* in “Formazione & Cambiamento”, n. 26, 2004
 
1. Le origini dell’Activity Theory
Le origini dell’Activity Theory (1) (A.T., d’ora in poi) risalgono a quel gruppo di studiosi (Vygotskij, Rubinstejn, Leontj’v, Lurija ed altri) che operarono nell’allora Unione Sovietica a partire dagli anni ’20 e ’30 e che formarono la cosiddetta scuola storico-culturale. Nello specifico, l’A.T. nacque proprio dalla frattura, occorsa all’interno della scuola storico-culturale, che nel 1931-32 portò alcuni allievi di Vygotskij a separarsi da lui e ad avviare un nuovo progetto di indagine sullo sviluppo dei processi psichici. Mecacci, tra gli altri, ha ben ripercorso la storia di questa frattura: “A Vygotskij” egli scrive “essi rimproveravano di aver inquadrato lo sviluppo delle funzioni psichiche superiori in una prospettiva eccessivamente ‘culturale’. Queste funzioni – nella lettura che essi fecero della teoria vygotskijana – si sarebbero sviluppate essenzialmente sotto l’influenza dei fattori culturali (nella famiglia, nella scuola, ecc.) attraverso la mediazione principale del linguaggio, prima orale e poi scritto, nelle popolazioni alfabetizzate. Vygotskij, insomma, non avrebbe tenuto conto che le funzioni psichiche, elementari o superiori che siano, si sviluppano nel rapporto concreto che il bambino ha con la realtà esterna. Infatti, il bambino è geneticamente programmato per interagire con l’ambiente esterno nel suo complesso e con gli altri individui, attraverso l’esplorazione motoria, la comunicazione non verbale e verbale, l’espressione delle emozioni, il progressivo inserimento in una dinamica di gruppo, ecc. Lungo questo processo di ‘attività pratica’ si sviluppano le funzioni psichiche” (Mecacci, 1992: 362-363).
La comune critica a Vygotskij non evitò l’insorgere di polemiche tra i suoi allievi. Emblematica, a questo proposito, fu la diatriba che sorse tra Leont’ev e Rubinstejn e che riguardò sia la paternità dell’A.T., sia alcuni suoi aspetti teorici. Per quanto riguarda la paternità dell’A.T., sembra che il dibattito non sia mai giunto definitivamente ad una soluzione. Tanto è vero che “sulla priorità di Rubinstejn nel proporre una teoria dell’attività è sorto negli anni ’80 un dibattito cui hanno partecipato i sostenitori di Rubinstejn da una parte (…) e quelli di Leont’ev dall’altra” (ivi: 365). Per quanto riguarda, invece, gli aspetti teorici, mi limiterò a dire, data la natura di questo scritto, che la versione dell’A.T. di Leont’ev fu tacciata di essere eccessivamente centrata sull’aspetto soggettivo dell’attività. “E’ noto” ha scritto a questo proposito Lektorsky “che la variante dell’activity theory proposta da Leont’ev venne duramente criticata dal famoso psicologo e filosofo S.L. Rubinstejn (…). Quest’ultimo sottolineava il fatto che l’attività non può essere compresa se la si considera un semplice processo di interiorizzazione di standard precostituiti. Rubinstejn scrisse sul carattere creativo dell’attività umana e sull’auto-realizzazione degli esseri umani implicita in questo processo” (Lektorsky, 1999: 66).
Le divergenze teoriche, per altro, non cessarono nemmeno in anni successivi, tanto che Cole ha potuto scrivere: “L’activity theory è tutto, tranne che un progetto monolitico. In Russia ci sono almeno due scuole di pensiero su come sia meglio formulare, in termini psicologici, le idee di Marx (…). C’è una lunga tradizione di ricerca sull’activity theory tedesca (…), una scandinavo/nordica (…), e ora, forse, una americana” (Cole, 1996: 139).
 
2. Principi generali dell’Activity Theory
La complessità dell’A.T. riguarda innanzitutto il concetto di attività formulato di volta in volta dai diversi autori: le diverse discipline, infatti, partono da “basi differenti per la classificazione dei tipi di attività. I sociologi, ad esempio, parlano di attività lavorativa, politica, artistica, scientifica e di altri tipi di attività. Gli scienziati dell’educazione scelgono quali proprie tipologie principali il gioco, l’apprendimento e l’attività lavorativa. In psicologia, l’attività può essere identificata con ogni processo psichico (…). E’ chiaro che, per esempio, l’attività lavorativa o quella politica includono i tipi di attività scelti dagli psicologi. Qual è, dunque, il tipo di classificazione principale e che cos’è il sistema generale dei diversi tipi di attività?” (Davydov, 1999: 46).
Per esigenze di sintesi, si eviterà di ripercorrere in dettaglio la storia del concetto di attività, che è oggetto d’interesse filosofico fin dall’antichità e che trova, anche in tempi a noi più vicini, approfondimenti teorici di una certa rilevanza (basti pensare, ad esempio, all’opera di Karl Marx). Una classificazione dei vari concetti di attività è inoltre resa difficile dal fatto che al termine sono stati attribuiti significati differenti a secondo dei paesi e delle lingue. Nella lingua inglese, ad esempio, “il termine russo per attività, dejatel’nost’, viene tradotto con activity e da ciò consegue che qualsiasi tipo di attività pratica o teoretica dell’uomo viene definita con questo termine. Eppure non tutte le esplicazioni della sua attività vitale possono essere riferite alla designazione russa di dejatel’nost, in quanto la resa più propria di questo termine implica sempre una trasformazione della realtà (…)” (Davydov, 1998: 107). Bedny e Meister, d’altra parte, osservano che il concetto di attività “è approssimativamente comparabile al termine inglese behavior, ma non è lo stesso e le differenze sono istruttive” (Bedny e Meister, 1997: 3). Questi stessi autori propongono una definizione che, nella sua generalità, sembra sufficientemente completa ed esaustiva e che è possibile adottare all’inizio di questo scritto: “nel suo significato più generale l’attività può essere definita un sistema coerente di processi mentali interni, comportamento esterno, e processi motivazionali combinati tra loro e diretti al raggiungimento di scopi consapevoli” (ivi: 3).
Nonostante l’eterogeneità che l’ha caratterizzata e la caratterizza, è tuttavia possibile identificare alcuni concetti basilari dell’A.T. comuni a tutte le sue versioni. Kaptelinin e Nardi hanno identificato i seguenti concetti basilari.
 
3. Struttura gerarchica dell’attività
Zucchermaglio spiega i tre livelli dell’attività umana elaborati da Leont’ev: “l’attività è l’unità molare, sociale per sua natura e svolta per motivi di cui spesso gli attori non sono completamente consapevoli. L’attività si manifesta attraverso azioni orientate ad uno scopo, di cui il soggetto è perfettamente consapevole. Le azioni a loro volta sono fatte di operazioni automatiche, indipendenti dalle caratteristiche dell’attività. Le operazioni quindi, che sono i modi attraverso cui si raggiungono gli scopi delle azioni all’interno di specifiche circostanze, non hanno alcun significato da sole: lo hanno solo all’interno di azioni significative a loro volta collegate da relazioni complesse con sistemi di attività socio-culturalmente definiti. Le azioni – mediate culturalmente – sono dunque le più piccole unità di analisi di studio all’interno della teoria dell’attività” (Zucchermaglio, 1996: 22).
 
4. Orientamento all’oggetto
In base a questo principio gli esseri umani vivono “in una realtà che è oggettiva in senso profondo: gli elementi che costituiscono la realtà, infatti, hanno sia caratteristiche che si possono definire oggettive per le scienze naturali, sia caratteristiche definite socialmente e culturalmente” (Kaptelinin e Nardi, 1997). Una qualche entità diventa un oggetto, nella terminologia dell’A.T., quando si fonde con un bisogno umano. L’oggetto, ad ogni modo, non deve essere confuso con gli scopi. Mentre questi ultimi, infatti, sono sempre collegati ad azioni specifiche, l’oggetto non viene mai definitivamente e completamente raggiunto e definito.
 
5. Interiorizzazione / Esteriorizzazione
L’A.T. enfatizza il fatto che le attività interne non possono essere del tutto comprese se analizzate separatamente da quelle esterne e che, di conseguenza, il meccanismo dell’interiorizzazione e quello dell’esteriorizzazione debbono essere studiati congiuntamente. “L’interiorizzazione” spiegano Kaptelinin e Nardi “è la trasformazione di attività esterne in attività interne. L’interiorizzazione è portatrice di significato per le persone che provano interazioni potenziali con la realtà senza manipolare oggetti reali (quindi attraverso simulazioni mentali, con l’immaginazione, e considerando piani alternativi, etc.). L’esteriorizzazione trasforma le attività interne in attività esterne. L’esteriorizzazione spesso è necessaria quando un’azione interiorizzata necessita di essere ‘riparata’ o pianificata. E’ inoltre importante quando la collaborazione tra più persone richiede che le loro singole attività vengano esteriorizzate per poter essere coordinate” (Kaptelini e Nardi, 1997) (2) .
 
6. Mediazione
Gli uomini” spiega Zucchermaglio “vivono in un ambiente trasformato dalla presenza di artefatti che mediano la nostra interazione con il mondo. (…) Non esistono pratiche ‘naturali’: ogni pratica a cui veniamo introdotti e a cui partecipiamo contiene elementi e strumenti che mediano culturalmente la nostra relazione con il mondo ” (Zucchermaglio, 1996: 16) (3). “Gli artefatti” ha ben osservato a questo proposito Wartofsky “stanno all’evoluzione culturale come il gene sta all’evoluzione biologica” (Wartofsky, 1979: 205).
Tra gli artefatti che svolgono funzioni di mediazione possono essere annoverati strumenti, segnali, modelli mentali, etc, e non è del resto troppo utile distinguere tra artefatti esterni o pratici e interni o cognitivi, giacché una rappresentazione esterna può diventare esterna attraverso, ad esempio, il dialogo, il gesto o la scrittura e, viceversa, i processi esterni possono venir interiorizzati.
 
7. Sviluppo
Per l’A.T., infine, lo sviluppo è sia un oggetto di studio, sia una metodologia di ricerca. “Il metodo di ricerca fondamentale dell’activity theory” infatti “non sono i tradizionali esperimenti di laboratorio, ma piuttosto l’esperimento formativo che unisce la partecipazione attiva all’azione di monitoraggio dei cambiamenti nello sviluppo dei partecipanti alla ricerca. Nei lavori più recenti sono diventati importanti anche i metodi etnografici che tratteggiano la storia e lo sviluppo di una determinata pratica” (Kaptelinin e Nardi, 1997).

8. Sviluppi recenti dell’A.T.
Come già in parte detto, nel corso degli anni Ottanta e Novanta, e soprattutto in seguito alla fine del Comunismo, i principi dell’A.T. sono andati sempre più diffondendosi in Europa e negli Stati Uniti. “Le idee dell’activity theory” scrive Engeström “stanno avendo un impatto crescente in alcuni specifici campi d’indagine, quali l’apprendimento e l’insegnamento (…) e l’interazione uomo-computer (…). L’ activity theory viene discussa in tutti quei testi che cercano di formulare teorie della pratica (…), della cognizione distribuita (…) e della psicologia sociale” (Engeström Y. e Miettinen R., 1999: 1). Alla fine degli anni ’80 è stata fondata una società per lo studio dell’A.T. (ISCRAT (4) ) e “questa società ha inoltre dato vita nel 1988 a un proprio periodico intitolato Multidisciplinary Newsletter for the Research on Activity Theory” (Mecacci, 1992: 372). Un’altra rivista, Mind, Culture and Activity, pubblica periodicamente articoli ispirati dall’A.T. Nel 1986, nel 1990 e nel 1995, infine, si sono tenuti rispettivamente il Primo (a Berlino), il Secondo (a Lahti, in Finlandia) e il Terzo (a Mosca) Congresso Internazionale sull’Activity Theory.

9. L’apporto di Yrjö Engeström all’Activity Theory
Tra gli sviluppi moderni dell’A.T., quello di Engeström sembra essere uno dei più interessanti, specialmente per chi si occupa del funzionamento delle organizzazioni e dello sviluppo dell’apprendimento e della conoscenza all’interno di esse.
Dei cinque principi basilari dell’A.T. presentati nel paragrafo due, Engeström prende in particolare considerazione il quarto: la mediazione. Egli scrive: “E’ per certi versi sorprendentente il fatto che molta poca attenzione venga data all’idea di mediazione nel più recente dibattito teorico sul concetto di attività. Eppure è questa l’idea che unisce i lavori di Vygotsky, Leont’ev, Luria, e gli altri importanti rappresentanti della scuola storico-culturale sovietica” (Engeström, 1999a: 29).
Engeström comincia la sua analisi del meccanismo della mediazione riproponendo il classico modello triadico disegnato da Vygotskij ed elaborato da Leont’ev: 
 

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Fonte: adattato da Engeström (1999a)
 
L’idea che sottostà a questo modello e, più in generale, al concetto di mediazione, è che “gli esseri umani sono in grado di controllare il loro comportamento non dall’interno, sulla base quindi dei bisogni biologici, ma ‘dall’esterno’, utilizzando e creando degli artefatti” (Engeström, 1999a: 29). Un qualche prodotto è il risultato dell’interazione, mediata da strumenti, tra un soggetto (un individuo o un gruppo) e un oggetto.
Alcune spiegazioni di Russell possono aiutare a comprendere i tre elementi del modello e la loro interazione: “Il soggetto è composto dall’agente (o sono dagli agenti) del quale (o dei quali) l’analista sta studiando il comportamento. L’identità degli individui o dei gruppi viene considerata, in termini sociali, il loro coinvolgimento in vari sistemi di attività. Sia gli individui che i gruppi, infatti, possono essere coinvolti in molteplici sistemi di attività. (…) Per strumenti ci si riferisce agli oggetti materiali che vengono utilizzati dagli individui o dai gruppi nella realizzazione di una qualche azione che porti ad un determinato prodotto. Lo stesso strumento può essere utilizzato diversamente nel corso del tempo o in azioni e in sistemi di attività diversi. (…) L’oggetto è la materia prima o lo spazio del problema sul quale il soggetto si impegna utilizzando i vari strumenti nel corso dell’interazione con un’altra o con delle altre persone” (Russell, 1997).
Per meglio esplicitare la natura sociale e collaborativa delle attività, Engeström ha proposto di ampliare il modello precedente, includendo in esso elementi quali la ‘divisione del lavoro’, le ‘regole’ e la ‘comunità’. La nuova versione del modello proposta da Engeström è la seguente:
 
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Fonte: adattato da Engeström (1999a)

In questo nuovo modello, spiega Zucchermaglio, “per soggetto si intende la comunità sociale il cui operare costituisce il punto di vista adottato nell’analisi e per oggetto si intende il materiale o lo spazio problematico nel quale l’attività si muove e che è trasformato in risultati con la mediazione di strumenti e artefatti fisici e simbolici. La comunità comprende numerosi individui o sottogruppi che condividono lo stesso oggetto. Per divisione del lavoro si intende sia la divisione orizzontale di compiti tra i membri di una comunità che quella verticale in base allo status e al potere. Infine con regole si intendono tutte quelle norme e convenzioni esplicite, ma anche spesso implicite, che guidano le azioni e le interazioni all’interno di un sistema di attività” (Zucchermaglio, 1996: 23-24).
E’ per altro molto importante sottolineare la dinamicità dell’attività, dinamicità che la rappresentazione grafica inevitabilmente rischia di non esplicitare a sufficienza. “La costruzione degli oggetti mediata dagli artefatti” spiega Engeström  “non avviene né in maniera solitaria, né all’unisono. Essa è un processo collaborativo e dialogico nel quale si incontrano, si scontrano e si toccano prospettive e voci differenti. Le diverse prospettive vengono sono radicate nelle diverse comunità e pratiche che continuano a coesistere all’interno dello stesso ed unico sistema d’attività collettivo” (Engeström, 1999b: 382) (5). Le conseguenze più generali di queste caratteristiche dell’attività sono le seguenti: per prima cosa “i sistemi di attività hanno un qualche impatto su un numero crescente di persone. In secondo luogo, tutto questo significa che i diversi sistemi di attività, e le persone che al loro interno, diventano sempre più interdipendenti, formando sempre più network complessi e gerarchie d’interazione. In terzo luogo, questa interdipendenza non è solo un’affiliazione formale. I sistemi d’attività vengono sempre più penetrati e saturati dalle leggi socio-economiche basilari e dalle corrispondenti contraddizioni della società. In altre parole, le attività vengono sempre meno lasciate in qualche relativo isolamento dalle turbolenze della società, quali rimanenze delle precedenti formazioni socio-economiche” (Engeström, 1987).

10. Activity Theory ed apprendimento: la proposta teorica di Engeström
La questione di come le persone apprendano è, naturalmente, una questione centrale nelle teorie di molti autori. Recentemente Engeström ha fornito un paradigma teorico basato sull’A.T. e sulla sua teoria dell’expansive learning che sembra affrontare la questione in maniera originale, attraverso la rielaborazione dei concetti classici dell’A.T. di cui si è detto.
Secondo Engeström l’A.T. è particolarmente adatta all’analisi dell’apprendimento che avviene nei contesti lavorativi. Per prima cosa, egli spiega, “l’activity theory è profondamente contestuale ed è orientata alla comprensione di pratiche locali storicamente specifiche, dei loro oggetti, degli artefatti con funzione di mediazione, e dell’organizzazione sociale (…). In secondo luogo, l’activity theory è basata su una teoria della conoscenza e del pensiero dialettica e centrata sul potenziale creativo della cognizione umana (…). In terzo luogo, l’activity theory è una teoria evolutiva che cerca di spiegare e di influenzare i cambiamenti qualitativi che accadono nelle pratiche umane nel corso del tempo” (Engeström, 1999b: 378). Lo sviluppo, del resto, è sia il quinto concetto basilare dell’A.T. (si veda paragrafo due), sia un elemento fondamentale di ogni processo di apprendimento: “l’acquisizione di nuova conoscenza e di skill” infatti “comporta certi prerequisiti in termini di abilità, motivazione, e strutture mnemoniche che, in un dato momento, solo parzialmente hanno raggiunto il necessario livello di sviluppo. Se questi prerequisiti fossero pienamente sviluppati, infatti, l’apprendimento non sarebbe necessario; se non lo fossero interamente, viceversa, l’apprendimento sarebbe impossibile” (Lompscher, 1999: 267).
Engeström cominciò a lavorare alla sua teoria dell’expansive learning nel corso degli anni Ottanta e pubblicò il suo testo Learning by Expanding: An Activity-Theoretical Approach to Developmental Research a Helsinki nel 1987. Dieci anni dopo riassunse le idee fondamentali del libro (e della teoria) nei seguenti cinque punti:
1) “per gli studi storico-culturali della condotta umana l’unità di analisi primaria è il sistema di attività collettivo orientato all’oggetto e mediato dagli artefatti;
2) nei sistemi di attività le principali fonti di cambiamento e di movimento sono le contraddizioni interne che si evolvono storicamente;
3) l’expansive learning è un nuovo tipo di apprendimento che emerge allorquando dei professionisti procedono lungo le trasformazioni evolutive nei loro rispettivi sistemi d’attività, attraversando le varie zone di sviluppo prossimale collettive;
4) il metodo dialettico, che consiste nell’ascendere dall’astratto al concreto, è uno strumento fondamentale per padroneggiare i vari cicli dell’expansive learning;
5) è necessaria una metodologia di ricerca interventista che aiuti ad proporre, mediare, registrare ed analizzare i cicli dell’expansive learning nei sistemi di attività locali” (Engeström, 1999d).
Più sinteticamente egli aveva già definito l’expansive learning nel 1994, in un testo pubblicato per conto del’I.L.O. (International Labour Office): “Parliamo di expansive learning o di apprendimento di terz’ordine” egli scrive “quando una comunità di pratica comincia ad analizzarsi e a trasformarsi. Questo tipo di expansive learning non è limitato a contenuti e a compiti predefiniti. Esso, piuttosto, è un processo di lungo termine di ridefinizione degli oggetti, degli strumenti e delle strutture sociali degli ambienti di lavoro” (Engeström, 1994: 43) (6). All’interno di un’organizzazione si può parlare di expansive learning allorquando essa identifica la propria zona di sviluppo prossimale collettiva (cioè il gap esistente tra le proprie performance attuali e quelle, possibili, future) e procede a realizzare quanto necessario per raggiungere il nuovo assetto prospettatosi, creando una nuova vision e trasformandola in azioni concrete.
Il modello teorico proposto da Engeström si sviluppa attraverso i seguenti setti passaggi.
1) La prima azione da compiere è quella di ragionare, criticare o rifiutare alcuni aspetti di una qualche pratica consolidata o di un qualche sapere esistente. Per esigenze di sintesi Engeström chiama questa prima azione il questioning.
2) La seconda azione consiste nell’analizzare la situazione. In particolare, spiega Engeström, “le analisi implicano una qualche trasformazione mentale, discorsiva o pratica della situazione in modo da far emergere le cause ed i principi esplicativi. L’analisi comporta domande e principi esplicativi del tipo ‘perché?’. Un primo tipo di analisi è storico-genetica e cerca di dar spiegazione di una data situazione ripercorrendo la sua origine e la sua evoluzione. Un altro tipo di analisi è reale-empirica e cerca di spiegare la situazione tratteggiando un quadro delle sue relazioni sistemiche interne principali”.
3) La terza azione da compiersi è quella di costruire un modello semplificato, ed esplicito, della nuova idea emersa che spieghi la situazione problematica e ne offra una soluzione. Questa è per Engeström la fase del modeling.
4) La quarta azione prevede di esaminare il modello operando e sperimentando su di esso per sviluppare pienamente le sue dinamiche, le sue potenzialità e, naturalmente, anche i suoi limiti.
5) “La quinta azione” spiega Engeström “consiste nel migliorare il modello, rendendolo più concreto per mezzo di applicazioni pratiche, arricchimenti ed estensioni concettuali”.
6) “La sesta e la settima azione previste dal modello sono quelle di “riflettere su e valutare il processo in questione e consolidarne i risultati in una nuova e stabile pratica” (Engeström, 1999b: 383-384).
La valenza metodologica del modello proposto da Engeström è stata riconosciuta anche da autori altrimenti critici nei confronti dell’A.T. Ha scritto, ad esempio, Bannon: “Se da una parte l’A.T. è in grado di fornire un quadro concettuale per comprendere ed analizzare l’attività umana, dall’altra parte essa non è in grado di fornire una metodologia abbastanza chiara per riconoscere, delineare e scrutinare queste stesse attività tanto quanto esse necessiterebbero. All’interno della tradizione dell’A.T., di conseguenza, è possibile rinvenire diversi tipi di studi riguardanti l’osservazione dell’attività, l’analisi delle interazioni, l’analisi storica degli artefatti, etc. Forse una delle ragioni per cui il lavoro di Engeström, un teorico dell’attività, è diventato famoso è perché esso mette a disposizione un quadro concettuale chiaro (anche se non necessariamente coerente), attraverso il suo famoso ‘triangolo’ e un corrispettivo quadro metodologico ben sviluppato, che Engeström chiama developmental work research” (Bannon, 2002).

11. Aspetti critici dell’Activity Theory
La chiusura ideale di questa breve storia dell’A.T. sembra essere il riferimento a due diversi scritti di Davydov. In entrambi l’autore indica alcune questioni che l’A.T. ha lasciato e lascia irrisolte e propone, quale possibile prospettiva futura, il ricongiungimento tra l’A.T. stessa e la teoria storico-culturale.
Una delle questioni più urgenti cui, secondo Davydov, l’A.T. deve far fronte, è quella di comprendere correttamente il processo della trasformazione. Troppo facilmente si confondono, infatti, trasformazione e cambiamento e si dimentica che la trasformazione è, in un certo senso, un cambiamento più profondo che va a modificare l’oggetto internamente e non solo esternamente. La conseguenza di questa errata comprensione del processo della trasformazione è un certo attivismo tecnicistico, troppo spesso palesato dall’A.T. “L’approccio della teoria dell’attività” scrive infatti Davydov “comporta un certo attivismo tecnicistico che non ha origini umanistiche. Piuttosto che sviluppare l’essenza della realtà secondo le sue leggi, esso la sfigura, la mutila e la muta senza prendere in considerazione gli interessi storici degli esseri umani e le realistiche possibilità della realtà stessa” (Davydov, 1999: 43).
Una seconda questione riguarda la non chiara distinzione tra attività collettiva ed individuale. “Se il soggetto collettivo” scrive l’autore “è esterno a certi particolari individui, può essere immaginato nella forma di una qualche totalità o di un gruppo di persone, e in che senso esatto esso esiste al di là degli individui particolari che formano il gruppo in questione? Inoltre, quali possono essere le caratteristiche essenziali di un gruppo di persone che compiono un attività collettiva in modo da poter definire questo stesso gruppo un soggetto collettivo? Quali caratteristiche possono aiutare a distinguere tra soggetti collettivi ed individuali? Quali sono le caratteristiche particolari di un soggetto individuale, e in che senso esso è diverso dalla personalità? Come può essere definito il livello di realizzazione individuale dell’attività? Tutte queste questioni non hanno ancora trovato risposta” (ivi: 44-45).
Una terza questione riguarda l’interazione tra attività e comunicazione. Non è infatti possibile “comprendere l’origine dell’attività del singolo uomo senza individuarne i legami originari con i processi della comunicazione e senza i nessi originari con i sistemi semiotici. Conseguentemente bisogna studiare contemporaneamente l’attività, la comunicazione, il dialogo, i sistemi semiotici” (Davydov, 1998: 112).
La quarta questione riguarda l’organizzazione interdisciplinare che l’A.T. solo parzialmente è riuscita a darsi. “Oggigiorno” spiega Davydov “le diverse discipline generalmente studiano l’attività indipendentemente. (…) Solo a livello teorico è possibile vedere gli psicologi utilizzare le conclusioni formulate da un filosofo o da un sociologo, o viceversa. Sono stati condotti ben pochi esperimenti nei quali partecipassero rappresentanti di discipline diverse- logici, sociologi, educatori, fisiologi, psicologi (…). Ma proprio questo tipo di ricerca sarebbe di grande importanza oggi” (Davydov, 1999: 49).
La quinta questione, infine, è strettamente collegata alla precedente. Un metodo multidisciplinare per lo studio dello sviluppo dell’attività può, infatti, comportare risultati positivi “solo se contemporaneamente si studia il suo sviluppo contestualmente alla storia della cultura. (…) Pertanto le prospettive future di una teoria polidisciplinare dell’attività sono connesse in misura notevole all’unificazione del metodo specificatamente pertinente all’attività con quello propriamente semiotico, ovvero all’unificazione della teoria più propriamente definita dell’attività e della teoria storico-culturale dello sviluppo umano” (Davydov, 1998: 112).
La separazione tra l’A.T. e la scuola storico-culturale che sta all’origine dell’A.T. stessa sembra dunque destinata a venir meno e, quel che è ancor più importante, l’A.T. sembra poter intraprendere un proficuo dialogo con teorie ad essa contigue, quali, ad esempio, quella dell’azione mediata (Wertsch, del Rio, Alvarez, etc…) e quella dell’apprendimento situato (Lave e Wenger). Engeström e Miettinen, a questo riguardo, si sono espressi in maniera molta chiara: “L’activity theory” hanno scritto “ha profonde radici storiche ed ha accumulato una quantità di teoria e di ricerca che è ancora solo parzialmente conosciuta in Occidente. I teorici dell’attività, di conseguenza, dovrebbero fare auto-critica e sfruttare questa storia, e dovrebbero inoltre accettare le nuove, eccitanti sfide e le opportunità di collaborazione” (Engeström e Miettinen, 1999: 12-13).
 
Note
1 Ho preferito lasciare in inglese il nome della teoria perché mi sembra che esso suggerisca meglio l’idea di un programma di ricerca multidisciplinare e transnazionale quale la teoria dell’attività ormai è.
2 Opportunamente, a questo riguardo, Engeström lamenta il fatto che troppo spesso il meccanismo dell’interiorizzazione venga considerato il meccanismo chiave scoperto dalla scuola storico-culturale e analizzato dall’activity theory, laddove, invece, gli studi di entrambe le teorie si concentrarono fin dall’inizio anche sul meccanismo dell’esteriorizzazione. Si veda: Engeström 1999a.
3 Alcuni autori hanno criticato l’ubiquità di ‘strumenti’ e ‘artefatti’ sovente indicata dai sostenitori dell’A.T. Bereiter, ad esempio, ha scritto: “Non ho mai capito perché i teorici dell’attività facciano tanto rumore per affermare l’ubiquità degli strumenti all’interno dell’attività umana: è come se, affermandola, essi riuscissero a far dileguare una nube densa. Mi sembra che, esattamente come molti altri contributi, anche questo finisca semplicemente per sottolineare qualcosa che già conosciamo, rendendola sì più facilmente utilizzabile, ma senza produrre nessun vero slittamento di paradigma” (Bereiter, 2002: 477-478).
4 L’acronimo sta per: “International Society for Cultural Research based and Activity Theory”.
5 “Un sistema di attività” osserva Russell “è ogni interazione umana in atto, diretta all’oggetto, condizionata storicamente, strutturata dialetticamente e mediata da un qualche strumento. Alcuni esempi di sistemi d’attività sono la famiglia, un’organizzazione religiosa, un gruppo di discussione, un movimento politico, un corso di studi, una scuola, una disciplina, un laboratorio di ricerca e una professione. Ciascuno di questi sistemi di attività viene viene storicamente (ri)costruito dai singoli partecipanti attraverso l’uso di certi strumenti e non di altri, compresi strumenti discorsivi come il discorso, i suoni o le inscrizioni. Il sistema d’attività è l’unità di analisi basilare sia per il comportamento degli individui che per quello dei gruppi, in quanto analizza e poi cambia il modo concreto in cui gli strumenti vengono usati per mediare il motivo (la direzione, la traiettoria) di un comportamento e il suo oggetto (il problema specifico o il focus)” (Russell, 1997).
6 Si noti la somiglianza tra questo concetto e quello di Bateson (Learning III). Per un confronto tra la teoria dell’apprendimento di Bateson e quella di Engeström si veda, tra gli altri: Wartofsky M. (1979). Models: Representation and scientific understanding. Dordrecht: Reidel. 
 
Bibliografia
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