Tra il 2016 e il 2017 il mondo dei fondi interprofessionali è stato oggetto di interventi, da parte di diversi organismi pubblici, da cui è emersa una carenza normativa in tema di assegnazione e gestione delle risorse ai soggetti attuatori. I richiami delle autorità pubbliche fra cui Consiglio di Stato, Anac, Ministero del lavoro e Anpal hanno segnato in qualche modo una cesura rispetto alle consuetudini fin qui adottate e la necessità di una riformulazione delle regole di settore. In particolare i chiarimenti sulla natura e sulla funzione dei Fondi sembrerebbero conformarli alle procedure che normalmente sono attivate dalle Regioni per l’assegnazione delle risorse pubbliche.
Accanto al dibattito sulle modifiche normative, che contribuirà probabilmente nei prossimi anni a ridisegnare gli assetti di policy e gestionali del fenomeno, è utile interrogarsi su che tipo di considerazione le imprese hanno maturato nell’esperienza dei fondi interprofessionali e quali prospettive potrebbero aprirsi nel prossimo futuro.
In Italia nel 2015 (ultimo dato complessivo disponibile) è stato coinvolto in una qualsiasi attività formativa il 7,3% della popolazione adulta (25/64 anni) pari a 2,5 milioni di persone (tutti i dati sono relativi a Fonte XVII Rapporto Formazione Continua, INAPP se non diversamente indicato). Rispetto alla media europea l’Italia si posiziona al 16° posto, ancora lontano dalla media del continente (-3,4%) e molto lontano dalla media di benchmark (-7,7%). Tutti i più grandi paesi dell’Unione – Francia, Germania, Regno Unito, Spagna -  occupano posizioni decisamente migliori. È da notare che rispetto al 2014 la partecipazione degli adulti ad attività formative nel nostro paese ha subito una contrazione di circa 240.000 unità pari allo 0,7% in meno. In particolare diminuiscono gli adulti occupati che partecipano a corsi di formazione professionali organizzati dai datori di lavoro (-121.000). In ogni caso il gruppo che partecipa maggiormente ad attività formative è rappresentato dagli occupati con un tasso del 7,6% del totale degli adulti del Paese. I più assidui risultano i giovani tra i 25 e i 34 anni con una partecipazione pari al 9,4% della popolazione occupata, mentre il dato si assottiglia con il crescere dell’età fino al 6,1% degli over 55.
Sul versante delle aziende i dati tracciano un panorama ambivalente. Il numero delle imprese che hanno investito in formazione diminuisce di oltre due punti percentuali, passando dal 23,1% del 2014 al 20,8% del 2015 (Excelsior, Unioncamere). La crescita della propensione formativa delle aziende aveva raggiunto l’apice nel 2011 con più di una azienda su tre coinvolte (35%) per poi cominciare a scendere dal 2012. Occorre tuttavia aggiungere che i dati 2016 del Sistema informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere in collaborazione con Anpal - pubblicati nei giorni di stesura del presente articolo -, illustrano un’inversione di tendenza con il 27% delle aziende impegnate in attività di formazione continua (+6,2 rispetto al 2015). Osservando i dati 2016 disaggregati per dimensione dell’organico aziendale, si può notare come tutte siano in crescita in particolar modo le Piccole imprese (11-49 dipendenti) passano dal 30,6% del 2015 al 42,9% del 2016 (+42%). Anche le micro imprese – che sono sempre state fanalino di coda, e lo rimangono – crescono del 31% passando dal 16,5 al 21,6%.
Diverso appare l’andamento della formazione aziendale sotto il profilo settoriale. Solo il 24,3% delle aziende di servizi investe in formazione, mentre lo fa il 32,3% delle aziende industriali. Le aziende manifatturiere offrono uno timido 29,3%, le aziende di public utilities si attestano al 41% e le costruzioni al 36,1%. Tra le aziende di servizi sono quelle dei servizi alla persona ad investire di più nella formazione con il 32%, tallonate dai servizi per le imprese al 31,5. Seguono a ruota il commercio con 21% e il turismo con il 16%.  Rispetto al 2015 tutti i settori sono in crescita ma in special modo le costruzioni con aumento del 66%. Anche la ripartizione territoriale conferma una crescita diffusa su tutto il territorio nazionale mantenendo, tuttavia, le diversità tra nord e sud.
In conclusione, se da una parte vi è una positiva inversione generale di tendenza rispetto al 2015, occorre notare che siamo ancora lontani dal 35% del 2011, anno di maggiore penetrazione della formazione nelle aziende italiane dal 2000 ad oggi.
È da osservare che l’incremento delle aziende formatrici tra il 2006 e il 2012 è merito  senz’altro ai fondi interprofessionali che, nati di fatto nel 2004, hanno contribuito allo sviluppo della formazione continua. Tuttavia, alla luce dei dati precedentemente citati, notiamo che l’onda lunga dei fondi si è affievolita, e dal 2012 è iniziata una ripida discesa di 15 punti percentuali delle aziende formatrici. Il 2016 potrebbe però rappresentare un’inversione di tendenza e una contestuale ripartenza dopo quattro anni di costante declino. Allora la domanda alla quale dovremmo rispondere è: come stabilizzare questa nuova ripresa per evitare che resti solo una fase congiunturale? Come i fondi interprofessionali possono contribuire al consolidamento del fenomeno formativo aziendale?
Il sistema dei fondi interprofessionali rappresenta infatti lo strumento più utilizzato per il finanziamento della formazione nelle aziende italiane, sia perché la Legge n. 236/1993 e la Legge n. 53/2000 sono state di fatto «congelate» o del tutto cancellate (almeno nella parte di finanziamento alle Regioni), sia perché il FSE ha dei meccanismi di finanziamento un po’ più rigidi e complessi rispetto a quelli dei Fondi.
Dai dati Istat risulta che in relazione alle aziende attive nel Paese nel novembre 2016, quasi due su tre (1,77) risultano iscritta ad un fondo (911.286 su 1,62 milioni al netto dei liberi professionisti e autonomi). Tra gli aderenti, le micro imprese si confermano il bacino principale attestandosi all’83,5% in opposizione ad uno 0,4% delle grandi imprese, al 13,7% delle piccole e al 2,3% delle medie. Considerando i dati sulle aziende totali iscritte e confrontandoli con i dati Istat delle aziende attive emerge che le grandi e le medie hanno aderito nella quasi totalità ai fondi, mentre le piccole solo al 71%. Le microimprese restano il fanalino di coda con solo il 54% delle adesioni. Considerando anche le aziende prive di dipendenti, e che quindi non versano lo 0,30% all’Inps, resta comunque ancora molto lavoro da fare per la diffusione dello strumento nel tessuto imprenditoriale italiano.
Sul fronte delle attività formative realizzate con i fondi interprofessionali emerge che i piani formativi approvati nel 2015 sono stati circa 30mila, le imprese oltre 60mila con il coinvolgimento di 1,8 milioni di partecipazioni di lavoratori. Il costo dei piani è pari a quasi 816 milioni di euro.
Entrando nel merito della dimensione qualitativa, la distribuzione delle finalità dei piani approvati continua ad essere concentrata su tre temi: il mantenimento/aggiornamento delle competenze (30%), seguito dalla competitività d’impresa e innovazione (29%) e dalla formazione obbligatoria, quest’ultima pari al 12,6% dei piani e al 17,9% dei partecipanti.  Rispetto all’anno precedente si denota una lieve diminuzione della formazione obbligatoria a vantaggio delle altre due finalità. In riferimento ai progetti contenuti nei piani, la tematica formativa della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro continua ad essere di gran lunga più ricorrente in più di un progetto su tre (34,6%) e  coinvolge il del 32% dei lavoratori. Al secondo posto si colloca lo sviluppo delle abilità personali con il 18,8% dei progetti e il coinvolgimento del 22,8% dei lavoratori totali.
Il dibattito sull’efficacia delle attività svolte con i fondi interprofessionali, sulla loro organizzazione e sulla loro eventuale riforma o comunque rivisitazione è presente ormai da qualche tempo tra gli  addetti ai lavori che tra i policy maker. I temi sul tavolo sono incentrati sulla correttezza delle procedure di assegnazione, di cui abbiamo già accennato, sull’efficacia in termini di risultati di apprendimento da parte dei lavoratori e ultimo, ma, non meno importante, sull’impatto che tale attività produce sulla competitività delle aziende e del capitale umano del paese.
In relazione ai risultati di apprendimento non è superfluo analizzare i risultati dell’indagine Piaac-Ocse - Rapporto nazionale sulle competenze degli adulti (Isfol 2014). Il nostro Paese si colloca all’ultimo posto della graduatoria nelle competenze alfabetiche (literacy), anche se rispetto alle precedenti indagini OCSE la distanza dagli altri Paesi si è ridotta. Inoltre l’Italia risulta penultima nelle competenze matematiche (numeracy), fondamentali per affrontare e gestire problemi di natura matematica nelle diverse situazioni della vita adulta. Riguardo alle altre competenze, definite dall’OCSE come information processing skill, ovvero problem solving e ICT, l’Italia supera, invece, la media OCSE-PIAAC. In modo specifico, per il problem solving utilizzato sul posto di lavoro, l’Italia presenta una delle medie più alte tra tutti i Paesi partecipanti all’indagine. Una interpretazione di questo risultato è legata certamente alla struttura produttiva del Paese, fatta principalmente di piccole e medie imprese manifatturiere, nelle quali l’impegno dei lavoratori a risolvere i problemi che si presentano nella routine lavorativa nella produzione, o in altri ambiti aziendali, è massimo. Ma il tema più interessante si ritrova nel fenomeno dello skill mismatch cioè la mancata corrispondenza tra le competenze e le abilità di cui è dotato un individuo e quelle richieste dall’impresa per svolgere un determinato lavoro. Per quanto riguarda la literacy la percentuale degli over-skilled italiani è di circa l’11%, mentre la percentuale degli under-skilled è del 6%. L’Italia è uno dei quattro Paesi con le percentuali più alte di lavoratori under-skilled. Per quanto riguarda la numeracy la percentuale degli over-skilled italiani è di circa il 12%, mentre la percentuale degli under-skilled è del 7,5%. Queste percentuali confermano le criticità del mercato del lavoro italiano in termini di skill mismatch. Tuttavia, è opportuno rilevare che il trend è positivo: le percentuali rilevate dalle indagini precedenti a PIAAC (IALS e ALL) erano infatti peggiori.
Certamente, i fondi interprofessionali rappresentando lo strumento più utilizzato per la formazione nella fascia tra i 25 e i 64 anni, potrebbero contribuire a favorire l’apprendimento tra la popolazione adulta italiana per colmare i tassi di competenze e ridurre lo skill mismatch. Tuttavia le criticità maggiori sono ravvisabili principalmente nel crollo verticale del tasso di partecipazione ad attività formative dopo i 34 anni con la conseguenza di una rapida obsolescenza delle competenze acquisite. Infatti si passa dal 14,3% dei trenquatrenni al 6,6 tra i 35 e i 44 anni e al 4% dopo i 55 anni. Sul versante delle qualificazioni si assiste al medesimo crollo dal 17% dei laureati al 2% dei privi di titoli o con titolo di base.  Anche se è importante rilevare che agli occupati è assegnato il palmares del tasso di partecipazione con il 7,6% dei coinvolti (dove tuttavia la media europea è al 11,6%), resta il fatto che operare per rendere la formazione più attrattiva, più accessibile e più inclusiva sembra essere uno degli  obiettivi su cui concentrarsi negli anni a venire.
Non è superfluo ribadire che numerosi studi concordano sul fatto che una maggiore crescita del lavoro e della produttività, così come un suo rapido incremento nel tempo, è dovuta maggiormente agli asset intangibili piuttosto che a quelli tangibili, quali per esempio la formazione. È ciò che emerge anche dall’indagine Isfol Intangible Asstes Survey. Tra i tanti è significativo riportare il parere di Hal Varian, Chief economist di Google, che osserva «l’apprendimento è di fondamentale importanza per il progresso economico» (Il Sole XXIV ore, 11-03-2018 pag. 7). Anche per il progresso umano potremmo aggiungere.
Concentrandoci sul solo comparto delle opportunità fornite dai fondi è possibile individuare alcuni spunti di riflessione tesi al miglioramento delle performance.
Uno dei temi più interessanti risulta essere proprio il tema delle competenze che nonostante siano diventate nel tempo la parola d’ordine della formazione professionale ancora stentano ad assumere un paradigma operativo nei contesti di apprendimento dei fondi.
Il passaggio dai contenuti della formazione ai risultati dell’apprendimento come fulcro e riferimento delle prassi di progettazione e valutazione delle attività formative si sta lentamente imponendo in tutti i segmenti dell’istruzione e della formazione e nulla, ad oggi, fa presagire che si possa tornare indietro. I sistemi pubblici dalla UE alle Regioni vi si sono decisamente indirizzati. Sono in effetti innegabili i molteplici vantaggi di una tale visione. Perché dunque il più grande dispiegamento di risorse per la formazione continua in Italia non vi partecipa? Molto probabilmente oltre a contribuire alla messa in trasparenza dei risultati degli apprendimenti e alla possibilità di comparare le attività finanziate, l’impostazione favorirebbe l’innalzamento della qualità dell’offerta e comunque, in qualsiasi caso, istituirebbe le condizioni per una seria valutazione sia a livello di output che di outcome.
Proprio su questo tema verte un altro spunto di riflessione: il sistema formativo è tradizionalmente supply oriented, in quanto, di norma, non è la domanda a orientare l’offerta, ma quest’ultima a condizionare la domanda (Inapp 2017). Ed è forse questo uno dei motivi per cui le attività dei fondi interprofessionali negli ultimi 15 anni non sono stati in grado di ridurre – per quanto di loro competenza -  il forte skill mismatch nelle aziende italiane. Con tutta probabilità la causa è da imputare a molti fattori, non ultimo le consuetudini dei soggetti erogatori, tuttavia è da segnalare che spesso il motivo di tale circolo, non proprio virtuoso, risiede nel fatto che gli imprenditori e/o il management non percepiscono la formazione come il percorso che può portare ad una possibile soluzione di un problema aziendale. Prova di ciò è anche il dato per cui la tematica della salute e sicurezza sul lavoro è al primo posto tra le tematiche dei progetti formativi che tipicamente assolve un obbligo e non rappresenta in sè un’opportunità di sviluppo strategico. Una visione in cui la formazione porta un valore aggiunto immediato o comunque misurabile spesso non appartiene alla strategia aziendale soprattutto delle microimprese. Azioni finalizzate a mutare la percezione del valore della formazione potrebbero contribuire ad un’inversione di tendenza soprattutto in relazione al tema della Industria 4.0. Infatti una forza lavoro dotata di competenze adeguate consente alle organizzazioni aziendali di adottare le nuove tecnologie e di sfruttarne il potenziale produttivo.
Un’ultima osservazione di tipo sistemico verte sulla eccessiva frammentazione del sistema dei fondi interprofessionali e, in generale, del sistema delle politiche attive di cui i fondi sono parte integrante. Su questo tema sarebbe auspicabile una riflessione che sviluppi un intervento di semplificazione e di sburocratizzazione che coinvolga i soggetti di governance del sistema delle politiche attive, Regioni, Fondi e Anpal.