione a tutti i guasti improvvisi segnalati dai clienti. La pratica dei riparatori è dunque costretta ad andare oltre i manuali e ad inventare soluzioni inedite rispetto ai repertori pre-ordinati di risposte chiamando in causa competenze e risorse (personali e di gruppo) che travalicano largamente quelle di tipo tecnico descritte dall’etichetta “addetto alla riparazione”. In effetti, oltre al problema tecnico imprevisto, i riparatori devono anche confrontarsi con l’esigenza del cliente di avere una macchina efficiente e con il suo bisogno di poter contare sempre su un servizio efficace. La pratica dei tecnici – che riguarda tanto il funzionamento e la manutenzione della macchina, quanto le relazioni sociali con i clienti e tra gli stessi tecnici – genera costantemente l’occasione di elaborare nuove analisi dei problemi, di trovare nuove soluzioni e dunque di produrre nuova conoscenza. Pervengono così all’elaborazione di repertori di saperi in uso locali molto specifici che costituiscono un patrimonio di conoscenze rilevanti per la loro pratica. Le nuove conoscenze circolano tra tutti i tecnici della stessa “linea” organizzativa grazie alla comunicazione informale e agli scambi di esperienze che avvengono negli interstizi dei tempi e dei luoghi predefiniti dall’organizzazione per lo svolgimento delle attività. Così succede che, davanti alla macchinetta del caffè, si creino le occasioni per raccontarsi le “storie di guerra”, ossia quelle esperienze di intervento particolarmente problematiche che hanno dato luogo a soluzioni innovative. Attraverso questi racconti – e le relazioni che li sostengono (basate su fiducia, stima professionale, sentimento di identificazione nel gruppo e solidarietà organizzativa) – le conoscenze possono circolare dando luogo a fenomeni di apprendimento che dalla pratica hanno origine ed alla pratica ritornano.
Il resoconto – qui sommariamente riproposto – di quanto emerso dalla ricerca di Orr, consente di segnalare come tra gli elementi essenziali di una comunità di pratica figurino la condivisione dell’esperienza da parte dei membri che la compongono (un compito complesso e le sue difficoltà); la loro prossimità comunicativa (che rende possibili relazioni sociali e scambi di esperienze); la spontaneità ed informalità delle relazioni (esse si sviluppano negli interstizi della vita organizzativa a prescindere dalle regole formali dell’organizzazione); la cooperazione (adattamento reciproco e sostegno reciproco davanti ai problemi da risolvere); l’improvvisazione (davanti al problema che non si riesce a risolvere si procede per prova ed errore inventando alla fine la soluzione); la narrazione (il racconto di un’esperienza di successo diventa utile per il futuro e diventa parte integrante della memoria collettiva del gruppo); l’identità (nella misura in cui l’insieme si riconosce nel gruppo e vive come proprio il patrimonio delle conoscenze generate da tutti, il senso di appartenenza si rafforza, si infittisce la “produzione” di culture e linguaggi di gruppo). Emerge molto nettamente come l’insieme degli elementi qui segnalati consenta di identificare nelle comunità di pratica un contesto privilegiato di apprendimento individuale e collettivo oltre che di produzione e circolazione di conoscenze. L’idea di apprendimento suggerita dalla prospettiva della CdP mette al centro il modo del tutto particolare con cui l’esperienza del soggetto entra in relazione con il mondo, e con gli altri soggetti, che sono al mondo e del mondo fanno esperienza. Nella dinamica dell’apprendere diventa cruciale dunque la sfera relazionale, la dimensione cioè delle relazioni che ciascun soggetto mette in atto nel momento in cui si rapporta con altri soggetti dotati delle sue stesse caratteristiche. L’apprendere dunque, è situato (cioè le relazioni avvengono in un luogo determinato), ma al tempo stesso ha un carattere irriducibilmente pratico: l’esperienza che noi facciamo con il nostro agire si sedimenta nel bagaglio delle nostre conoscenze che si trasformano in routine d’azione che a loro volta cambiano e si arricchiscono nella pratica2.

2. Le assonanze e le numerose affinità tra la prospettiva della CdP e i temi dominanti della riflessione di Cepollaro e Varchetta possono essere colte esaminando brevemente i tratti costitutivi di quest’ultima proposta. La formazione tra realtà e possibilità muove dall'assunto secondo cui bisogna prendere congedo dalle pratiche formative basate su visioni deterministiche ed unilineari dei processi di apprendimento per accedere ad una prospettiva fondata sulla relazione. E' nella dimensione relazionale che Cepollaro e Varchetta individuano il fondamento della stessa "natura umana": siamo ontologicamente disposti e proiettati a vivere in relazione  continua con ogni realtà esterna a ciascuno di noi; e tale realtà è costituita tanto dagli altri che come noi sono al mondo e del mondo fanno esperienza, quanto dall'insieme delle oggettivazioni (artefatti, linguaggio, tradizioni consolidate, ecc.) che sono parte integrante del mondo in cui viviamo.
Sulle dinamiche relazionali - per loro intrinseca natura imprevedibili e non determinabili entro schemi rigidi costruiti a priori - si basa la costruzione soggettiva del sè secondo un movimento mai chiuso in se stesso, ma aperto, in continua tensione verso il possibile, in un'ottica in cui la disposizione verso il possibile diventa la condizione e il prerequisito del cambiamento che, nella forma specifica che esso assume nell'apprendimento, si manifesta come ristrutturazione delle routine d'azione consolidate in un processo che coinvolge tanto la sfera cognitiva, quanto quella emozionale. Per ciascuno di noi l'apprendere è un movimento selettivo direzionato verso l'altro da sè per appropriarsene (è, per dirla con Sartre, un "uscire dall'umidiccio del mio ventre" per tendere verso il mondo esterno). Ed è tale movimento che- proprio in virtù dei campi d'incertezza e di imprevedibilità entro cui si esprime - genera quel passaggio da mondi reali a mondi possibili molto simile all'idea di progetto che, nella suggestiva formulazione di Simon (1973), consiste nel tentativo di trasformare situazioni date (il reale così come lo conosciamo e lo viviamo) in situazioni desiderate - dove ciò che si desidera non è altro che una proiezione verso l'ignoto e che proprio per questo altro non è che un auspicio esposto ad eventi rispetto ai quali non sempre abbiamo capacità di anticipazione e tanto meno di previsione. Il possibile dunque, sottolineano Cepollaro e Varchetta, nella misura in cui va oltre il prevedibile, la routine e il dato per scontato, è di fatto parte integrante della condizione umana: poiché viviamo nella tensione verso il possibile - proiettati cioè verso l’oltrepassamento del già noto, verso la scoperta di ciò-che-non-c'è-ancora - siamo costantemente immersi in "mondi intermedi" che ci situano tra la realtà data e il possibile che si trova oltre quella realtà. Stare sul confine con la dovuta consapevolezza, non è mai un'esperienza agevole. Essa reclama infatti un insieme di competenze relazionali non sempre disponibile nel bagaglio di tutti: sensibilità acuta verso i segnali deboli, capacità negativa (ossia capacità di fronteggiare situazioni caratterizzate da indeterminatezza pressochè assoluta), di adattamento, di sopportare dissonanze cognitive acute e l'angoscia dell'ignoto. Richiede soprattutto capacità di attivare nuove connessioni e per questa via attualizzare il possibile rendendolo nuova dimensione del reale.
Su questo piano si aprono sfide inedite per il rinnovamento della cultura della formazione: essa è infatti chiamata a ricontestualizzare il proprio bagaglio di teorie e di pratiche abbandonando innanzitutto le visioni "istruzioniste” (Cepollaro 2008) di una tradizione ancora largamente dominante per orientare la propria azione verso logiche basate sulla centralità dell'apprendimento da intendere anche come "attraversamento di confini" in una prospettiva associata all'esperienza e all'idea di inter-medietà che rende concepibile e praticabile tale attraversamento. L'esperienza dell'inter-medietà ha a che fare con lo spazio tra esistente e possibile, tra me e l'altro, tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. L'apprendere si caratterizza così come un modo consapevole di transitare tra mondi attraversandone i confini. Risulta evidente come in una simile cornice di senso, la formazione possa caratterizzarsi come una "pratica di confine" (Cepollaro, Varchetta 2014, p. 91), ma solo a condizione che sia in grado di disporsi ad attraversare con attenzione e competenza una varietà di contesti diversi (eventi, situazioni, luoghi, culture, linguaggi) e costruire tra loro ponti, creare connessioni, tessere trame e legami di senso.
L'esercizio e la disciplina dell'inter-medietà che una formazione consapevole può garantire sono la necessaria apertura al possibile. La formazione è chiamata dunque ad elaborare strategie di "continua creazione di possibilità" sostando nello spazio dell'intermedio e percorrendone i territori. Tali territori (“i territori della betweenness”), sono, nella prospettiva di Cepollaro e Varchetta, quelli della cura, dell’attenzione, della riflessività, della narrazione, della creatività e della responsabilità.

3. Cercherò da qui in avanti di segnalare le convergenze di punti di vista che rendono possibile un accostamento tra la prospettiva dell’apprendimento situato racchiusa nel costrutto “comunità di pratica” e la riflessione sull’apprendimento come disposizione all’attraversamento di confini diversi.
Una considerazione preliminare, perfino ovvia alla luce di quanto fin qui emerso, riguarda la sovrapponibilità delle concezioni dell’apprendimento che caratterizzano entrambe le prospettive: tanto per il costrutto “comunità di pratica”, quanto per l’approccio “betweenness”, l’apprendimento può essere tematizzato come la capacità dei soggetti e dei gruppi di entrare consapevolmente e criticamente in relazione con i loro mondi pertinenti allo scopo di appropriarsene (ma anche di trasformarli). Non sfugge quindi il suo carattere di esperienza relazionale e situata, intersoggettivamente ed interoggettivamente fondata, aperta al possibile e proprio per questo trasformativa.
Volendo però approfondire la ricerca delle connessioni utili da segnalare si può cogliere come la CdP – e lo sottolinea anche Tagliagambe (2008) in un suo saggio sullo spazio intermedio nel quale al tema delle comunità di pratica e di sapere è dedicato un intero capitolo – sia costituitivamente un luogo dell’inter-medietà. La comunità di pratica – come mostrano le più accreditate ricerche sui processi di apprendistato e di costruzione di conoscenza in contesti d’azione locale (Lave, Wenger 2006; Orr 1995; Brown, Duguid 2001) – è in effetti quello spazio intermedio che si genera spontaneamente negli interstizi non regolati (e non regolabili) delle organizzazioni e dei contesti d’azione (più o meno rigidamente) strutturati e che consente agli individui ed ai gruppi un “gioco” relazionale al margine (creativo, vantaggioso e generativo) reso possibile dalla capacità di eludere i vincoli della gerarchia senza scivolare nell’anarchia. È lo spazio intermedio dell’eterarchia che, se ben gestito, dagli attori che lo abitano è soddisfacente, produttivo e, soprattutto, capace di innovazione. È lo spazio tra la realtà data dall’ordine organizzativo e la possibilità di costruire nuovi orizzonti di senso. Un brevissimo richiamo al caso dei tecnici di manutenzione (Orr 1995) al quale ho fatto riferimento nel § 1 consente di cogliere il senso di questa considerazione. Nello spazio intermedio tra manuali di riparazione delle macchine – per definizione insufficienti – e problema concreto legato alle attività di riparazione (ossia lo spazio tra regolazioni formalizzate delle attività e gestione locale delle pratiche e dei processi di lavoro), esistono le relazioni tra i tecnici che si sviluppano in una varietà di contesti (anche fisici) informali e spontanei nei quali si produce solidarietà organizzativa (il sostegno reciproco tra colleghi davanti ad un problema di lavoro la cui soluzione non è prevista dai manuali), circolazione di informazioni tecniche, elaborazione di innovazioni riguardanti la pratica, culture, linguaggi, nuove conoscenze e, più in generale, legami sociali e identità di gruppo. È in un simile contesto che non è né l’organizzazione formale, né la cosiddetta “organizzazione informale”, ma il luogo dell’autonomia responsabile di un gruppo di attori competenti interessati allo sviluppo della loro pratica, che si generano le aperture verso il possibile e la tensione verso il nuovo. Nella dinamica e nelle tensioni irriducibili e ineludibili tra attore e sistema, (ossia tra gli interessi non sempre convergenti dei soggetti e dell’organizzazione), la CdP costituisce il “territorio” par exellence dell’autonomia, della generazione dei nuovi significati legati allo stare dentro le pratiche, del legame sociale e professionale, della solidarietà organizzativa e dell’identità.
Mi sembra utile, a questo punto, segnalare le connessioni (ancora più evidenti) tra le due prospettive in esame assumendo come punto di riferimento dell’analisi alcuni dei “territori della betweenness” (mi limiterò in questa sede ad esplorarne solo quattro) per mostrare come ciascuno di essi trovi nelle logiche della comunità di pratica una corrispondenza quasi speculare. Si tratta in effetti di dimensioni tipiche dei processi di apprendimento e delle dinamiche relazionali che ne costituiscono il fondamento. La breve lettura che intendo qui proporre si colloca deliberatamente a metà strada tra la dimensione concettuale e quella metodologica ed ha lo scopo di stimolare ulteriori riflessioni orientate al rinnovamento (ricontestualizzazione e riorientamento) delle pratiche di formazione.
Il concetto di cura – è questo il primo “territorio” della betweenness” che Cepollaro e Varchetta ci invitano a percorrere – rinvia, dal punto di vista dei due autori che su questo tema si rifanno direttamente alla classica elaborazione di Heidegger, “ad aspetti di effettività e di possibilità di ogni esistenza umana” (Cepollaro, Varchetta 2014, p. 122); nel suo essere “costitutiva della soggettività e delle relazioni”, la cura si caratterizza “come tratto ontologico dell’esperienza umana al punto che possiamo interpretare in termini di cura tutto ciò che accade all’uomo” (ivi, p.123) e coinvolge l’insieme delle dimensioni relazionali che ne caratterizzano l’essere nel mondo, di modo che l’aver cura ha a che fare con una molteplicità di relazioni al cui centro c’è il soggetto in rapporto con ogni realtà a lui esterna (che tuttavia lo implica e lo impegna), il soggetto che si prende cura di se stesso innanzitutto e poi degli altri, degli artefatti e degli oggetti che sono parte integrante della sua esperienza. “Trasferita” nei discorsi sulla formazione, la prospettiva della cura intende mettere a fuoco una modalità di stare nella relazione di apprendimento che non si esprime nei termini esortativi ed unilaterali “da un soggetto, colui che cura, verso un altro, colui che è curato” (ivi, p. 125), ma suggerisce piuttosto un’idea di reciprocità grazie alla quale creare le condizioni per l’“apertura del possibile, rendendosi disponibili all’imprevisto e all’inatteso” (ivi, p. 131). Analoga connotazione metodologica assume l’idea di cura nella prospettiva dell’intervento finalizzato alla costruzione delle CdP. L’ottica dell’intervento finalizzato a sostenere comunità di pratica – che costituisce di fatto un’alternativa alla formazione tradizionale – propone una serie di varianti di metodo. La più importante di esse è quella della coltivazione proposta da Wenger (Wenger et alii 2007) come approccio di supporto alla costruzione di CdP: essa si configura come un dispositivo di metodo che va oltre le semplificazioni del determinismo progettuale tipico di molte elaborazioni associate alla gran parte dei modelli correnti di knowledge management. Non è immune, tuttavia, da una critica di fondo che, se ritenuta valida, ha delle implicazioni sull’intero impianto metodologico. Il limite principale dell’approccio di Wenger sta proprio nell’etichetta da lui attribuita all’intervento sulle CdP. La metafora georgica (e organicistica) della coltivazione tradisce, a ben vedere, un’interpretazione dell’intervento che rischia di essere l’esatto contrario di ciò che dichiara di voler essere. La coltivazione, nella misura in cui s’impegna nel compito di sostenere la crescita dell’”organismo” - CdP nello stesso modo in cui si farebbe con una pianta, nega di fatto l’autonomia della CdP, visto che c’è qualcuno da cui essa dipende per sopravvivere e svilupparsi (Lipari 2007; Lipari, Valentini 2013).
Credo che un modo diverso di concepire l’intervento nelle CdP possa essere quello ispirato all’idea della cura (Lipari 2007 e 2012). Prendersi cura di una CdP (da costruire o già in azione) significa innanzitutto riconoscerne l’autonomia e rispettarne i processi spontanei di auto-costruzione. La cura, da questo punto di vista, altro non è che un modo relazionalmente fondato di accompagnare, facilitare e, se necessario, sostenere le dinamiche che caratterizzano la vita del gruppo identificato come una comunità di pratica. L’impegno relazionale di colui che ha cura di una CdP si esprime attraverso la disponibilità ad accettare gli eventi di cui sono protagonisti i suoi attori senza mai tentare di influenzarli, si esprime attraverso una sorta di neutralità metodologica per l’”oggetto” della sua attenzione/cura e si caratterizza esattamente nei termini della facilitazione dei processi autonomi di elaborazione e di (auto)costruzione del gruppo. Prendersi cura significa promuovere occasioni riflessive grazie alle quali i soggetti stessi riconoscano i nodi delle dinamiche sociali del loro apprendimento proponendo e sperimentando, ad ogni stadio della loro crescita individuale e collettiva, le soluzioni di volta in volta individuate nel confronto tra loro e con le loro pratiche. Si tratta, in sintesi, di una prospettiva di intervento, di facilitazione e di consulenza orientata a sviluppare nei membri della comunità capacità riflessive sulle loro pratiche. Muoversi in questo “spazio” significa assumere un habitus metodologico piuttosto particolare. L’intervento si configura nei termini di una presenza attiva, ma non intrusiva: è attento a non comprimere l’autonomia del gruppo e al tempo stesso deve essere capace di una presenza costante che non sia direttiva, ma orientata a fornire quegli stimoli e quegli aiuti - tecnici, materiali, di legittimazione - di cui la comunità ha bisogno e di cui talvolta neanche ha consapevolezza. È, in definitiva, un intervento di facilitazione delle dinamiche che la comunità genera da sola e che costituiscono il prerequisito della sua vitalità. Si tratta di un intervento che, volendo utilizzare una formulazione sintetica per descriverne la delicatezza e la problematicità, potremmo definire come caratterizzato da azioni orientate a promuovere e favorire forme di auto-organizzazione assistita.
Passando ad un altro dei “territori”, quello della riflessività, le convergenze tra le due prospettive sono altrettanto evidenti. In entrambi i casi la riflessività è tematizzata come parte integrante dei processi di apprendimento e come condizione di apertura al possibile. La riflessività può essere descritta come la capacità della coscienza soggettiva di arrestare il flusso ordinario delle azioni di routine per interrogarsi sul senso dell’azione ed evidentemente per orientarne (o ri-orientarne) il senso. È un punto di vista, questo, che permette di cogliere alcune dimensioni cruciali del modo in cui ci si rapporta alla realtà. Il focus è sempre l’esperienza che ciascuno di noi fa del mondo a partire dal bagaglio di routine e teorie d’azione di cui sempre dispone. Nel corso degli eventi ciascuno è chiamato a misurarsi con quanto emerge in questa sua relazione con il mondo. Così avviene che chiunque avverta più o meno intensamente un certo disagio rispetto alle modalità di svolgimento di un’attività (quale che sia l’ambito in cui essa è inserita), se il suo grado di consapevolezza della problematicità della situazione che sta vivendo è sufficientemente acuto, è in grado di rendersi conto di essere immerso in una contraddizione piuttosto spessa: da un lato infatti sa bene che l’insieme delle routine di cui la sua pratica si nutre fornisce all’azione un certo grado di sicurezza, la quale, a sua volta, garantisce stabilità ed equilibrio; dall’altro, al tempo stesso, “sente” (seppure genericamente e con un’intensità direttamente proporzionale allo stato di disagio) che la persistenza delle routine non riesce a placare l’insoddisfazione che è all’origine del disagio. Un grado più elevato di consapevolezza resa possibile dall’esercizio della riflessività in azione, permette di fare un primo passo verso l’”uscita” dalla contraddizione e ciò è possibile nella misura in cui emerga la capacità di associare al disagio l’idea secondo cui le prestazioni potrebbero essere più soddisfacenti se intervenisse qualche elemento in grado di modificare le routine consolidate. Il disagio diventa così problema percepito e la sua elaborazione intellettuale è il passaggio necessario per verificare, per via esperienziale, la praticabilità di soluzioni utili ad eliminare il disagio da cui si è partiti e per conseguenza, attraverso l’assunzione di una nuova teoria d’azione verificata grazie all’esperienza che si è fatta della sua efficacia ed utilità, a ristrutturare il campo delle conoscenze (teoriche e pratiche) di cui si dispone. La riflessività, qui tematizzata come pratica soggettiva che di fatto coincide con l’apprendimento, si configura secondo modalità analoghe anche nell’esperienza dei gruppi (e ancora di più in quelli che come le CdP sono accompagnate da attenzione e cura costanti). Non può sfuggire da questo punto di vista, la rilevanza cruciale della riflessività e il suo tratto di esperienza di inter-medietà che prefigura, anticipa e genera il possibile.
Transitando per il territorio della narrazione come campo sul quale le pratiche formative possono misurare la loro capacità di collocarsi in uno spazio intermedio ricco di possibilità di apprendimento si può notare che, così come la prospettiva della betweenness segnala la potenza di cambiamento implicita nell’uso delle narrative all’interno di processi formativi aperti all’”ignoto”, anche l’analisi di esperienze concrete di CdP segnala come, nel dispiegarsi delle dinamiche (esperienziali, relazionali e situate) dello svolgersi delle pratiche, l’intreccio di improvvisazione e narrazione (Brown, Duguid 2001 pp. 90-92) costituisca (e il caso dei tecnici della Xerox al quale ho fatto ripetutamente riferimento lo mostra molto chiaramente) un elemento cruciale non solo per la condivisione dell’esperienza e la circolazione di soluzioni tecniche efficaci, ma anche per la costruzione di significati comuni che nel loro insieme delimitano lo spazio del riconoscimento reciproco e al tempo stesso permettono la costruzione sociale dell’identità del gruppo. Attraverso l’improvvisazione da intendere anche come parte integrante della loro creatività (in quanto esprime capacità di adesione e di adattamento al problema da affrontare e risolvere), gli attori fanno fronte ad impreviste (ed improvvise) situazioni problematiche della loro pratica rispetto alle quali il bagaglio delle risposte di routine non è sufficiente per lo svolgimento ordinario del compito: procedendo per prova ed errore inventano soluzioni nuove ai problemi e in tal modo apprendono e generano nuova conoscenza utile alla loro pratica. La narrazione - che gli attori sviluppano informalmente scambiandosi racconti di esperienze di soluzione dei problemi legati alla loro attività – rende possibile l’attribuzione di significato all’esperienza nella misura in cui il racconto di un evento non solo trova - attraverso la riflessione e la sua ricostruzione secondo un ordine logico - una formalizzazione ed una cristallizzazione utile per il futuro, ma riesce anche ad essere comprensibile agli altri e a diventare parte integrante della memoria collettiva del gruppo e della sua identità.
Passando infine ad esplorare il territorio della responsabilità, si può sottolineare come questa dimensione, che è parte integrante di entrambe le prospettive prese in esame, al pari di quelle fin qui brevemente enunciate, rinvia al fondamento relazionale della CdP, alla reciprocità degli impegni (anche taciti) che gli attori implicati assumono nei confronti di se stessi e degli altri. Questa prospettiva, mentre da un lato consente di liberare il significato di “responsabilità” dalla morsa del senso comune (che veicola essenzialmente l’idea di colpa o quella di dovere), lo restituisce alla autenticità della sua origine: la responsabilità è capacità di respondēre, di dare risposte agli altri su una promessa o su un impegno. Da questo punto di vista, “La responsabilità si configura come modalità esistenziale del soggetto. L’essere-con-altri, il carattere intersoggettivo dell’esperienza umana diventa il suo fondamento. […] Il rapporto intersoggettivo possiede una propria condizione intrinseca da cui origina sia il senso di responsabilità verso l’altro […], sia la relazione profonda dell’attore con se stesso e le proprie scelte” (Leccardi 2007, p. 112). Ecco perché è necessario, come opportunamente sottolinea Varchetta, “…considerare la responsabilità meno come una risposta su qualcosa di specifico e più come una risposta a qualcuno in particolare” (Varchetta 2007, p. 130). Così concepito, l’esercizio di responsabilità configura, tra l’altro, una dinamica riflessiva che impegna il soggetto in un rapporto ininterrotto con il proprio agire e con l’esperienza intersoggettiva rendendo concreta ed efficace quell’apertura al possibile che costituisce il tratto distintivo tanto della prospettiva betweenness quanto del costrutto di comunità di pratica.

Riferimenti bibliografici

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1 Il costrutto “comunità di pratica” nasce nei primi anni Novanta del ‘900 nell’ambito degli studi sull’apprendistato di Etienne Wenger e di Jean Lave culminati in un lavoro (Lave, Wenger 2006) nel quale i due autori rovesciano l’assunto consolidato nelle credenze di senso comune secondo cui l’apprendistato si fonderebbe su una relazione speciale tra maestro e allievo, e mettono in evidenza il fatto che l’apprendimento graduale di una competenza si basa su un processo sociale di partecipazione ad una pratica che configura un set di relazioni tra il novizio e gli altri membri del gruppo, tra il novizio e la pratica, tra il novizio e la cultura del gruppo. Fin da queste prime elaborazioni il concetto di CdP si viene sempre più configurando come una teoria sociale e situata dell’apprendimento e, nel tempo, si consolida con i successivi lavori di Wenger (2006) e di Wenger et alii (2007) accreditandosi come uno degli sviluppi più interessanti delle elaborazioni legate al filone interpretativo che considera le organizzazioni degli insiemi caratterizzati dalla loro capacità di apprendimento.
2 Le prospettive metodologiche aperte dagli studi sulle comunità di pratica sono direttamente legate agli sviluppi della ricerca che, nell’arco degli ultimi quindici anni, impegnano studiosi – Wenger in primo luogo – e molti consulenti in un lavoro di rielaborazione in chiave metodologica del concetto di CdP che da schema analitico-descrittivo delle forme dell’apprendimento situato si trasforma in punto di riferimento per quanti, nel mondo delle organizzazioni, sono interessati alla valorizzazione delle esperienze informali di sviluppo autonomo sul lavoro delle risorse professionali. Le “tendenze applicative” in uso nelle organizzazioni sono associate alla prospettiva dell’intervento finalizzato a supportare le dinamiche locali dell’apprendimento e il miglioramento delle prestazioni professionali. Sulle prospettive metodologiche orientate alla costruzione di CdP, si veda innanzitutto il contributo fondativo di Wenger et alii (2007). Per ulteriori sviluppi dell’elaborazione di Wenger cfr.: Lipari 2012; Lipari, Valentini 2013; Lipari, Scaratti 2014.