*In “Formazione & Cambiamento”- Nuova serie, n. 4, 2016
 
La riflessività: una categoria della contemporaneità
La riflessività è da tempo considerata uno degli elementi costitutivi della nostra contemporaneità. Essa si è imposta in seguito alle trasformazioni che hanno profondamente modificato la società e assegnato alla conoscenza un importante ruolo nella costituzione dei processi sociali, professionali e personali, come mostrano, tra le altre, le analisi di Giddens, Beck, Lasch. La società diventa riflessiva per far fronte al venir meno di punti di riferimento sociali, normativi, valoriali, messi ulteriormente in crisi da un’accelerazione senza precedenti dell’innovazione tecnologica. Per l’individuo, liberato dai vincoli tradizionali, non è più il tempo di delegare ad altri scelte personali e professionali ma si tratta di assumere su di sé il compito di dirigere la propria vita. Si è passati, come scrive Bauman, dall’epoca della “predestinazione” a quella del “progetto di vita”. Lo sforzo riflessivo è necessario perché l’aumento delle conoscenze insieme alla pervasività e alla moltiplicazione degli intrecci fa sì che connessioni e significati non siano più evidenti e diventi urgente costruire quadri di rifermento per orientarsi. Accanto a saperi specialistici l’individuo deve possedere un sapere di tipo generico in grado di connettere conoscenze settoriali e pratiche sociali, costruire significati inserendoli in un disegno collettivo e dare un senso unitario al proprio percorso individuale e professionale. Prassi che diventa quanto mai necessaria per quei mondi professionali e ruoli gestionali per i quali scelte e responsabilità hanno ricadute non solo in ambito economico, ma anche sociale, relazionale, etico, il tutto in una dimensione di sempre maggiore incertezza e velocità di cambiamento.
A livello organizzativo il primato della riflessività è da tempo oggetto di studi e ricerche che hanno caratterizzato tutto il filone dell’apprendimento organizzativo e dato origine a concetti quali learning organization, sensemaking, knoweledge management, reflective management. Allo stesso modo, nell’ambito della formazione e della consulenza individuale e ai gruppi, il tema della riflessività ha dato origine a un variegato universo di pratiche: action learning, narrazione autobiografica, formazione alle metacompetenze, formazione esperienziale, interventi legati alle comunità di pratica e di apprendimento, coaching, career counseling. In primo piano è il valore attribuito all’esperienza la quale rappresenta il luogo privilegiato da cui partire per costruire nuovi saperi e nuovi scenari di cambiamento per il sé e il contesto in cui opera.
 
Le finalità dell’esercizio riflessivo 
L’immagine dello specchio e dello specchiarsi ci guida nella comprensione del concetto di riflessività. Possiamo infatti considerare la riflessione come il tornare a sé del pensiero dopo che si è posato su cose, azioni e discorsi. Speculare e riflettere “definiscono la stessa attività del pensare, il processo mentale del rinviare per riconsiderare” (1). Ma in cosa consiste questo processo, in quale direzione muove? 
Riflettere non produce un mero aumento di conoscenze,  non soddisfa un bisogno informativo bensì un bisogno di comprensione su come agiamo, sul significato che attribuiamo a questo agire e al sentire che ci suscita. 
Riflettere significa posare lo sguardo su ciò che già sappiamo, ma che, proprio perché ci riguarda direttamente, non è così chiaro e noto come talvolta possiamo immaginare. E ancora, riflettere consiste, in primo luogo, nel ricostruire, descrivere, nominare e ordinare l’esperienza, così da offrire, un ancoraggio concreto alle idee che utilizziamo per giustificare le nostre scelte e i nostri impegni. Un ancoraggio che costituisce un prezioso argine nei confronti di ricostruzioni troppo generiche, infarcite di luoghi comuni e di razionalizzazioni spesso auto assolutorie.
Dare valore alla riflessione sull’esperienza significa superare la tradizionale separazione tra teoria e pratica che vede l’esperienza unicamente come il luogo in cui si applicano saperi e schemi d’azione appresi altrove. Significa favorire la partecipazione in prima persona al processo di indagine, interrogazione e formulazione di risposte che il nostro agire solleva.
Riflettere permette agli habitus che abbiamo introiettato e che si sono trasformati in disposizioni durature di non determinarci completamente. Solo attraverso questa pratica è possibile infatti realizzare il passaggio dal know how al know that, da un sapere incorporato e spesso tacito a un sapere dichiarativo. Operazione quanto mai preziosa dal momento che osservare, analizzare, valutare e trasformare in modo intenzionale una pratica significa arrivare a‘fare sapendo che cosa si fa e perché lo si fa’. Lo sguardo riflessivo infatti non è rivolto solo all’indietro, al passato, ma è uno sguardo trasformativo che apre al futuro per inaugurare nuovi comportamenti, nuovi pensieri, nuove pratiche professionali. 
Non si tratta però di uno specchiarsi narcisistico che serve a confermare se stessi. Riflettere consiste piuttosto nel vedere se stessi in una prospettiva più ampia, nel far proprio un punto di vista più generale, nell’incorporare lo sguardo dell’altro, grazie al quale valutare, valorizzare e, se serve, trasformare ciò che facciamo e diciamo e il modo in cui lo facciamo. 
 
I paradigmi della riflessività
Se l’obiettivo della pratica riflessiva è aumentare la comprensione di sé e della situazione in cui si opera per favorire una trasformazione che vada nella direzione suggerita da questa accresciuta consapevolezza, la domanda centrale diventa: quali sono i principi e i criteri che guidano la riflessione e orientano la trasformazione?
Posto che l’esercizio della riflessione si appunta su come agiamo, sulle idee che sostengono e motivano questo nostro agire e sui sentimenti e le emozioni che lo accompagnano, che cosa ci interessa cambiare e perché?  
È estremamente riduttivo considerare la categoria dell’efficacia-efficienza come l’unica degna di orientare l’analisi di azioni, discorsi e comportamenti in vista della loro trasformazione. La riflessività, infatti, non può appiattirsi sul paradigma strumentale caratterizzato dalla ricerca dei mezzi migliori per realizzare obiettivi dati. Essa chiede di essere guidata da valori e finalità più ampie rispetto al perseguimento di ‘funzionamenti’ adeguati alle richieste di un contesto organizzativo. Se questo è vero, il posarsi del pensiero su comportamenti, abitudini e pensieri non potrà avere come unico movente la modifica dei comportamenti errati e disfunzionali, l’intervento sulle distorsioni cognitive e sulle emozioni disfunzionali. L’esercizio della razionalità riflessiva deve essere anche un esercizio critico, rivolto non solo a realizzare i propri obiettivi ma anche a rivedere criticamente questi stessi obiettivi, insieme alle idee e alle azioni che questi sorreggono e accompagnano. In altre parole le categorie con cui la ragione riflessiva ricostruisce, interroga e direziona l’esperienza non possono essere solo il successo o l’insuccesso di un comportamento, ma anche la verità, la giustezza, la legittimità di quel comportamento e la responsabilità e l’impegno che questo comporta.
D’altra parte l’immagine dello specchio fin dall’antichità viene utilizzata non solo per descrivere il processo della conoscenza di sé ma soprattutto quello della trasformazione di sé, della ‘cura di sé’. Sembra che Socrate raccomandasse l’uso dello specchio come opportunità di perfezionamento morale, per trionfare sui vizi ed estirpare le passioni. Se anche siamo lontani da un’interpretazione in senso morale della cura di sé, che anzi oggi viene concepita perlopiù come ricerca di  benessere psico-fisico, essa nel suo significato più autentico consiste nel dar forma alla propria esperienza secondo direzioni di senso che implicano una dilatazione della responsabilità personale al di là del proprio spazio esperienziale. Non c’è cura di sé senza attenzione all’altro, alle conseguenze di ciò che facciamo e diciamo sugli altri e sul mondo che abitiamo.
 
Le competenze per la riflessività
Che competenze servono per l’esercizio della riflessività? Su cosa deve fare leva chi deve formarla, allenarla e favorirla?
E’ evidente che l’esercizio della ragione riflessiva non costituisce un saper fare di tipo tecnico-specialistico, sebbene essa possa rivolgersi con successo a esaminare attività tecniche per indagarle sotto diversi punti di vista (ad esempio il significato che queste rivestono per la persona e l’organizzazione di cui fa parte o le possibili implicazioni non tecniche iscritte nel loro esercizio). Ma neppure può essere identificato come una blanda capacità di dialogo, se questa viene intesa come la semplice padronanza di alcune tecniche di riformulazione e di indagine o, peggio ancora, l’occasione per scambiare opinioni e punti di vista con gli altri. 
La riflessività è una pratica complessa che presuppone capacità diversificate. Tra queste: inquadrare, descrivere e interpretare una situazione, prestare attenzione a ciò che è meritevole di essere esaminato, fare emergere i pensieri taciti che condizionano i processi di elaborazione del significato, comprendere i legami che le idee hanno con l’esperienza, costruire connessioni e comprendere la rete dei processi che strutturano le situazioni, individuare gli automatismi del pensiero, riconoscere le tonalità emotive che accompagnano il fare e il rapporto che queste hanno con l’universo dei valori. E ancora, un agire riflessivo significa esercitare la capacità di giudizio per valutare azioni e discorsi, mettere in questione il valore di verità dei significati, saper esercitare il dubbio.
Si tratta di un universo di saperi e capacità che a torto vengono date per scontate ma che è utile richiamare in quanto danno conto della complessità e articolazione della pratica medesima. Senza di queste essa risulta monca, si muove su un unico binario, quello tutto sommato più semplice della riflessività strumentale che persegue obiettivi strategici.
Pertanto una concezione ricca della riflessività, dei suoi fini e dei suoi usi, comporta per chi la mette in atto e ancor di più per chi questa pratica intende formarla e allenarla, l’essere in grado di padroneggiare un universo variegato di capacità e saperi cui concorrono ambiti disciplinari diversi. Tuttavia, se non esiste un sapere esclusivo cui spetta formare e allenare alla riflessività, è altrettanto vero che la filosofia come pratica, con i suoi metodi e strumenti di analisi critica, ha con essa un rapporto privilegiato dal momento che la riflessività è ciò che la costituisce nella sua origine, che sta al cuore dell’idea socratica della vita filosofica come forma di vita centrata sull’esame di sé.
 
(1) Rigotti, 2007, pag. 52
 
Bibliografia
S.Contesini, La Filosofia nelle organizzazioni, Carocci, Roma, 2016.
S.Contesini, R.Frega, C.Ruffini, S.Tommelleri, Fare cose con la filosofia, Apogeo, Milano, 2005.
A.Giddens, U.Beck, S.Lasch, Modernizzazione riflessiva, Asterios, Trieste, 1999.
F.Rigotti, Il pensiero delle cose, Apogeo, Milano, 2007.