Oggi, più che mai, nella formazione si avverte la necessità di un definitivo transito da un pensiero e da una pratica “oggettivante” a una centrata sulle relazioni. La ricerca neuroscientifica, confermando molte intuizioni precedenti, fornisce attualmente evidenti prove sul fondamento naturale della relazionalità, su come l’intersoggettività costituisca la base della condizione umana e sulla reciprocità quale carattere distintivo di ogni esperienza. Soggetto e oggetto, interno ed esterno, affettività e cognizione, insegnamento e apprendimento sono solo descrizioni verbali di aspetti legati ad uno stesso costrutto di base: la relazione e l’apertura verso l’altro. Caratterizzati da una costitutiva “matrice relazionale” siamo chiamati ad elaborare strategie connettendo le risorse che abbiamo a disposizione, tessendo trame nella fitta rete di interdipendenze nella quale siamo immersi. La formazione deve oggi saper prendere le distanze da una visione dell’apprendimento basata sulla trasmissione ed affermare senza esitazione che anche alla base dell’apprendimento vi è la relazione.
Nella relazione non c’è certezza, sequenzialità, linearità ma il possibile e il progetto si propongono come poli attorno ai quali pensare l’esperienza formativa. Il possibile si contrappone al prevedibile, al già dato, a ciò che è determinato. Torna alla mente l’imperativo etico di Heinz von Foerster: “agisci sempre in modo di accrescere il numero totale delle possibilità di scelta”. Seguendo questa traccia, la formazione può orientarsi verso una strategia di continua creazione di possibilità percorrendo i territori della cura, dell’attenzione, della riflessività, della narrazione, della creatività e della responsabilità. Sono questi i “territori della betweenness”, dell’intermedietà, in cui considerare la persona-che-cambia al di là di ogni tentativo di controllo.
Sono territori che con Giuseppe Varchetta in questi ultimi anni abbiamo provato ad approfondire nel testo La formazione tra realtà e possibilità (Guerini Next, Milano, 2014, prefazione di Silvano Tagliagambe) tracciando un ipotetico viaggio tra quelle pratiche che, attraverso rotte incerte e strade faticose, si orientano ad assumere le relazioni come fondamento e scorgere nuovi connessioni nel tentativo di tracciare nessi, sottili fili rossi, che cercano di riconnettere saperi ed esperienze, di ibridare codici e linguaggi.
Il percorso comincia con la cura per il suo essere struttura dell’esistenza, per la sua dimensione radicata e originaria. La cura rimanda contemporaneamente sia ad aspetti di effettività, di “ciò che si è”, che ad aspetti di possibilità, quindi di “poter essere”, che connotano qualsiasi esperienza educativa. Aver cura, quindi, significa investire nell’apertura del possibile, rendendosi disponibili all’imprevisto e all’inatteso. Il transito verso l’attenzione e la riflessività, territori prossimi e contigui, ci consegnano alla possibilità di un continuo tornare su noi stessi, di una incessante attività di selezione, ma anche di un sospendere il pensiero e lasciarlo disponibile per progettare il futuro. Un processo di apprendimento “all’altezza dei tempi” riesce ad aprirsi all’interrogazione incessante, alla ricerca ossimorica della molteplicità nell’unità, a sopportare ciò che non è ancora definito. L’azione formativa deve essere in grado di sostenere l’attenzione, da ad-tendere ossia la capacità di tendere verso, e nello stesso tempo di alimentare la disposizione riflessiva che consiste nella continua interrogazione su se stessi. Attenzione e riflessività permettono di connettere in un territorio intermedio azione-pratica ed esperienza, sperimentando l’accesso ad una terra di frontiera e di scoperta soggetta alle variazioni dinamiche di un sé erratico, conteso da motivazioni profonde diverse. La narrazione è considerata come occasione per attribuire senso e significato alla realtà, come momento di ricostruzione dell’esperienza e di connessione tra conoscenza e azione, tra dimensioni individuali e collettive. La narrazione, atto del raccontare storie, rinvia sempre alla relazione e la formazione è sempre narrativa. Nella loro relazione gli attori si raccontano cercando di giungere a rappresentazioni della realtà culturalmente negoziabili attraverso la via faticosa e incessante della ricerca di significato. Ed è proprio nella rottura della continua ricerca di senso e significato che emerge la creatività, territorio nel quale sperimentare la provvisorietà degli equilibri raggiunti per generare ciò che è assente, per dare corpo al possibile. La riflessione attorno alle condizioni che facilitano la disposizione a “tendere all’oltre” deve comunque partire dalle relazioni e dalle prassi quotidiane per concepire le storie individuali e collettive non come un destino, ma come un progetto, una scoperta e un’invenzione. L’ultimo approdo è la responsabilità intesa come relazione tra persone che domandano e rispondono, come responsabilità verso noi stessi e verso gli altri. La responsabilità rinvia al fondamento relazionale dell’azione formativa e alla reciprocità degli impegni che gli attori si assumono. I fallimenti della formazione “depositaria” rendono necessaria una concezione aggiornata della responsabilità che riconosce la possibilità di costruire la propria identità nel rapporto con l’altro e dalle relazioni in cui si è coinvolti. La responsabilità è costitutivamente relazionale: è nello stesso tempo manifestazione dell’individualità ma anche segno della socialità, essa emerge dall’intreccio tra autonomia e interdipendenza, tra sé e altro da sé. Essa riguarda sempre la relazione con l’altro, con gli altri, ed anche con l’alterità dell’avvenire: la formazione si preoccupa infatti di pensare a un “ad-venire”, per il quale non è possibile darsi alcuna caratteristica di completezza o di esaustività. L’approdo alla responsabilità è anche allo stesso tempo un ritorno al territorio di partenza nel quale la cura dell’altro e del mondo può aversi solo se accompagnata dalla cura del sé.
Nell’intendere la formazione come una pratica dell’intermedietà abbiamo cercato di sottolineare il suo essere processo di continua e ricorsiva interazione, caratterizzato da un elevato grado di flessibilità e di apertura, tra diversi livelli: tra interno ed esterno, tra soggetto e oggetto, tra realtà e finzione. I ruoli degli attori implicati nel processo formativo si ribaltano di continuo, donandosi reciprocamente senso. Così anche il rapporto tra insegnamento e apprendimento non può essere definito dalla sequenzialità di un contenuto insegnato da qualcuno e appreso da qualcun altro, ma dall’interdipendenza e dal dover sempre assumere una posizione di dialogo. È una relazione che non si qualifica con un trattino (-) ma con uno slash (/), un between, che tiene insieme pur considerando la distanza e le reciproche asimmetrie degli attori coinvolti. Abitare i “territori della betweenness” richiede di pensare un’azione formativa capace di far fare spola tra l’interno e l’esterno, il soggettivo e l’oggettivo, il concreto e l’astratto, il singolare e il generale. Sono per loro natura territori della relazione e dell’alterità, e quindi dell’ambiguità, dell’incertezza e del conflitto. Lavorare in questi territori richiede l’abbandono dell’idea di completezza ed esaustività di qualsiasi azione formativa e l’allontanamento dalla ricerca di una finalità di ogni apprendimento. Richiede di privilegiare l’attesa e non la pretesa (“Attesa” è il titolo della fotografia di copertina di Varchetta che abbiamo scelto per questo numero), di sostenere una ricerca erratica ma non per questo senza valore, richiede la coscienza della propria fragilità e vulnerabilità mentre si riconosce la forza dell’essere aperti al possibile e per questo continuamente in fieri. Richiede di scoprirsi viaggiatori esposti alla contingenza, agli scarti, alla varianza, allo stupore e a una continua ristrutturazione del sapere. Richiede in altre parole di intraprendere il cammino verso una epistemologia dell’intermedio in cui considerare il valore della discontinuità, dei breakdown, degli inattesi mantenendo aperta una tensione tra l’esistente e il possibile, tra “ciò che si è” e “ciò che si può divenire”. Perché come ci ricorda Robert Musil in L’uomo senza qualità se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità”.
Ed è all’ipotesi della formazione come pratica dell’intermedietà che è dedicato questo numero di Formazione & Cambiamento. Così Luca Mori presenta l’apprendimento come attraversamento di mondi intermedi; Domenico Lipari rilegge il costrutto di comunità di pratica attraverso la lente della betweenness; Ugo Morelli esplora la relazione tra creatività, innovazione e le possibilità dell’educazione nella cura della disposizione a “tendere all’oltre”; Giuseppe Varchetta ci racconta una storia in cui due attori sembrano sperimentare la bellezza di costruire una storia possibile.