* In “Formazione & Cambiamento”, n.23, 2003
 
1.Organizzazioni e formazione
Le pagine che seguono cercheranno di esplorare in modo necessariamente sintetico (1) i nessi tra azione formativa e processi organizzativi così come essi emergono  alla luce delle più significative elaborazioni italiane degli ultimi 30 anni. In effetti, l’interesse per la relazione tra processi organizzativi e pratiche formative è da tempo al centro di molte riflessioni e discussioni  influenzate da interpretazioni ed orientamenti talora anche marcatamente diversi e comunque oscillanti tra i poli opposti di due punti di vista: da un lato, si punta a precisare l’utilità della formazione in rapporto alle (e in quanto «variabile dipendente» delle) scelte di politica organizzativa; dall’altro, si cerca di costruire in modo autonomo il senso tecnico e l’identità professionale di un insieme di pratiche la cui rilevanza nelle organizzazioni è ormai ampiamente riconosciuta. In ogni caso, è fuori discussione il fatto che in questa relazione trovi fondamento, sviluppo e progressivo consolidamento quel variegato campo di saperi, culture e pratiche professionali che convenzionalmente è denominato «formazione». Inoltre essa esibisce una sua dinamica che riflette i cambiamenti – talora impercettibili, talora discontinui e radicali – ai quali, sotto l’influenza di una molteplicità di fattori, sono interessati tanto il «mondo» (cioè le culture, gli stili e le pratiche) delle organizzazioni, quanto il «mondo» della formazione. Infine, pur essendo in questa relazione largamente reciproca l’influenza dei due «mondi», l’approdo ad una visione «integrata» è un processo non certo facile né scontato: si è infatti passati, nel tempo, da prospettive (teoriche e pratiche) nettamente separate, a configurazioni interpretative in cui emerge una crescente sensibilità sulla necessità di significative connessioni tra le due dimensioni, per giungere in tempi più recenti al progressivo consolidamento dell’idea secondo cui l’azione formativa è parte integrante delle pratiche organizzative delle quali talora anticipa rilevanti fenomeni innovativi.
Proveremo ad analizzare questa relazione proponendo una chiave di lettura che tende ad evidenziare come, proprio a partire da questa relazione costitutiva con i processi organizzativi, le principali categorie concettuali e di metodo legate all’azione formativa si vengano affermando sul campo (generando pratiche e lessici consolidati) in progressiva presa di distanza e deciso affrancamento rispetto alle culture, agli orientamenti e alle modalità operative tipiche dell’educazione stricto sensu dalle quali la formazione trae la sua origine. 
A ben vedere, è la stessa dinamica di questo processo di affrancamento, oltre che le culture tecniche che ne hanno ispirato i tratti fondamentali, ad accompagnare la trasformazione del suo intero apparato concettuale e di metodo. Da un lato, infatti, la cultura e le pratiche della formazione nascono e si sviluppano man mano che, distanziandosi sempre di più dagli ambiti originari delimitati dai confini dell’educazione tradizionale, si situano in contesti d’azione caratterizzati da un riferimento specifico e diretto al mondo del lavoro e delle organizzazioni: in questo senso, si dà formazione solo se e nella misura in cui essa è associata ad un’idea di accrescimento di competenze professionali (e da questo punto di vista si può effettivamente parlare di formazione pertinente). Dall’altro, la graduale affermazione ed il consolidamento di un bagaglio di teorie, tecniche e metodi segue un movimento di progressiva presa di distanza dai fondamenti pedagogici delle culture di origine basati, come è noto, sull’ipotesi dell’adattamento di chi (letteralmente) «deve essere formato», per accedere (sempre più decisamente) a visioni e pratiche in cui irrompe – pur rimanendo ancora entro lo schema dell’adattamento – anche la soggettività (dunque la disponibilità da acquisire e poi la partecipazione) di chi «deve essere formato».
Su questi due tratti di fondo si è sempre giocato – e presumibilmente si giocherà ancora – lo sviluppo di quel campo eterogeneo di pratiche che denominiamo «formazione».
Sarà utile, allo scopo di focalizzare meglio il senso del nostro ragionamento, una rapida descrizione dei passaggi di fondo che caratterizzano lo sviluppo della cultura e dei metodi della formazione partendo dalle visioni che, all’origine, ne caratterizzavano i tratti essenziali nei termini di veicolo dell’adattamento passivo degli individui all’organizzazione, per giungere agli orientamenti attuali che vedono il prevalere di approcci centrati sulla dimensione dell’apprendere. 
La ricostruzione qui schematicamente abbozzata si propone di esplorare  – facendo riferimento prevalente all’insieme delle esperienze e delle elaborazioni maturate in Italia tra gli anni ’60 e gli anni ’90 del Novecento – il processo di costruzione dei contenuti concettuali e di metodo che nel loro insieme definiscono e strutturano il campo d’azione delle pratiche formative nelle organizzazioni. L’idea di fondo è quella di ancorare la formazione ai contesti concreti nei quali (e per i quali) essa è attivata. E poiché, come si è cercato di argomentare, le organizzazioni sono il referente contestuale più rilevante delle azioni formative, gli sviluppi delle teorie e dei modelli organizzativi più significativi dal punto di vista della loro valenza applicativa diventano il punto di riferimento e lo sfondo a partire da cui si costituiscono le pratiche formative ed i loro orientamenti teorici e di metodo. Assumendo questo punto di vista, l’analisi intende proporre una lettura longitudinale che assume l’evoluzione delle teorie e delle pratiche organizzative articolandola in una successione di tre prospettive paradigmatiche: approccio taylor-fordista o modernista, approcci organicistico-sistemici o neo-modernisti, culture ed approcci organizzativi post-industriali e postmodernisti
A ciascuno di essi corrisponde quasi specularmente un orientamento conforme di pratica della formazione. In quest’ottica (2), è possibile mettere in evidenza non solo le corrispondenze – talora le coincidenze meccaniche – tra teorie/pratiche organizzative e schemi d’azione formativa, ma anche il passaggio delle culture formative dai modelli deterministici originari alle pratiche più recenti. E’ inoltre possibile ripercorrere, per questa via, il processo attraverso il quale l’azione formativa si costruisce e si definisce, nel tempo, come un ambito tecnicamente autoconsistente (quasi-disciplinare si potrebbe dire) di pratiche e di culture professionali.  Quest’ultimo tipo di ri-lettura è possibile considerando i modi diversi in cui, all’interno dei tre orientamenti presi in esame, sono concepite ed interpretate le tre dimensioni tecniche principali dell’azione formativa – analisi dei bisogni, progettazione e valutazione – che qui assumiamo come terreno costitutivo per eccellenza dell’elaborazione di teorie e di dispositivi di metodo (3) sempre più ricchi.
 
2.Il paradigma modernista
L’orientamento originario è caratterizzato dal prevalere di una cultura deterministica della formazione che corrisponde in modo del tutto speculare al modello organizzativo dominante, lo schema taylorista dell’organizzazione, che considera l’uomo al lavoro né più, né meno che una sorta di prolungamento delle macchine e, proprio per questo, le sue capacità lavorative (che saranno ricompensate monetariamente in misura corrispondente al contributo apportato all’insieme) non solo dovranno meccanicamente rispondere alle disposizioni del management, ma dovranno necessariamente essere piegate alle esigenze dell’organizzazione (anche queste, evidentemente, determinate dal management).
Il taylorismo (in quanto presunta «disciplina scientifica» ed in quanto autentica ideologia delle società industriali di un lungo periodo del Novecento), si basa, come è noto, su due principi essenziali. Il primo è quello della one-best-way, che postula la possibilità che per ogni attività ci sia un modo ottimale ed unico di svolgerla. Una volta attribuiti i compiti agli operatori, si tratterà di garantire  - e questo aspetto è cruciale dal punto di vista del nostro discorso – che ciascuno di loro sia in grado di svolgerli in modo del tutto corrispondente alle specificazioni definite in sede di pianificazione del lavoro e trasmesse per via formativa agli operatori. Il secondo principio (corollario del primo), è quello dell’homo oeconomicus: l’uomo al lavoro è spinto solo da motivazioni di massimizzazione del guadagno economico ai cui stimoli – e solo ad essi – egli risponde: quanto maggiore è il compenso ricevuto, tanto più alte saranno le probabilità che il suo impegno cresca in intensità e garantisca dunque che il suo compito sia svolto in modo più efficace e più rapido. 
In simili condizioni – che postulano la riducibilità dell’individuo alle macchine delle quali egli sarebbe un prolungamento e dunque parte integrante (nella misura in cui svolge compiti ripetitivi, prevedibili e perfettamente controllabili) – la formazione assume precisamente la funzione di snodo cruciale dei processi di riproduzione tecnica e di funzionamento dell’organizzazione: essa infatti garantisce le pre-condizioni affinché le capacità operative dell’individuo siano piegate alle esigenze dei compiti che l’organizzazione (ovvero la sua «tecnostruttura») ha predefinito e deciso che lui svolga. La formazione è un fondamentale presidio delle scelte tecniche dell’organizzazione sul versante dell’«addestramento» e dell’«indottrinamento»  degli uomini e del loro assoggettamento agli imperativi del sistema.
La cultura tecnica, lo status e l’ideologia stessa della formazione sono orientati dalla logica dell’adattamento meccanico dell’individuo all’organizzazione. La formazione assume cioè le caratteristiche di azione di addestramento (nel senso letterale del termine: render “destro”, cioè abile, qualcuno a qualcosa da eseguire) ad un compito semplice e ripetitivo ed ai principi gerarchici che dominano la vita dell’organizzazione.
 Le sue risorse tecniche, ancora largamente rudimentali, sono piuttosto indifferenziate rispetto alle modalità tradizionali del lavoro educativo (del quale assumono gli aspetti più arcaici ed autoritari) e si fondano:
1) su analisi dei bisogni del tutto appiattite alle esigenze dell’organizzazione: la risultante tecnica di questa «visione» è la celebre job/skill analysis che in una semplice matrice registra le caratteristiche delle posizioni lavorative (definite in termini di compiti), da un lato, e, dall’altro, le capacità/abilità necessarie, da acquisire per via formativa, allo svolgimento di tali compiti. La determinazione delle abilità necessarie (e da far corrispondere) a ciascun compito costituisce dunque l’essenza dell’analisi dei bisogni tayloristica; 
2) su stili di progettazione sostanzialmente ridotti a sequenze di programmi di addestramento/istruzione al compito in una prospettiva ultrarazionalistica che colloca gli obiettivi al centro dell’intero processo; ne deriva una visione ed una pratica dell’azione progettuale che riduce (e riconduce) gli obiettivi della formazione e dell’apprendimento ad una piatta registrazione dell’analisi del lavoro e dei bisogni di formazione declinati in chiave di traguardi di capacità operative legate ai compiti richiesti dall’organizzazione del lavoro; 
3) su una pratica della valutazione mirata alla verifica diretta dell’effettiva acquisizione di capacità operative elementari.    
Nella prospettiva della formazione tayloristica, i «formatori» (in questo caso gli «istruttori»), altro non sono che i depositari della capacità di esecuzione del compito la cui azione si limita ad un mero lavoro di trasferimento meccanico di semplici rudimenti di tecniche applicate.
I tratti generali della cultura formativa fin qui delineati, se da un lato riflettono prevalentemente le pratiche di formazione orientate all’addestramento al compito, dall’altro ispirano in modo del tutto analogo (seppure in condizioni radicalmente diverse non solo perché diversi sono i destinatari delle attività, ma anche perché diversi sono i contesti e le finalità dell’azione formativa) la formazione manageriale che è orientata essenzialmente a rinforzare i contenuti e l’ideologia del ruolo dirigenziale (la cultura della leadership) e, per questa via, a garantire la persistenza del fondamento gerarchico dell’organizzazione. 
 
3.Gli approcci neo-modernisti
Un deciso superamento delle modalità tayloristiche di intendere e praticare la formazione emerge parallelamente all’affermarsi di una diversa visione del mondo delle organizzazioni che in linea di massima coincide con una prospettiva nuova (che qui definiamo neo-modernista), in base alla quale la logica del determinismo della macchina e dell’organizzazione è messa in discussione anche sul terreno applicativo per fare spazio a concezioni più temperate ed al tentativo di una tendenziale ricomposizione della frattura tra uomo ed organizzazione. 
Il cambiamento avviene anche in presenza di fenomeni che mettono in evidenza i radicali limiti dell’economicismo che caratterizza il modello dominante facendo emergere la rilevanza delle dimensioni relazionali dei processi organizzativi e, in questo quadro, la non riducibilità degli attori nelle organizzazioni a mere funzioni meccaniche. E’ la crescita stessa delle soglie dimensionali delle imprese e l’intreccio delle relazioni (tra imprese stesse e tra imprese e società) che pone al centro la questione del loro funzionamento in condizioni di crescente complessità e di crescente instabilità degli ambienti di riferimento rispetto ai quali si pongono nuovi e più dinamici problemi di adattamento. Da qui la necessità di riconoscere la rilevanza sociale delle organizzazioni e la loro  caratteristica di sistemi sociali dotati di specificità difficilmente «governabili» secondo i principi dello scientific management.
Questa nuova logica – interpretata dapprima dalle correnti delle human relations, successivamente dalle letture delle organizzazioni come sistemi aperti e poi da varie altre prospettive di analisi sviluppatesi nel tempo – segna l’avvio del distacco radicale rispetto al modello meccanicistico dell’organizzazione attraverso il riconoscimento dell’importanza cruciale di alcuni fattori. Tra questi, almeno due risultano particolarmente rilevanti ai fini del nostro discorso:
1) la rivalutazione dell’importanza delle dimensioni affettive, umane e relazionali nella vita organizzativa: l’uomo al lavoro non è, come vuole la tradizione consolidata, solo il prolungamento della macchina, ma è anche un essere dotato di emozioni, di capacità affettive e di bisogni, tra i quali, non ultimo dal punto di vista della sua partecipazione alla vita organizzativa, quello di realizzarsi anche attraverso il lavoro e quello di esser parte di un’impresa alla quale dedicarsi insieme ad altri;
2) la «scoperta» della crucialità delle relazioni tra organizzazione ed ambiente ai fini della sopravvivenza e dello sviluppo delle imprese. Viene maturando dalla fine degli anni 50 del Novecento, una crescente consapevolezza circa il peso dei «fattori ambientali» nella determinazione dei diversi «fattori» costitutivi dell’equilibrio organizzativo. L’ambiente delle organizzazioni diventa un oggetto di attenzione privilegiato per gli studiosi ed un punto di riferimento centrale per i manager impegnati nella gestione dei processi organizzativi. Maturano in questo contesto gli approcci in base ai quali i «parametri» di progettazione e ri-progettazione dovrebbero mantenere un certo grado di elasticità per consentire alle strutture dell’organizzazione quella capacità di adattamento alle variazioni ambientali grazie alla quale è possibile, per esse, sopravvivere anche in condizioni di elevata turbolenza dell’ambiente. 
In opposizione speculare dunque rispetto alle visioni dell’organizzazione come «sistema meccanico» emerge e si consolida la prospettiva dell’organizzazione come «sistema organico» che, al pari degli organismi viventi, è fortemente sensibile agli «stati» dell’ambiente. Creare le condizioni che favoriscono l’adattamento del sistema al suo ambiente diventa dunque di vitale importanza. 
In questo clima di elaborazioni, riflessioni ed esperienze, si viene anche rafforzando e diffondendo l’uso dell’approccio sistemico considerato uno degli strumenti intellettuali di maggior potenza operativa per lo studio delle (e l’intervento nelle) organizzazioni. Il successo del ragionamento sistemico è dovuto in larga misura al contributo che gli studiosi inglesi del Tavistock Institute – sotto l’impulso di Emery e Trist – danno all’elaborazione dell’approccio socio-tecnico per l’analisi e la progettazione delle organizzazioni. Si tratta di una prospettiva che è simultaneamente di studio e di intervento, grazie alla quale è posto al centro dell’attenzione di studiosi e di operatori il problema del cambiamento organizzativo e sono indicate piste di soluzione che assumono la necessità di tenere insieme tutti i fattori organizzativi avendo cura di considerare congiuntamente le dimensioni tecniche (quelle legate alla tecnologia, alle strutture, ecc.) e quelle sociali (quelle cioè legate al «fattore umano», al capitale di capacità professionali di cui l’organizzazione dispone). 
L’enfasi sulla esposizione dell’organizzazione alle variazioni ambientali e sulla sua connotazione di sistema aperto nel quale le dimensioni relazionali e sociali assumono una nuova rilevanza, non solo rinnova in modo significativo il quadro delle interpretazioni e delle pratiche organizzative, ma costituisce anche l’humus fertilissimo ed il retroterra solidissimo per la «fondazione» di una cultura radicalmente rinnovata della formazione. Poiché le dimensioni legate ai fattori tecnici della produzione e dell’organizzazione non sono più un imperativo, ma bisogna tener conto del contributo, dei bisogni e delle esigenze degli individui oltre che del loro mutato ruolo di soggetti capaci di adattamento autonomo agli imprevisti ed alle variabilità interne così come a quelle esterne, la formazione, in quanto «strumento» par exellence delle politiche del «fattore umano», comincia a diventare non solo parte integrante della pratica organizzativa, ma anche un terreno fertile di elaborazioni culturali e di nuove tecniche d’azione che gradualmente assumono una loro consistenza propria man mano che prendono le distanza dalle rudimentali visioni consolidate. E’ in questo clima che l’azione formativa, nel corso di alcuni anni, si rafforza e amplia i suoi confini fino a prefigurare un campo quasi-disciplinare con un suo statuto metodologico (dotato di sue teorie, metodi e strumenti d’intervento) e con ruoli professionali (i formatori) che cominciano ad accreditarsi tanto nello spazio delle organizzazioni quanto nella società. Si profila una prospettiva d’intervento che, sul versante delle pratiche, comincia ad elaborare specifiche tecniche che si ispirano in larga misura ad approcci orientati ad incidere sugli aspetti motivazionali e dei comportamenti degli individui allo scopo di valorizzare il loro contributo all’organizzazione (non più dunque solo accrescimento delle conoscenze teoriche e dei saperi pratici) e, al tempo stesso, di favorire le loro capacità di adattamento consapevole alle mutevoli esigenze del sistema. 
Il consolidamento dello status organizzativo della formazione – cioè la sua graduale internalizzazione nell’ambito delle politiche organizzative orientate alla «gestione delle risorse umane» – favorisce il clima che porta ad elaborazioni sempre più sofisticate del suo apparato metodologico fino a giungere ad una configurazione di tipo processuale di ogni intervento di formazione. Ed è proprio con la visione dell’intervento come processo caratterizzato da azioni tecniche interconnesse da legami di flusso, che si delinea il punto di svolta grazie al quale le pratiche formative assumono una forma matura ed al tempo stesso una dimensione professionale di una certa consistenza. Il «processo di formazione», secondo le formulazioni più affermate, si articola in una sequenza di azioni concatenate che, per ogni intervento, partendo dall’analisi dei bisogni, prevede la progettazione, l’attuazione ed infine la valutazione dei risultati.
In questo quadro, le «determinanti» tecniche dell’azione formativa assumono un crescente livello di complessità e compattezza sia per quanto riguarda i contenuti operazionali, sia per quanto riguarda l’apertura a (e l’acquisizione di) contributi teorici e metodologici derivanti da un ampio spettro di saperi. E’ così che si consolidano, fino a divenire pratiche codificate, i «principi» di metodo legati all’analisi dei bisogni, alla progettazione ed alla valutazione. Vediamone i tratti essenziali.
L’analisi dei bisogni diventa un’attività specialistica rispetto alla quale è richiesto un bagaglio di strumenti del tutto nuovo rispetto alle tradizionali competenze degli operatori della formazione: emerge la necessità di chiarificare, in primo luogo, cosa debba intendersi per bisogno di formazione e, in secondo luogo, il problema di come procedere per individuarlo ed analizzarlo. 
La prima questione, mette in evidenza il fatto che i bisogni corrispondono, non già agli imperativi funzionali del sistema assunti unicamente dal punto di vista dell’organizzazione ed ai quali far corrispondere per adeguamento meccanico le prestazioni degli individui, ma all’esigenza di integrare le varie parti del sistema in modo tale da garantire il suo equilibrio e dunque il suo funzionamento appropriato. Nella sua configurazione più compiuta, l’analisi dei bisogni è quindi intesa come una sorta di lettura congiunta delle esigenze formative espresse dall’organizzazione e dagli individui in un’ottica capace di trovare mediazioni appropriate tra punti di vista non necessariamente omogenei (anzi talora conflittuali) in una prospettiva che pone il «formatore» al centro di una dinamica tripolare nella quale il suo ruolo è quello di comporre in un disegno equilibrato le indicazioni dei «committente»  e quelle dei «clienti/utenti». 
La seconda questione, riguarda, una volta chiarito il senso dell’operazione, le modalità con cui lavorare all’analisi dei bisogni di formazione. Su questo terreno, prescindendo qui dalla considerazione delle conseguenze pratiche (per non dire del grado effettivo) della sua applicazione, il «modello» che si afferma come lo schema metodologico di gran lunga dominante tra gli operatori della formazione in Italia, prevede un lavoro (a) di raccolta di informazioni sui «bisogni dell’organizzazione» (dati strutturali, sul personale, sulla formazione) e «sui bisogni degli individui» (dati sui compiti svolti, sul ruolo, sui problemi connessi alle attività, sul sistema delle aspettative); (b) di interpretazione prima e poi di sintesi delle conoscenze acquisite all’interno di un disegno che soddisfi tutti gli attori implicati. 
La progettazione delle attività di formazione diventa l’ambito metodologico di maggior interesse dal punto di vista dello sviluppo delle pratiche di intervento nella misura in cui, proprio sul terreno applicativo e in situazioni di confronto diretto con le conseguenze delle loro scelte, consente agli operatori ampi margini di verifica dei propri strumenti d’azione e, per questa via, la possibilità di accumulazione di un sapere empirico assolutamente originale. La progettazione degli interventi è tematizzata e concepita come l’operazione tecnica grazie alla quale sono prefigurate nei dettagli le azioni del processo di implementation dell’intervento. Si viene delineando e progressivamente consolidando una tendenza a concepire la progettazione come una pratica processuale inclusa nel processo formativo più generale in una prospettiva in cui le visioni prevalenti tendono a privilegiare un’idea deterministica di «processo» che è definito ed agito come un insieme concatenato di attività orientate al conseguimento di un risultato che in genere coincide con un obiettivo fissato in anticipo. Ciò che prevale nella cultura pratica della progettazione – ma anche in gran parte della letteratura metodologica circolante – è un’interpretazione di tipo ingegneristico della progettazione orientata da una visione iper-razionale e finalistica dell’azione e strutturata attorno alla centralità assoluta degli obiettivi che guidano – in modo rigorosamente sequenziale – ogni passaggio esecutivo del disegno prefigurato (4). 
 
Anche la valutazione è inclusa, essendo il suo punto di arrivo, nel ciclo del «processo di formazione». Si tratta, nella logica prevalente e nella gran parte dei dispositivi di metodo circolanti, di verificare in quale misura i risultati della formazione realizzata corrispondano agli obiettivi fissati in sede di progettazione (e in qualche modo veicolati dagli esiti dell’analisi dei bisogni).  E’ evidente la prevalenza del ragionamento obiettivi-risultati in una prospettiva che mentre da un lato rimane impigliata nel determinismo degli obiettivi, dall’altro tende a focalizzare l’attenzione sui risultati dell’intervento chiudendo del tutto l’orizzonte esplorativo ad ogni altra possibilità di scoperta derivante dall’inclusione, tra gli «oggetti» da valutare, dell’insieme dei fenomeni che caratterizzano il processo nel suo svolgersi. Così, essendo l’apprendimento dei contenuti su cui è costruito l’intervento di formazione il centro dell’attenzione, è su di esso che si concentra l’interesse prevalente della valutazione. E’ scarso l’interesse per gli effetti dell’azione formativa sui contesti di riferimento (cioè sulle organizzazioni), mentre si vengono affermando (e con un rilievo crescente – fino a diventare perfino sostitutive della valutazione degli apprendimenti) le valutazioni di gradimento realizzate attraverso l’immancabile «questionario di fine corso» al quale si attribuisce un valore sovradimensionato nella misura in cui non si tiene conto del fatto che le percezioni ed il giudizio dei partecipanti – pure necessari – sono del tutto parziali, soprattutto in assenza di altre e più articolate valutazioni. 
 
Considerando nel loro insieme gli orientamenti di metodo che caratterizzano l’approccio neo-modernista alla formazione, emerge una complessità nuova, una maturazione ed una ricerca inedite che portano alla stabilizzazione di fondo dei contenuti teorici e procedurali sui quali, nel tempo, si consolidano e si codificano pratiche professionali che fanno riferimento, nei tratti essenziali, a linguaggi e a stili di lavoro largamente condivisi. Ed è proprio attorno a questo nucleo centrale che si sviluppa una vasta comunità professionale che basa la propria identità proprio sulla denominazione di «formatore» la quale, tuttavia, ancorché efficace,  non risulta del tutto adeguata a descrivere i contenuti d’azione espressi in pratiche sempre più ricche: il ruolo del formatore, infatti, assume forme differenziate in ragione dei contesti di riferimento che oscillano, in linea di massima,  tra almeno quattro ambiti complementari di azione che corrispondono (i) all’intervento didattico in senso stretto (il docente), (ii) all’intervento psico-sociale o socio-analitico, (iii) all’attività di progettazione; (iv) all’organizzazione e al coordinamento.  
 
4.La frontiera post-industriale e post-modernista
Le tendenze più recenti della riflessione e della pratica organizzativa, muovono verso un radicale superamento delle visioni tradizionali e sono direttamente legate ai grandi fenomeni di cambiamento che in modo sempre più evidente, ed a partire almeno dagli ultimi 20/30 anni, hanno investito le società contemporanee maggiormente evolute trasformandole da società industriali in società post-industriali. De-industrializzazione progressiva e vertiginosa espansione delle attività terziarie; rapidità della generazione e della diffusione dei processi  di  innovazione tecnologica,  sociale  e culturale; complessificazione  del tessuto sociale  ed  economico; crescente decentramento della produzione  in  unità medio-piccole altamente flessibili;  crescente  importanza  delle  nuove  dimensioni  del coordinamento  tra  imprese  garantito  dall'attivazione  di reti relazionali multiple  di  organizzazioni:  questi sono alcuni dei segnali – ormai chiaramente percepibili – che tendono a definire le caratteristiche  delle  società  avanzate  e  che  permettono  di sostenere che le società industriali con le quali abbiamo  convissuto fino a poco  tempo fa  (e con le quali in gran parte ancora conviviamo), siano in via di deperimento. Il declino del vecchio mondo industriale avviene  sotto  la  spinta di rilevanti  fenomeni  economici e sociali che delineano alcune delle macro-tendenze  del grande  cambiamento in atto che possono essere così sintetizzate: radicale trasformazione della natura qualitativa e quantitativa dell'occupazione; centralità  del  ruolo  economico  dell'alta  tecnologia  e dei servizi divenuti  ormai  i  settori  trainanti  nell'economia dei paesi più avanzati; internazionalizzazione e dinamizzazione delle relazioni e degli scambi economici; crucialità dei processi di generazione, acquisizione, trasformazione e distribuzione delle informazioni; assoluta instabilità dei mercati che mette in discussione ogni ipotesi  di  pianificazione  rigida  e  di  lungo  periodo  della produzione e al tempo  stesso la stabilità delle  grandi imprese tradizionali. In simili  condizioni,  ciò  che  appare  decisivo  per qualsiasi attività  umana  organizzata  è  la  capacità  di  innovare  e di trasformare. E poiché l'innovazione è in larga misura legata alla possibilità di organizzare capacità riflessive sull'esperienza accumulata nelle pratiche lavorative consolidate, emerge con forza la priorità e la centralità della risorsa umana,  del «capitale intellettuale», dell'investimento in ricerca e in know-how innovativi.
Comincia a delinearsi in modo sempre più definito l'emergere di una «nuova logica» (M. Crozier, L’entreprise à l’écoute, InterEditions, Paris, 1989),  radicalmente opposta  a  quella classica  della  razionalizzazione,  basata  sull'intreccio  di quattro   dimensioni  fondamentali:   (i) capacità   di  innovazione; (ii) capovolgimento  del  rapporto  quantità-qualità; (iii) centralità della risorsa umana; (iv)  capacità di ascolto e di apprendimento. Le interconnessioni  tra le  categorie  di  innovazione, qualità, risorsa  umana  ed apprendimento,  sono in grado di rappresentare adeguatamente   le  dimensioni  che   caratterizzano  la  cultura produttiva delle nostre società e che in larga misura vincolano i loro  sviluppi  futuri. In un simile  contesto perdono tendenzialmente rilevanza strategica gli investimenti  tradizionali  legati   alla   produzione   di  beni materiali:  non perché questi scompaiano,  ma perché  tali produzioni sono basate su  know-how  piuttosto consolidati  e  stabili  e soprattutto perché, comunque, anche a questo livello, il cambiamento e l'innovazione dipendono da applicazioni della conoscenza e del sapere. Ben si comprende come, nelle mutate condizioni, le forme organizzative tradizionali (basate sulla burocrazia, sulla gerarchia, sulla specializzazione, sull’integrazione verticale/orizzontale, sulla standardizzazione, sul controllo) vengano man mano soppiantate da logiche rispondenti alle esigenze del nuovo contesto relazionale, culturale e produttivo della società. I tratti salienti dei modelli organizzativi emergenti tendono a privilegiare soluzioni che aiutino a fronteggiare l’instabilità dell’ambiente, la frammentazione dei mercati, la moltiplicazione dei soggetti e che al tempo stesso siano in grado di sfruttare i vantaggi connessi alle potenzialità delle nuove tecnologie di produzione (che garantiscono, attraverso l’automazione, processi altamente flessibili a tutti i livelli della struttura). Ecco allora prendere forma configurazioni organizzative basate sulla logica reticolare, sul parziale appiattimento delle gerarchie, sulla diffusione della comunicazione orizzontale, sul decentramento delle responsabilità, sul depotenziamento delle separazioni rigide tra settori della stessa organizzazione.  
Anche il campo degli studi organizzativi amplia i suoi orizzonti distogliendo parzialmente l’attenzione dagli aspetti strutturali per spingere la riflessione verso il confronto con ambiti di studio (e verso l’approfondimento di temi) tradizionalmente lontani dai suoi terreni privilegiati di analisi e di ricerca. L’apertura della riflessione organizzativa a nuovi temi e nuovi filoni d’indagine – che tende ad arricchire (e problematizzare) enormemente il bagaglio concettuale, interpretativo e delle soluzioni pratiche –  segue un movimento che da un lato tende a recuperare con sempre maggior decisione le dimensioni politiche e quelle simbolico-interpretative dell’organizing, dall’altro entra in sintonia con la sensibilità post-modernista e con le variegate suggestioni che essa esercita sull’interpretazione dei fenomeni organizzativi. 
Quanto alle letture che tendono ad evidenziare la dimensione politica degli insiemi organizzati, esse sottolineano la rilevanza delle relazioni infraorganizzative costituite dagli scambi negoziati che gli attori sviluppano concretamente nella vita organizzativa di tutti i giorni indipendentemente dai dispositivi formali che delimitano e vincolano il ruolo di ciascuno. Queste relazioni configurano una modalità di funzionamento dell’organizzazione che spesso è assai diversa da quella prevista dal disegno strutturale ufficiale. Inoltre esse, nella misura in cui si stabilizzano nel tempo, sedimentano interdipendenze durevoli e, dunque, consolidate «strutture» di potere. Quali che siano le soluzioni organizzative adottate, queste «strutture» di potere esistono sempre poiché nascono come conseguenza (a) di regolazioni locali indispensabili alla soluzione di problemi contingenti, non previsti e rispetto ai quali le risposte consolidate dalle routine dell’organizzazione non sono sufficienti; (b) della «necessaria» elusione di regole formali che, se osservate pedissequamente, impedirebbero il funzionamento dell’organizzazione. Le «strutture» di potere si riproducono (magari seguendo nuove logiche) anche dopo una ristrutturazione organizzativa.
Secondo la prospettiva simbolica ed interpretativa (che affonda le sue radici in una molteplicità di contributi teorici nella tradizione delle scienze sociali), l’organizzare (organizing), in quanto processo (ed esito) di negoziazioni intersoggettive e di accordi impliciti che gli attori stipulano incessantemente sul senso delle loro azioni tessendo in tal modo una rete di significati  condivisi, è un fenomeno di costruzione sociale della realtà. Un’organizzazione è «un reticolo di significati intersoggettivamente condivisi che sono mantenuti attraverso lo sviluppo e l’uso di un linguaggio comune e l’interazione sociale quotidiana» (Walsh e Ungson, cit. in K. Weick, Sensemaking in Organizations, Sage, Beverly Hills, 1995, tr. it., 38): gli attori dell’organizzazione, attraverso questi processi, non solo costruiscono l’ordine simbolico che consente loro la condivisione di interpretazioni circa le loro attività, i loro ruoli e la stessa «definizione» dell’insieme del quale fanno parte, ma attivano  anche i loro ambienti. Questa dimensione è certamente una tra le più «impalpabili» e al tempo stesso potenti tra quelle che costituiscono la vita organizzativa poichè riflette sul piano delle rappresentazioni simboliche, degli atteggiamenti soggettivi, delle percezioni diffuse, delle consuetudini, delle tradizioni, dei valori condivisi e dei linguaggi, l’identità collettiva dell’organizzazione: essa infatti, in quanto «impasto» di elementi peculiari e distintivi resi possibili proprio dal processo di costruzione di significati localmente determinati, si caratterizza come un insieme unico anche rispetto ad altri dello stesso genere. 
L’influenza postmodernista sulla riflessione organizzativa è riconducibile ad una varietà di interpretazioni tendenti da un lato a negare l’importanza delle grandi visioni teoriche orientate alla legittimazione dell’immagine consolidata di strutture centralizzate, fortemente burocratizzate, compatte e tenute insieme da un disegno coerente – contrapponendo ad esse l’evidenza di organizzazioni in grado di operare efficacemente in condizioni di  frammentazione e di incoerenza; dall’altro a mettere in evidenza l’ambiguità, le razionalità locali, il carattere aleatorio, contingente, multiforme e in continuo cambiamento delle forme e dei processi organizzativi nei quali la legittimazione si consegue attraverso il consenso locale in una prospettiva di accordo temporaneo da rinegoziare costantemente; ciò nega, evidentemente, ogni possibile cristallizzazione in forme durevoli e centralizzate ed implica, per contro, un dialogo continuo volto a ricostruire costantemente le basi del consenso di volta in volta conseguito. Da questo punto di vista, analizzare le organizzazioni, significa innanzitutto decostruire le rappresentazioni consolidate, accogliere la molteplicità dei fenomeni connessi alle pratiche organizzative ed accedere alle narrazioni ed ai significati, localmente dati, attorno ai quali gli attori costruiscono la loro esperienza ed i loro apprendimenti. 
 
In parziale sintonia con le nuove sensibilità interpretative sui fenomeni legati all’organizing  e con le tendenze delle organizzazioni postindustriali, anche la riflessione sulla formazione, così come la stessa pratica formativa, muove verso una significativa revisione del suo bagaglio di teorie, di tecniche e di metodi di intervento. 
In generale maturano nuove consapevolezze sulla necessità di sintonizzare l’azione formativa alle tendenze in atto nelle organizzazioni in una prospettiva che tende ad accogliere prioritariamente la logica dell’apprendimento che, reinterpretata secondo le visioni prevalenti anche sul terreno degli orientamenti manageriali emergenti, diventa una delle metafore più diffuse tra gli operatori ed al tempo stesso un approccio al management delle risorse umane. Il tema dell’apprendimento organizzativo – e, in questo contesto, i temi legati alle competenze, alle conoscenze tacite, al valore delle forme intuitive del sapere pratico – diventa così uno dei motivi dominanti del rinnovamento (e del rilancio) della cultura e delle pratiche di formazione. Cominciano a prendere consistenza orientamenti e logiche d’azione che muovono verso approcci centrati sull'esperienza concreta che gli attori realizzano nelle organizzazioni, sui problemi quotidiani generati dalla dimensione relazionale della vita organizzativa, sulle modalità di soluzione dei problemi che localmente gli attori inventano e sedimentano in forme specifiche di sapere. Si vengono profilando, affinando e consolidando nelle pratiche formative, interessi, sensibilità e capacità orientate all’ascolto, nella consapevolezza del fatto che gli attori organizzativi dispongono di gradi di autonomia soggettiva, di competenze, di risorse e di capacità di inventare soluzioni innovative a problemi rispetto ai quali è utile, per l’organizzazione, prestare il massimo di attenzione. Da qui la convinzione del fatto che il senso della formazione (oltre che la  sua legittimazione  pratica) non risieda (più soltanto) nella  mera  trasmissione  di  nozioni  di  savoir  faire o di comportamenti, ma anche (e soprattutto) nella capacità di stimolare  gli attori a ragionare sui problemi  che essi  affrontano quotidianamente.  Il  confronto  con  gli  aspetti problematici delle pratiche relazionali e professionali proprie  della vita  lavorativa/organizzativa diviene in tal modo il fondamento e la premessa di ogni intervento.
Ben si comprende come in un clima di questo genere maturino tendenze particolarmente attente a confrontarsi dinamicamente e criticamente con gli assunti di metodo che per tutta una fase hanno rappresentato il «fondamento» assoluto di ogni pratica. E, tra gli assunti fondamentali di metodo, il primo ad entrare in crisi è l’idea di «processo formativo» nella sua formulazione classica di sequenza procedurale astratta e (relativamente) indifferente al contesto d’azione. Il processo è infatti descritto come un fluire di eventi che si producono in virtù di azioni le quali di volta in volta (cioè in corso d’opera) ne orientano i tratti essenziali, gli svolgimenti e le direzioni. Non si tratta dunque di azioni rigidamente pre-figurate da mettere in opera secondo una scansione, anche questa determinata in anticipo, di azioni tra loro collegate che devono necessariamente accadere, ma, al contrario, di uno scorrere di eventi dei quali solo l’attenta osservazione del suo dispiegarsi momento per momento può cogliere il senso. 
L’affermarsi di questa tendenza ad una diversa interpretazione dell’idea di processo non è senza conseguenze: da un lato, infatti, in generale, si stemperano le visioni «forti» e scientistiche del metodo ed entrano in gioco non solo istanze di pluralismo metodologico, ma anche dimensioni più interpretative, legate alla soggettività, all’intersoggettività, alla creatività dell’azione formativa (5); dall’altro, in particolare, cambiano considerevolmente le pratiche ascrivibili alle dimensioni di metodo (analisi dei bisogni, progettazione e valutazione) qui assunte come punto di riferimento della lettura comparata proposta. Proviamo ad esaminarle in rapida successione.
Le nuove logiche tendono a sfumare il significato (e a ridurre l'utilità pratica) delle classiche analisi dei bisogni  di cui pure bisogna riconoscere il contribuito al rinnovamento di gran parte delle attività formative. Da questo punto di vista, si può ben dire che se la logica dell'analisi dei bisogni ha un significato innovativo negli anni Settanta e Ottanta perché essa conferisce una dignità tecnica alla formazione, oggi risulta sicuramente di minore utilità. E ciò principalmente perché l'evoluzione delle interpretazioni sulle organizzazioni, mettendo in evidenza da un lato le caratteristiche di particolare problematicità e complessità delle mutevoli relazioni con l'ambiente e con i processi di innovazione (tecnologica, sociale e culturale) e, dall'altro, il carattere non del tutto determinato (e determinabile) dell'azione e le valenze cognitive e culturali dei comportamenti lavorativi/organizzativi, tende ad indebolire il senso dell'analisi dei bisogni classica nel suo più importante punto di forza: essendo infatti caratterizzata come procedimento legato a concezioni secondo cui l'organizzazione è data da insiemi di ruoli (previamente definiti e dai contenuti relativamente stabili nel tempo) ai quali dovrebbero riferirsi adeguati e corrispondenti comportamenti, saperi ed abilità, rischia di ridursi alla mera registrazione di esigenze predeterminate dato che la sua capacità di cogliere le dimensioni qualitative dei tratti peculiari assunti dai ruoli professionali nelle organizzazioni viene meno con l'accentuarsi delle caratteristiche di variabilità dei contesti organizzativi; esse infatti rendono del tutto inutili le «registrazioni fotografiche» di ruoli, attori, azioni e contesti soggetti a rapido cambiamento. In assenza di capacità e sensibilità a comprendere le configurazioni dei contesti organizzativi nel loro evolversi, le pratiche di routine rischiano di cristallizzarsi o in operazioni che registrano (e fanno valere) le scelte a-priori del committente (cioè dei vertici dell’organizzazione). Ecco perché questo modo di praticare l’analisi dei bisogni è molto simile ad un «letto di Procuste» grazie al quale è possibile adattare dati analitici ed informazioni ad ogni sorta di decisione (per lo più assunta a-priori) sulle azioni formative da realizzare. Configurandosi come autentica forzatura imposta alla realtà, l’analisi dei bisogni assume caratteristiche marcatamente astratte e manipolatorie
In alternativa a questa visione si viene affermando e consolidando un’interpretazione dell’analisi dei bisogni orientata, nell’ambito delle tendenze volte a valorizzare le forme localmente date con cui si esprime e si manifesta l’apprendimento organizzativo e al recupero della nozione di competenza professionale
Emerge dunque una prospettiva in cui, l’attenzione alle dinamiche delle competenze professionali da un lato e, dall’altro, alle caratteristiche dell’apprendimento generativo, spinge la classica analisi dei bisogni a dissolversi nell’analisi organizzativa e nella ricerca-azione (anche nella sua variante di formazione-intervento) o in approcci orientati a scoprire le forme locali dell’apprendimento organizzativo, oppure ad essere utilizzata come supporto ad interventi di cambiamento organizzativo. 
Anche la progettazione si libera gradualmente dei limiti di determinismo che caratterizzano i principali schemi in uso per approdare a modalità più duttili, meno vincolate alla logica dell’obiettivo, più aperte a misurarsi con le incertezza del campo d’azione ed a considerare le emergenze e gli imprevisti non già come problemi, ma come risorse per l’apprendimento. Gli approcci emergenti tendono a sottolineare il carattere contingente delle azioni progettuali: pur essendo legate agli atti intenzionali che precedono, accompagnano e seguono gli eventi specifici ai quali esse si applicano, si assume consapevolezza del fatto che la fragile connessione tra intenzioni ed azioni riduce inevitabilmente la certezza che le azioni di volta in volta realizzate siano la traduzione automatica delle volizioni iniziali, poiché queste ultime, essendo legate alle preferenze mutevoli degli attori, alla variabilità dei contesti relazionali, alle caratteristiche contingenti dell'azione ed ai suoi effetti cumulativi, non sono date una volta per tutte; al contrario, non solo cambiano nel tempo, ma sono riformulate o addirittura «scoperte» in corso d'opera. Si va consolidando un’interpretazione secondo cui l'insieme delle dimensioni inglobate nell'idea e nella pratica di progettazione può essere rappresentato come una rete di interdipendenze multiple nella quale (a) il movimento verso mete pre-definite è assunto solo convenzionalmente; (b) gli elementi costituitivi sono riconducibili all'intreccio di eventi che vanno: dalla percezione di una situazione problematica che richiede un intervento; alla valutazione dei termini dei problemi percepiti ed alla loro rappresentazione; all'invenzione delle soluzioni possibili; alle decisioni circa le soluzioni da adottare; alla loro operazionalizzazione previa; all'attuazione; alla considerazione valutativa del corso d'azione nel suo insieme e dei suoi esiti parziali e finali. Appare quindi sempre più limitato lo spazio per la modellistica della progettazione intesa come insieme di formule rigide  da  applicare in qualsiasi  contesto d'azione: la progettazione è vista piuttosto come un processo d'azione aperto agli eventi. 
Analogamente, si riduce di molto lo spazio per la valutazione basata sul ragionamento obiettivi-risultato (e, per conseguenza, su tecniche di misurazione quantitativa tendenti a considerare la valutazione in termini di scarto tra risultati ed obiettivi): il determinismo dell'obiettivo rende fuorviante ed illusorio ogni accertamento valutativo, nella misura in  cui gli effetti  cumulativi delle azioni (e delle relazioni)  sociali generati da  un  intervento di formazione tendono a «produrre» risultati radicalmente irriducibili agli obiettivi predeterminati.  Una prospettiva più realistica ed efficace dell'azione valutativa, considera quest'ultima  come  un  processo  di  ricerca   sociale applicata tendente a ricostruire  induttivamente – a partire dagli effetti (o risultati anche parziali o intermedi)  dell'intervento – il sistema di relazioni  che gli attori implicati hanno generato: in quest'ottica è possibile comprendere i risultati (e la loro ricchezza) ben al di là del confronto asfittico ed inconcludente con obiettivi rigidi ed astrattamente determinati. Si rafforza in questa prospettiva l’idea secondo cui la valutazione efficace è più complessa di quanto non si ritenga da parte di molti operatori: essa richiede una capacità di lettura che sappia andare oltre la mera analisi dei «risultati» dell’azione formativa realizzata per includere prioritariamente tra i suoi «oggetti» i processi di azione che hanno generato i risultati e l’organizzazione che ha reso possibile l’intero processo. In tal modo la valutazione è accreditata della capacità di dire qualcosa circa i cambiamenti che l’azione formativa ha potuto generare nell’organizzazione. 
In sintesi, le tendenze più recenti vanno delineando un quadro molto variegato e ricco di visioni teoriche, di metodi e di esperienze che ha inevitabili riflessi tanto sulle pratiche correnti, quanto sui punti di riferimento necessari alla costruzione di uno «statuto professionale» che orienti gli operatori e le loro azioni. Quest’ultimo non può più contare su un fondamento stabile di riferimenti teorici e di metodo, ma si configura come un campo aperto di ricerca nel quale (a) i metodi sono il frutto di scelte locali di attori professionali competenti; (b) le soluzioni di volta in volta adottate (che costituiscono un rilevante oggetto di confronto nella comunità professionale), essendo legate alle esperienze che le hanno generate ed essendo legittimate dalla loro efficacia locale, non sono necessariamente vincolate a «canoni» di metodo codificati.
Tutto ciò rende mobili e cangianti i contenuti professionali su cui si basa il processo di costruzione delle competenze degli operatori e mette in evidenza come esse richiedano aggiornamenti costanti su tutto il fronte della conoscenza rilevante per l’azione formativa. Si profila inoltre, in questo quadro, un fenomeno (già latente nel modello professionale neomodernista) di crescente differenziazione e specializzazione dei contenuti professionali attribuiti classicamente al ruolo di «formatore»: le tendenze in atto delineano, anche al livello dei ruoli e delle competenze rilevanti per l’azione formativa una più ricca articolazione che richiede un’attenzione particolare ai processi di professionalizzazione dei «formatori» in una prospettiva di formazione dei formatori di terza generazione.
 
Note
1. Sono ripresi qui i temi sviluppati in un volume di recente pubblicazione (D. Lipari, Logiche di azione formativa nelle organizzazioni, Guerini e Associati, Milano, 2002) al quale si rinvia per argomentazioni e svolgimenti più ampi oltre che per i necessari riferimenti alla letteratura e al dibattito. 
2. Ma senza cadere in forme di semplificazione tendenti a ridurre la successione dei «modelli» a sequenze discrete in cui ciascuno di essi, in quanto frutto di elaborazioni ritenute storicamente più avanzate, costituirebbe il necessario superamento di quelli che lo precedono (è invece vero, in realtà, che i «modelli» considerati maturi resistono ancora, essendo fortemente presenti nella gran parte delle culture professionali della formazione, così come è vero che, nelle pratiche correnti, si possono riscontrare frequentemente intrecci ed ibridazioni tra modelli anche marcatamente diversi tra loro).
3. L’assunzione di queste tre dimensioni tecniche (che non vuole essere esclusiva di altre, pure rilevanti), è legata al fatto che proprio questo trinomio (analisi dei bisogni-progettazione-valutazione) è stato a lungo considerato l’asse del processo formativo da intere generazioni di formatori proprio perché su di esso si è basata una molteplicità di proposte ed ipotesi metodologiche largamente condivise dalla gran parte dei membri della comunità professionale. Solo in questo senso (di adesione ad un «gergo» tecnico consolidato non meno che diffuso) ha valore la scelta qui operata di distinguere dimensioni inscindibili che sono racchiuse nel medesimo processo, il progetto, appunto. 
4  Il paradosso costituito da questa interpretazione del progetto e delle modalità di progettare – in realtà più consona al clima culturale dell’organizzazione tayloristica che ad una visione organicistica secondo  la quale, come si è visto, per conseguire  processi organizzativi efficaci bisogna prevedere e promuovere, anche attraverso l’azione formativa, un certo grado di flessibilità – si può in parte  spiegare con l’ovvia considerazione della non necessaria specularità delle corrispondenze tra modelli organizzativi e pratiche formative, in parte, con la considerazione del fatto che le organizzazioni fondate sullo schema taylorista sopravvivono ancora a lungo (almeno in Italia) all’affermazione di nuove pratiche organizzative (con le quali peraltro in molti casi coesistono in forme particolari di ibridazione); bisogna infine tener conto delle condizioni della cultura formativa nella fase di affermazione di questi nuovi orientamenti: la sua totale dipendenza dai modelli scolasticistici di intervento, l’assenza di orizzonti teorici e metodologici rilevanti ai quali fare riferimento per costruire una propria identità, inducono ad assumere come modello un approccio «forte» il quale, nonostante i suoi limiti di rigidità e di scarsa coerenza con le pratiche organizzative emergenti, non solo è l’unico disponibile, ma è anche quello che, nelle condizioni date, e nella misura in cui esibisce un elevato livello di formalizzazione, garantisce alle pratiche formative uno «statuto» di tipo quasi-disciplinare ed un certo grado di legittimazione.
5  Tra queste istanze, uno spazio significativo comincia ad essere attribuito (1) agli approcci narrativi, in analogia con tendenze analoghe già affermate anche in campo organizzativo; (2) all’approccio biografico. Matura inoltre un certo interesse (anche qui in analogia con gli sviluppi della riflessione organizzativa) per le dimensioni estetiche  dell’azione formativa.