* In “Formazione & Cambiamento”, Nuova serie, n. 7, 2017

Che l’apprendimento sia concepibile secondo la chiave della betweenness, come suggeriscono Gianluca Cepollaro e Giuseppe Varchetta (2014), è un punto di vista che può essere fatto risalire già a Platone, il quale scriveva nel Teeteto: «E non ci capita questo, per tutte le cose in genere e per ognuna in particolare, che noi o conosciamo o non conosciamo? Perché l’apprendere e il dimenticare, che sono i due processi intermedi (metaxỳ), io li lascio da parte per il momento […]» (188a, trad. M. Valgimigli). Con il termine “betweenness” Cepollaro e Varchetta non fanno peraltro riferimento «ad alcuna ricerca del giusto mezzo tra due estremi», bensì «a quella tensione ad abitare l’intermedietà, a fare la spola e a tessere legami tra elementi e livelli spesso apparentemente in contrapposizione non risolvibile. È questa tensione che qualifica l’apprendere ad apprendere» (p. 59). È la stessa tensione che indusse Platone ad utilizzare il termine «metaxỳ» per indicare la singolare compresenza tra gli opposti della conoscenza e dell’ignoranza, che contraddistingue i processi del dimenticare e dell’apprendere: il composto delle preposizioni meta (in mezzo, tra) e syn (insieme, con), infatti, indica ciò che stando in mezzo separa e congiunge. Ciò vale negli ambiti più diversi: dal fuggevole istante presente, sospeso tra passato e futuro, fino ai complessi accoppiamenti intessuti da Eros nello spazio delle relazioni umane, quell’Eros che non a caso viene descritto nel Simposio come figlio di abbondanza e mancanza, filosofo per eccellenza in quanto intermedio tra l’essere sapiente e l’essere ignorante, ma proteso al sapere.

 

 

 

 

 

 

 

Grazie alla capacità di abitare l’intermedietà possiamo apprendere, in quanto non siamo mai né del tutto dentro, né del tutto fuori al già dato, a ciò che siamo stati. Riferendosi alla celebre illustrazione Mani che disegnano, di Escher, in cui due mani sembrano uscire dal foglio bidimensionale in cui sono inserite per disegnare se stesse, Varela vi riconosce un modello dei loop creativi e virtuosi in base ai quali soltanto possiamo tentare di «comprendere i sistemi naturali, i fenomeni cognitivi e il ricco mondo delle forme» (Varela 2008). Più specificamente, riferendo tali considerazioni ai processi di apprendimento, potremmo dire che ogni apprendimento comporta un circolo di auto-eso-referenza, di uscita e di ritorno, di attraversamento di cornici. Si apprende in quanto ci si può staccare dal mondo nel quale ci si trova, pur continuando a farvi riferimento, in una dimensione intermedia in cui autonomia e dipendenza sono correlate senza elidersi a vicenda: tra il già visto e ciò che resta da vedere, tra il già esperito e ciò che è altrimenti esperibile, tra il già concepito e ciò che ancora non è stato concepito. Poiché ogni apprendimento comporta il passaggio dal punto in cui si è, dal contorno di ciò che è stato già acquisito, ad un punto in cui non si è ancora, è significativo che l’idea dell’approssimarsi sporgendosi sia inscritta, con una suggestione motoria, nell’etimologia del verbo latino “ad-prehendere”, che indica un protendersi verso (ad) qualcosa di cui si è privi, per afferrarlo (prehendere). L’esito del tentativo dipenderà dal punto in cui ci si trova, dalla distanza del punto verso cui ci si protende e dal modo di sporgersi e incamminarsi nella betweenness, affrontando l’inevitabile condizione di mancanza di equilibrio; dipenderà inoltre dal modo in cui siamo accompagnati.
Nel quadro metaforico così delineato, emerge chiaramente l’importanza del creare connessioni: si tratta di quel relier (mettere in relazione, collegare) su cui si concentra la ricerca di Edgar Morin (1999, 2001). Apprendere può dunque significare: riuscire a vedere o a fare altrimenti le cose, a cogliere nuovi nessi, a scorgere una forma o una figura dove prima non se ne scorgeva nessuna. Così, un bambino che abbia imparato a leggere, vedrà diversamente da come gli accadeva in precedenza i seguenti segni:

M A N O

Probabilmente, dopo aver appreso a leggere, non riuscirà più a vederli come li vedeva prima, senza associarvi un suono e un significato.

MANO

Ma apprendere può anche significare: riuscire a scorgere lo sfondo caotico dietro la figura che ci appare stabile e ben definita, su uno sfondo uniforme: il che accade, ad esempio, quando si inizia a dubitare di una credenza precedentemente ben fissata o quando si inizia a cambiare idea su qualcosa.
Ogni nuova forma percepita, concepita o agita, una volta che sia appresa, porta con sé possibilità e vincoli nuovi. Tendiamo ad attenerci alle forme già note, perché cercarne e afferrarne altre può richiedere sforzo, fatica e frustrazione; raramente problematizziamo concetti e punti di vista che ci sembrano naturali, ovvi e scontati; analogamente, tendiamo a ripetere i nostri schemi motori divenuti abituali senza accorgercene, quasi per automatismo, finché un disagio o una sofferenza non ci costringano a ripensarli, o finché una nuova prospettiva di senso e un improvviso entusiasmo non ci costringano a rivederli. Come abbiamo un passo caratteristico, una postura, un modo di stare seduti, un modo di guardare e di impugnare gli oggetti, così abbiamo un modo caratteristico di affrontare i problemi e di impugnare le idee che ci sono consuete. La possibilità di apprendere è la possibilità che abbiamo di mantenere aperta una tensione tra la realtà che ci appare “data” e quella possibile; tra ciò che si è, si sa e si può fare in un dato momento e ciò che si può divenire.
Abbiamo fatto riferimento alla suggestione motoria evocata dal verbo latino “ad-prehendere”: riprendendola ed approfondendola, possiamo cogliere altre implicazioni di quanto esposto fin qui. Fornendo una delle versioni più radicali del rapporto tra pensiero e movimento, Rodolfo Llinás (2001) ha formulato l’ipotesi che il pensare sia concepibile come «motricità internalizzata (internalized motricity)»: assumendo come premessa il fatto che agiamo facendoci immagini senso-motorie non solo visive dei contesti da cui l’agire dipende, l’apprendimento è possibile in quanto non esistono «configurazioni fisse d’azione (fixed action patterns)», cosicché il sistema nervoso deve modificarsi per raccordarsi al cambiamento (ivi, p. 174).
Che il contesto sia decisivo lo si ricava dall’esempio del funambolo: «camminare sul bordo di un marciapiede e camminare su una corda o su un filo metallico – scrive Llinás – non sono cose molto differenti: nei due casi è richiesto un ciclo di passi orientato a seguire una linea retta. Il feedback sensoriale, però, è drasticamente differente nei due casi. Camminando sulla corda aumenta il bisogno di un aggiustamento compensativo dell’equilibrio, perché l’area d’appoggio per il piede è limitata e perché la corda si muove rispondendo ai movimenti del corpo, al contrario del bordo del marciapiede. La differenza più rilevante, comunque, è un altro aspetto del contesto, particolarmente serio. Nel caso della corda, se perdi l’equilibrio, puoi morire» (ibidem). Come si apprende, allora, a camminare su una corda? Trovando il modo di abitare una betweenness tra ciò che si sa fare e ciò che ancora non si sa fare. Può essere utile passare progressivamente dal bordo del marciapiede a supporti meno stabili e sospesi ad altezza maggiore. Il passaggio diretto dal marciapiede alla corda sospesa, infatti, avrebbe pesanti controindicazioni, in quanto il nostro sistema sensomotorio e cognitivo non avrebbe appreso a trovare l’equilibrio e gli accoppiamenti strutturali adeguati con l’insolita situazione. Ciò vale peraltro per ogni apprendimento: si impara a camminare o a pedalare su due ruote essendo sostenuti da mani che progressivamente ci lasciano andare; si impara a nuotare, cioè a trovare un accoppiamento strutturale adeguato tra il proprio corpo in movimento e un ambiente fluido in cui si potrebbe sprofondare, grazie all’uso e all’abbandono progressivo di supporti (il sostegno di qualcuno, i braccioli, il tubo utilizzato comunemente nelle piscine).
Tuttavia l’apprendimento non è soltanto questione di passaggi in questo senso: la pratica e la ripetizione sono necessarie affinché il sistema nervoso apprenda e, con la ripetizione, muta la “significanza interna” (internal significance, scrive Llinás) delle cose e degli ambienti con cui si interagisce; accade così un altro genere di passaggio, relativo alla significanza delle medesime cose che, attraverso una pratica ripetuta, appaiono mutare di senso.
C’è un rapporto tra le strade già percorse (da altri o da sé) e ciò che è possibile fare in condizioni di dipendenza dal sentiero battuto (path-dependence). Analogamente, c’è un rapporto tra il già concepito, ciò che è concepibile (ma non è ancora stato concepito) e ciò che diventa o appare possibile, cambiando il modo di concepire. Se ci rappresentiamo il dominio del concepibile come uno spazio ondulato e frastagliato, la parte più popolata sarà quella del già concepito, in ragione di una disposizione a conformarsi a ciò che già c’è, percorrendo il sentiero battuto, che deriva anche dal modo in cui si strutturano le relazioni di potere e di apprendimento nella loro dimensione mimetica. Eppure la contingenza permette, anche in queste condizioni, l’evoluzione: il passaggio dal già concepito al concepibile che ne resta fuori avviene per lente modificazioni e traslazioni, con l’affiorare di incongruenze, difficoltà ed enigmi che possono portare un sistema di idee, di valori e di pratiche operative anche molto consolidato a mutare di significato, ad essere visto altrimenti, ad essere riformulato o abbandonato. Le estensioni nel dominio del concepibile diventano poi, ogni volta, anche estensioni nel dominio degli usi possibili di sé: l’accesso a tali estensioni è l’attraversare mondi di cui l’apprendimento è al tempo stesso premessa e conseguenza.

Riferimenti bibliografici

Cepollaro G., Varchetta G. (2014), La formazione tra realtà e possibilità. I territori della betweenness, Guerini Next, Milano.
Llinás R. R. (2001), I of the Vortex. From Neurons to Self, The MIT Press, Cambridge (Mass.)-London.
Morin E. (1999), Rélier les connaissances, Seuil, Paris.
Morin E. (2001), I sette saperi dell’educazione del futuro, Cortina, Milano.
Varela F. J. (1981), “Il circolo creativo: abbozzo di una storia naturale della circolarità”, in P. Watzlawick (a cura di), La realtà inventata. Contributi al costruttivismo (1981), Feltrinelli, Milano 2008; pp. 259-272.