* In “Formazione & Cambiamento”, n. 37, 2005 
 
L’idea di intervistare Cristina Grasseni e Francesco Ronzon a proposito del libro Pratiche e cognizione (Meltemi, Roma, 2004) che li ha visti coautori, nasce nell’ambito di una ricerca realizzata dal Formez sulle comunità di pratica come fenomeno organizzativo e come luogo di produzione e rielaborazione delle conoscenze. Il volume infatti offre al pubblico italiano una introduzione sistematica alle indagini ecologiche sul nesso tra pratiche e cognizione, sviluppata all’interno dell’antropologia culturale. Seguendo un’analisi tematica, la mente, le abilità, il linguaggio e i processi di apprendimento e organizzazione sono indagati come esito di una serie di relazioni con il proprio ambiente naturale e sociale, continuamente aperte e in evoluzione. Ne emerge un originale e innovativo dialogo interdisciplinare radicato nell’analisi di casi etnografici tratti dal mondo dell’arte, della scienza e della vita quotidiana.
 
Mara: Il titolo del libro, “pratiche e cognizione”, rimanda ad un panorama di studi sulla cognizione come attività situata che trae alimento da formulazioni diverse, in antropologia, linguistica e psicologia culturale. Quali sono gli approcci teorici a cui libro dà principale rilevanza? E perché?
 
Francesco: La scelta delle teorie di riferimento è avvenuta “sul campo”. E cioè: prima ci siamo accorti che vi era di fatto una larga messe di lavori che ruotava attorno al tema e poi ci siamo mossi a cercare di offrirne una mappatura il più possibile esaustiva (dal punto di vista tematico). Gli autori che hanno influenzato questo filone di ricerca sono dunque molti ed eterogenei. Si può andare dalla teoria della prassi di Marx alla fenomenologia di Merleau-Ponty, dall’epistemologia genetica di Piaget all’ecologia della mente di Gregory Bateson. Ciò che ci è sembrato particolarmente interessante è stato notare come in questi ultimi dieci anni si sia sempre più spesso posta attenzione alle loro opere come esempi per un vero e proprio programma di ricerca centrato sul nesso tra corpo, mondo e azione. L’intento di questo programma di ricerca è ovviamente quello di superare la staticità, meccanicità e anti-biologismo dei vecchi modelli idealistico-ingegneristici della mente e dell’agire umano.
 
Cristina: Abbiamo preso le mosse da una definizione di ‘cognizione’ che faccia riferimento a una concezione ecologica della mente. In questo ci siamo prefissi di continuare in un’impresa che quasi implicitamente avevamo avviato, traducendo e curando in italiano per la prima volta alcuni saggi-chiave dell’antropologo Tim Ingold (Ecologia della cultura, Meltemi 2001). Ingold è stato il primo autore di cui ci siamo occupati insieme che cerchi esplicitamente una via di mezzo tra biologismo e culturalismo, in antropologia. Per mente e per cognizione non si intendono quindi solo processi intellettivi cerebrali, non ci si limita a processi in qualche modo rappresentativi della realtà, ma si chiama in causa l’individuo inteso come organismo-persona, un tutt’uno biologico e culturale che interagisce con la realtà ambientale e relazionale.
 
Mara: I riferimenti teorici del libro coprono un area di dibattito ancora poco presente all’interno dell’antropologia italiana. Come e perché avete iniziato a interessarvi a queste tematiche?
 
Cristina: Diciamo che ci siamo trovati entrambi interessati a cercare dei filoni teorici sufficientemente ricchi e fecondi da supportare un’analisi etnografica e una riflessione antropologica sui processi con cui costruiamo senso, aderiamo a un’identità e ci sottoponiamo a veri e propri apprendistati che ci plasmano come individui sociali e ‘intelligenti’. In questo sono stata influenzata dallo studio di Wittgenstein e della filosofia della scienza e dal dibattito, in filosofia come in storia e filosofia della scienza, sull’incommensurabilità tra forme di vita. Per quanto mi riguarda i primi tentativi di mettere in comune con altri antropologi queste perplessità ed esigenze, legate a una continua interrogazione sul metodo dell’investigazione antropologica, mi hanno portato a organizzare un primo incontro sul tema delle “Pratiche della Località” nell’aprile del 2000 presso l’Università di Milano-Bicocca, dove fruivo di un assegno di ricerca post-doc in epistemologia e antropologia visuale. La nostra impresa comincia da li’.
 
Francesco: Per quanto mi riguarda la questione si è posta in questi termini: ho iniziato con un interesse verso i temi del mentale e del cognitivo, abbinato però ad una marcata insoddisfazione verso la rigidità e astrattezza dei modelli offerti dal cognitivismo e dall’antropologia cognitiva “classica” (ad es. etnoscienza). In seguito a questi “cul de sac” teorici mi sono spostato dunque verso l’antropologia interpretativa (Geertz) e fenomenologica (Csordas) attratto dalla sua più ampia densità e profondità ermeneutica. Anche qui sono però rimasto deluso. La bassa analiticità e il permanere di una sensibilità fortemente idealistico-rappresentativa mi costringevano infatti a lasciar cadere ancora una volta ogni questione relativa a come gli individui operano nel mondo reale nel corso delle loro attività concrete. Alla fine, dopo varie ricerche e pellegrinaggi intellettuali, sono arrivato alla conclusione che le teorie esposte e presentate nel libro siano le più adatte a offrire una mediazione tra rigore analitico e densità interpretativa.
 
Mara: Il libro pone in forte evidenza la relazione ecologica tra azione e ambiente. Come si lega tutto ciò ai temi classici del dibattito etno-antropologico?
 
Cristina: Innanzitutto le posizioni esposte qui costituiscono dei buoni trampolini di lancio per superare la metafora testuale delle culture e per cominciare a pensare le culture non come testi ma come organizzazioni del senso e dell’identità che scaturiscono da una continua esposizione e interazione con artefatti, routine e gestioni spazio-temporali dell’azione. Questo consente di impostare l’analisi della vita sociale e culturale in termini pratici, situati e incorporati.
 
Francesco: Usando due parole chiave – tra le tante possibili – si potrebbe dire che abbiamo voluto scommettere sulla nozione di Umwelt come ipotesi etno-antropologica alternativa alla classica nozione di Weltanschaung. Ove quest’ultima enfatizza un rapporto col mondo di tipo ideale, distaccato e rappresentativo la prima rimanda invece ad una esperienza radicata in un corpo, posto in un certo ambiente e operante in base ad abilità sociali apprese e sviluppate tramite specifiche routine di addestramenti guidati.
 
Mara: Quello che nel testo viene definito come “primato del contesto” si pone come uno snodo concettuale fondamentale negli studi sull’apprendimento umano, che tipo di rapporto esiste tra la dimensione ecologico-culturale e quella della cognizione?
 
Francesco: Le varie teorie presentate nel libro sostengono che è un errore separare i due aspetti (interno/esterno) e poi cercare di incollarli insieme di nuovo. In un ottica ecologica non vi è mai un individuo senza un ambiente (di certo un ambiente senza individui sarebbe possibile ma, ovviamente, nessun individuo ne sarebbe a conoscenza). L’idea forte del libro è invece che interno ed esterno siano imbricati tra loro sin dall’origine e formino la coppia minima della vita biologica. Con ecologia non si intende dunque non solo l’ambiente fisco ma la relazione complessiva tra gli elementi componenti una certa a nicchia ambientale (animali, esseri umani ed oggetti tecnologici compresi).
 
Cristina: Questo consente tra l’altro di affrontare il problema dell’incommensurabilità del senso tra forme di vita diverse ancorando il dibattito, che finora è stato squisitamente filosofico-antropologico, a un ambito di investigazione pratica. Per esempio il tema dell’apprendimento si configura non come una trasmissione di rappresentazioni del mondo, ma come un continuo processo di socializzazione, anzi di apprendistato in una forma di vita, con tutti i suoi aspetti anche conflittuali, mimetici e relazionali.
 
Mara: A livello di micro-analisi un ruolo centrale è svolto dalla nozione di “affordance”. Volete offrirci alcune specificazioni a proposito?
 
Francesco: Si tratta di un neologismo coniato dallo psicologo J. Gibson e poi introdotto in ambito antropologico ad opera di Tim Ingold. E’ un calco dal tedesco aufforderungscharacter, cioè “carattere di invito” (ma, in modo estensivo anche di repulsione), usato da Kurt Lewin per indicare le valenze positive e negative che connotano gli oggetti dell’ambiente e guidano il comportamento. Con questa nozione si intende dunque indicare i vari tipi specifici di relazione pratico-operativa intrattenute dai vari organismi viventi con il loro ambiente. A seconda del tipo di attività e bisogni di un certo specifico animale ogni aspetto dell’ambiente rappresentante l’ “intorno” di quest’ultimo offre dunque un certo insieme di affodances. Una <via> dà a chi cammina un affordance di locomozione. Un <ostacolo> è un oggetto dell’ordine di grandezza dell’animale che dà affordances di collisione. Un <ciglio> di un burrone è un luogo di caduta che dà un affordance di lesione.
 
Cristina: Si tratta di una delle tante nozioni operative passate in rassegna nel libro – con quella di artefatto cognitivo, sguardo professionale, apprendistato, comunità di pratica - uno strumento di analisi che può tornare utile nell’investigazione etnografica della realtà, per esempio proprio dei processi di apprendimento. Infatti anche il cogliere le affordances è una pratica abile e addestrabile, rientra nella strumentazione ecologica che ci individua come esseri che vivono calati in un ambiente.
 
Mara: In quanto antropologi, quali potenzialità vedete nell’investigare attraverso metodologie di tipo etnografico contesti di “pratica esperta”, come li definite nel libro, non solo quelli scientifici?
 
Francesco: In quanto apprese e praticate a livello sociale tutte le attività umane sono passibili di indagine ecologica: una bottega d’arte, una setta religiosa, un laboratorio scientifico, un ufficio di impiegati comunali…In modo analogo, anche l’uso di un approccio etnografico risulta un passaggio direttamente conseguente alle premesse teoriche. Se la relazione individuo-ambiente non solo è necessaria ma anche inevitabile è ovvio che la sua analisi non possa prescindere dall’analizzare le modalità con cui questa interazione ha luogo in concreto: in un certo luogo ed in un certo tempo. Ciò a sua volta comporta essere sul posto mentre tutto questo avviene. Non trattandosi di un processo rigido e meccanico solo essendo presenti al suo svolgimento si possono cogliere e rilevare i fattori pertinenti alla comprensione del processo e dei suoi risultati finali.
 
Cristina: Questo significa, per gli antropologi, affinare la sensibilità al modo in cui si organizza l’azione nell’ambiente, cioè quali qualità relazionali, ma anche ideologiche ed egemoniche, emergono e si sviluppano proprio grazie a determinate gestioni locali delle pratiche – che siano pratiche professionali o ludiche, informali o formalizzate, conoscitive o quotidiane. Tra l’altro ciò getta una luce molto diversa sul concetto di sapere esperto, di cultura materiale e di tecnologia. Queste non costituiscono saperi di nicchia, patrimonio di folkloristi col pallino per il tecnico, ma costituiscono l’ordito su cui si intessono i discorsi identitari, di senso, dominanti o sub-culturali, di cui si occupano gli antropologi nelle loro analisi della complessità e della contemporaneità.
 
Mara: Il concetto di “comunità di pratica” ha avuto negli ultimi anni un periodo di intensa fioritura; anche voi dedicate ad esso uno spazio di riflessione nel libro. Come le comunità di pratica contribuiscono alla costruzione di identità individuali e collettive? E in che modo incidono sui processi di apprendimento?

Cristina: Il concetto, anche se evocativo di per sè, consente in realtà un ventaglio di approcci analitici proprio alla costruzione di identità individuali e collettive e ai processi di apprendimento. Un sotto-concetto chiave è quello di partecipazione periferica legittimata, che l’antropologa Jean Lave ha messo appunto con Etienne Wenger per analizzare i processi di apprendimento in termini di socializzazione progressiva. Si impara, cioè, per progressiva ammissione in ruoli determinati all’interno di comunità di pratica, assumento successivamente posizioni da periferiche a sempre piu’ organicamente integrate. L’apprendimento si configura quindi come un apprendistato che prevede l’apprendimento continuo e il coinvolgimento di tutta la persona, con le sue qualità relazionali, la sua storia precedente, le proprie abilità pratiche, e il posizionamento all’interno di reti di relazioni e di gerarchie di potere interne ed esterne.
 
Francesco: La nozione di comunità di pratiche è un termine oggi molto usato ma anche molto abusato. Molto spessi si limita ad essere uno slogan astratto per meeting aziendali o per dibattiti teoretico-filosofici. I livelli di analisi toccati dagli autori presentati nel corso del libro (da micro a macro), invece, vogliono proprio offrire una “cassetta di strumenti” intellettuali per sviluppare delle reali ricerche empiriche. In questo senso, sia per quanto concerne i temi dell’identità e dell’apprendimento, il libro non offre dunque un unico modello interpretativo buono per tutte le stagioni, ma un repertorio di risorse teoriche per anatomizzare in modo dettagliato i vari contesti e le varie situazioni socio-culturali dell’agire nella loro specificità locale. Analizzare l’educazione di un bimbo in Italia o in Siberia vuol dire prestare attenzione non solo ai valori e ai significati in generale, ma anche e soprattutto ai tipi specifici di training al quale viene sottoposto: insegnamento scolastico formale, tutoraggio informale di villaggio, e così via. In egual modo l’identità collettiva di una tribù indiana, degli operai della Fiat e degli integralisti cattolici U.S.A. differiscono tra loro non solo per i contenuti ma anche per le modalità pratiche che le generano: i riti e le cerimonie a sfondo cosmologico, il gossip sulla figura di Gianni Agnelli o le letture sulla storia delle lotte operaie nel ‘900, il rigido controllo delle piccole comunità rurali e le prediche catodiche dei tele-evangelisti.