Il recente volume sulle soft skills curato da Marina Pezzoli per Franco Angeli è un contributo che arricchisce ulteriormente il dibattito sui temi dell'industria 4.0 in atto nel nostro paese da alcuni mesi – alimentato tra l’altro, dalle ipotesi innovative contenute nel “Piano Nazionale Impresa 4.0” che prevedono rilevanti incentivi per la formazione in azienda (su questo cfr. l’ottima sintesi giornalistica di Fabrizio Patti su “L’InKiesta” del 21 sett. 2017) – ed è un ottimo pretesto per recuperare su un terreno del tutto nuovo il tema delle competenze che per molti anni ha interessato il dibattito sulla formazione.

Che le soft skills fossero già al centro dell’attenzione nelle interpretazioni più lungimiranti delle dinamiche delle società contemporanee, dell’evoluzione delle forme organizzative e delle caratteristiche del lavoro è un dato di fatto acquisito da tempo tra gli addetti ai lavori più avveduti. Basterà ricordare le grandi analisi che, tra gli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, hanno descritto l’avvento del postindustriale (e penso alle “profezie” sociologiche di Bell, Touraine, Toffler, Crozier) individuando alcune delle macro-tendenze che costituiscono i tratti più rilevanti delle società contemporane: (i) centralità economica dell'alta tecnologia e dei servizi; (ii) globalizzazione delle relazioni e degli scambi e dei fenomeni culturali; (iii) instabilità dei mercati con conseguente crisi di ogni ipotesi di pianificazione di lungo periodo della produzione; (iv) crucialità dei processi di generazione, acquisizione, trasformazione e distribuzione delle conoscenze. Emerge a tutto tondo, già da quelle prime analisi, la rilevanza, per le organizzazioni maggiormente esposte alla competizione internazionale, della capacità di innovare e di trasformare. E poiché l'innovazione è in larga misura legata alla possibilità di generare nuova conoscenza a partire dall'esperienza accumulata nelle pratiche lavorative, risulta evidente quanto sia prioritaria l’attenzione alla conoscenza e all'investimento in ricerca e in saperi innovativi.
L’insieme di questi fenomeni interessa la produzione e la riproduzione del sapere sociale disponibile e configura dinamiche e processi di inedita complessità che riguardano in primo luogo la stabilità e la persistenza temporale delle conoscenze. Esse hanno perso la solidità di un tempo, attraversate come sono da incessanti processi di trasformazione e di continua messa in discussione.
Siamo dunque immersi in un processo ininterrotto di cambiamenti la cui accelerazione – con maggior evidenza negli ultimi 10 anni – ha sconvolto il panorama delle nostre realtà sociali prima ancora che aziendali ed organizzative (con conseguenze rilevanti sia sul versante delle economie dei paesi, sia su quello dei destini occupazionali e quindi esistenziali di molti milioni di persone).

È questo il quadro di riferimenti entro cui collocare il discorso sulle soft skills (o competenze relazionali, come preferirei definirle in quanto tale formulazione mette al centro la capacità dei soggetti di entrare flessibilmente in relazione, quale che sia il contesto in cui agiscono, con tutte le “realtà” individuali, collettive, materiali e immateriali che la vita organizzativa quotidianamente propone).

Su questo terreno il volume collettaneo curato da Pezzoli raccoglie una serie di contributi che riflettono – a partire dai dati di un’indagine su un certo numero di aziende del nord-est commentati nel contributo firmato da E. Cerni e M. Vianello – sui cambiamenti che hanno sconvolto il mondo del lavoro sotto la spinta dei fenomeni ai quali ho fatto riferimento e, soprattutto, in seguito alla grave e lunga crisi economica che nell’ultimo decennio ha investito il pianeta. Le imprese che sono riuscite ad emergere con successo dal tunnel della crisi sono quelle che hanno saputo fronteggiare adeguatamente le sfide intrecciate del cambiamento e della crisi mettendo in gioco la loro capacità di innovare concentrandosi innanzitutto sulla trasformazione dei modelli organizzativi e sulla centralità delle competenze.
Davanti ai vincoli e alle opportunità del cambiamento, diventava ineludibile il superamento delle forme organizzative tradizionali (basate sulla stabilizzazione delle conoscenze, sulla burocrazia, sulla gerarchia, sulla specializzazione, sull’integrazione verticale/orizzontale, sulla standardizzazione, sul controllo) e l’assunzione di logiche rispondenti alle esigenze del nuovo contesto relazionale, culturale e produttivo della società.

E poiché i tratti salienti dei modelli organizzativi emergenti tendono a privilegiare soluzioni che aiutino a fronteggiare l’instabilità dell’ambiente, la frammentazione dei mercati, la moltiplicazione dei soggetti e che, al tempo stesso, siano in grado di sfruttare i vantaggi connessi alle potenzialità delle nuove tecnologie di produzione, ecco allora prendere forma configurazioni organizzative basate sulla logica reticolare, sul parziale appiattimento delle gerarchie, sulla diffusione della comunicazione orizzontale, sul decentramento delle responsabilità, sul depotenziamento delle separazioni rigide tra settori della stessa organizzazione, sulla valorizzazione della conoscenza e soprattutto sulla centralità delle soft skills, ossia di quelle competenze eminentemente relazionali e sociali che consentono agli individui e alle organizzazioni capacità di adeguamento (ma anche di proattività e di anticipazione) rispetto alle variazioni sempre più frequenti degli ambienti di riferimento.

Il problema cruciale – assumendo l’allarme contenuto nei dati del World Economic Forum di Davos (2016) secondo cui un terzo delle soft skills necessarie nel 2020 oggi non sono considerate strategiche dalle imprese – diventa allora quello di promuovere un processo generalizzato di sensibilizzazione che coinvolga il ventaglio più ampio possibile di attori sociali e istituzionali (dai governi alle forze sociali, dalle scuole alle imprese) e che sappia veicolare l’idea secondo cui nelle condizioni delle società contemporanee l’apprendimento e la  “manutenzione” continua delle competenze (quelle di base certamente, ma quelle relazionali soprattutto), diventa la conditio sine qua non per entrare (e rimanere) nei mercati del lavoro di oggi e dell’immediato futuro.
In sintonia con tale assoluta necessità, il volume curato da Pezzoli ha l’innegabile merito di sollecitare il dibattito e la riflessione sulle nuove professioni – ben sapendo che la riflessione debba essere accompagnata dai necessari svolgimenti in termini di iniziativa e di misure concrete.