Legandosi al sentimento di attesa di questi mesi (e all’interrogazione sempre aperta cui solo la letteratura incrociata all’analisi permette di accostarsi con pudore eppur con forza), il numero ospita, come già in occasioni precedenti, un testo comparso in altri spazi e riconosciuto come portatore di suggestioni forti accostato alle riflessioni dei diversi attori che agiscono in questo numero.
A seguire quindi tre tre scritti, nati separatamente e da noi raccolti in una unica proposta di lettura per gentile disponibilità dell’autore.
Buona lettura


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E quando sarà adesso?

"Era, il dopoguerra, un tempo in cui tutti pensavano di essere dei poeti, e tutti pensavano d’essere dei politici; tutti s’immaginavano che si potesse e si dovesse anzi far poesia di tutto.” (N. Ginzburg)

Stamattina ti sei messo a scrivere tutti i possibili incipit che potrebbero descrivere questo periodo. Pensavi a quanti in questi giorni e in quelli che seguiranno la fine della crisi scriveranno testi, romanzi, poesie, comporranno canzoni, opere e altro. Sentiranno questa cosa del voler dire. Ancora di più di quello che è normalmente in questo mondo di reti sociali, ancora di più perché rispetto a un evento che tocca direttamente le loro vite, la loro quotidianità. Volevi così provare a fare una mappa di tutte le possibilità narrative passate e future che si presenteranno dopo questa esperienza. Di tutte le opportunità di scrittura che le persone penseranno di utilizzare, di sperimentare, di scoprire anche se sono state già scoperte, già inventate, già usate. Vedevi i palinsesti e le strutture, la ricorsività che si riproponevano. Bastava prendere la storia di qualcuno chiuso in casa in quarantena e con cui nessuno voleva entrare in contatto e che non poteva uscire di casa e allora pensavi a La metamorfosi di Kafka e mettere tutti quanti al posto di quello scarafaggio, con la variazione che la storia si svolga in questi giorni. Prendevi Matheson e ne fai restare uno solo che sopravvive a questa storia. Prendevi un genere e lo adattavi a questi giorni. Poi c’erano due amanti che non si possono vedere. Due di quelli che a causa del confinamento si tengono in contatto a distanza e poi quando si vedono finisce tutto, o forse no, è il grande amore, oppure scoprono di essere cugini. Pensavi a una cronaca dal futuro. Pensavi a una storia che comincia con la protagonista che è stata concepita in questo periodo. Pensavi al claustrofobico che gestisce la sua vita di claustrofobia in questo mondo di oggi e si scopre capace di superare le sue paure. Pensavi a cominciare con un dialogo in ospedale e raccontare i fatti dal fronte medico. Pensavi al genere hard boiled ed ecco un ispettore che deve scoprire chi ha ucciso chi in un mondo devastato dalla pandemia e i controlli del suo permesso fatti dalla polizia in una strada buia. Vedevi la pioggia cadere da dietro le finestre e qualcuno che tracciava dei cerchi sul vetro. Prendevi poi la storia di quelli che si erano allontanati dalla civiltà per andare a creare una comunità immunizzata tra le montagne. Prendevi il mondo che ritorna tutto verde e abitato da animali nuovi e diversi. Prendevi un ordine nuovo del mondo. Immaginavi un complotto che attraversava il pianeta, le spie e solo una ragazza a risolvere l’enigma. Cambiavi i pronomi del racconto e i punti di vista, cerano loro e c’eravamo noi. E ancora e ancora, tante e tante possibilità, tutte identiche, tutte già dette, già raccontate, tutte modificabili, intercambiabili, tutte con un legame con la realtà. Pensavi a quelle che cominciavano con un mondo di fiaba, pensavi alle storie per bambini e il mostro virus cattivo, pensavi alle variazioni sull’educazione, sulle regole e sulle leggi, pensavi a nuove forme di fare l’amore e di morire, rimettevi indietro il tempo e poi di nuovo in avanti e poi spostavi il tuo mondo in un altro continente e poi in un altro pianeta e allora andavi nello spazio con il mondo visto dal cielo e ripiombavi giù rapidissimo nel piccolo di un uomo solo, pieno di sensi di colpa e responsabilità e del suo cammino spirituale. Pensavi alla liberazione e tutti che corrono in strada felici. Pensavi al possibile e all’impossibile e all’accordo dei condizionali con i congiuntivi e ai tuoi studenti a distanza spiegavi le incredibili potenzialità dei congiuntivi e dello spreco che se ne fa, così come gli imperativi nelle funzioni narrative - fallo adesso. Costruivi una storia dove qualcuno era sempre in ritardo su tutto e anche sul virus e così si ritrovava chiuso fuori di casa per sempre e ne facevi un paragone con i senzatetto che vivono in strada, ne facevi un’opera in cui i senza tetto non sono poveri, ma sono solo in ritardo, per poi scoprire alla fine che in effetti non sono in ritardo, ma hanno un modo di osservare la vita diverso e una capacità di contemplazione che ormai gli altri non riescono ad avere. Costruivi metafore e allusioni e parodie, tutto si teneva bene insieme e cominciava a staccarsi pezzo dopo pezzo da altre storie e racconti e farne uno proprio. Vedevi la ripetizione, sempre la stessa, in un mondo che pare diverso, che alberga persone che pensano di essere uniche e irripetibili, che pensavano di avere qualcosa di urgente da dire, qualcosa di necessario, qualcosa che gli darebbe gli onori e l’approvazione. Immaginavi la possibilità di un punto di vista specifico, prendevi quello di un mestiere, di uno che deve continuare a lavorare anche se tutti stanno a casa, e pensavi alla cassiera del supermercato che a ogni paziente, a ogni cliente - lei si sbaglia sempre di categoria ormai - pensa se sarà quello che le passerà il virus e comincia a catalogare nella sua mente il tipo di clienti rispetto al tipo di prodotti comprati e cerca la funzione per cui quelli che comprano più ceci di certo saranno più malati di quelli che comprano le uova e poi si domanda dove siano finiti i clienti abituali, e se non li vede arrivare, allora comincia a pensare che siano ammalati e magari deceduti e se lei li ha toccati oppure no e se hanno comprato i ceci ultimamente. Pensavi ai ricercatori, allo scienziato e alla formula segreta e di nuovo al complotto e poi al viaggio, di nuovo al viaggio in un mondo in declino. Pensavi al fatto che nessuno si stira più le camicie e di come da qui si può costruire un’altra storia e di come questa cosa cambi le abitudini di una famiglia e ne cambi anche le dinamiche, perché il fatto di dover stirare era l’unica possibilità per le nevrosi comuni, per trovare un momento di calma. Pensavi ad altri gruppi e modelli familiari, le coppie etero e le coppie omosessuali. Pensavi ai migranti, alle storie dei migranti e della loro lotta contro il virus e l’abbandono da parte del mondo e la loro lotta per la sopravvivenza. Pensavi a un leone in Africa seduto all’ombra a osservare il tempo passare. E vedevi la difficoltà per un autore qualsiasi di trovare un modo diverso di raccontare tutto ciò, di distaccarsi dal gregge - anche utilizzando il lessico epidemiologico. Vedevi in quanti avrebbero voluto dire la loro, raccontare, sbattendo sempre contro stereotipi, banalità, ripetizioni, immagini di monumenti già fotografati mille e mille e mille volte, la loro vita. Pensavi a come tutti dovrebbero mettersi a leggere la storia per essere pronti a sapere quello che succederà, per sapere cosa è stato già detto, cosa è stato già raccontato e in che mondo e in che modo e perché si continua a raccontare, anche se la gente non cambia e pensavi a Numa Pompilio, e a Lucrezia, e poi ai graffiti nelle caverne e a un fuoco e tutti a raccontare questo mondo e tutti a provare a dire qualcosa che facesse senso per loro, che gli sembrasse potesse dire qualcosa, che fosse unico, adesso. Pensavi alla necessità per gli imperatori coreani di avere una serie di scrivani che redigessero in modo del tutto imparziale la storia del mondo e che gli imperatori stessi non potessero avere accesso a queste storie. Consideravi che lo stile, lo stile potrebbe creare lo scarto, perché alcuni siano ricordati e altri cadano nell’oblio usando una frase come ‘cadere nell’oblio’. Pensavi al multilinguismo e a come si mischiano le lingue e le possibilità e le sfumature, a come provavi a spiegare a una studentessa la differenza tra ‘Già’ in italiano e ‘Ouais’ in francese, e cercavi di farle capire la rassegnazione in uno e la nonchalance nell’altro e di come mischiando tutte queste lingue si potesse forse raccontare qualcosa di diverso e pensavi alla tensione che senti quando qualcuno che parla più lingue, passa da una lingua all’altra quando c’è qualcosa di difficile da dire e come proprio questo passaggio sia il segno della difficoltà e della tensione. Pensavi a lui che parla già tre lingue e una quarta l’impara a scuola e che quando legge non sa che suono deve pronunciare, in che lingua leggere e ancora mischia tutto, anche se infine quello che gli interessa per ora sono gli amici, gli abbracci e il calcio, ma chissà se almeno lui riuscirà a raccontare qualcosa di diverso grazie a tutte queste lingue. Il testo e le possibilità si allungano e si dilatano e poi ritornano alla loro forma originale: «Penso alla superficie del lago. Cerco di immaginarmela immobile. Il vento lo increspa un poco. Cerco di separare le piccole increspature. Poi di ogni increspatura cerco di vedere le gocce che solleva. Provo a contarle. Ogni goccia che individuo provo a guardarci attraverso. Mi avvicino ancora di più ed ecco che mi ritrovo di nuovo sul lago immobile che adesso è ancora più immobile, di nuovo un leggero vento e di nuovo delle increspature, ma più piccole, meno forti e di nuovo a separarle e così via.»
Ti sei ricordato allora di queste due pagine di Natalia Ginzburg in Lessico famigliare:
«Era, il dopoguerra, un tempo in cui tutti pensavano di essere dei poeti, e tutti pensavano d’essere dei politici; tutti s’immaginavano che si potesse e si dovesse anzi far poesia di tutto, dopo tanti anni in cui era sembrato che il mondo fosse ammutolito e pietrificato e la realtà era stata guardata come di là d’un vetro, in una vitrea, cristallina e muta immobilità. Romanzieri e poeti avevano, negli anni del fascismo, digiunato, non essendovi intorno molte parole che fosse consentito usare; e i pochi che ancora avevano usato parole le avevano scelte con ogni cura nel magro patrimonio di briciole che ancora restava. Nel tempo del fascismo, i poeti s’erano trovati ad esprimere solo il mondo arido, chiuso e sibillino dei sogni. Ora c’erano di nuovo molte parole in circolazione, e la realtà di nuovo appariva a portata di mano; perciò quegli antichi digiunatori si diedero a vendemmiarvi con delizia. E la vendemmia fu generale, perché tutti ebbero l’idea di prendervi parte; e si determinò una confusione di linguaggio fra poesia e politica, le quali erano apparse mescolate insieme. Ma poi avvenne che la realtà si rivelò complessa e segreta, indecifrabile e oscura non meno che il mondo dei sogni; e si rivelò ancora situata di là del vetro, e l’illusione di aver spezzato quel vetro si rivelò effimera. Così molti si ritrassero presto sconfortati e scorati; e ripiombarono in un amaro digiuno e in un profondo silenzio. Così il dopoguerra fu triste, pieno di sconforto dopo le allegre vendemmie dei primi tempi. Molti si appartarono e si isolarono di nuovo o nel mondo dei loro sogni, o in un lavoro qualsiasi che fruttasse da vivere, un lavoro assunto a caso e in fretta, e che sembrava piccolo e grigio dopo tanto clamore; e comunque tutti scordarono quella breve, illusoria compartecipazione alla vita del prossimo. Certo, per molti anni, nessuno fece più il proprio mestiere, ma tutti credettero di poterne e doverne fare mille altri insieme; e passò del tempo prima che ciascuno riprendesse sulle sue spalle il proprio mestiere e ne accettasse il peso e la quotidiana fatica, e la quotidiana solitudine, che è l’unico mezzo che noi abbiamo di partecipare alla vita del prossimo, perduto e stretto in una solitudine uguale.
Quanto ai versi della Cìa che aveva male al piede, essi non ci sembrarono allora belli, anzi ci sembrarono, come sono, bruttissimi, ma oggi ci appaiono tuttavia commoventi, parlando alle nostre orecchie il linguaggio di quell’epoca. C’erano allora due modi di scrivere, e uno era una semplice enumerazione di fatti, sulle tracce d’una realtà grigia, piovosa, avara, nello schermo d’un paesaggio disadorno e mortificato; l’altro era un mescolarsi ai fatti con violenza e con delirio di lagrime, di sospiri convulsi, di singhiozzi. Nell’un caso e nell’altro, non si sceglievano più le parole; perché nell’un caso le parole si confondevano nel grigiore, e nell’altro si perdevano nei gemiti e nei singhiozzi. Ma l’errore comune era sempre credere che tutto si potesse trasformare in poesia e parole. Ne conseguì un disgusto di poesia e parole, così forte che incluse anche la vera poesia e le vere parole, per cui alla fine ognuno tacque, impietrito di noia e di nausea. Era necessario tornare a scegliere le parole, a scrutarle per sentire se erano false o vere, se avevano o no vere radici in noi, o se avevano soltanto le effimere radici della comune illusione. Era dunque necessario, se uno scriveva, tornare ad assumere il proprio mestiere che aveva, nella generale ubriachezza, dimenticato. E il tempo che seguì fu come il tempo che segue all’ubriachezza, e che è di nausea, di languore e di tedio; e tutti si sentirono, in un modo o nell’altro, ingannati e traditi: sia quelli che abitavano la realtà, sia quelli che possedevano, o credevano di possedere, i mezzi per raccontarla. Così ciascuno riprese, solo e malcontento, la sua strada.»


E se non avessimo niente da dire?
“La morte resta il limite del racconto.”

Ian McEwan al giornalista che gli chiedeva perché i suoi libri fossero tutti differenti tra loro, rispose che nel mezzo c’era stata la vita che aveva fatto in modo che i suoi libri fossero differenti, perché tra un libro e l’altro bisogna metterci della vita, bisogna vivere. Questo periodo di confinamento fa parte della nostra vita, ma che vita stiamo vivendo e che racconto possiamo farne adesso e come fare per raccontare tutto ciò dopo che sarà finito? Questo periodo ci fa domandare: è sempre la nostra stessa vita? E soprattutto ci mette di fronte alla domanda: abbiamo davvero qualcosa da dire? E dopo avremo qualcosa da dire? E tutti parlano di cambiamento, ma le cose cambieranno davvero? E come fare per facilitare questo cambiamento?
La pandemia in corso diffondendosi da un paese all’altro ha portato con sé una traccia di testi e immagini e allo stesso tempo ha imposto una ricorsività e una struttura circolare nella quotidianità e nella produzione dei contenuti. Se all’inizio la situazione è apparsa del tutto nuova, quasi immediatamente si è instaurato un carattere di ripetizione, di già visto e ormai con il tempo che passa sempre uguale e, con le ripetizioni che si susseguono, di déjà-vu (è vero? l’abbiamo davvero vissuto? quando è successo? stiamo sognando?). Al primo momento di sorpresa, si sono accompagnate le dichiarazioni ufficiali e i commenti delle istituzioni e dei politici, seguite da quelle del mondo della cultura e dell’economia. Col passare del tempo, e anche passando da un paese all’altro, queste dichiarazioni hanno cominciato ad assomigliarsi tutte. All’inizio il rifiuto di accettare che la situazione fosse o potesse diventare grave e di prendere delle misure adeguate e in certi casi drastiche. È stato il caso di Stati Uniti, Gran Bretagna, Svizzera, Francia, e il Brasile che insiste nel rifiuto. Anche l’Italia ha fatto la sua parte con tutti i leader della sinistra e quelli dell’estrema destra che invitavano la gente a uscire e a fare sport (o ad andare in chiesa), scoprendo in seguito che alcuni di questi stessi leader avevano contratto il virus (Nicola Zingaretti, e per l’estero Boris Johnson). In seguito c’è stata una presa di coscienza e un cambiamento radicale di posizione con la decisione di confinare con misure più o meno radicali tutta la popolazione dei diversi paesi. In questo momento forse qualche miliardo di persone sta chiuso in casa aspettando che tutto passi.
Dal momento in cui l’allerta è stata lanciata c’è stata una continuità ininterrotta e allo stesso tempo una ripetizione delle statistiche giorno dopo giorno e delle immagini sempre nuove, ma infine sempre le stesse. I media hanno cominciato a produrre testi e immagini e migliaia e migliaia sono già le pubblicazioni tra articoli di opinione, commenti dei dati, analisi politiche, riprendendo e rilanciando anche le comunicazioni istituzionali. Tutte queste informazioni sono rilanciate e moltiplicate dalla gente nei social media. Nel mezzo di tutto questo fermento, gli autori, scrittori e simili, lasciano una scia di scrittura, immagini e post sui social media, giorno dopo giorno e anche più volte al giorno. E già ci sono i call for paper e call for artist, tutti che suonano come “l’arte al tempo del confinamento”, “arte e virus”, “politica e virus”, “la scrittura e il virus” e tutte le variazioni possibili - e a dire il vero sono già del tutto insopportabili. Questo flusso di scrittura e comunicazione ci sommerge e non possiamo opporre alcuna resistenza a questo mare di informazioni e di ripetizioni che si è messo tra noi e il mondo, non potendo uscire di casa o facendolo solo raramente, essendo separati fisicamente dai malati, ed essendo tale separazione non solo fisica, ma anche mentale, finché qualcuno con cui abbiamo contatti frequenti o un familiare non sia malato – e anche in quel caso la natura della malattia impedisce di stare con lui - e non avendo in tanti un contatto diretto con la malattia e apprendendo le notizie attraverso i mezzi di comunicazione, come in un’altra infinita serie tv con i comunicati e le ridotte variazioni che si susseguono giorno dopo giorno. Al contrario, per provare a resistere, a raccontare, abbiamo ingrossato e ingrossiamo il mare di testi. A questi testi e immagini infatti si è sovrapposto il racconto della quotidianità circolare della struttura spaziale e temporale in cui viviamo. La routine e la limitazione che si è instaurata ha prodotto una prima reazione della gente che ha cominciato a pubblicare testi, video e messaggi, riguardo la sua permanenza forzata in casa riempiendone lo spazio dei social media e delle discussioni private. Adesso, dopo un mese di confinamento, si sente come qualcosa di già detto e già vissuto, qualcosa di scontato come le forchette che usiamo per mangiare ogni giorno e di cui non distinguiamo più i dettagli.
La struttura della temporalità e della spazialità che caratterizzano il nostro quotidiano attuale, infatti, non corrisponde alla vita e al tempo del racconto che eravamo abituati a raccontare e a raccontarci. In questo periodo c’è un’assenza dell’immediato futuro, non sappiamo cosa capiterà, non sappiamo se ci ammaleremo e contiamo di 14 giorni in 14 giorni da ogni possibile contatto e contagio e non sappiamo quando riprenderemo la nostra vita precedente. E il futuro sul lungo periodo appare nella struttura della promessa e della speranza: dobbiamo crederci, anche se non ne abbiamo la certezza. Se il presente appare ripetitivo e ridondante nello spazio vissuto del nostro luogo di confinamento e negli eventi strutturalmente consonanti uno con l’altro, anche le previsioni per il futuro cominciano a somigliarsi. Tutti a dire e a ripetere in continuazione che le cose dopo questa crisi non saranno più le stesse, nessuno e tutti a dire come fare, ma anche in questo caso in una successione e una ripetizione che appiattisce le dichiarazioni e le diluisce nella ripetizione temporale. L’altro giorno leggendo una dichiarazione di Bruno Latour (o Judith Butler o Noam Chomsky) mi sono chiesto se fosse stato lui o il mio vicino di casa su Skype a dirlo per primo – e tra loro e il mio vicino cominciavo a non vedere più differenza ormai. E questo appiattimento era dovuto tanto al fatto che tutti parlavano dal loro divano, nel loro salone, in qualche appartamento da qualche parte, con una struttura visiva che si ripeteva di città in città, di salone in salone, quanto al fatto che tutti ripetevano la stessa cosa: non possiamo continuare così, un cambiamento è necessario. Ma come? Ma quando? Restano ancora domande inevase che frastornano prima e poi diventano un pensiero di retroguardia nella ripetitività e prolungamento delle nostre giornate.
In questa sospensione del racconto allora due strade possibili per narrare si fanno intravedere, anche se sono la stessa strada per certi versi. La prima guarda verso l’interno o come si dice, dentro di noi. Alcune vecchie domande degli esseri umani, sempre le stesse, vengono a galla: e se fosse del tutto insensato? La nostra vita, il nostro essere al mondo qui, adesso? E se capissimo che era insensato già prima di questa crisi? Forse la differenza consiste nel fatto che adesso lo vediamo più chiaramente. Per allontanarsi da questa realtà (che chiameremo morte), lo spiritualismo usa e getta e il marketing mindfullness è piombato come un falco sugli inermi pulcini. Migliaia di corsi di yoga e meditazione mainstream online hanno occupato lo scroll dei nostri schermi. E se per un periodo hanno riempito la pancia, come uno spiritual crisis comfort food, in verità non riflettono altro che il vuoto spirituale e di vita con cui ci siamo nutriti durante questi anni e a cui adesso siamo confrontati e che cerchiamo di tappare abbuffandoci. Non abbiamo niente da dire, siamo sperduti e barricati in casa, siamo intabarrati a ogni mettere il naso fuori e cerchiamo nelle formule stereotipate, quelle che altri ci dicono che vanno bene, un modo per tirarcene fuori da questo vuoto. Ma queste formule espongono la desolazione del vuoto che avevamo avuto la possibilità di ignorare durante molto tempo. Ci si legava prima a queste formule, per la nostra ora di “faccio yoga e meditazione per centrarmi e dare un anestetico alla mia coscienza (e certo fa bene alla salute)”, e ci si lega ancora di più a tali formule adesso. È una pioggia di statement: farsi del bene, rigenerarsi, riconnettersi, osservarsi, ritrovarsi, ritrovare il suo vero io, portare in superficie, abitare la nostra realtà, abitare il quotidiano, abitare la terra, abitare il proprio spazio interiore, vivere la sua vera natura, essere in connessione con l’universo, benevolenza, rinforzare il sistema immunitario, del tempo per sé, sentire la terra, sentire il pianeta, sentire l’altro, ascoltarsi, interiorità, vero, piena coscienza e - il mio preferito - vivere la vita. Ma l’impossibilità di mettere tutto questo effluvio in contrasto con gli altri, con altri momenti della vita, essendo rimasti soli, queste formule, anche per i più ciechi, cominciano o dovrebbero cominciare a diventare sempre più insensate, mentre la minaccia della malattia e della realtà tende agguati a ogni angolo. Possiamo dirci quello che vogliamo, ma la realtà è che non c’è niente da scoprire amici, siamo sempre gli stessi, e se saremo cambiati lo sapremo solo dopo che sarà finita.
La seconda possibilità è ancora un’altra fuga per ritrovare la nostra natura e attualmente corrisponde anche alla sola possibilità del racconto che stiamo facendo. Se il presente sbatte contro il vetro della bottiglia dentro cui viviamo e se il futuro è incerto e indeterminato e sempre rinviato, quello che resta è il passato. Il passato occupa tutto lo spazio e diventa la fonte di racconto e di storie. Il passato si impone come canone per raccontare una storia. Allo stesso modo il passato si impone per cercare di capire quello che sta succedendo adesso e come hanno fatto altri prima di noi a uscirne fuori. E succede tanto rileggendo i casi delle epidemie precedenti nella storia, quanto cercando nella letteratura delle possibili spiegazioni e mondi possibili (la vendita di alcuni romanzi legati a racconti di epidemie ha fatto parte della prima ondata di reazioni).
Ma il passato si declina su temporalità e esperienze diverse. E se ci rendiamo conto che anche la ricerca di una spiritualità e del “nostro vero io”, altro che non è che un’altra forma di ricerca del passato, un sostituto comodo per nascondersi alla realtà, vediamo che questa ricerca ha preso lo spazio anche della biografia della quotidianità di ciascuno. In molti, almeno all’inizio di questo periodo hanno annunciato o hanno colto il momento come una possibilità per cercare di finire i progetti che avevano cominciato e che avevano lasciato andare per mancanza di tempo, di concentrazione, di volontà, pensando che adesso avrebbero avuto il tempo necessario per fare questo lavoro, per recuperare il passato, per fare in modo che il passato avesse un senso. Oppure in questi giorni sui social media la gente partecipa a quello che è chiamato un challenge pubblicando foto della loro infanzia o giovinezza. Cercano di trovare il senso del loro essere adesso guardando a un esercizio genealogico. Mentre chissà se i primi stiano riuscendo a realizzare quello che si erano proposti (anche se non saranno ormai più gli stessi vecchi progetti e saranno realizzati in un mondo diverso), i secondi esauriscono in un post e in una condivisone le immagini della loro giovinezza - prima che tutto ciò capitasse, come eravamo felici nella nostra vita precedente, da dove veniamo. Così dopo aver esaurito rapidamente tutto quello che c’era da raccontare dei dettagli della loro nuova quotidianità, non resta che provare a esaurire anche il passato.
In tutta questa ricerca di senso per il tempo che passiamo nel nostro nuovo mondo, un caso interessante sono quelli che reclamano il diritto di non fare niente, di restare nell’immobilità senza essere creativi, senza dover produrre. Semplicemente non vogliono agire, aspettano che qualcosa succeda e che ricomincino la loro vita precedente. Se da un lato reclamano il diritto a opporsi a questa smania di produttivismo, dall’altro fanno tutto il giro obbedendo strettamente alle raccomandazioni delle autorità in carica, come dei Null Achtzehn nella pandemia. Abbandonata ogni forma di resilienza e la sua retorica, lasciano semplicemente il tempo passare, facendo luogo di estraneità da se stessi. Immagino - e ne conosco - che quelli che chiedono di non fare niente, probabilmente sono quelli che non facevano niente già prima: la loro posizione non è cambiata, solo che ora reclamano il loro diritto di esistenza nel vuoto e nella singolarità della loro vita, quando tutti ne pretendono l’appropriazione e cercano di destabilizzarli, non capendo che per alcuni il passo è più breve. È come quando un amico mi ha chiesto come stavo psicologicamente in questo periodo, se stavo peggio o meglio, io ho detto che stavo male già prima e che quindi questo periodo non faceva molta differenza, anzi mi ci trovavo del tutto a mio agio – se non fosse per la mancanza del contatto fisico, che estendeva le mie giornate di solitudine per scrivere e leggere indeterminate (e mi pone un’altra domanda: che conseguenze avrà nel tempo il fatto di non potersi toccare?).
In un modo o nell’altro questa nuova forma di vita non è quella che si viveva prima. Che cosa raccontiamo se non c’è niente che succede come siamo abituati al fatto che succeda? Se non c’è la vita che siamo abituati a raccontare? E soprattutto perché raccontare, se dopo non c’è niente? E se sarà così la nostra vita? Se la nostra vita è questa? Di che cosa possiamo parlare? Che cosa ci diremmo quando ci rivedremo? E quanto tempo dovrà passare per poterne parlare? Finalmente potremmo scoprire di non avere niente da dire. La verità è che se questa situazione continuerà non avremo più niente da dire. Non abbiamo messo della vita tra una storia e l’altra, non c’è niente che succede e non c’è nemmeno gioia o drammi se non attraverso dei racconti che si ripetono, niente. Come per la morte ai funerali: si parla dei dettagli (come e perché), ma tutti sanno di che cosa si tratta. Si parla dei ricordi del passato del deceduto, ma nessuno mette in dubbio di che cosa si tratta. Poi dopo un po’ anche i ricordi non sono più di attualità, il presente occupa lo spazio e resta silenzio per i deceduti, finché anche quelli che ne conservavano memoria, muoiono a loro volta e allora non resta più niente. E anche se per ognuno è diverso e se ognuno ha bisogno del tempo per elaborare il lutto, e anche se si ha la necessità di raccontare a qualcuno, tutti sanno che parlarne è superfluo. La morte resta il limite del racconto.
Nel nostro caso, nell’assenza dell’elaborazione del lutto e nella necessità dei riti funebri, ci si propone il famigerato e temerario “ritorno alla normalità” sbandierato dalle istituzioni. Ma questo non ci permetterà alcuna elaborazione, se non sapremo che non c’è alcun ritorno, che il passato è bello che andato e nessuna normalità, e che il tempo ci è stato preso in una ripetizione continua. Alcuni dicono che questo periodo porterà nuove forme di racconto. Per ora è sempre lo stesso racconto e in seguito, al limite, porterà delle variazioni e possibilità nella coscienza del racconto. Altri dicono e sperano che le cose cambieranno, ma a forza di dirlo stanno esaurendo l’energia che ci vuole per cambiare.
Prepararsi a quello che sarà e a raccontare quello che è stato, non significa scappare dentro una finta e puzzolente interiorità - che serve solo da guscio per non vedere -, ma al contrario aprire gli occhi, accettare l’inesorabilità della situazione attuale, fare come se questa fosse la nostra vita, adesso e dopo, e non rimandare la presa di coscienza verso palliativi di interiorità o verso un futuro indeterminato. Credo che al contrario bisogna pensare questo momento come per il racconto che ne dobbiamo fare adesso. Pensare che questa è la normalità e che non ci sarà fine a questo periodo, serve per poter essere coscienti adesso - senza fughe nel passato che non insegna, nell’avremmo potuto fare questo o quello se ne avessimo avuto il tempo, senza fughe in bagliori di interiorità. Bisogna organizzarsi adesso come se non ci fosse un domani possibile per ulteriori discussioni e ancora discussioni e teorie. Credo che la sola cosa che ci resta da fare sia smetterla di scrivere, di cercare di riempire e riempire, di voler dire qualcosa quando non c’è niente da dire. Essere dritti in piedi davanti la morte e smetterla di scappare nelle ombre di un passato perduto. Metterci a leggere, prendere dalla morte e dai racconti e dalle vite già finite, allargando il nostro presente di letture e nutrire le nostre risorse. E finalmente fare un po’ di silenzio, accettare che non c’è niente da dire magari, raccogliere le energie e aspettare, ed essere pronti, di nuovo, più forti per cogliere la nostra occasione grazie a questa perdita di speranza e afferrare il presente che sarà e agire compagni.


Quando tutto sarà finito
“Tu sei lì a provare a tenerlo in questo mondo, ancora e ancora.”

Quando tutto sarà finito uscirai di casa e camminerai a piedi a lungo, ma tanto a lungo fino a stancarti le gambe che la notte ti faranno male e ti terranno sveglio e il giorno dopo farai la stessa cosa e camminare e camminare e ancora e ancora, finché riuscirai a dormire.
Quando tutto sarà finito chiamerai i tuoi amici e dirai che sì, vi vedrete al mare, arriverai e li troverai già lì ad aspettarti, come quando, da lontano, senti l’odore dell’acqua nell’aria e giri la testa a cercarla.
Quando tutto sarà finito prenderai tra le braccia i bambini e li terrai a lungo, sentendone il corpo e la sua consistenza unica e strofinandogli i piedi con delicatezza, per farli stare bene.
Quando tutto sarà finito ti riempirai le braccia di rumore e tutto il silenzio che ingombrava lo spazio da spalla a spalla e i tuoi occhi, sarà un ricordo lontano e asciutto.
Quando tutto sarà finito, sarà finito e con le dita, lente, circospette, riprenderai le misure tra le costole e i fianchi, tra le braccia e il collo, tra il dorso e la nuca, per vedere se ti ricordi come si fa a tenere a mente lo spazio dei corpi e calcolare le distanze sarà dall’ombelico alla bocca e dalle cosce alle gambe, fresche nell’estate.
Quando tutto sarà finito avrai una mano sullo sterno che prova a sentire dove si trova questa forza e questo respiro che si gonfia e si lascia andare, che sa di vita attraverso e penserai a chi non ha più respiro e né vento.
Quando tutto sarà finito i nomi delle strade e delle città saranno cambiati, perché non saranno più le stesse strade e le stesse città, non riconoscerai più quello che era prima, non saprai più quello che c’era e perché e vorrai un altro mondo, diverso, luminoso, migliore, bello bellissimo e lo vorrai subito, adesso.
Quando tutto sarà finito prenderai le scarpe pesanti dell’inverno e le chiuderai nell’armadio più profondo e poi chiederai che nascondano le chiavi nel posto più impensabile e lontano, perché per te non ci saranno scarpe che tengano i piedi e dove vorrai andare, né lacci che stringano piedi e dove vorranno stare. E le strade saranno sempre troppo brevi, come quando dopo una lunga salita e sempre da conoscere, come quando stai per girare l’angolo mentre pensi ad altro.
Quando tutto sarà finito, durante i primi momenti, ti sembrerà di parlare una lingua straniera, una lingua che non capirai, ma che porterà nel suono tutta la malinconia del tempo e della storia e della vita e ne sentirai i suoni e vorrai riconoscerli a tutti i costi e farci all’amore insieme senza aspettare, poi, chiara, arriverà la voce che saprai chi è e cosa vuol dire e smetterai di girarci attorno e ci farai ancora all’amore, ma con languore, e dolcezza e ancora e ancora.
Quando tutto sarà finito la luce dalla finestra ti dirà che è possibile, che è il tempo giusto, che adesso è il momento, passerai la mano davanti al viso ruotandone il palmo per impedirla e lasciarla andare a farti socchiudere le ciglia.
Quando tutto sarà finito si vedrà il mondo come dev’essere e tutto quello che succederà sarà indulgenza e passione, e alla violenza e alle voci che urlano e ai pugni sbattuti sarà dato l’esilio nelle profondità della terra dove l’invisibilità sarà la condanna e la scomparsa ai tuoi occhi e alla tua bocca la ricompensa.
Quando tutto sarà finito riderai e riederai e piangerai e poi riderai e ancora lacrime e gioia e commozione e poi gioia e poi ridere e ridere e ridere.
Quando tutto sarà finito, solitudine perderà il suo regno e tutti i suoi possedimenti, i contadini scacceranno il padrone che li sfruttava e si riprenderanno la terra, i partigiani scenderanno dalle colline a ingombrare le strade e scacciare il dittatore e sarà primavera inoltrata come una festa.
Quando tutto sarà finito sentirai la differenza tra il vento che viene da terra e quello dal mare, ovunque cadrà sabbia rossa del deserto, come se ovunque fosse il sud, e quando con gesto rapido farai per spazzarla via dalle braccia, sentirai il calore della pelle.
Quando tutto sarà finito la mano leggera e forte passerà le dita tra i tuoi capelli e ti toccherà la testa per prenderne la misura dello spirito e sentire la forma, tua particolare, tra le altre forme.
Quando tutto sarà finito saprai fare le buone scelte, quelle che non hanno dubbi, che sicure e certe, anzi certissime, faranno tremare le gambe.
Quando tutto sarà finito sarai qui e altrove, darai appuntamenti in luoghi impensati mai prima, ne inventerai di altri, immaginerai urgenze e cose da sbrigare e andrai nel mondo, vivrai nel mondo e poi ancora e ancora.
Quando tutto sarà finito andrai anche lontano pur di vedere il mare e ti siederai vicino con altri ad aspettare senza bisogno di parlare, finalmente.
Quando tutto sarà finito avrai sentimenti più puri e luminosi e la tua casa sarà in ogni luogo. Andrai alla spiaggia e aspetterai che arrivino dal mare.
Quando tutto sarà finito vorrai ballare come i cosacchi e poi come i greci e poi come i curdi e poi come i popoli d’America, avrai tutte le danze del mondo nelle tue gambe.
Quando tutto sarà finito lo vedrai nei tuoi occhi che saranno tanto vicini ad altri occhi, fino a nascondere tutto il resto.
Quando tutto sarà finito correrai veloce in strada e ti abbraccerai con quelli che ti vengono incontro correndo, tutti disperati e pieni di fame di corpi, e vi darete morsi leggeri per dirvi svegliati! e sapere che è tutto è vero; e poi altri e altri ancora fino a far male ai denti.
Quando tutto sarà finito non ci sarà niente da dire, ma solo prendersi, tenersi, abbracciarsi, baciarsi e mani e mani dappertutto.
Quando tutto sarà finito lo saprai dagli odori della pelle che sentirai sotto il tuo naso e attraversano le strade con i loro profumi.
Quando tutto sarà finito lo saprai dal mi scusi signora, non l’ho vista, spero che non si sia fatta male, lasci che l’aiuti a rialzarsi, mi dia la mano adesso.
Quando tutto sarà finito prenderai il tram e dirai la prego, prenda il mio posto, insisto, scendo tra poco, ecco mi dia la borsa mentre si siede, ecco fatto.
Quando tutto sarà finito prenderai il sentiero che porta in montagna e una volta arrivato lassù godrai del cielo e della distanza dal mondo e tutto sembrerà più piccolo, meno importante, eppure così grande il cielo e lo spazio e tutte queste possibilità.
Quando tutto sarà finito saprai che sarà finito dai gomiti che spuntano fuori, mentre sei serrato stretto, e dalle mani che si fanno largo nei tuoi vestiti.
Quando tutto sarà finito starai al fiume con i piedi immersi e aspetterai di vedere i pesci saltare e ripiombare giù, con un tonfo, e l’acqua che scorre cambiare colore con la luce e il tempo che passa.
Quando tutto sarà finito come i musi umidi dei cani quando seguono una pista, attaccati e stretti, e l’odore che li prende.
Quando tutto sarà finito le spalle sull’erba, le spalle sull’erba e il petto verso l’alto, il brusio sulla schiena.
Quando tutto sarà finito stringere mani sarà riconoscersi, sapere che si è tra gente libera e grata.
Quando tutto sarà finito non accetterai più le parole della violenza e a chi le userà indicherai un punto lontano e non dirai niente e aspetterai che capisca anche lui e che guardi più lontano.
Quando tutto sarà finito uscirai presto al mattino, avrai una grande valigia che avrai preparato la sera prima, prenderai il treno e poi l’aereo e poi l’automobile, arriverai dove devi arrivare, saluterai tutti, e starai lì e lo accarezzerai a lungo e ancora e ancora, per fargli sapere che ci sei e che ci resterai a lungo per aspettare insieme e poi lo prenderai in automobile e lo porterai in giro, in nessun luogo in particolare, ma solo in giro, ché a lui piace uscire, gli è sempre piaciuto, perché è cresciuto libero in montagna ad accudire le caprette e quando hai conosciuto la libertà indeterminata della natura, ti entra dentro e le case poi non sono mai abbastanza grandi e non ci sono mai abbastanza finestre per sentirsi come quando da bambino stavi a dormire all’aperto ed era giusto così, ed era perfetto. E allora gli toccherai le mani e gli accarezzerai le spalle per dirgli che pure se non ci vede bene e non cammina bene e ormai ci sono tante ombre, tu sei lì a provare a tenerlo in questo mondo, ancora e ancora.



Water that extends to the horizon”
ink and sequins on paper, 32 x 40 cm, 2005
Autore : Marisa Cornejo (www.marisacornejo.com)