Il 2018 è per i Fondi Interprofessionali una data importante e simbolica; infatti i più grandi Fondi compiono quindici anni di operatività. La legge che li ha istituiti è la 388 del 2000 e le prime risorse del gettito dello 0,30% sono arrivate ai Fondi già costituiti ed operativi nel corso del 2003.
Quindici anni è un periodo sufficientemente lungo per tentare di valutare se la missione istitutiva ha raggiunto obbiettivi prefissati e finalità previste: aumentare la pratica della formazione continua tra le imprese e i lavoratori a partire dal loro specifico fabbisogno.
Basta un solo dato per dimostrare che quegli obbiettivi sono stati onorati: tutte le indagini italiane sulla Formazione continua e i confronti internazionali europei constatano che nel quinquennio 2003-2017 sono aumentate decisamente le imprese che fanno formazione continua e i lavoratori che vi partecipano; se all’inizio del secolo eravamo in ambito europeo negli ultimi posti delle classifiche per utilizzo della formazione oggi è possibile affermare che con i Fondi c’è stata un’inversione di tendenza rispetto all’irrilevanza formativa a cui eravamo destinati.
Questo indubbio successo non può essere adombrato dal fatto che nello stesso periodo i finanziamenti regionali tramite FSE siano andati scemando fino a quasi esaurisi nell’ultimo periodo di programmazione: nel periodo in cui Regioni e Fondi hanno operato insieme – ed a volte in concorrenza tra loro, come dimostra il caso della Regione Toscana che ha impedito alle imprese anche solo aderenti ai Fondi di partecipare ad i propri bandi sulla formazione – il trend di crescita delle imprese aderenti è stato continuo, sostanzioso e annualmente «misurato» dai rapporti Isfol, che hanno periodicamente censito e analizzato il gradimento delle imprese.
Facendo qualche dato, i Fondi infatti oggi «raccolgono» in alcune Regioni del nord oltre il 90% delle imprese, e se al sud la percentuale è sicuramente inferiore la media nazionale si aggira intorno al 70%. Da un punto di vista dimensionale quasi tutte le grandi imprese (maggiori di 250 dipendenti) e le medie (fra 50 e 250 dipendenti) aderiscono a un Fondo Interprofessionale; le piccole e le micro (il 90% delle imprese italiane), hanno «scoperto» i Fondi e la loro adesione è in continua crescita. Nell’ultimo Rapporto INAPP sulla formazione continua si evince che il 97,2% delle imprese aderenti ai Fondi ha meno di 50 dipendenti.
Dal punto di vista economico-finanziario i Fondi assorbono oltre il 65% delle risorse dello 0,30%, arrivando ormai ad incassare circa 700 milioni di Euro l’anno – da sottolineare che il Governo dal 2013 decurta le spettanze dei Fondi di 120 milioni l’anno per esigenze di bilancio pubblico. E a riguardo, altro elemento di successo – e che dovrebbe far riflettere il decisore politico – è che questo gettito comunque rilevante non è sufficiente a coprire i fabbisogni delle imprese in quanto tutti i Fondi non riescono a soddisfare le richieste delle aderenti.
In definitiva i Fondi hanno rappresentato e rappresentano tutt’ora un «volano»per l’utilizzo della formazione svolgendo al contempo una funzione di «capacitazione» delle imprese, soprattutto per le più piccole.
Basterebbero queste sole osservazioni per dimostrare che l’intuizione di cedere – di fatto - da parte dello Stato la competenza sulla formazione continua alle parti sociali costituenti i Fondi si sia rivelata un successo, anche se va rilevato che tale constatazione non è unanime nel panorama politico italiano e non mancano osservazioni critiche se non pregiudizi verso l’attività dei Fondi Interprofessionali.
A riguardo vanno analizzati due aspetti, il primo legato alla natura giuridica dei Fondi, il secondo che riguarda le criticità legate al loro modo di operare.
Sul primo punto va chiarito che solo da due anni si è raggiunta una definizione certa (per quanto non condivisa dai Fondi) sulla loro natura giuridica. I Fondi ormai sono considerati «organismi di diritto pubblico», organizzati come strutture private ma che gestiscono risorse pubbliche per fini di bene generale. La questione si era posta già all’inizio della loro attività ed aveva generato diverse e contrastanti pareri giurisdizionali a fronte di una posizione della parti sociali che hanno sempre ritenuto i Fondi strutture private. Si è giunti all’attribuzione delle qualifica definitiva di organismo di diritto pubblico solo a partire dal 2016, con il pronunciamento dell’Anac (Autorità Nazionale Anti Corruzione), ripreso poi dal Ministero del Lavoro e dal Consiglio di Stato poi, il quale ha «speso" questa impostazione in alcune sentenze.
Ora appare singolare che a definire i Fondi come organismo di diritto pubblico sia stata l’Anac e non direttamente il Governo o il Parlamento, i quali non hanno voluto o saputo prendere una chiara posizione in merito.
Per quanto esistano solide ragioni per sostenere che i Fondi siano organizzazioni «private» il fatto che siano invece «pubbliche» crea non pochi problemi alla loro operatività. Recenti disposizioni hanno infatti «imposto» ai Fondi due sole modalità di erogazione delle risorse: il «Conto Formazione», che contente alle imprese di riprendere direttamente l’80% delle risorse versate e gli «Avvisi pubblici». Se il Conto Formazione, di fatto utilizzato dalle medie e grandi imprese, ha procedure semplificate (per dirne una: le risorse non sono sottoposte agli aiuti di stato) gli Avvisi, dedicati alle piccole e alle microimprese, che hanno così la possibilità di utilizzare per la propria formazione risorse più sostanziose di quanto versato in termini di 0,30%, impongono alti costi organizzativi sia per i Fondo che per le imprese.
Da questo punto di vista i Fondi quando operano con avviso pubblico non differiscono in nulla dalle Regioni e sfugge il motivo per cui i Fondi debbano costituirne di fatto un duplicato. Appare evidente che più sono alti i costi che le imprese devono affrontare per vedersi finanziare un piano formativo, più scarso diventa il loro interesse ad aderire e partecipare; e se si aggiunge che proprio nella modalità Avvisi, quella per le pmi e microimprese, questi costi sono addirittura più onerosi, è chiaro che la sopraggiunta «natura pubblica» scoraggia la pratica della formazione. Con il rischio di ritornare come prima: poche grandi imprese che possono autofinanziarsi la formazione e tutte le altre che non la fanno.
Basti affermare che sarebbe bastata una decisa volontà politica e una interpretazione autentica del dettato della legge per dotare i Fondi di funzionalità operative che ne avrebbero moltiplicato gli effetti e i risultati positivi. Le parti sociali comunque non hanno abbandonato questa speranza e si auspica che con la prossima legislatura la questione possa essere ripresa.
Le principali critiche all’operato dei Fondi sono quella di finanziare una formazione che comunque sarebbe stata fatta e di essere poco trasparenti.
Sul primo punto c’è da dire che non si tiene conto di molte evidenze emerse in questi anni. In molti puntano il dito contro il «Conto Formazione», il canale per le grandi imprese: se da un lato viene effettivamente finanziata una formazione che si farebbe comunque, è pur vero che oggi i piani delle «grandi» esprimono in moltissimi casi una forte propensione alla qualità e all’innovazione, anche perché i Fondi, e soprattutto quelli più importanti, promuovono e premiano una formazione trainata dalla domanda, ovvero da ciò che vogliono le imprese. Sul canale degli Avvisi la critica è poi infondata: qui le imprese di media e piccola dimensione ricevono un contributo che non potrebbero permettersi e quindi i Fondi vi svolgono una funzione decisiva. Inoltre è consuetudine dei maggiori Fondi bandire Avvisi Tematici che indirizzano la formazione su temi ritenuti rilevanti e strategici (internazionalizzazione, innovazione tecnologica e organizzativa, etc). In tema di customizzazione è opportuno segnalare l’Avviso 40 di Fon.Coop che, fatto inedito nel panorama della formazione continua, finanzia preliminarmente le analisi organizzative e quelle relative alle competenze dei dipendenti (come assessement e bilanci di competenze) e solo in seguito la formazione che scaturisce dalle analisi; in questo modo si valorizza al massimo un’attività formativa costruita sul bisogno delle singole imprese e delle persone e non la formazione dettata dall’offerta di enti e società di consulenza.
La seconda obiezione relativa alla trasparenza dell’operato sembra anch’essa ingenerosa. È pur vero che nei Consigli d’Amministrazione attuali dei Fondi siedono i rappresentanti delle associazioni datoriali e delle organizzazioni sindacali, ma ciò è tipico delle organizzazioni bilaterali paritetiche, l’espressione più matura e feconda della sussidiarietà orizzontale. Comunque in questi anni i Fondi hanno attuato autonomamente diverse misure a salvaguardia della trasparenza del proprio operato come ad esempio la valutazione ex-ante dei piani formativi assegnati con Avviso affidate ad organismi esterni scelti con gara pubblica; l’adozione di modelli organizzativi conformi alla Legge 231/2000, la certificazione qualità, regole di incompatibilità e assenza di conflitto di interessi. Ma se si volesse far un intervento più radicale nulla impedisce al legislatore di adottare con le dovute specificità un modello di governance duale con un Consiglio di Amministrazione di poche persone formato da tecnici e un Consiglio di Sorveglianza in cui siedano i rappresentanti delle parti sociali che detta gli obiettivi annuali e controlla l’operato del Consiglio di Amministrazione. È una misura tutto sommato di facile applicazione che richiede solo qualche modifica statutaria e precisi regolamenti interni. In questo modo i rappresentanti delle parti sono sganciati dalla gestione dei Fondi e si dovrebbero dedicare esclusivamente ad elaborare gli obiettivi strategici e a controllarne la loro realizzazione.
Un intervento siffatto potrebbe auspicabilmente inquadrarsi in un disegno di regole di più ampio respiro, espressione della volontà del Legislatore di valorizzare l’esperienza dei Fondi e amplificarne la presenza.
Nel prossimo futuro infatti i Fondi sono chiamati ad affrontare almeno tre grandi questioni: le politiche attive del lavoro, il diritto alla formazione e la certificazione delle competenze dei lavoratori.
Com’è noto infatti, i Fondi sono stati inclusi dal decreto legislativo 150/2015 nella rete degli organismi delle politiche attive del lavoro; è lo stesso decreto che ha costituito l’Anpal (Agenzia Nazionale per le Politiche del Lavoro) come organismo del Ministero del Lavoro che controlla i Fondi. Tuttavia, pur essendo trascorsi alcuni anni, né l’Anpal o il Ministero del lavoro, e né francamente le parti sociali, hanno proposto o elaborato idee sul tema. Per un’efficace attività dei Fondi in tema delle politiche attive del lavoro, o per meglio dire in tema di transazioni lavorative, occorre sicuramente modificare l’attuale legge istitutiva dei Fondi e successivamente adeguarne gli statuti; solo in questo modo infatti i Fondi, pur continuando a finanziare la formazione continua degli occupati, potrebbero interessarsi di tutte le transazioni lavorative (inserimenti lavorativi, formazione per situazioni di crisi con personale in mobilità, etc.). Sembra un passo necessario anche in relazione sia alla riforma avviata dall’Anpal e dal Ministero dei centri per l’impiego, sia all’evoluzione del quadro giuridico-amministrativo delle politiche attive. Si rammenta infatti che la riforma costituzionale, bocciata dal referendum del 4 dicembre 2016, riportava allo Stato la competenza esclusiva delle politiche attive del lavoro, mentre adesso si assisterà di nuovo a un eccessivo decentramento di questa competenza, come per esempio sta avvenendo nell’accordo preliminare per una maggiore autonomia regionale siglato nel febbraio di quest’anno, fra lo Stato e le regioni Veneto, Lombardia ed Emilia, che sancisce la competenza esclusiva delle regioni in tema di politiche del lavoro. In questa situazione o l’azione dei Fondi viene adeguata o la previsione del decreto legislativo 150 rimarrà lettera morta
Il secondo tema è quello di affermare un diritto individuale dei lavoratori alla formazione e non di continuare a considerare la formazione continua come una competenza esclusiva delle direzioni aziendali - al massimo mediata con la concertazione con le organizzazioni sindacali dei piani formativi. Un diritto individuale alla formazione garantirebbe interventi formativi a tutta la popolazione aziendale e non solo a quella scelta dalle direzioni e che generalmente corrisponde alla frazione forte più garantita dei lavoratori; si garantirebbero segmenti di popolazione meno protetti in fase di crisi aziendali come over 50 e donne; e d’altra parte solo un diritto individuale, declinato in opportune forme può contribuire al mantenimento delle competenze dei singoli lavoratori e alla spendibilità di queste competenze sia all’interno delle aziende che all’esterno sul mercato del lavoro. Su questa via si stanno avviando ad esempio i Fondi Interprofessionali francesi con la discussione di alcune importanti riforme e adeguamenti legislativi.
Il tema del diritto alla formazione è strettamente connesso alla certificazione delle competenze acquisite tramite la formazione all’interno delle imprese. È ancora un tema poco affrontato dai Fondi interprofessionali, sia perché non tutte le Regioni hanno normato le pratiche di certificazione delle competenze, sia per una certa riluttanza delle direzioni aziendali ad affrontare il tema. Eppure appare ovvio che solo la certificazione delle competenze può fornire al lavoratore quei titoli che può spendere sia in azienda che sul mercato del lavoro.