«Il mio primo giorno di ambulatorio da solo, il capo era partito per un convegno. Andando via mi aveva dato le consegne e soprattutto riconfermato la sua fiducia. Ero attraversato da sentimenti così potenti da farmi fremere. Avevo nel cuore, con una tenerezza piena di gratitudine, i miei genitori che sarebbero stati fieri di me… Anche io lo ero, ripensando al lungo percorso che mi aveva portato fino a lì. Sentivo rafforzarsi ogni giorno la mia passione per quella professione che aveva alimentato i miei sogni fin da bambino. Ero emozionato – Speriamo che vada tutto bene e che sarò all’altezza del servizio e della fiducia del capo. Questa giornata sarà indimenticabile!
Lo fu in effetti – non solo nel senso previsto e sperato – e per la mia intera esistenza.
Il primo paziente aveva l’aria solida di chi mette le mani nella terra, era leggermente curvo in avanti, con i gomiti appoggiati sulle cosce, e sembava aspettare da molto seduto accanto alla porta. Da noi quando un contadino doveva andare in ospedale per una visita partiva presto da casa e non temeva l’attesa. Si metteva un vestito decente e andava ad ascoltare un esperto che gli raccontava cosa aveva di sbagliato… confidando che il medico avesse certezze sulla propria materia… come lui ne aveva sulla sua.
La sala d’attesa andava pian piano popolandosi, così all’ora convenuta Olga, l’infermiera più anziana del reparto di ortopedia, m’invitò – Coraggio, dottorì, vogliamo cominciare?
La mattinata andò benone. Sotto lo sguardo vigile dell’espertissima Olga, me la cavai egregiamente tra vecchie e nuove radiografie, ascolto di buone e cattive nuove, qualche assestamento di terapia, un paio di diagnosi azzeccate.
Verso la fine si presentò al controllo per un dolore persistente a un piede un ragazzo di sedici anni, accompagnato dalla madre. La mia attenzione fu subito attratta da quest’ultima, vestita di scuro in atteggiamento affranto – Da questa mater dolorosa mi devo difendere… tenderà a drammatizzare. Devo far parlare il ragazzo, avrà avuto un incidente andando in motorino o giocando a pallone.
La madre non aprì bocca mentre interrogavo il ragazzo, che non riferì alcun dettaglio che potesse far pensare a un evento traumatico come causa del dolore. Aveva già fatto una radiografia, dal referto non si evinceva alcun elemento patologico. Alla palpazione e al movimento il dolore non si accentuava. Si presentava soprattutto a riposo e di notte. Il ragazzo aveva un atteggiamento dignitoso, non si lamentava. Parlò poco anche lui, rispondendo a monosillabi. Prescrissi riposo, un blando antinfiammatorio, un controllo a due settimane. Mentre li salutavo, la madre mi chiese, a mezza bocca e con il capo chino, se ritenessi che fosse cosa grave. La rassicurai sommariamente. Non volevo accostarmi troppo a quell’ansia. Pensai – Che vuoi che sia, ha sedici anni, avrà fatto qualche bravata!
Quando, due settimane dopo, si ripresentarono a visita, era presente l’anziano capo, nonché maestro, che ascoltò con attenzione il mio resoconto dell’incontro precedente ed esaminò a lungo le immagini radiografiche, senza neppure leggere il referto e attirando la mia attenzione su un dettaglio, minuscolo ma a suo giudizio significativo, che richiedeva un approfondimento. Dedicò poi molto tempo a conversare, in dialetto e con calore, sia con il ragazzo che con la madre, come se cercasse di essere illuminato dal racconto delle loro notti insonni, della ‘profondità’ da cui stillava il dolore, della sospensione della quotidianità che quel nemico inatteso aveva generato. Furono congedati con la richiesta di una risonanza magnetica e un abbraccio al ragazzo. Poi prese nelle sue mani la mano della madre e s’inchinò un poco, salutandola, quasi in atto di omaggio e devozione. Ne fui colpito, non era un gesto consueto. Si rivolse a me – Hai sentito che dice la madre…? È importante quell’osservazione… l’anamnesi è questione complessa… si devono ascoltare tutti, non solo il paziente. Questa è gente semplice, occorre attenzione, interesse sincero per cercare di comprendere anche quello che non dicono. Hanno pudore, quando vengono qui hanno bisogno di essere accolti, come se ti fossero parenti… Non dobbiamo badare solo ai fatti…ci sono le sensazioni, le impressioni, gli odori, i sentimenti… Strano, no? Bisogna imparare a non scappare di fronte alla loro paura, si deve riconoscere e seguire. Non dobbiamo temere di essere contagiati dall’ansia, dallo sgomento. Ti devi preoccupare invece se non senti niente, se non senti l’impotenza, la tua paura: quello sì che è un sintomo grave, significa che non ci stai nella cosa. Magari ci stai con la testa…, ma quella non basta, ci devi stare tutto. Insomma, il contrario di quello che ci hanno insegnato all’università… E poi se ne deve parlare anche tra di noi, per capire ci vogliono più teste, e anche fiuto, sensazioni, esperienza. Per capire bisogna anche aver sbagliato. Un ragazzo con un male che non passa…
Il ragazzo aveva un osteosarcoma, fu operato al Rizzoli di Bologna a distanza di un mese, fu amputato e morì otto mesi dopo.
Io l’ho accompagnato nel suo calvario e so che non sarebbe cambiato niente, rispetto all’esito, se avessimo scoperto il male un mese prima… eppure… sento che sarebbe cambiato tutto per me e forse anche per lui. Non si può valutare solo dal punto di vista dell’esito.
Ho sempre pensato di aver appreso da questa esperienza che la competenza clinica senza l’incontro vero con la persona e il suo mondo non conta niente e che attraverso il percorso di sofferenza nel quale sono stato potentemente coinvolto dopo, accompagnando il paziente, sono diventato un medico migliore… forse anche una persona migliore…  eppure…
Eppure da trenta anni – tanto è il tempo passato – non passa giorno che io non pensi a quel ragazzo e non provi lo stesso disperato accoramento per la mia negligenza, per l’approssimazione, per l’insipienza di quel presuntuoso principiante che ero. È ancora tutto lì, come fosse successo ieri».1
Questo drammatico squarcio biografico si è aperto nel contesto di un percorso di formazione all’approccio sistemico in medicina e alla personalizzazione delle cure, che ha preso l’avvio nel 2014 nell’ospedale San Carlo di Potenza ed è rivolto a tutti gli agenti sulla scena della cura – operatori sanitari e personale amministrativo – dell’Azienda ospedaliera. L’originalità e la qualità, anche utopica, del progetto risiede anzitutto nell’ampia visione che ne è alla base: il riconoscimento della complessità e delle criticità dei percorsi di cura nelle strutture pubbliche e della necessità di un miglioramento sostenibile della qualità dei servizi, grazie allo sviluppo di strumenti adeguati di comprensione, di organizzazione e di gestione.  A questo impianto teorico il progetto unisce un forte radicamento sul territorio e un dichiarato impegno culturale e sociale, che prevede, in prospettiva e negli auspici, il coinvolgimento nel percorso anche dei medici di famiglia e, attraverso di loro, dei pazienti e delle famiglie. Il fine è sensibilizzare i cittadini ai temi della complessità – nella relazione medico-paziente e paziente-servizi –, per esplorare l’esperienza della malattia nella prospettiva della cura di sé e della costruzione attiva della salute, inscrivendola anche in un contesto di senso più ampio di quello strettamente individuale, come questione collettiva e politica.
Il percorso formativo, indirizzato finora solo al personale sanitario, si situa nel vasto e variegato orizzonte delle Medical Humanities, vale a dire della relazione e dell’integrazione tra scienze biologiche e scienze umane, tra la dimensione quantitativa della biomedicina e dell’organizzazione sanitaria e l’irriducibile e cruciale dimensione qualitativa e personale del percorso terapeutico.  La relazione tra la medicina e le Humanities poggia sulla possibilità che queste ultime hanno di elaborare le questioni di fondo dell’esistenza umana, in particolare quelle che emergono dalla sofferenza, dalla malattia, dalla ricerca di guarigione e dai limiti inevitabili della fiducia nella restitutio ad integrum. Le Medical Humanities promuovono riflessioni etiche, filosofiche, storiche e letterarie per ripensare l’esistenza umana sotto l’impatto della medicina moderna e sono per la medicina stessa una cura necessaria.
La composizione dell’equipe formativa – un medico, una pedagogista medica, un sociologo e una filosofa –rispecchia l’assunto secondo il quale l’interdisciplinarità è di per sé un potente strumento di apprendimento e di cura e ha consentito, in una prima fase, un’analisi diversificata del contesto strutturale, delle sue criticità, delle reti formali e informali già esistenti, del clima percepito, dei vincoli che rendono arduo sviluppare un modello organizzativo in cui sia possibile realizzare nella pratica quotidiana l’integrazione quali-quantitativa. Su questa base ha preso l’avvio la programmazione operativa, che ha avuto come fulcro il potenziamento delle reti relazionali esistenti in un’ottica di dinamizzazione e di circolarità, anzitutto grazie alla creazione di un luogo-spazio dedicato, nel quale gli operatori potessero confrontarsi su esperienze concrete, che consentisse loro incontri ‘fuori contesto’, una comunicazione più libera, un reciproco e informale riconoscimento, la mutua fecondazione che deriva da una relazione meno rigida e asimmetrica – per esempio tra medici e infermieri. Questo luogo-spazio è diventato il cuore di alcune pratiche sistemiche e una sorta di ‘retrobottega’ dove conservare ciò che di significativo viene espulso dai contesti istituzionali, e condividerlo: l’autoriflessione degli operatori sulle proprie risorse emozionali, i dubbi sull’impiego di alcune tecnologie, l’incertezza e il senso di impotenza che spesso impregnano la clinica, la riflessione critica sui protocolli, il riconoscimento delle competenze dei pazienti e l’ascolto dei loro vissuti emotivi, la ricerca di un vocabolario interiore comune, che possa migliorare la qualità delle relazioni tra gli attori che interagiscono sulla scena terapeutica.
Una pratica che si è rivelata cruciale per l’integrazione nei percorsi di cura di elementi qualitativi – nonché per il miglioramento delle relazioni all’interno dei team terapeutici e di questi con i pazienti – è statala costruzione e la condivisione di una cartella clinica parallela – parallela perché affianca, non sostituisce, la cartella clinica ufficiale – alla quale hanno partecipato tutti gli operatori. Si tratta di una pratica largamente sperimentata nei contesti formativi che utilizzano strumenti narrativi, nella quale si registrano le informazioni, le osservazioni, gli stati d’animo, i pensieri non previsti in una cartella clinica. Si configura come uno spazio di libertà espressiva dei curanti in cui riportare le impressioni e le riflessioni evocate dal percorso clinico del paziente e la autoriflessione sui propri gesti, sulle emergenze, sulle omissioni. Il confronto e la conversazione quotidiana degli operatori su questa sorta di diario ufficioso si è rivelata una delle pratiche più fruttuose di tutto il percorso.
Pur prevedendo momenti di formazione frontale, la metodologia è di tipo prevalentemente esperienziale e laboratoriale, con largo uso degli strumenti biografici e narrativi. Assumendo che la malattia sveli una crisi esistenziale che richiede anzitutto una condivisione narrativa, la via regia per incontrare la persona malata sembra essere proprio  il punto di vista biografico. Per questo l’operatore ha bisogno di acquisire strumenti adeguati che gli consentano di percorrere insieme al malato la via del ‘trattamento’ narrativo condiviso, una collaborazione tra narrazioni che ispiri al paziente una revisione della propria storia in una trama più funzionale al vissuto del momento presente. A tal fine occorre che l’operatore parta da sé, si renda cioè disponibile a un intenso e sincero training biografico-narrativo personale – cosa che non accade mai nel percorso formativo universitario – nel contesto di un gruppo di lavoro guidato.

«Dopo trenta anni era ancora tutto lì, come fosse successo ieri, non l’avevo confidato a nessuno, mai, era un fardello che pensavo fosse meglio portare in solitudine. Neanche mia moglie conosceva la vergogna, il rimpianto, l’accoramento. Figuriamoci i colleghi. Solo il mio maestro aveva accesso, senza parole, alle pieghe più nascoste della mia anima e forse proprio per questo lasciò che io seppellissi quel macigno e lo occultassi per sempre. Rispettava la mia ritrosia e lo strazio del ricordo. Quel drago assopito dentro di me era vivo però, come un rischio, una macchia indelebile che deformava la mia immagine.
Ero sbalordito quando l’altro giorno è emerso, quasi senza che lo volessi, si è svelato e ne abbiamo parlato come di una cosa che somiglia a qualcosa che è accaduto anche ad altri, che anche altri hanno provato, e non solo una volta. Non ero solo di fronte a quell’imputazione che rivolgevo continuamente a me stesso.  Ho sentito la fraternità, ho sentito che potevo spartire anche il dolore. Che non era l’opera di un mostro quello che è accaduto.
Penso faccia bene riflettere insieme ai colleghi proprio sugli errori. Nella conversazione l’altro ieri è avvenuta una convergenza, una conversione di ognuno verso l’altro e verso qualcosa che può accadere e che è accaduto a me. Non so se è stata la ‘confessione’ pubblica a promuovere l’effetto di purificazione. Non sono credente.
Quando abbiamo messo in scena l’accaduto con i diversi percorsi alternativi possibili mi sembrava di restaurarlo di mano in mano che la scena cambiava. Una catarsi, come dicevamo ieri. Potevo anche dismettere il camice del ruolo, della professione, e restare semplicemente con l’abito dell’umano, l’abito che ci rende tutti partecipi della stessa imperfezione, della stessa indigenza.
Quello che sento adesso? È cambiato il respiro, la percezione. È come se adesso finalmente tornassi a respirare…».2

1 Racconto di un medico dell’ospedale San Carlo di Potenza.

2 Ibidem.