*In “Formazione & Cambiamento”, numero 46, maggio 2007
 
 
NG: Mi piacerebbe che questa intervista fosse il racconto del rapporto di Gordon Lawrence con i sogni, e di come questi sono diventati, attraverso il Social Dreaming, in una certa misura, uno strumento di sviluppo sociale. Considero questa una personale occasione per imparare. Gordon, cos’è un sogno?
 
GL: Gli inizi del Social Dreaming (SD) sono interni alle esperienze di creazione di gruppi. A quel tempo, erano gli anni 70, ero co-direttore del  Group relation Programme del Tavistock Institute. Di tanto in tanto, un membro del gruppo condivideva un sogno. E io sapevo di non poter trattare quel sogno individualmente per non andare contro il compito principale del gruppo che era lo studio dell’esercizio dell’autorita’ in un gruppo. Sentivo che il sogno poteva essere usato per identificare processi inconsci, ma non avevo ancora un metodo. Lessi molta antropologia e psicoanalisi, in generale immergendomi in sogni dei tipi piu’ diversi. Finalmente, per caso, mi imbattei nel “Terzo Reich dei Sogni” di Charlotte Beradt, lo lessi e rimasi colpito. La scrittrice, da giornalista, aveva raccolto i sogni di Ebrei durante il regime di Hitler. Tutti i sogni mostravano che, mentre la coscienza di chi sognava diceva loro di reagire, il loro inconscio dava il messaggio opposto. Era la prova definitiva di cui avevo bisogno per definire l’idea del SD. Approfondendo quell’idea, nei diversi anni che furono necessari per farlo, sono stato colpito dalla formulazione di Bion (Bion, 1961) sui due modi di vedere un gruppo. Il primo, ovvero la prospettiva Edipica che si focalizza sulle relazioni di accoppiamento dell’individuo. Il secondo, ovvero la prospettiva della Sfinge, che identificava come il gruppo raggiungeva la conoscenza e il metodo scientifico. Questo considerando la cultura del gruppo.
La primissima matrice SD si e’ tenuta alla Tavistock nel 1982. Era stato deciso di non chiamarla gruppo, ovvero Gruppo di Social Dreaming, perché volevamo mettere  l’accento sul sogno e pensavamo che esaminare le dinamiche del gruppo avrebbe interferito col processo del sogno. Così abbiamo scelto “Matrice”, termine  preso a prestito da Foulkes, e privo degli ostacoli derivanti da una pletora di significati. Quel termine chiariva che non si trattava di un “gruppo” e permetteva un tipo di esplorazione che solo in una matrice è possibile fare.
 
NG: Come definiresti la pratica del sogno, ovvero cosa accade quando le persone entrano in confidenza con i propri sogni, e si abituano a “pensarli” e a raccontarli a se stessi?
 
GL: Un Sogno e’ cio’ che accade durante il sonno. I sogni diurni hanno interesse limitato. Le Social Dreaming Matrix  hanno reso possibile un nuovo modo di considerare i sogni come parte della cultura. E hanno portato a nuove scoperte.
 
NG:  Quanto, secondo te, la memoria del sogno aiuta le persone a sviluppare un nuovo modo di dialogare con se stessi?
 
GL: L’ipotesi che la gente possa sognare socialmente fu suggerita  durante la prima SDM nella quale si assunse il principio che nessun sogno dovesse essere interpretato. Ovviamente, ricordare un sogno implica che chi lo fa riesca a parlare col proprio inconscio.
 
NG: Quale atto di generosità interpersonale e sociale è necessaria, da parte di un individuo, per mettere in comune il racconto di un sogno? Quali sono le resistenze che incontriamo nel “parlare” di un nostro vissuto onirico?
 
GL: Per altruismo io intendo la rinuncia all’ego, che vedo essenziale per il successo del Social Dreaming. In una Matrice e’ possibile giocare col sogno. E’ un oggetto esterno? a tutti i partecipanti.
 
NG: Spogliare il sogno del bisogno di interpretazione in chiave soggettiva, dalla quale ci aspettiamo aiuto e sostegno, e trasformare la trama onirica in un linguaggio, ovvero in uno strumento per portare la nostra esperienza di pensiero all’Altro, e renderlo disponibile ad un allargamento di senso attraverso la libera associazione, in che senso ci espone a un rischio sociale?
 
GL: Nessun aiuto viene dato ai partecipanti che danno voce al loro sogno esercitando  la propria autorità.
 
NG: Quando proponiamo, attraverso il Social dreaming, di sviluppare il pensiero creativo, a quale atto di condivisione e fuoriuscita dagli “schemi” alludiamo?
 
GL: [Nel S.D] Il sogno viene associato e, possibilmente, amplificato. E’ un aiuto che puo’ essere accettato o rigettato. Il racconto del sogno e’ accettato per quello che appare. Sono sempre piu’ cosciente del fatto che il racconto di una sequenza narrativa  riflette cio’ che pensa il sognatore. Freud, nella sua revisione della teoria dei sogni, riconobbe che il sogno era non solo il deposito dei desideri, ma anche una forma di pensiero. In una Social Dreaming Matrix prestiamo attenzione solo al pensiero, non alla persona, in modo da “capire” il pensiero dei sogni. Trasformando il pensiero dei sogni diventiamo creativi perche’ pensiamo qualcosa di nuovo che non e’ mai stato pensato prima.
 
 
NG: Se proponiamo di utilizzare il Social Dreaming a gruppi di psicologi o psicoterapeuti, crediamo di essere facilitati dal loro rapporto con i concetti di libera associazione e di sogno. Ma non è forse vero che il Social Dreaming e la costruzione della Matrice che lo ospita hanno la loro forza proprio nel poter nascere da un gesto “semplice” e “appartenente a tutti” (indipendentemente dal grado di evoluzione culturale e dalla comunità di appartenenza) che si concretizza nel “prendere in mano” i propri sogni ed usarli per raccontare?
 
GL: La mia esperienza delle varie “terapie” e’ che si trastullano con ricordi e desideri e non riescono ad accettare un nuovo modo di analizzare i sogni. Le libere associazioni sono difficili da accettare per la paura di essere giudicati dai propri pari. Voglio  mettere in luce l’esperienza del sogno, di per sé straordinaria e miracolosa, qualcosa di ordinario che chiunque dotato di intelligenza può affrontare. Non serve alcuna conoscenza arcana, anche se aiuta. Sempre che non ostacoli il compito principale di una SDM!
 
NG:  Quando ho incontrato il tuo gruppo e il Social dreamnig sono rimasta colpita dalla carica “innovativa” che poteva esserci nel portare in Italia, nelle organizzazioni, il Social Dreaming come strumento di potenziamento della creatività nei gruppi e come agente di benessere, a tutti i livelli delle gerarchie delle istituzioni e delle aziende. Ho però constatato che la fase di “preparazione” e quella di “debriefing” sono essenziali perché le persone accordino fiducia al metodo accettando di “parlare un linguaggio”, quello dei sogni, normalmente censurato nelle pratiche di lavoro. Quali sono le tue esperienze a questo riguardo?
 
GL: Si’, e’ innovativo! Forse, troppo. Sono convinto che il SD possa essere usato come strumento di indagine culturale in qualunque sistema. Una SDM e’ non gerarchica. Certo, deve essere introdotta, altrimenti le fantasie dei partecipanti possono prendere il sopravvento. E’ per questo che l’obiettivo viene dato sempre all’inizio della Matrice, per acquietare le ansie e chiarire. Il linguaggio dei sogni, quando e’ centrato sul mondo interiore e’ sempre, correttamente, censurato in un sistema. Ma noi usiamo i sogni diversamente, per esplorare la cultura, la conoscenza, del sistema che e’ materia pubblica che influenza tutti.
 
NG:  Quando abbiamo introdotto, con il tuo team in Italia, una matrice di social dreaming in una comunità professionale di consulenti human resources impegnati in particolare sul versante della formazione, le reazioni sono state contrastanti, ma un evento preciso ha contraddistinto l’esperienza: dalla matrice in avanti, e fuori dal luogo della matrice, le persone hanno cominciato a parlarsi raccontando i propri sogni incontrandosi al mattino o nei momenti di socializzazione creativa e informale che precedevano le riunioni di lavoro. Anche nella mia personale esperienza con le persone del tuo team, mi accade di sentire il bisogno di pensare e dialogare attraverso il racconto del sogno, sentendo che questo è diventato un nuovo linguaggio. Credi che la partecipazione alle matrici generi una “confidenza” della persona con il sogno come linguaggio e come strumento di amplificazione del pensiero, capace di trasformare i vissuti dei gruppi in una matrice sempre “open”?
 
GL: La Matrice e’ la chiave. La confidenza viene con l’esperienza della Matrice. Non c’e’ una sola risposta al sogno. Ci sono infinite possibilita’. Non mi interessano i singoli, o cio’ che apprendono. La Matrice da’ o meno loro l’autorita’ di espandere la propria conoscenza. Sono loro responsabili di cio’ che possono fare di questa opportunita’ .
 
NG: La mia prima associazione all’apertura della prima matrice alla quale ho partecipato fu, 3 anni fa, con un sogno molto antico, nel quale mi ero vista affacciata ad un balcone con un fiammifero in mano, in camicia da notte, mentre lasciavo cadere un fiammifero che, posandosi in terra colpiva un camion in corsa carico di bambini, i cui capelli prendevano fuoco. Ma questa corsa di fuoco era di una vitalità tale che io avevo paura nel pensare di poterla provocare. Oggi, prima di scrivere questa intervista, ho letto per caso, un racconto di un giovane scrittore (Giuseppe Costanzo) nato nella mia stessa città d’origine. Il racconto ha per protagonisti dei bambini, prigionieri nella Biblioteca di Alessandria, nella quale, appesi a dei fili, hanno il compito di prendere e riporre i libri sugli scaffali. Nel momento in cui la Biblioteca, con un grande respiro decide di darsi fuoco e consumarsi, fuggono verso il mondo con i lunghi capelli in fiamme. Tutto questo mi torna in mente ora, mentre scrivo. La parola alla quale penso è energia. L’associazione è con un altro racconto, di Borges, in cui dalla cenere, Paracelso riporta in vita una rosa. Hai un sogno, Gordon?
 
GL: Accetto la tua ipotesi di lavoro…