*In “Formazione & Cambiamento”, numero 25, febbraio 2004
 
Io posso creare interi romanzi in sogno
(F. Dostoevskij – Le notti bianche)
 
Il Social Dreaming è una tecnica di lavoro di gruppo che valorizza “il contributo che i sogni possono offrire alla comprensione non del mondo interno dei sognatori, ma della realtà sociale ed istituzionale in cui vivono” (Neri, 2001). Dal punto di vista implementativo, si sviluppa in una serie di incontri, in genere da 3 a 5 sedute di gruppo, ciascuna della durata di un’ora e mezza, coordinate da uno o più conduttori. Il setting circolare o a fiocco di neve che i gruppi di 20-50 partecipanti compongono, non governato al centro dal conduttore ma lasciato vuoto e libero per ospitare idealmente le immagini e i vissuti, per posare al centro, consente di far sviluppare e comporre la così detta matrice di Social Dreaming, ovvero, secondo la definizione dello stesso Lawrence, il luogo da cui nasce qualcosa (Lawrence, 2001).
 
La matrice si apre con l’invito ai partecipanti (che possono appartenere a una sola organizzazione o provenire da diverse realtà) a rendere disponibile un sogno, a raccontarlo, partendo dal presupposto che non sarà considerato nella sua dimensione personale, come una traccia del vissuto privato del parlante, ma come innesco associativo messo a disposizione del gruppo per tirar fuori, attraverso la tecnica delle libere associazioni, i fantasmi, le fantasie e i vissuti conosciuti ma non pensati che derivano e si connettono alla realtà esperienziale condivisa con gli altri a livello sociale e nelle organizzazioni. L’analisi collettiva dei sogni, intesi come patrimonio del gruppo offerto al suo interno, consente di avvicinarsi all’organizzazione come luogo in cui “anche” si sogna e come entità che è spesso sognata (Neri, 2001), con modalità  che gli ambiti di consulenza organizzativa e sviluppo professionale spesso disattendono e ignorano.
 
L’apporto del Social Dreaming va nella direzione di una analisi delle persone nella loro interezza, del loro tessuto di fantasticherie, percezioni inconsce e socializzazioni inconsapevoli, che andrebbe a completare, nella pratica di intervento, il lavoro e le esperienze progettate e sviluppate a partire dal lato “cosciente” delle realtà di lavoro.
 
Nei vissuti della formazione e della consulenza tradizionali, a partire dal bisogno di sostenere percorsi strutturati di generazione di soluzioni, si esprime spesso la tendenza ad adoperare tecniche e metodi di esplorazione della realtà organizzativa, di lavoro e professionale, centrati sui comportamenti e sulla loro analisi.  Il piano di miglioramento delle persone e dei gruppi viene costruito a partire dall’esigenza di dotare ciascuno di un bagaglio condiviso di risposte e azioni da utilizzare a fronte di bisogni, richieste, criticità. La consulenza e la formazione, intese come attività tese a generare e governare cambiamenti necessari o in atto, vengono utilizzate in ottica terapeutica sulle organizzazioni secondo modelli sistemico- relazionali.
 
Se proviamo a porci davanti alle organizzazioni a partire dalla loro risorsa primaria, il gruppo, occorre spingersi un passo più avanti.  Occorre domandarci se tutto quello che abbiamo davanti agli occhi, e che possiamo ricondurre a una mappa della vita stessa di una realtà di lavoro, possa essere ricondotto a qualcosa di pensato, ovvero di percepito in termini consci dai soggetti e dall’organizzazione nel suo insieme.  “In certe fasi della vita di una organizzazione, le tensioni e i conflitti raggiungono dei picchi. E’ allora che viene investita una grande quantità di energia nel trovare risposte. Potrebbe invece risultare più proficuo permettere che le domande presenti in una istituzione si sviluppino”. (Neri, 2001)
 
Una proposta in questa direzione, nella direzione cioè dei nuclei di sofferenza non pensata delle organizzazioni e delle persone che le abitano viene già dagli anni ’50 dal Tavistock Institute of Human Relations, che mette al centro della propria analisi le relazioni umane nelle organizzazioni, portando a convergenza da lì in avanti gli approcci di Bion, Foulkes, Lawrence, Miller, Rice allo studio della persona nel contesto di lavoro.
 
“Il modello Tavistock considera le organizzazioni umane come suscettibili di andare incontro a processi di sofferenza, certamente diversi da quelli degli individui ma tali da danneggiare e far soffrir sia le persone che lavorano al loro interno sia soprattutto il compito primario dell’organizzazione” (Miller e Rice, 1967 cit. in Perini, 2003). A partire dai vissuti soggettivi per l’analisi delle organizzazioni, e pensando a queste ultime come luoghi in cui si sviluppa un inconscio collettivo nutrito dalla storia comune e condivisa del contesto istituzionale, il contributo operativo estremamente suggestivo di Gordon Lawrence si aggiunge all’inizio degli anni ’80, con la nascita del modello di intervento socioanalitico proposto nel primo Progetto di Social Dreaming e creatività. 
 
Lo scopo della proposta di Lawrence è quello di portare la consulenza e la formazione a conoscere “l’organizzazione nella mente” (Lawrence, 2001 cit in Perini, 2003) ossia “l’ampia costellazione dei miti, dei preconcetti e delle fantasie inconsce di cui è fatta l’immagine soggettiva che si ha di una organizzazione e in particolare delle relazioni che intercorrono tra individui e gruppi e tra gruppi al suo interno. Con una parafrasi, l’organizzazione conosciuta ma non pensata”. (Armstrong, 1997 cit. in Perini, 2003).
 
Adottare delle esperienze di Social Dreaming oggi, in contesti culturali in cui i fantasmi ci fanno sentire sui due lati di un ponte, a un margine del quale è la flessibilità e all’altro l’incertezza, in contesti sui quali  pesano i coni d’ombra che le tracce del dolore sociale posano sui vissuti sociali e organizzativi (Varchetta, 2003), può voler dire dotare la consulenza e la formazione di strumenti capaci di consentire, alle persone e alle istituzioni, di porre le giuste domande, di analizzare anche i versanti non detti e non pensati degli “inciampi” organizzativi. Può costituire quindi, per azzardo, il modo per dotare la formazione di un senso in più, altre le dovute percezioni  tradizionali, un sesto senso al servizio della comprensione e dello sviluppo dei gruppi. 
 
Nell’ottica delle comunità, infine, e nell’ottica delle pratiche anche virtuali, a partire dalla capacita di aiutare un gruppo a generare la propria pelle (Neri, 2001) ovvero a costruire l’epidermide capace di contenere i vissuti sia positivi che traumatici del gruppo, uno stimolo potrebbe venire a sviluppare la coesione. Uno stimolo a desiderare quella propensione al mettere in comune che rende possibili le esperienze di comunità professionale, andando a proporre e incrementare la disponibilità alla condivisione, fino a configurare gruppi di social dreamers, di sognatori sociali.  
 
Il Social Dreaming  potrebbe portare nelle organizzazioni quella inclinazione alla separazione da sé che sola consente di riconoscere le proprie risorse cognitive, immaginifiche, informative e creative non come “private e proprietarie” ma come risorsa sociale. 
 
 
Per approfondimenti
W. G. Lawrence (a cura di), Social Dreaming - La funzione sociale del sogno – Borla – 2001
C. Neri,  Gruppo – Borla - 2001
C. Neri, Introduzione al Social Dreaming – 2001 – http://www.funzionegamma.edu/
G. Varchetta, Dall'insegnamento all'apprendimento: dichiarato ed effettivo –Seminario AIF – Società Autostrade - Roma, 10 ottobre 2003
M. Perini, L'analisi delle organizzazioni secondo il "modello Tavistock" 1 – in  http://www.psychomedia.it/ilnodogroup/perini.htm
 
Siti di interesse per il tema:
http://www.tavinstitute.org/index.php
http://www.socialdreaming.org/