Nel campo delle scienze sociali è ormai da tempo riconosciuta la rilevanza della narrazione (e più in generale dell’opera letteraria) non solo per il suo contributo alla conoscenza dei fenomeni sociali (dei quali spesso fornisce interpretazioni di particolare precisione ed efficacia: molti classici della letteratura esibiscono uno spessore analitico di tutto rispetto e comunque molto più penetrante della maggior parte dei resoconti di ricerca condotti secondo stilizzazioni che rispondono all’ortodossia dell’argomentazione scientifica), ma anche per l’influenza esercitata sul terreno della produzione dei testi che danno conto degli esiti del lavoro di ricerca sul campo (da quest’ultimo punto di vista, è fondamentale il ruolo della cosiddetta “svolta narrativa” nelle scienze sociali riconducibile a Lyotard e a Bruner che, mentre mette in discussione le modalità classiche dell’esposizione dei dati di ricerca,  rivaluta e rilancia l’importanza della scrittura e, in particolare, della sua capacità di rendere narrativamente dense le descrizioni degli oggetti d’indagine).

Il terreno più fertile per lo sviluppo di una simile prospettiva è certamente l’etnografia –  da considerare come metodo di lavoro sul campo e, al tempo stesso, come il resoconto scritto dei risultati di tale lavoro. Essa accomuna l’attività degli antropologi e dei sociologi che privilegiano nella loro attività gli approcci qualitativi di ricerca e trova nella letteratura un punto di riferimento e una fonte d’ispirazione di notevole importanza (basti pensare, tra i classici, a Zola, Balzac, Maupassant e, tra i contemporanei, a Céline, Primo Levi e a tanti altri).

Se dunque l’interesse delle scienze sociali (e del metodo etnografico in particolare) per la narrazione come punto di riferimento per il lavoro scientifico è un fenomeno abbastanza consolidato, c’è da notare come da qualche tempo, nella letteratura, si stia manifestando una tendenza piuttosto singolare ad assumere come focus tematici privilegiati le modalità e i contesti di lavoro dell’etnografia (e degli etnografi). Un caso esemplare di un simile orientamento è il romanzo Euforia di Lily King (ho avuto modo di parlarne nella recensione pubblicata sul n. 4 di “Formazione & Cambiamento”) che racconta le vicende di tre giovani antropologi (due di loro diventeranno famosi ed avranno una notevole influenza nelle scienze sociali del Novecento) e del loro lavoro di ricerca in un contesto particolarmente problematico.

Altrettanto interessante è il romanzo di Mischa Berlinski Ricerca sul campo che vorrei segnalare all’attenzione dei lettori per la sua ricchezza di personaggi, di luoghi, di situazioni e di storie che corrono in parallelo per convergere in un ordito narrativo di grande spessore  –  il tutto reso con una freschezza di scrittura sorprendente e con una particolare capacità di intrecciare e mescolare insieme suggestioni narrative e lavoro di ricerca, descrizioni dense di contesti “esotici”, di riti locali e passioni intensamente vissute dai protagonisti.
L’io narrante è Mischa Berlinski, l’autore del romanzo che, seguendo la sua compagna trasferitasi in Thailandia per ragioni di lavoro, immagina di poter trascorrere in quel paese un lungo periodo di riposo interrotto di tanto in tanto da qualche corrispondenza giornalistica e da qualche incursione esplorativa in aspetti particolari della cultura locale. Ma come spesso accade, anche nel caso di Mischa, il legame tra le intenzioni soggettive e le vicende reali della vita è piuttosto debole: il suo programma è letteralmente sconvolto da due fattori cruciali che intervengono ad indirizzare altrimenti la sua permanenza in Thailandia.

Da un lato il caso che porta Mischa ad imbattersi in un evento insolito non meno che misterioso: la vicenda di Martiya van der Leun (un’antropologa americana impegnata da anni in una ricerca sul campo condotta su una tribù che vive sulle montagne del Nord del paese) suicidatasi nel carcere thailandese dove scontava una condanna per omicidio. Dall’altro, la curiosità per una vicenda piuttosto oscura ed ingarbugliata che innesca una pulsione ossessiva orientata a scoprire le ragioni dell’epilogo drammatico della vita della ricercatrice e, al tempo stesso, a ricostruire la fitta trama delle vicende che hanno generato un simile esito.

È soprattutto la curiosità, quella particolare facoltà della mente – sostenuta da una spinta emotiva intensa e costante – grazie alla quale siamo portati ad interrogarci sul senso e sul perché dei fenomeni, che porta Mischa alla ricerca spasmodica di qualsiasi indizio che possa svelare i dettagli del crimine commesso dalla studiosa. Esattamente come farebbe un esperto ricercatore, si impegna in un lavoro on the field sistematico ancorchè caotico e senza precisi orientamenti informativi che vadano oltre le scarne notizie che muovono la sua curiosità iniziale. Si trova così immerso in un lavoro di raccolta di testimonianze, lettere, ricordi dai quali a poco a poco affiorano i tratti sempre più precisi della misteriosa antropologa (e della sua tormentata biografia) e si delinea il processo (a sua volta orientato da curiosità per l’”esotico”), che l'ha spinta nella Thailandia periferica per studiare la tribù dei Dyalo e in particolare il dyal, il loro rituale della semina del riso. L’ostinata ricerca di Mischa giunge, al culmine di un lavoro puntiglioso e sfibrante, a ricostruire (e svelare) il puzzle complicatissimo di eventi, motivazioni e storie in cui spicca non solo la vicenda esistenziale tormentata di Martiya, ma anche la fitta trama dei legami tra la donna e la famiglia della sua vittima, i Walker, missionari di origine americana che da tre generazioni vivono in Asia spostandosi da un paese all’altro in attesa della fine del mondo.
Il tratto di maggior interesse del libro – oltre ai suoi numerosi pregi non ultimi quello di una scrittura fresca e brillante e quello di un ritmo narrativo coinvolgente – è costituito, a mio modo di vedere, dalla costruzione stessa del racconto che ci propone la storia di due ricerche sul campo diacronicamente distinte, ma che si rincorrono e si incrociano intrecciandosi più volte: la ricerca di Martiya sui Dyalo e sui loro riti magici (che finiscono per coinvolgerla al punto da dimenticare il suo compito di studiosa per confondersi con il suo “oggetto” di studio) da un lato e, dall’altro, la ricerca di Mischa su Martiya, sulle sue vicende personali, sulla sua storia professionale e sulle sue scelte scientifiche ed esistenziali.

Da questo punto di vista, ciò che rende Ricerca sul campo stupefacente e assolutamente da leggere è la capacità dell’autore di proporci un testo che, senza nulla togliere alla forza espressiva e alla costruzione dell’ordito della narrazione, fa trasparire (mai esibita, ma nettamente percepibile –  sia pure in filigrana) una robusta competenza metodologica che propone un’ulteriore chiave di lettura: il romanzo è anche una brillante etnografia dotata di un retroterra “tecnico” di notevole spessore.