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Quando parliamo di smart working,  le prime più evidenti trasformazioni che possiamo notare riguardano:

  • il processo di delega (capace di affidare alla persona il controllo delle forme, dei luoghi e dei tempi di lavoro)
  • l’esercizio della leadership (intesa come capacità di coordinarsi con un gruppo di lavoro e con i clienti nello spazio etereo della connessione virtuale)
  • la capacità di definirsi, fuori dai luoghi aziendali e organizzativi, come persona che lavora e che mantiene un proprio calendario, un’agenda, una rete di incontri, fuori dal disegno usuale della dimora organizzativa. 

Accanto a questo, qualcosa accade al soggetto, che è chiamato a determinarsi come portatore di un brand nella gestione personale del vissuto di lavoro, anche quando si trova contestualizzato (nella propria visione interna e gruppale) in un contesto che è quello familiare o comunque esterno alle abitudini del lavoro e dell’ambiente unico e specifico cui si appartiene. 

Come coach mi è capitato spesso, anche più spesso che nelle attività di consulenza e formazione, di ascoltare e “lavorare”, con i e le coachees, i temi che derivano dalle esigenze di conciliazione con i bisogni della vita personale, con le aspettative di autonomia e fuoriuscita dalle routine e a volte dalle tante disfunzioni della convivenza organizzativa,  con la necessità di contrarre i tempi di spostamento, di allocazione e di riunione, facilitandoli tutti con l’introduzione del lavoro a distanza. 

Ora, un universo che sembra gravido di promesse, a volte idealizzato e promosso dentro di noi come luogo attuativo di una dimensione libero professionalenel lavoro in aziende o istituzioni, si trasforma spesso, alla resa dei conti, come una ricca opportunità di coltivare lo spazio con la sensazione però che questo stesso sia ricco di insidie.  Ecco quindi che, prendendo in prestito le metafore di alcuni “titoli” di mondo altro, mi è sembrato utile, per facilitare la riflessione comune nella costruzione di questo numero su modi e tempi dello smartworking oggi, partire proprio, come fa una coach, da una serie di domande. 

 

Che lascio qui dopo averle condivise, nel lavoro di cura del numero con Domenico Lipari, con alcuni degli autori dei pezzi, perché si sappiano dotare esse stesse di risposte che partono dalle esperienze di chi legge e di chi ascolta. Aprendo in futuro, si spera, una riflessione condivisa sulla complessità di un fenomeno che non è solo una variazione di opportunità, ma qualcosa che corre il rischio, se inascoltato, di trasformarsi in un tranello.

America oggi

Molte delle dinamiche che stanno trasformando i vissuti socio-politici delle nostre nazioni traggono origine dalla virtualizzazione degli scambi comunicazionali, e dal riparo indotto in chi scrive e comunica mediato dalle connessioni, fino a convincerlo di poter definire autarchicamente i linguaggi, le forme e i tempi del comunicare. 

Di questo, già alla nascita della posta elettronica, prima del 2000, i ricercatori avvertivano gli oramai “vintage” utenti dei primi sistemi di posta elettronica.

Come possiamo garantire le forme e i modi della comunicazione, esternalizzata dal luogo unitario dell’appartenenza a quello più solitario dell’autoconsistenza della “persona cablata”, dal tranello delle parole ostili, dei modi autarchici e della regola del proprio orologio interno, e farne invece una consistente opportunità di ridefinizione degli spazi e dei tempi anche in assenza di un “campanile” comune? Mi sembra questa, dati i tempi, la più urgente delle domande da porre.

Una solitudine troppo rumorosa

Una delle prime considerazioni che vengon su riflettendo sulle caratteristiche che assume lo smart worker, presupposto e pensato come colui o colei che lavora da remoto, da casa o da un altrove rispetto alla sua naturale ed abituale dimora organizzativa, è chiedersi cosa accada, in termini di qualità della comunicazione, quando questa distanza è colmata da continui allerta (telefonate, mail, chat), che non tengono conto del tempo reale in cui la persona è di fatto immersa (sta scrivendo, sta parlando con qualcuno, sta studiando un documento, è in riunione, sta guidando, e così via)… La sensazione molto forte è che la qualità del tempo "dedicato”, applicato a una conversazione o a una attività, degradi vertiginosamente sotto la pressione di una moltitudine di input che preme disordinatamente per entrare dentro. Qual è la nostra sensazione, rispetto a questo quadro? Come pensiamo questo che incida sul benessere socio-organizzativo, e su quello della persona?

Una moltitudine troppo silenziosa

La persona che lavora all’esterno, per obiettivi ma in continuo collegamento con gli altri, vive d’altro canto, una alienazione dalle abitudini del lavoro (e dei suoi luoghi sociali: le riunioni, gli incontri, la mensa, le pause caffè, la propria stanza o postazione, la segreteria, e così via…), generando nel luogo dell’organizzazione un “vuoto” e allo stesso tempo dovendo assumere nel “luogo proprio” (la casa? altre sedi? luoghi esterni?) sia una identità da comunicare agli altri, sia una modalità da disegnare e conoscere. In questo, compare a volte il fantasma dell’isolamento, la sensazione di lavorare sul “pezzo”, mentre l’organizzazione, nel suo insieme, vive altrove.

Un fantasma all’opera

Spesso sento dire a smart worker che hanno bisogno di tornare in azienda ogni tanto perché sia chiaro che loro “esistono”. Come se le aziende, ad oggi, non potessero ancora fornire una dimensione di “credibilità piena” alla persona al lavoro in questo spazio esteso e virtuale… Come possiamo prenderci cura di questa solitudine “assordante”?

Troppo lontano, troppo vicino

Nei processi di apprendimento viene descritto con acume il ruolo fondante della relazione come generatrice di saperi, linguaggi, pratiche e scoperte. Nonché di emozioni, motivazioni e inclinazioni. Cosa diventa per la persona al lavoro, nella sfera dell’apprendimento, un universo nel quale le relazioni sono fortemente mediate dalle tecnologie? Come possiamo immaginare di affiancarci a tutto questo conducendo le organizzazioni a prendersi cura di questo rischio di scollatura fra apprendimenti e relazioni che le rendono possibili? Siamo pronti a coltivare le relazioni come agente si sviluppo anche in virtuale?

 

La sicurezza degli oggetti

Molto del percepito della persona al lavoro è legato alle metafore che nel tempo sono state capaci di veicolare le parole organizzative attraverso i luoghi, gli oggetti, la percezione del brutto, del faticoso, e in controcanto del bello, del suggestivo, del liberatorio. Cosa pensiamo che introduca questa assenza di luoghi condivisi, sostituita da oggetti e gadget tecnologi, da tecnologie portatrici non solo di risorse di lavoro (connettività, velocità di performance,  spettacolarizzazione della comunicazione esterna), ma anche di valori simbolici (status riconosciuto o percepito a partire dalla dotazione che le organizzazioni riconoscono come bagaglio del singolo smart-worker)? Come può la sfera dell’estetica e la salvaguardia fra utile e bello ricadere positivamente nella relazione persona/organizzazione

 

Dalla parte delle bambine, e dei bambini

In tema di conciliazione, fra vita personale e vita lavorativa, come potremmo spiegare, a un bambino o a una bambina che studiano nella stanza accanto, che ci guardano lavorare e comunicare con tutti ma non con loro, pur essendo lì, che la mamma e il papà stanno lavorando?  Come potremo abituare chi lavora da remoto con noi a non confondere i tempi di lavoro con i tempi di vita nel loro insieme? Come potremo dire a un cliente che smart-worker non vuol dire home-worker full time? Sarà un compito della consulenza aiutare le aziende, le amministrazioni e le persone portare tutto questo ad armonia costruendo insieme nuove regole e saperi?

 

Tutto questo dolore un giorno ti sarà utile

Infine, a proposito di dolore e piacere, a proposito di biografie personali e organizzative, e di narrazioni, cosa possono fare la formazione e la consulenza per aprire una finestra che consenta a chi deve reinventare la gestione del tempo (lavorando immerso in un lunario familiare, e in una giornata che si propone simbolicamente come “introdotta” su quelli privati e dei nuclei familiari?

Un primo passo creda possa essere fatto proponendo l’approccio che è stato scelto per questo numero: una riflessione che nasca aperta, non assertiva ma interrogativa, con il valore per-formante che possono avere le domande quando ci troviamo di fronte a fenomeni così nuovi, così complessi, ricchi e articolati da rendere necessaria una mappa che si definisce di continuo: dentro la persona, dentro l’organizzazione, dentro chi si pone accanto come facilitatore e specchio. Fuori dai narcisismi della passione per l’innovazione occorre farsi ciechi ed aprirsi all’ascolto. 

 

Il comitato redazionale

Myriam Ines Giangiacomo

Domenico Lipari

Giusi Miccoli

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