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Mar, Giu

Da alcuni anni si registra, anche in Italia, una ripresa di interesse per i metodi della formazione. Si tratta di un fenomeno che ha come principale punto di riferimento una grande varietà di pratiche che maturano e si sviluppano (i) in contesti caratterizzati da un legame forte con i processi locali organizzativi e di lavoro; (ii) in una prospettiva di radicale superamento degli schemi ancorati alla tradizione codificata dell’azione formativa; (iii) sulla base di un’idea “allargata” della formazione entro cui assumono una certa rilevanza tanto le attività di consulenza quanto quelle di assistenza tecnica. Questa proiezione verso le dinamiche della vita organizzativa  assume nelle visioni emergenti un tratto del tutto nuovo, caratterizzato dall’affermarsi della consapevolezza del fatto che i fattori costitutivi dell’apprendimento sono “segnati” dall’intreccio di due “fattori” cruciali: da un lato, il riconoscimento della centralità della conoscenza e, soprattutto, del fatto che la conoscenza utile è quella che ha origine nelle pratiche degli attori impegnati nelle loro attività; dall’altro, il prevalere di una visione secondo cui assumono nuova rilevanza le dimensioni soggettive, intersoggettive e contestuali dell’apprendere. L’apprendimento trova il suo fondamento nella pratica, nelle relazioni degli attori. In simili condizioni, il rinnovamento della formazione, sul terreno del metodo, deve fare i conti con il dualismo tra insegnamento e apprendimento: il primo è centrato sulla trasmissione verticale di contenuti (saperi, valori, ecc.) da chi li detiene a chi li deve assumere; il secondo, invece, si fonda sulla centralità del soggetto e della sua capacità di ap-prendere dall’esperienza seguendo selettivamente le sue inclinazioni e i suoi interessi. Legati alla logica dell’insegnare, i metodi classici sono anche caratterizzati dalla centralità dell’”aula”, metafora che rinvia alle modalità trasmissive della conoscenza fondate sull’autorità e la gerarchia, sulla riduzione dei soggetti a contenitori, sulla trasmissibilità meccanica del sapere. Il rovesciamento del paradigma dell’aula privilegia la logica dell’apprendere, mette in luce la capacità degli attori di elaborare l’esperienza che diventa la fonte principale di conoscenza. Questa prospettiva scardina i modelli classici della formazione, apre nuove prospettive all’elaborazione metodologica dando luogo ad una grande varietà di metodi che possono essere riassunti dallo slogan “metodi oltre l’aula”. In questo quadro, gli approcci che si sono venuti consolidando sono molti e, pur tra molte differenze, sono tutti riconducibili all’interesse per la promozione dell’apprendere mediante lo stimolo alla partecipazione, il coinvolgimento degli attori implicati, il riconoscimento della loro soggettività, della rilevanza dell’azione e della riflessività in azione. Possiamo etichettare l’insieme di queste modalità di azione formativa come approcci orientati allo sviluppo di pratiche riflessive. L’abbozzo di una prima parzialissima mappa (da arricchire e rielaborare in funzione delle preferenze di ciascuno) muove dall’individuazione di diverse famiglie di metodi che - secondo una sommaria ricostruzione genealogica (almeno per la parte di ragionamento che intendo svolgere qui io) – vede da un lato, gli approcci basati sull’intervento, sulla partecipazione , sull’azione; dall’altro, quelli basati sulla condivisione della pratica in contesti d’azione omogenei (le cosiddette comunità).
Rinviando ad uno dei prossimi numeri della rivista l’approfondimento degli orientamenti basati sull’apprendimento a partire dalla pratica, ci concentriamo in questo speciale di “Formazione e Cambiamento” sul primo raggruppamento di approcci, ossia sulle metodologie d’azione. Appartengono a questa “famiglia” di metodi tutti quegli approcci che fanno riferimento al “modello” della ricerca-azione, il cui orientamento di fondo  - dovuto, come è noto, alla formulazione originaria di Lewin - non è tanto legato alla produzione di conoscenza (la quale è legittimata solo dal riconoscimento da parte della comunità scientifica), quanto piuttosto alla produzione della conoscenza specifica che, in un contesto dato, genera cambiamento e che nel riconoscimento sociale del cambiamento realizzato trova la sua legittimazione: nell'azione sono inglobate, potenziate e dotate di senso le nozioni di conoscenza e di cambiamento. La logica del cambiamento costituisce il fondamento teorico e di metodo della ricerca-azione. Gli sviluppi di questo approccio possono essere riferiti ad almeno due indirizzi (1).
Il secondo “modello” è l’action learning, prospettiva elaborata da R. Revans nel 1982 e successivamente ripresa e variamente sviluppata nel quadro di interventi di sviluppo manageriale basati sull’azione. Qui, azione e apprendimento sono indissolubilmente legati. La prima rinvia costantemente al secondo e viceversa, in un processo continuo di alimentazione dato dall’esperienza e dai problemi che essa costantemente genera. L’apprendimento è sempre associato ad una tensione (tra saperi codificati e problemi legati all’azione) che si può superare grazie ad un processo esplorativo caratterizzato da “domande” sulla natura e sulle caratteristiche del problema.
Il terzo modello, la ricerca partecipativa, è legata all’opera di Paulo Freire e alla sua teoria dell’educazione come “liberazione” a partire dalla “coscientizzazione”: la ricerca dovrebbe essere sempre associata a pratiche educative capaci di stimolare la partecipazione degli attori sociali all’analisi e alla conoscenza critica della loro condizione e realizzare così forme concrete di emancipazione. Le più rilevanti applicazioni del modello della ricerca partecipativa sono legate a progetti ed interventi orientati allo sviluppo locale o allo sviluppo di comunità.

Lo “speciale” di “Formazione e cambiamento” approfondisce il tema delle metodologie d’azione per l’apprendimento proponendo all’attenzione dei suoi lettori tre contributi di altrettanti esperti che al tema dell’apprendimento hanno dedicato studi approfonditi.
Giovanni Moretti introduce il discorso della ricerca-azione che, come ho accennato, rappresenta il il “modello” teorico e metodologico da cui derivano tutte le successive elaborazioni ed esperienze di apprendimento basato sull’azione.
Giuseppe Varchetta illustra la prospettiva dell’action learning così come è stata proposta e sviluppata da Revans.
Piergiorgio Reggio, infine, presenta l’approccio della ricerca partecipativa che costituisce il fondamento della concientization come progetto (elaborato e praticato da Paulo Freire) educativo e di liberazione.


1 Non consideriamo in questa sede Il “modello” della “ricerca-intervento” nelle organizzazioni elaborato dal Tavistok Institute di Londra come articolazione dello schema socio-tecnico di analisi e intervento (progettazione) in campo organizzativo. La logica di questo schema  è legata agli sviluppi del movimento delle human relations e si basa sull’idea secondo cui la progettazione organizzativa deve tener conto delle dimensioni tecniche e, simultaneamente, di quelle sociali, cioè dei bisogni dei membri dell’organizzazione.  La “progettazione congiunta” è realizzata in modo da garantire il coinvolgimento, la partecipazione e la collaborazione dei lavoratori.

“Formazione & Cambiamento”, come sanno i suoi più assidui (e meno giovani) lettori, è apparsa per la prima volta per mia iniziativa nel 2001 ed ha continuato ad essere pubblicata regolarmente con frequenza bimestrale nel sito istituzionale del Formez.
Per ragioni legate a scelte editoriali del Formez, “Formazione & Cambiamento” ha cessato di essere pubblicata nella sua forma originaria nel luglio 2014 (l’ultimo numero di quella serie è l’84).
Nei suoi 14 anni di presenza nel web, “Formazione & Cambiamento” è riuscita a conquistare l’interesse di un pubblico sempre più vasto caratterizzandosi come un veicolo di servizi informativi - rivolti ad una platea molto ampia di attori della formazione - a variabile grado di approfondimento su un insieme di temi legati all’apprendimento degli adulti. Questa prospettiva, volutamente ampia ed aperta, si è tradotta in una logica editoriale orientata a cogliere nella misura del possibile una molteplicità di temi, di questioni e di riferimenti alle pratiche seguendo un approccio transdisciplinare quanto alle teorie di riferimento, fondato sul legame con le (e sulla valorizzazione delle) esperienze, aperto al confronto. 
È difficile dire quanto l’esperienza dei quattordici anni (e 84 numeri) di “Formazione & Cambiamento” abbia contribuito allo sviluppo della cultura della formazione italiana – in un tempo di scarsa presenza non solo nel web di punti di riferimento – riviste, newsletter, ecc. – specializzati e autorevoli. Certo è che la rivista ha potuto contare sul contributo di moltissimi esperti di riconosciuto valore che hanno risposto generosamente (con articoli, interventi, interviste) alle mie sollecitazioni a collaborare alla costruzione dei vari numeri del webmagazine. Al tempo stesso, non si può non segnalare, almeno come indicatore di gradimento, la crescente attenzione degli addetti ai lavori testimoniata dalla notevole dimensione quantitativa degli abbonati alla rivista – l’ultimo dato disponibile ne registra circa 13.000.
Il ragguardevole patrimonio di contributi di ottimo livello accumulato in tutti questi anni (e “custodito” nel vasto archivio della rivista, ma anche nella memoria collettiva dei numerosi attori che hanno reso possibile la nostra “impresa”) non può andare disperso; al contrario, reclama di essere recuperato, valorizzato e rinnovato. Ma anche la responsabilità verso i tanti lettori e abbonati che finora hanno seguito il nostro lavoro impone di riprendere il cammino bruscamente interrotto lo scorso anno.
Sono queste le ragioni principali che mi hanno indotto a rilanciare in forme decisamente rinnovate (nell’ispirazione, nella logica editoriale e nella forma grafica) l’esperienza di “Formazione & Cambiamento”, il cui sottotitolo (“Rassegna trimestrale sulle teorie e sulle pratiche dell'apprendimento") riassume l’intenzione di tenere insieme le dimensioni della teoria e della metodologia da un lato e quelle dell’esperienza concreta dall’altro.
Allo scopo di rendere tale rilancio più efficace e più ampiamente condiviso ho invitato a collaborare nell’impresa (e loro hanno accettato con entusiasmo) Myriam Giangiacomo, Giusi Miccoli e Vindice Deplano che, insieme a me faranno parte del “comitato editoriale” della rivista e contribuiranno a rafforzarne la gestione e ad ampliare sia la rete degli autori, sia la platea dei lettori e degli abbonati.
Una nutrita schiera di esperti – in vario modo impegnati nella riflessione sui temi della formazione e dell’apprendimento – comporrà il nuovo “comitato scientifico” della rivista.
La linea adottata dal comitato editoriale per il rilancio di “Formazione & Cambiamento” punta a pubblicare quattro numeri l’anno e a concentrare in ogni numero un limitato numero di articoli dedicati all’approfondimento di un tema specifico. La   "formula" dei numeri tematici (o speciali) obbliga di volta in volta a selezionare questioni rilevanti sulle quali focalizzare l’attenzione e l’invito alla riflessione (attenzione e riflessione che riguardino al tempo stesso gli autori e i lettori). La scelta dei temi da proporre rifletterà inevitabilmente quanto emergerà dal dibattito e dalla più accreditata produzione scientifica. Ogni tre mesi dunque usciremo con uno speciale che affronterà un tema definito la cui cura sarà affidata da noi ad un editor esperto del tema che si occuperà di (a) introdurre il numero speciale con un suo contributo; (b) di individuare gli autori di tre articoli (che potranno essere di più in ragione della complessità o della rilevanza del tema affrontato).
Oltre all’approfondimento tematico, ogni numero conterrà una rubrica dedicata alle pratiche formative raccontate da formatori o consulenti o ricercatori che ne abbiano fatto esperienza. Le pratiche di cui si ospiteranno tre resoconti narrativi dovranno fare riferimento al tema dello speciale di ciascun numero. Sarà possibile in tal modo mantener vivo il legame tra teorie e pratiche richiamato dal sottotitolo della rivista e sarà possibile rafforzare il legame della rivista con i suoi lettori. Allo scopo di rintracciare tali esperienze, bisognerà lanciare regolarmente una sorta di call rivolta ai lettori (una call permanente in sostanza) che chieda degli articoli su casi di formazione di particolare interesse e comunque attinenti al tema dello speciale in programma (è del tutto evidente che per la pubblicazione saranno seguiti criteri quasi-concorsuali per cui, a insindacabile giudizio del comitato editoriale e dell’editor dello “speciale”, saranno pubblicati i migliori tre). Attraverso questa rubrica, si darà voce ai portatori di esperienze utili (nell’ipotesi che sia sostenibile un processo di partecipazione dei lettori) e al tempo stesso saranno valorizzate pratiche meritevoli di attenzione e di diffusione. 
Non mancherà, come da tradizione, una rubrica dedicata al suggerimento di letture (libri, riviste, ecc.) ritenute rilevanti dal punto di vista del loro contributo allo sviluppo dei saperi teorici e metodologici dell’apprendimento e della formazione.
Tutti i contributi – tanto gli articoli dello “speciale” e quelli dedicati alle esperienze, quanto le recensioni – avranno un “taglio” essenziale sia sul piano dell’esposizione (e dell’argomentazione) dei contenuti, sia, per conseguenza, su quello della lunghezza. L’equilibrio e l’omogeneità delle dimensioni sono una condizione necessaria per realizzare un “prodotto” agevolmente fruibile da una pubblico tendenzialmente molto vasto di lettori.
Come si vede, le scelte adottate per il rilancio di “Formazione & Cambiamento” puntano su una linea agile ed essenziale. È una scelta di campo, questa, che si propone di offrire contributi capaci di penetrare in profondità e in estensione nel vasto “territorio” della formazione italiana. “Formazione & Cambiamento” non è, né vuole essere una rivista accademica, ma non rinuncia in alcun modo al rigore concettuale, alla solidità dell’argomentazione e all’adesione alla realtà concreta delle pratiche professionali degli operatori.
Licenziamo dunque questo “numero zero” nella speranza che alle premesse qui enunciate seguano svolgimenti all’altezza delle nostre intenzioni.

Acquisire competenze per il lavoro interculturale in diversi settori (educativo, sociale, culturale, di ricerca, organizzativo) attraverso un percorso universitario costituisce una sfida dall’esito non scontato. L’esperienza del Master in “Competenze interculturali. Formazione per l’integrazione sociale”, promosso dall’Università Cattolica di Milano e giunto alla dodicesima edizione, ha affrontato in questi anni – con i docenti e con gli studenti - tale impegnativo compito.
“Intercultura” è l’oggetto di studio del Master e nella programmazione didattico formativa, è declinata in specifiche competenze interculturali: proprio l’attenzione allo sviluppo di competenze giustifica l’utilizzo, nel titolo del Master, del termine “formazione”, ad indicare la preoccupazione costante, lungo tutto il percorso formativo, per  l’acquisizione di saperi utilizzabili in situazione.
Una preoccupazione che non sempre si è coniugata e si coniuga con la tradizione e con la cultura formativa accademiche, ma che si è tradotta, nel corso degli anni, in una ricerca costante, da parte dell’équipe didattica del Master 1, di nessi tra contesto universitario, temi di apprendimento  interculturali e processi formativi.
Un aspetto specifico di tale ricerca e oggetto di analisi in questo articolo, è costituito dal tentativo di individuare modalità formative capaci di promuovere e sostenere lo sviluppo, in situazioni reali, delle competenze oggetto di formazione.
Se è vero che nell’impianto formativo del Master, sin dalla sua prima edizione, hanno trovato spazio – oltre a tradizionali lezioni frontali – momenti di lavoro individuale e di gruppo, laboratori monografici e di supporto alla rielaborazione formativa delle conoscenze proposte, tirocini presso realtà operanti in ambito interculturale, nel corso delle ultime tre edizioni però, l’équipe didattica ha valutato la necessità di integrare nella programmazione didattica, un modulo formativo specifico, il Progetto Formazione Intervento (PFI), finalizzato proprio a rinforzare ulteriormente lo sviluppo, in situazioni reali, delle competenze interculturali.

Il Progetto Formazione Intervento
Il PFI prevede un “trasferimento” delle attività formative dalle aule universitarie ad una realtà territoriale specifica caratterizzata da situazioni di pluralismo culturale e introduce nella didattica alcuni aspetti operativi specifici di acquisizione ed esercizio delle competenze 2.
Dal punto di vista metodologico, il PFI si presenta come attività formativa connotata da alcune dimensioni qualificanti:

  • l’adozione di una metodologia propria della “formazione per problemi” (situazioni-problema);
  • il recupero di elementi della logica della ricerca-intervento in comunità territoriali;
  • l’utilizzo e la declinazione di differenti contributi disciplinari (organizzati per competenze) in relazione alla concreta situazione-problema che si intende affrontare.

Organizzativamente, viene realizzato un primo modulo intensivo di tre giornate, finalizzato a:

  • porre studentesse e studenti partecipanti in condizione di acquisire elementi di conoscenza della realtà territoriale e delle principali caratteristiche, dinamiche e problematiche di carattere interculturale;
  • utilizzare strumenti di carattere sociologico, antropologico e di lavoro di comunità per una descrizione e comprensione della realtà locale;
  • individuare la/e situazioni-problema che affronteranno successivamente in modo specifico.

Gli output di questo primo modulo intensivo consistono, da un lato, nell’elaborazione, da parte di studentesse e studenti, di un profilo della comunità locale dal punto di vista delle problematiche connesse all’immigrazione e, dall’altro, nell’individuazione e descrizione di situazioni-problema significative intorno alle quali articolare il lavoro progettuale della fase successiva.
Il secondo modulo intensivo di tre giornate è invece maggiormente orientato a sviluppare capacità di progettazione e programmazione degli interventi ed è finalizzato a:

  • progettare interventi (circoscritti, ma significativi dal punto di vista formativo) educativi, sociali, culturali di carattere interculturale per affrontare le situazioni-problema in precedenza individuate ed analizzate;
  • utilizzare gli approcci e strumenti di progettazione e preparazione degli interventi proposti in aula durante le attività formative svolte in precedenza;
  • utilizzare i contenuti disciplinari proposti nel corso delle attività d’aula precedenti.

Nel corso dei tre anni di attuazione del PFI, coerentemente con l’approccio di ricerca azione adottato, le finalità del PFI si sono ulteriormente declinate e specificate e il lavoro di ricerca, di riflessione, di verifica realizzato con le studentesse e gli studenti, con i docenti, nei quartieri, ha permesso di focalizzare ulteriori specificità metodologiche e formative importanti che di seguito provo a descrivere.

Per un’intercultura trasversale
Se l’obiettivo del Master è lo sviluppo di competenze interculturali, e non solo l’acquisizione di saperi, il PFI si caratterizza come modulo formativo costantemente orientato a sostenere e costruire mediazioni e connessioni tra quattro dimensioni tra loro interagenti:

  • i saperi e le teorie che fondano e caratterizzano la prospettiva interculturale e che derivano da discipline diverse: pedagogia interculturale, sociologia dei processi migratori, antropologia, didattica, progettazione e animazione interculturale, sociologia della comunicazione, diritto delle migrazioni…;
  • le storie, le aspettative, i progetti di sviluppo professionale di studentesse e studenti;
  • i contesti sociali territoriali dentro ai quali si realizza il PFI;
  • le professionalità e forse, meglio ancora, le competenze di tutti quei professionisti che in questi contesti operano e lavorano.

La ricerca costante di una mediazione tra queste diverse dimensioni è una attenzione formativa specifica del PFI, necessaria per evitare – da un lato - di “parlare di intercultura” e, dall’altro,  per non scadere in un “fare senza ipotesi”: le soluzioni didattiche che integrano aspetti teorici e pratici sono essenziali per formare e accompagnare studentesse e studenti all’incontro, oltre le idealizzazioni, con il pluralismo sociale, professionale, culturale che - prima di divenire prospettiva  autenticamente interculturale - spesso si manifesta sotto forma di  non conoscenza, diffidenza, separatezza,  conflitto (Bennet, 2015).
Per incontrare, per conoscere e comprendere i contesti, le persone, le dinamiche sociali dei territori è importante porsi in ascolto, ricercare, comprendere, abbandonare letture stereotipate o troppo semplificanti dei territori e riconoscerne le sfumature, le specificità, le contraddizioni.  Il PFI promuove processi di conoscenza e strategie di collaborazione con soggetti del territorio, prettamente interculturali, attenti cioè a cogliere la densità di sguardi e di significati che nei territori si incontrano, a decentrarsi rispetto alle proprie modalità di pensiero e di azione, a orientarsi verso la ricerca di “spazi di incontro”: “pensare l’intercultura facendola, fare l’intercultura pensandola”.

Da gruppo a gruppo interculturale
Il PFI è anche occasione importante per lavorare con il gruppo e per accompagnare il gruppo di studentesse e studenti a riconoscere a sperimentare la sua specificità interculturale.
Studentesse e studenti che frequentano il Master sono appunto, in primis studenti, alcuni neo laureati, altri operatori sociali ed educativi, insegnanti, operatori della cooperazione internazionale che già lavorano in contesti interculturali e che nella frequenza del Master ricercano una specializzazione specifica nell’ambito del lavoro interculturale. E ci sono anche studentesse e studenti di origine straniera che lavorano in servizi o progetti interculturali, con una laurea non sempre coerente e che necessitano di un percorso formativo che formalizzi e integri le competenze acquisite nell’esperienza personale e professionale.
Un gruppo, tante biografie personali e professionali che proprio per età, lingue, culture, storie molto differenti, contengono in sé un potenziale interculturale che in aula fatica ad emergere, anche per il prevalere di uno studio individuale, ma che nel PFI trova occasioni, spazi, tempi per darsi.
Il gruppo, nell’uscire dall’aula e dal setting universitario, nel “trovarsi in situazione”, si scopre plurale e può farsi interculturale.
Il PFI accompagna gli studenti fuori dall’aula, in territori che non conoscono, in situazioni talvolta spiazzanti, propone loro scene e scenari anche poco noti (si pensi all’incontro con la periferia metropolitana per chi vive in un piccolo paese…). L’incontro con i territori non solo chiede di attingere anche a risorse personali, relazionali per orientarsi, per riuscire ad entrare in ascolto, per stare anche nell’incertezza del poco noto, ma chiede anche di condividere strategie, con il gruppo, per decidere come muoversi, chi incontrare, quali priorità di ricerca darsi. Un setting formativo che chiede di attingere a quanto studiato fino a quel momento, ma che attiva una immersione anche personale e relazionale molto vicina a situazioni lavorative reali: il lavoro sul territorio, il lavoro di équipe, scadenze e compiti, l’incontro con la rete di servizi e organizzazioni…
Il gruppo, nel PFI, si fa gruppo di apprendimento e gruppo interculturale nel senso che elabora e trova risorse e strategie per collaborare, per condividere una mappa di lettura e comprensione del territorio e del proprio stare in quel territorio, negozia strategie di relazione, di comunicazione, di decisione che in aula difficilmente sarebbero emerse.

Mediare l’incontro con il territorio
Il PFI deve collocarsi e prendere forma in un “perimetro territoriale” particolare che è importante presenti alcune caratteristiche:

  • è strategico individuare un contesto territoriale in cui convivano gruppi ed etnie diverse e dove il  pluralismo culturale “ponga e proponga questioni e sfide interculturali”;
  • è importante che il contesto sia ricco e popolato di attori sociali, di progettazioni, servizi e interventi, ma che non sia saturo e contenga in sé “situazioni-probema” intorno alle quali poter progettare;
  • il PFI assume valenza formativa se è capace di individuare un contesto locale sufficientemente grande da contenere in sé attori, professionalità, organizzazioni differenti, ma sufficientemente perimetrato per permettere agli studenti di posizionarsi e orientarsi in un tempo breve;
  • è importante, a garanzia del valore formativo del PFI, individuare dei mediatori, degli operatori locali che conoscano bene il territorio, i suoi abitanti, le dinamiche, le relazioni e che possano accompagnare, anche attraverso una prima selezione e un primo filtro, studenti e docenti all’incontro con testimoni privilegiati e in “visite” in “punti e spazi” particolarmente significativi del quartiere. Operatori mediatori del territorio che offrono a studentesse e studenti una prima narrazione, non satura, di ciò che incontreranno, che aprono problemi, che accompagnano senza sostituirsi, che offrono una prima mappa, parziale, per orientarsi e per muoversi.

Il PFI si caratterizza come dispositivo formativo attento a ricerca una mediazione costante tra “vita del territorio e studenti”, per non “buttare studentesse studenti nella bolgia della complessità (e talvolta della conflittualità) sociale” e per non correre il rischio di metterli nella condizione di “ritirarsi” per la fatica a gestire un livello di complessità eccessivo, o di banalizzare il processo conoscitivo e di non cogliere la densità della storia del territorio e le dinamiche sociali e interculturali che lo attraversano.

Sostare nell’aula temporanea
Il PFI prevede e propone un decentramento rispetto all’aula universitaria: studentesse, studenti e docenti nel PFI, cambiano aula, svolgono le lezioni presso uno spazio offerto da organizzazioni del territorio (sedi di cooperativa ed organizzazioni sociali del territorio), “escono” sul territorio e incontrano cittadini, operatori sociali, amministratori, abitanti del quartiere che li aiutano nella costruzione della conoscenza di quel territorio attraverso interviste, dialoghi, osservazioni, analisi di dati, ricerche documentali. Nel PFI, studentesse studenti camminano, si muovono, vanno ad incontrare i testimoni privilegiati, attraversano vie, piazze, giardini, dialogano con le persone, fanno fotografie, elaborano mappe dei luoghi che osservano. E poi ritornano nella loro aula, temporanea, dove, insieme ai docenti, rielaborano, rileggono, decodificano quanto scoperto, ascoltato, visto.
Per un verso, il PFI allestisce un’aula temporanea in cui quanto ascoltato e osservato nelle uscite e negli incontri viene sistematizzato e ricomposto, grazie anche all’accompagnamento dei docenti e agli apprendimenti sviluppati, in precedenza, in università.
Per un altro verso, gli apprendimenti sviluppati precedentemente nelle aule dell’università, nell’immersione in situazione, si ampliano, si articolano, acquisiscono una densità maggiore, trovano la possibilità di declinarsi in competenze e di integrare ed arricchire il percorso di formazione personale e professionale di studentesse e studenti.
È nell’aula temporanea che diventa possibile costruire mediazioni e connessioni  tra il qui ed ora del PFI e ciò che accade, prima e dopo, in università, è nell’aula temporanea che studentesse e studenti “riportano l’esperienza” e la riattraversano per sperimentare modi e forme specificatamente interculturali, per conoscere, interagire, collaborare.

Riferimenti Bibliografici

Bennett M., Principi di comunicazione interculturale, Angeli, Milano 2015
Bruner J., La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
Reggio P., Il quarto sapere. Guida all’apprendimento esperienziale, Carocci, Roma, 2010.
Reggio P. - Santerini M. (a cura di), Le competenze interculturali nel lavoro educativo, Carocci, 2014.
Santerini M. –  Reggio P.  (a cura di), Formazione interculturale: teoria e pratica, Unicopli, Milano, 2007.
 


1 Il Master è stato diretto dalla prima edizione (a.a. 2002-03?)  dalla prof. M. Santerini; a partire dall’ a.a.2013-14 (undicesima edizione) la direzione è stata svolta dalla prof. M.Colombo; il coordinamento didattico è stato sempre svolto dal prof. P. Reggio; tutor e componenti dell’équipe didattica sono stati Elisabetta Dodi, Ulderico Maggi e Monica Oppici

2 Nel corso di questi anni il PFI è stato realizzato in alcuni quartieri di Milano: Dergano (a.a. 2012-13) e Giambellino (2013-14 e 2014-15)

  1. La problematica dei metodi per la formazione è stata e tutt’ora è una delle aree più dibattute sia a livello di ricerca e teorizzazione sia nella pratica operativa quotidiana. (Lipari 2002,  AA.VV. 2004, Quaglino  2014)
    Si può addirittura affermare che per molti aspetti la ricerca e il dibattito e la sperimentazione nell’area dei metodi per la formazione sia una delle note più differenzianti l’universo di ricerca e esperienziale della formazione organizzativa e manageriale rispetto alla formazione accademico universitaria che per lo più, anche tutt’ora, resta ancorata a una accezione tradizionale dei metodi, che ha nella lezione frontale con pubblici di utenti spesso numerosi la sua fattispecie più diffusa.
     
  2. Metodo è un sostantivo che deriva dal greco antico: méthodos, via (hodós) che conduce oltre (metà); indica l’iter  transversum, la via più dritta, percorrendo la quale si può più facilmente raggiungere un luogo in cui si desidera arrivare. Vi è così un primo rimando topologico per le problematiche del metodo; un territorio da attraversare e una strada da seguire: un aiuto per orientarsi nell’ignoto, per arrivare alla meta nel modo più efficace ed efficiente.
    Viviamo tempi di complessità e occorre ricordare che un legame connettente le diverse nozioni della complessità è il suo contenuto sostanzialmente negativo. La ricerca guidata dal paradigma della complessità nei vari campi del sapere ci fa confrontare con l’assenza di conoscenza positiva e alla crisi della prevedibilità (Archibugi 2004).
    Tutto questo rimanda il pratictioner della formazione organizzativa a una esperienza obbligata relativa alla continua ricerca da parte sua di un metodo formativo da adottare, di una via da percorrere, di un criterio da scegliere: l’esperienza non evitabile è quella della scelta rispetto ad un ampio spettro di possibilità, è quella della solitudine, è quella dell’obbligata necessità di assumere di volta in volta, secondo una propria visione, il metodo più opportuno.
     
  3. La formazione oggi, più della formazione di ieri, di fronte alla crisi generalizzata della domanda ha nella questione del metodo un transito inevitabile e la possibilità di farne un’occasione di innovativo recupero.
    La ricerca nelle aree dell’educazione degli adulti che operano nelle organizzazioni complesse ha portato nutrito in questi ultimi anni una radicata convinzione: la prospettiva è quella di ri-dare al lavoro quel ruolo centrale come occasione di apprendimento e di educazione che assista il soggetto nel portare avanti tutte le sue potenzialità e divenire così un essere umano più completo. La domanda centrale di tale prospettiva è rivolta all’analisi delle linee attraverso le quali si declina il rapporto lavoro-soggetto-apprendimento e con quali modalità “si insegna e si apprende durante la vita lavorativa”. Siamo invitati ad attraversare così quel grande spazio che è il work-based learning, territorio caratterizzato con una serie di prospettive e filoni di ricerca:
    • le note di ambiguità caratterizzanti l’intersezione lavoro e apprendimento;
    • la convinzione che si possa apprendere in modo efficace anche in contesti lontani e diversi da quelli consueti;
    • l’esperienza si genera quando l’azione è “sottoposta” ad una analisi riflessiva nel tentativo di attribuire un senso all’agire quotidiano: su questa base l’azione di chi apprende occupa un ruolo centrale a livello di insegnamento e apprendimento”;
    • il lavoro e l’organizzazione sono un’occasione per poter apprendere non solo le variabili hard delle mansioni (conoscenze e capacità, regole e procedure) ma anche per donare senso e motivazione al tempo del lavoro.
       
  4. Se tali prospettive hanno fondamento il metodo dell’action learning (imparare facendo) può essere una risposta tanto naturale quanto felice, capace di offrire occasioni diverse per aggregare insieme un’occasione di conseguimento e sviluppo delle esigenze sopraindicate. “Essa combina ‘infatti’ diverse modalità di apprendimento e di lavoro:  l’apprendimento formalizzato di contenuti gestionali, di metodi di analisi e di lavoro, di gestione di processi, la definizione e negoziazione con un committente interno di obiettivi analitici e realistico per un progetto di effettivo interesse aziendale, l’utilizzo del metodo di problem solving per la definizione del problema e la ricerca di soluzioni possibili, la progettazione di ulteriori approfondimenti”[1]
    L’elaborazione teorica originale e le prime sperimentazioni operative dell’action learning sono da attribuire totalmente a Reg W. Revans che elabora e scrive i principi fondamentali dell’action learning. nel 1971 e definisce le istituzioni del metodo dell’action learning nel 1980 (Revans 1971, 1980).
    Erano anni quelli nei quali il grande transito dall’insegnamento all’apprendimento si era solo avviato e nei quali un certo fondazionalismo, un misconoscere la natura sociale del sé, una visione della realtà organizzativa dominata da un’alta prevedibilità e una rappresentazione unitaria dei processi organizzativi, dominavano e ispiravano ancora per lo più i principi e le pratiche della formazione degli adulti operanti nelle organizzazioni.
    Revans in quegli anni lancia la sua sfida attraverso la metodica dell’action learning ispirata da una forte attenzione al contesto, da una densa attenzione alle condizioni di esperienza del soggetto, ad un primato, in altre parole, della pratica. Action learning è una ipotesi metodologica nuova che rompe quell’insieme radicato di convinzioni educative che Dewey aveva identificato come “paradigma giudiziario” del pensiero, “che si esprime in una concezione legalistica delle idee come regole rigide che l’uomo applicherebbe ai fatti in modo esteriore. Il pensiero è visto come l’atto esterno che consiste nel mettere in relazione fatti e idee che esso trova come già dati e che quindi sono indipendenti dalla sua attività. … All’interno di questo paradigma il pensiero ha una funzione meramente esteriore e classificatoria. … Al contrario, quando il pensiero è concepito sul “modello del laboratorio”, l’esercizio critico della facoltà di dubitare si rivolge contro le condizioni stesse che nel modello giudiziario vengono date per acquisite, ovvero le idee e i fatti”[2].
    Pensare ed esperire l’organizzazione secondo Revans non può essere ancorato a pre-concezioni non collegate a contesti specifici e a milieu operazionali, ma deve essere calato nelle pratiche quotidiane e nutrito da uno spaccato creaturale, segnato dall’agire quotidiano delle donne e degli uomini che lavorano pensando.
    A tali approdi Revans, solitario e incompreso, perveniva all’avvio degli anni ’80 e la considerazione attenta del suo metodo di formazione centrato su “un’idea di pensiero [organizzativo] come atto trasformativo situato[3], non può non considerare come centrali per tale approdo e come sue radici quei fattori biografici che, da prospettive diverse ma ugualmente influenti, avevano segnato lo strutturarsi della sua concezione della vita e pensare umani.
     
  5. Action learning può essere così definito: un metodo di formazione per adulti operanti in organizzazioni, attraverso un approccio al lavoro e allo sviluppo/apprendimento attraverso l’affrontare un progetto o un problema reale proposto da un committente e affrontato in setting educativi diversi, sempre caratterizzati dalla presenza di un gruppo di lavoro operante e nel suo insieme e in alcuni più ridotti gruppi di lavoro (set di action learning), con l’assistenza costante di uno specialista di formazione degli adulti, all’interno di un predefinito patrimonio di risorse temporali da investire da parte dei partecipanti per la partecipazione ad action learning e budgetarie per eventuali richieste di assistenza e onsulenza specialistica.

    L’analisi della definizione proposta consente di individuare al suo interno una “cascata” interconnessa di riferimenti specifici/peculiari di action learning:
    • action learning ha un riferimento  centrale nell’orientamento all’agire, al lavoro dell’essere umano, come dato antropologico primo e riferimento peculiare: “gli uomini compiono azioni, non nel senso ovvio e banale che sono esseri che agiscono, ma in quello per cui l’azione costituisce la modalità primaria e fondamentale del loro essere al mondo”[4].
    • action learningsi fonda sulla convinzione – un credo pedagogico – che non vi possano essere apprendimento e invenzione avulsi dal lavoro, dalla pratica quotidiana delle donne e degli uomini: “tutto proviene dal lavoro, ivi compreso il dono gratuito dell’idea che sopraggiunge”[5].
    • action learningindica contemporaneamente come dal semplice fare non nasca, non possa nascere l’apprendimento. Per uncinare l’apprendimento, in altre parole per transitare dall’azione-lavoro all’esperienza-apprendimento, il lavoro, la pratica vanno problematizzati attraverso lo sviluppo di una coscienza critica di interrogarsi e di interrogare il mondo. Tale transito, sviluppato dalla riflessività nei setting della formazione, rompe le routines – abiti mentali, culturali che inducono ad accettare ogni fatto, qualunque ne sia la spiegazione, come ineluttabile, a non cogliere le contraddizioni – e può conseguire l’approdo dell’esperienza, dell’apprendimento.
    • action learningsottolinea come l’identità umana sia relazionale; essa si origina e termina in uno stato intrapsichico soggettivo, ma si sviluppa, è consentita e si radica in un processo intersoggettivo di riconoscimento mutuo e di definizione reciproca. Solo partecipando all’azione collettiva condivisa con altri esseri umani, il soggetto singolo si costituisce e si articola come un sé, struttura peculiare “dipendente” dal riconoscimento di altri esseri umani e capace di porgere a sua volta riconoscimento all’altro.
    • action learningconcretizza in sé una organizzazione nell’organizzazione; la metodica formativa A.L. fa dei partecipanti i membri di “una organizzazione a tempo”, con limiti temporali di durata predefiniti dall’istituzione che decide la partecipazione ad action learning, concordati con l’istituzione committente e comunicati ai partecipanti.

    L’essere in sé una “organizzazione a tempo” rappresenta per i partecipanti una rilevante opportunità  di sperimentazione e confronto con la realtà operativa “lavoro per progetti”, pratica oggi estremamente diffusa nell’organizzazione contemporanea, che contiene simultaneamente del tempo organizzativo contemporaneo i dati di flessibilità e insieme di precaria imprevedibilità.

  6. Componenti e dispositivi di action learning
    L’opportunità per i partecipanti di action learning di confrontarsi con quanto “promesso” dalla definizione stessa di action learning e con i riferimenti specifici sopra rubricati, può essere sinteticamente precisata nelle seguenti caratteristiche operative (Cecchinato, Nicolini 2005):
    • il processo di apprendimento è favorito dalla ricerca di soluzioni operative proposte dai partecipanti a problemi reali e sentiti come rilevanti dall’organizzazione committente;
    • la problematica del brief proposto ai partecipanti è reale, complessa, capace di generare nei partecipanti un investimento intenzionale di investigazione e proposizione;
    • l’analisi del problema e la ricerca delle soluzioni alternative sono svolte all’interno di un piccolo gruppo, in una dimensione costantemente relazionale;
    • la ricerca operativa della soluzione del problema proposto e lo sviluppo dell’apprendimento sono processi paralleli, contemporanei e strettamente correlati in un rapporto sistemico-ricorsivo.

Questo insieme di problemi-obiettivi sono conseguibili attraverso la presenza combinatoria di alcuni dispositivi-strutture indicati come i pilastri della struttura di action learning:

  • la natura del problema proposto dal committente e affrontato dal gruppo di action learning;
  • il set di action learning;
  • il processo di lavoro “binoculare” volto e alla ricerca della soluzione e al processo di apprendimento;
  • il ruolo del facilitatore/trainer;
  • il ruolo dello sponsor del progetto di action learning.

La metodica dell’action learning è oggi declinante e nella cultura manageriale e organizzativa italiana poco utilizzata. Metodo in sé collettivo action learning è stata travolta dallo tsunami delle pratiche formative one to one, dal coaching, dal counseling, dal mentoring. Tutto questo  (pur senza alcuna intenzione di contrapporre metodi in sé diversi e in sé utili per bisogni formativi e contesti organizzativi diversi)  marginalizzando la realtà più pregnanti dell’essere l’esperienza organizzativa, ancora oggi, un’esperienza soprattutto collettiva. 

Nota Bibliografica

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[1] Bellamio in AA.VV. 2004, pag. 25

[2]Frega 2008, pagg. XVIII-XIX.

[3]Ibidem., pag. XXXIII.

[4]Gargani 2000, pag. 11.

[5]Serres 1991; trad. it. 1992, pag. 128.

  1. Sfondo teorico (1)
    La formulazione iniziale di R-A (Lewin, 1946) ha avuto molti sviluppi riconducibili a tre indirizzi (Lipari, 2003, 2012; Bortoletto, 2005): a) il primo legato al modello della ricerca-intervento nelle organizzazioni elaborato dal Tavistok Institute di Londra e sviluppato dal movimento delle human relations; 2) il secondo modello è l’action learning, prospettiva elaborata da Revans (1983) nel quadro di interventi di sviluppo manageriali basati sull’azione, fonte primaria di apprendimento fondato sul confronto con l’esperienza e con i problemi che la caratterizzano; 3) la ricerca partecipativa, il terzo modello, è legata all’opera di Paulo Freire (1971), ed associa la ricerca a pratiche educative di consapevolezza e di emancipazione degli attori sociali.

    E’ assai difficile dare una definizione univoca della Ricerca-azione (da adesso R-A), considerati i numerosi modelli teorici di riferimento e le loro molte applicazioni (Becchi, 1992; Trombetta, Rosiello, 2000; Reason, Bradbury, 2008; Colucci, Colombo, Montali, 2008; McNiff, 2013). Una definizione articolata di R-A è quella di Piccardo & Benozzo (2010) che definisce la R-A come: a) un modo di intervenire all’interno del contesto organizzativo, con un intervento trasformativo e di costruzione di conoscenza;  b) un modo ciclico e ricorsivo di conoscere nella relazione e attraverso la relazione; c) una filosofia, un modo di essere e di vivere; d) una metodologia di ricerca soprattutto, ma non esclusivamente, qualitativa.

    Nella sua forma classica la R-A cerca di rispondere ad alcune esigenze lasciate insoddisfatte dal metodo sperimentale: l’applicazione a contesti sociali complessi in cui è difficile isolare e tenere sotto controllo le variabili più importanti, e l’integrazione tra ricerca e pratica. Tuttavia un filo rosso, attraverso le nozioni di conoscenza e cambiamento, lega la R-A alla teoria della indagine deweyana (Lipari, 2003; Marani, 2013): individuazione di problemi, individuazione di soluzioni soddisfacenti in grado di ristabilire equilibri e stabilità attraverso ipotesi guida, prove e verifiche, e attraverso approssimazioni successive e adattamenti pervenire ad una soluzione.

    Nel settore della formazione la R-A è sempre più scelta come approccio metodologico per realizzare interventi di “formazione-azione” (Smeets, Ponte, 2009; Kaneklin, Piccardo, Scaratti, 2010; Lipari, 2012). La formazione, in questa prospettiva, si realizza favorendo processi di apprendimento locale, basati sulla esperienza pratica e sulle azioni che gli attori coinvolti svolgono insieme ad altri, in un determinato contesto sociale e organizzativo. La R-A, soprattutto quella di tipo partecipativo, è dunque promossa nella convinzione che per il soggetto e per le organizzazioni ha sempre più rilevanza la dimensione dell’apprendimento. La valorizzazione della dimensione formativa, pratica, attiva e trasformativa dell’azione, che caratterizza i vari approcci di formazione-intervento, rappresenta oggi uno dei campi di applicazione più rilevanti del modello di R-A. La formazione e l’apprendimento non sono più considerati esiti indiretti o marginali della R-A, benché auspicati, ma esiti attesi e intenzionalmente perseguiti attraverso approcci basati sull’intervento, sulla partecipazione e sull’azione (Cecchinato, Nicolini, 2005; Levin, 2008; McAteer, 2013).

    Negli ultimi anni alla R-A è stata dedicata particolare attenzione in ambito scolastico con esiti spesso interessanti (Tanoni, 2000; Moretti, 2003; Losito & Pozzo, 2005); nei paragrafi che seguono sono prese in esame alcune questioni ritenute importanti per quanti vogliano condurre in modo consapevole iniziative di R-A nei contesti educativi formali.
  2. R-A e contesti educativi formali
    Nel contesto scolastico la pressante esigenza di coinvolgere direttamente il più ampio numero di insegnanti nel compito di migliorare e riqualificare l’azione organizzativa e didattica, sia quella complessiva a livello di istituzione scolastica che quella svolta in classe, a partire dalla seconda metà degli anni ottanta ha portato ad individuare nella R-A il dispositivo più efficace per contribuire allo sviluppo educativo e alla diffusione delle cosiddette buone pratiche. Questa importante dimensione partecipativa, che indubbiamente caratterizza la R-A, è assai nota a tutti quelli che, a vario titolo, si occupano di educazione e di formazione.

    Meno noto ai più è il confronto immediato che  la comunità scientifica italiana ha avviato con i gruppi di esperti, soprattutto di ambito europeo, sulla possibile integrazione tra la sperimentazione classica e la R-A a partire dalla riflessione sulle effettive applicazioni sul campo e nella prospettiva di incidere attraverso la ricerca sul miglioramento della prassi educativa (Scurati & Zanniello, 1993). A questa dimensione, che presta attenzione all’applicazione dei risultati della ricerca e riconosce il valore dell’impatto degli esiti della ricerca sui decisori politici, oggi è finalmente riconosciuta la sua effettiva rilevanza e non solo per gli addetti ai lavori.

    Oggi è sempre più diffusa la consapevolezza che l’allineamento tra cambiamento, innovazione e apprendimento profondo (degli attori, dei gruppi e delle organizzazioni) si possa realizzare non tanto enfatizzando la “generica partecipazione” degli attori ad azioni trasformative locali,  ma coniugando in modo rigoroso e continuativo l’attività di ricerca empirica e l’utilizzo pubblico dei suoi esiti con l’azione concretamente svolta nei differenti contesti educativi formali o non formali.

    Ad esempio dall’analisi delle caratteristiche generali delle ricerche presentate nei nove Seminari annuali promossi dalla SIRD (Società Italiana di Ricerca Didattica), che hanno visto la partecipazione di un ampio numero di dottori e dottorandi di ricerca dei settori scientifico disciplinari M-PED/03, Didattica e Pedagogia speciale e M-PED/04, Didattica sperimentale (Moretti, 2009, 2015; Galliani, 2010; La Marca, 2012), emerge tra l’altro che la R-A si conferma nel tempo come uno degli strumenti più utilizzati da coloro che si stanno formando alla ricerca tramite la ricerca stessa. Tuttavia non sempre il rigore e la solidità delle evidenze raggiunte sono all’altezza dell’impegno profuso sul campo e del grado di coinvolgimento manifestato tanto dal ricercatore quanto dagli insegnanti e dagli altri attori implicati.

    La R-A educativa è spesso carente in termini di rigore e solidità, per questo si propone di “immettere nella RA una robusta venatura deduttivista con l’intento, tutto metodologico, di fare precedere sempre all’azione empirica una cifra teorica, uno schema formale siglato da un sistema d’ipotesi, secondo una curvatura cara all’impianto del razionalismo critico” (Frabboni, 1988, p. 333). In assenza di un sistema di ipotesi non si avrebbe ricerca ma solo azione, per questo la posizione del problematicismo pedagogico, nella più recente prospettiva del realismo critico, propone un approccio epistemologico oggettivista alla R-A con l’obiettivo di “canalizzare la ricerca-azione nella direzione dell’autentica ricerca scientifica, volta a elaborare un sapere razionalmente giustificato” (Baldacci, 2012, p. 104). In particolare il canone dell’aderenza alla realtà nella scelta educativa può aiutare a distinguere una pedagogia scientifica e realistica da una pedagogia utopica e velleitaria. Il realismo critico, infatti, “considera la prassi educativa oggettivata come una realtà indipendente dai voleri dell’educatore, non la ritiene modificabile a piacimento ma solo a certe condizioni, da comprendere nella loro specificità situata, la cui inosservanza porta al fallimento del disegno pedagogico” (Baldacci, 2014, p. 395). La sostenibilità e l’efficacia della R-A anche per evitare il rischio di essere velleitaria deve perciò tenere nella giusta considerazione la dimensione temporale.
  3. I tempi della R-A
    La R-A è una strategia che permette di affrontare problemi in costante evoluzione e che spesso è condotta nell’ambito di contesti in cui gli eventi seguono una dinamica temporale e si diversificano e caratterizzano di volta in volta a seconda degli attori coinvolti e delle differenti situazioni che si vengono a creare. L’importanza riconosciuta al fattore tempo e alla dinamica temporale è confermata sia dal fatto che non pochi autori distinguono tra conduzione di ricerche azioni di breve, di medio o di lungo periodo, sia dal diffuso riferimento che gli stessi autori fanno a una varietà di fasi che caratterizzano i differenti modelli di R-A proposti.
    Possiamo distinguere tra due modalità, sintetica e analitica, utilizzate per definire le fasi della R-A. Un esempio emblematico di rappresentazione sintetica delle fasi di R-A è presente nel contributo di Cunningham (1976), nel quale sono individuate quattro fasi nella procedura della R-A: a) avvio/individuazione del problema; b) formazione del gruppo; c) progettazione dell’azione, d) attuazione della ricerca.
    Un esempio indicativo di una rappresentazione analitica, caratterizzata da una descrizione ampia e dettagliata delle fasi della R-A, è quello proposto da Coggi e Ricchiardi (2010), che individuano undici fasi principali della R-A: 1) manifestazione della difficoltà o problema; 2) formazione del gruppo; 3) definizione sistematica del problema con un ricercatore; 4) formulazione degli obiettivi della ricerca; 5) individuazione delle possibili azioni; 6) scelta delle modalità per rilevare le informazioni; 7) rilevazione iniziale; 8) introduzione del trattamento; 9) verifica del trattamento; 10) valutazione finale; 11) sviluppo ulteriore. L’esame approfondito dei molteplici modelli di R-A proposti permette di rilevare scansioni o snodi  molto simili tra loro indipendentemente dalla modalità, sintetica o analitica, seguita per giungere alla individuazione e descrizione delle singole fasi. Un aspetto molto interessante da mettere a fuoco è la tendenza presente nella maggior parte dei modelli di R-A a definirsi come “continui”: nessun modello infatti auspica la conclusione o l’interruzione del circuito “osservazione, riflessione e azione”, ma tutte le proposte indicano sempre gli sviluppi possibili della ricerca, in continuità o discontinuità con le azioni svolte in precedenza. La R-A è nel complesso rappresentata come una strategia che si sviluppa in modo ricorsivo, ciclico o a spirale e che indipendentemente dal tipo e numero delle fasi o dei passaggi indicati dai singoli autori, manifesta alcuni suoi elementi caratteristici che dovrebbero essere interpretati assumendo una prospettiva dinamica e processuale e non ricorrendo agli approcci tradizionali che spesso rischiano di ridurre la dinamica dei processi osservati trasformandola in una prevedibile e persino pianificabile successione di fasi rigidamente consequenziali.
    Benché tutti i passaggi previsti dai differenti modelli di R-A abbiano la stessa rilevanza e meritino la medesima attenzione i passaggi cruciali della R-A sono soprattutto quello iniziale, durante il quale occorre individuare il problema da affrontare e quello della formazione del gruppo.
    La progressiva maturazione del gruppo, in particolare, è precondizione essenziale per l’efficacia del lavoro di ricerca e prevede: l’adesione spontanea, l’individuazione di obiettivi realistici, significativi e sostenibili, la condivisione delle scelte procedurali, la specificazione dell’impegno e dei ruoli di ciascuno dei membri.
  4. Ricerca longitudinale e cicli di R-A
    La riflessione sulla dimensione temporale della R-A e sul tratto della “ricorsività” che la caratterizza si collega alla questione dei cicli di R-A. La R-A dunque non si esaurisce in un unico ciclo o percorso ma, dalla fase progettuale, dovrebbe già prefigurare lo sviluppo di successivi cicli di R-A, collocando sempre più sia la ricerca sia l’azione in una prospettiva diacronica di media o lunga durata. Le prospettive di ricerca longitudinali sono oggi considerate tra le più efficaci per comprendere in profondità alcuni degli aspetti che definiscono la complessità della vita attuale delle persone e delle organizzazioni, sempre più sottoposte a relazioni e dinamiche imprevedibili e spesso ambigue e contraddittorie.
    A fronte di concezioni che considerano la R-A insieme alla ricerca etnografica e allo studio di caso, una delle tre strategie più importanti di ricerca qualitativa in educazione (Coggi, Ricchiardi, 2010), alcune esperienze di cicli di R-A condotti in ambiti differenti scolastico, sociale, sanitario, lavorativo, urbanistico, ecc. testimoniano la possibilità di svolgere iniziative inserendo nella procedura di R-A metodi quantitativi e persino strumenti standardizzati, senza il timore di snaturare una strategia che rimane prevalentemente qualitativa.
    Assai diffusa è la tecnica della triangolazione degli strumenti così come dei punti di vista dei diversi attori coinvolti nel contesto osservato. Le pratiche di R-A, soprattutto quelle che si sviluppano in più cicli, si avvalgono dell’uso integrato di un’ampia gamma di strumenti quali: questionari, colloqui e interviste, diari, focus group, griglie di osservazione, prove oggettive, ecc., il cui utilizzo è finalizzato a individuare piste di cambiamento e innovazione dei contesti osservati. Fare ricerca è un’attività riflessiva, per questo chi è impegnato nell’indagine educativa dovrebbe ragionare per aperture e non per chiusure, considerando la possibilità di avvalersi nei differenti cicli di R-A sia di approcci quantitativi sia qualitativi da considerare “come due possibili vie di accesso al reale da usare in modo interscambiabile o combinato riguardo all’obiettivo contingente che il ricercatore si pone” (Trinchero, 2012, p. 85). La riflessione sulle nuove esigenze della ricerca educativa oltre al riferimento a modelli procedurali ciclici di R-A fa emergere anche le implicazioni tra R-A e cura delle comunità di pratica.
  5. R-A e cura delle comunità di pratica
    La R-A considerata in una prospettiva di cicli che si susseguono e che contribuiscono a qualificare una prospettiva di ricerca longitudinale nella quale possono integrarsi in vario modo strategie e tecniche sia qualitative sia quantitative consente di sviluppare alcune importanti riflessioni che coinvolgono le comunità di pratica. In particolare laddove alla prospettiva wengeriana della “coltivazione” delle comunità di pratica (Wenger, 1998, 2002) si preferisce un approccio che vorrebbe promuovere, sostenere e prendersi cura delle comunità di pratica (CdP) il metodo della R-A, unitamente ad una teoria costruzionista dell’apprendimento, diventano “lo sfondo di riferimento che innerva la prospettiva volta alla cura delle CdP” (Lipari & Scaratti, 2014). Il confronto con i problemi da parte di attori che interagiscono tra loro e si confrontano con esperti produce conoscenza e cambiamento: l’una legittimata dal consenso di coloro che l’hanno prodotta e l’altro corroborato dagli effetti trasformativi prodotti dall’azione svolta sul campo.
    Questa prospettiva che avvicina la R-A alla cura delle CdP è molto interessante ai fini della ridefinizione del ruolo del ricercatore perché “sottolinea il tratto irriducibilmente implicante degli esperti coinvolti: la loro azione non consiste in un intervento esterno portato-là-doverichiesto dal committente che li ha ingaggiati allo scopo di produrre conoscenza; consiste piuttosto in un lavoro in cuiinsieme agli attori interessati – si produce simultaneamente conoscenza e cambiamento” (Lipari & Scaratti, 2014, p. 218). L’intreccio tra R-A e comunità di pratica è ben esplicitato nell’ambito di una recente esperienza di R-A mediaeducativa particolarmente attenta alla costruzione e cura di quelle CdP che riflettono su ambienti e strumenti nel momento in cui li utilizzano, producendo teoria e pratiche mediaeducative. Appare interessante il riferimento ad una ciclicità più ampia della R-A, in grado di esprimersi a tre livelli/contesti, macro, intermedio e micro, capaci di porsi come “complementari e utili alla crescita di una comunità di pratica nella quale tutti gli attori agiscono al medesimo livello di importanza, seppur con competenze differenti” (Parola, 2014, p. 260). I tre livelli della R-A consentirebbero al gruppo di riflettere più approfonditamente all’interno di un circuito scientifico riconosciuto che stimola collegamenti significativi tra le dimensioni micro (classe/scuola), intermedia (partenariato locale) e macro (policy).
  6. Questioni aperte
    Alcune questioni sono ancora oggi aperte: problemi metodologici; ruolo dei soggetti partecipanti alla ricerca; criteri di verifica e valutazione degli esiti di ricerca; trasferibilità degli esiti in contesti nuovi e diversi; integrazione tra lavoro personale, lavoro di gruppo e reti di lavoro partecipate, in presenza e online; uso delle arti nella R-A per generare conoscenze e d esplorare nuove forme di rappresentazione; difficoltà di pervenire ad un modello di R-A riconosciuto e codificato dalla comunità scientifica. Il dibattito sulla R-A considera il rapporto tra ricercatore e operatore ambivalente e spesso condizionato dai pregiudizi reciproci, soprattutto da quelli manifestati dagli operatori nei confronti dei ricercatori. Nelle fasi di progettazione e pianificazione dei cicli di R-A assume dunque una rilevanza strategica la chiarificazione delle differenti forme di collaborazione che si intendono valorizzare (Kemmis, McTaggart, Retallick, 2004; Heron, Reason, 2006; Stringer, 2007). In Italia il dibattito sulle implicazioni tra l’orientamento Evidence Based Education (EBE) e la R-Aha rivitalizzato la riflessione sul rapporto tra ricerca educativa e pratica didattica. La diffusione della EBE, da una parte ha fatto emergere la critica al modello autoreferenziale di R-A, quella in cui si ipotizza un insegnante ricercatore che imparerebbe da sé attraverso l’autoriflessività (Calvani, 2011); dall’altra ha sollecitato una riflessione sulla effettiva possibilità, per l’insegnante, di svolgere il ruolo di professionista che produce conoscenza, e che assume decisioni informate utilizzando evidenze di ricerca da lui stesso rilevate.
 

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(1) I paragrafi 1 e 6 riprendono le riflessioni illustrate nel contributo di Moretti, G. (2014). Ricerca-azione. In: D. Lipari, S. Pastore  (a cura di), Nuove parole della formazione, p. 203-210. Roma: Palinsesto.

Sono assai diffusi oggi approcci e modelli di intervento formativo, educativo, organizzativo e sociale fondati sulla partecipazione attiva dei soggetti coinvolti. Alle origini di tali modalità di azione si rintracciano contributi di ambiti disciplinari differenti: sociologia delle organizzazioni, psicologia e pedagogia sociale, psicologia di comunità. A partire dalle storiche istanze  del paradigma della ricerca-azione formulate da  Kurt Lewin, dai principi dell’educazione attiva di Dewey, diversi contributi teorici ed esperienze concrete hanno arricchito un panorama oggi assai consistente di opzioni metodologiche. Nell’ambito dell’educazione degli adulti il valore della partecipazione attiva dei soggetti alla costruzione della propria conoscenza è  da tempo riconosciuto come fondamentale. Tale centralità – oggi quasi unanimemente dichiarata (benché altrettanto frequentemente disattesa nei fatti) da chi opera nel campo dei processi educativi con gli adulti – trae le proprie origini in alcune prospettive  pedagogiche tra le quali, di particolare rilievo, è il contributo offerto dall’educatore brasiliano Paulo Freire (1921- 1997). Dall’esperienza di alfabetizzazione iniziata da Freire nel Nord-Est brasiliano negli anni ’60 del secolo scorso e attraverso numerose pratiche e teorizzazioni si è venuta formando una prospettiva pedagogica e di intervento sociale peculiare ed oggi diffusa – in differenti forme – in tutti i continenti[1]. La proposta pedagogica freiriana ha segnato profondamente l’educazione degli adulti e le pratiche formative. La centralità che in essa assume il soggetto – individuale e collettivo – nella costruzione della conoscenza trova le proprie ragioni di fondo, innanzitutto, in una critica radicale dei modelli educativi da Freire definiti “depositari” o “bancari” (Freire, 2011). Nella logica depositaria –ancora oggi ampiamente e profondamente diffusa nelle concezioni e pratiche di molti inseganti, formatori, operatori educativi – il sapere è predefinito e predefinibile, codificato in discipline, posseduto da alcuni (gli esperti, gli istruiti) che diventano formatori, insegnanti ed educatori. L’educazione, in tale prospettiva, consiste nella trasmissione del sapere da chi lo possiede a chi non lo ha. La conoscenza va, appunto, depositata in chi deve imparare. Tale concezione presuppone una definizione univoca dei contenuti da trasmettere ed implica inevitabilmente la riproduzione della conoscenza proposta e la sua accettazione acritica e passivizzante. A tale concezione, Freire contrappone una prospettiva di educazione  “problematizzante” e “dialogica”. La conoscenza, in questa accezione, è problema per il soggetto che la deve costruire, questione da affrontare in senso critico non da soli ma attraverso il dialogo tra chi “insegna” e chi “impara”. Nel dialogo si confrontano dialetticamente saperi diversi: quelli prevalentemente teorici entrano in contatto con quelli pratici per produrre nuova conoscenza. Si rintraccia in questa alternativa all’educazione depositaria uno degli assunti fondamentali che ispirano ancora oggi molte soluzioni metodologiche basate sulla partecipazione attiva dei soggetti alla costruzione della conoscenza.

Il secondo elemento cardine che – nella riflessione freiriana – fonda le pratiche di co-costruzione del sapere, è individuabile nel concetto di “coscienza” e in quello ad esso connesso di “coscientizzazione”, termine peculiare della pedagogia freiriana (Freire, 2012). La coscienza, secondo Freire, è relativa al rapporto tra soggetto e mondo (Reggio – Manfredi, 2007). Quando l’essere umano vive nel mondo e ne subisce unicamente i condizionamenti, la sua coscienza è in uno stato che Freire definisce “intransitivo”: nulla passa tra soggetto e mondo perché lo stato di oppressione – materiale, spirituale, psicologico, cognitivo – è tale da impedire qualunque contatto con la realtà esterna, che unicamente determina le condizioni di vita del soggetto, appunto “oppresso”. Stare “nel” mondo è condizione di ogni essere vivente ma essere “col” mondo è condizione umana specifica. Quando siamo col mondo riusciamo a stabilire con gli altri, con la realtà nella quale viviamo processi di comunicazione e di influenzamento reciproco. Per stare col mondo è necessario sviluppare una coscienza “transitiva” che permette il passaggio comunicativo tra soggetto e realtà del mondo nel quale vive. La coscienza critica viene però distinta, con molta acutezza, da Freire in coscienza transitiva “naturale” e “critica”. La prima è il risultato dell’evoluzione spontanea delle condizioni di vita del soggetto. Il miglioramento delle condizioni materiali ma oggi potremmo anche dire la crescita personale della persona nelle varie età della propria vita,  lo sviluppo cognitivo ed emotivo che consegue naturalmente all’essere in contatto con  la realtà, producono uno stato nel quale il soggetto non subisce più passivamente gli eventi, non è puramente condizionato ma avverte problematicità, incoerenze e contraddizioni. Da questa apertura al mondo nascono domande  ma, quando la coscienza  è ancora “naturale”, le risposte a tali domande sono di carattere stereotipato e “magico”. Le  contraddizioni del mondo si spiegano con il buon senso comune, si adottano le risposte conformiste che la realtà sociale e storica in quel momento fornisce. Mi pare opportuno chiederci quanto atteggiamenti ed abitudini di coscienza naturale siano oggi ancora persistenti in molte situazioni sociali ed organizzative. Spesso spieghiamo contraddizioni e problemi in modo assolutamente acritico, adottando modi di pensare routinari e omologati, ci accontentiamo di spiegazioni superficiali che inducono a fatalismo e sfiducia nelle possibilità di cambiamento. La coscienza transitiva “critica”, al contrario, ricerca spiegazioni anche scientificamente valide, oltrepassa i confini del conformismo, svela contraddizioni e coglie i problemi come occasioni per costruire nuova conoscenza e, appunto, sviluppare coscienza. Mentre il passaggio da coscienza intransitiva a coscienza transitiva naturale avviene per sviluppo spontaneo di fattori favorevoli del contesto e del oggetto, secondo Freire il passaggio verso la coscienza transitiva critica può avvenire solo attraverso un intervento di natura educativa. In qualche modo la coscienza critica va insegnata. Certamente non attraverso la trasmissione di concezioni, idee, atteggiamenti in modo che sarebbe ancora di carattere depositario ma attraverso un processo che – come detto prima – è di natura problematizzante e dialogico. In estrema sintesi, il processo di coscientizzazione è l’esito di  percorsi di dialogo, ricerca di situazioni problematiche ed interrogazioni alla realtà ed a sé che conducono allo sviluppo di una coscienza, appunto, critica. Tale processo dialogico è inevitabilmente costruito con gli altri, attraverso lo scambio dialettico, è politico e collettivo. La coscientizzazione produce esiti di umanizzazione, sia in chi è oppresso, sia in chi esercita oppressione su altri. “Ser mais”, “essere più”, è l’espressione che Freire utilizza per indicare  il processo di  liberazione e di umanizzazione che permette a chi è oppresso di vedere con oggettività la propria realtà, comprenderne le cause ed intraprendere un percorso di emancipazione e a chi si riconosce come oppressore di individuare le ragioni che, a sua volta, lo opprimono nell’esercizio di un ruolo disumano e disumanizzante. 

E’ da tali premesse - che fondano non solo una prospettiva pedagogica e di azione sociale ma una concezione antropologica, della società e della conoscenza - che si originano modelli di intervento educativo, formativo e sociale basati, appunto, sul ruolo attivo del soggetto e sull’irrinunciabile dimensione politica nella costruzione del sapere e nella liberazione personale e collettiva. Le realtà sociali, culturali ed economiche affrontate da Freire in America Latina agli inizi degli  anni ’60 del secolo scorso sono ovviamente assai differenti dalle situazioni attuali nelle quali noi ci troviamo oggi in Europa ed in un mondo attraversato da radicali processi di globalizzazione(Reggio – Manfredi, 2012). Una rilettura critica della proposta freiriana è oggi necessaria per “reinventare” soluzioni di intervento coerenti con le condizioni attuali. In questa sede, la nostra attenzione si concentra – in particolare – sulla logica che può ispirare, a partire dai principi freiriani  prima richiamati, interventi di sviluppo della coscienza critica in ambiti sociali ed organizzativi diversi. Quello che è conosciuto in tutto il mondo come “metodo Freire” – in riferimento alle esperienze di alfabetizzazione degli adulti - viene impropriamente definito  “metodo”. Esso  non contempla, infatti tecniche e strumenti definiti ma può essere inteso come “metodo” nel senso più profondo del termine, come strada (odòs, in greco), logica  che permette di ordinare logicamente azioni, strumenti e tecniche di intervento. Il processo di coscientizzazione è considerabile metodo in questo senso: strategia e logica per sviluppare letture del mondo, comprensioni ed azioni che esprimono una coscienza critica. Riprendendo diverse formulazioni dell’impostazione metodologica freirana si possono individuare alcuni momenti di questo processo (Gerhardt, in Gadotti 1996, pp 149-172).

  • Osservazione partecipante ed ascolto attivo da parte di chi (educatore, formatore, insegnante, operatore sociale…) interviene in un determinato contesto sociale o organizzativo. Si tratta di ”sintonizzarsi” con quello che Freire definiva l’ “universo lessicale” delle persone con le quali si entra in contatto. In questa fase possiamo oggi dire che si possono utilmente impiegare tecniche e strumenti propri della ricerca intervento o di quella etnografica: la già citata osservazione partecipante, interviste e dialoghi individuali o di gruppo…

 

  • Ricerca delle parole “generatrici” e dei temi ad esse connessi. Dalla fase precedente, dall’universo lessicale (le parole utilizzate dalle persone per dire del proprio mondo) individuato emergono alcune parole specifiche che rimandano a questioni di particolare rilevanza per la vita delle persone in quel contesto. I temi generatori che stanno al fondo delle parole utilizzate per parlare di sé, del mondo e di sé nel mondo sono le questioni problematiche significative, storicamente situate, che il processo di coscientizzazione è chiamato ad affrontare. Questi temi vengono considerati generatori in quanto da essi nascono le situazioni problematiche ma anche le possibili trasformazioni e cambiamenti.

 

  • Prima codifica delle parole (e dei temi). Significa che chi conduce l’intervento formativo, educativo, di animazione sociale o culturale traduce le parole ascoltate ed emerse come generatrici in espressioni sintetiche. Agli inizi delle esperienze di alfabetizzazione, gli animatori utilizzavano immagini e disegni per proporre queste codifiche; oggi evidentemente sono numerose le soluzioni da adottare per esprimere sinteticamente la ricchezza dei temi generatori individuati e delle parole utilizzate per esprimerli. La scelta del linguaggio e della forma di codifica dipende essenzialmente dalle caratteristiche culturali, sociali delle persone con le quali si lavora; le immagini (oggi assai sofisticate e supportate da agili strumenti tecnologici) conservano in ogni caso una specifica valenza comunicativa in questa fase di codifica. Si può codificare sintetizzando elementi plurimi utilizzando strumenti quali fotografie e filmati, photovoice, narrazioni orali e scritte, espressioni teatrali o in generali artistiche. Le persone coinvolte nel processo di coscientizzazione ricevono – attraverso queste forme di codifica – una restituzione delle proprie parole e della prima lettura del mondo che esse avevano fornito.

 

  • Decodifica delle parole e dei temi generatori. Questa fase viene svolta attraverso l’istituzione di un “circolo di cultura”, soluzione peculiare della pedagogia freiriana che permette la lettura collettiva dei temi, il dialogo tra i partecipanti e con un coordinatore del circolo che svolge sia funzione di guida del circolo sia di partecipazione diretta al dialogo, stimolando riflessioni, ponendo interrogativi, sollecitando riflessioni, reazioni, prese di posizione.  Decodificando parole e temi le persone ricercano ed esprimono collettivamente una propria lettura del mondo, delle situazioni problematiche in esso contenute e dei temi profondi che le hanno generate. Si tratta di una fase dalle evidenti valenze formative, nella quale si esprimono in modo peculiare i principi del “dialogo”  e della “problematizzazione” fondamentali nell’approccio freiriano.

 

  •  Nuova codificazione creativa. Gli esiti di comprensione della fase di decodifica permettono di fare un passo ulteriore e di produrre una nuova codifica dei temi generatori affrontati. Parole nuove vengono prodotte per esprimere nuovi significati. Questa ulteriore codifica è critica, in quanto esprime la coscienza di sé in rapporto ai temi affrontati ed è esplicitamente orientata all’azione. Anche in questo caso, in analogia con quanto avviene nei processi di ricerca-intervento o di ricerca-azione,  riflessione ed azione ed azione si intrecciano. Nell’impostazione freiriana la prassi è costituita dall’unione inscindibile tra teoria ed azione e la codifica creativa collettivamente prodotta rende proprio conto di un fare che è “saper che fare”, consapevolezza dell’azione in atto. In relazione alle specificità dei contesti e dei temi affrontati l’azione assume ovviamente caratteristiche ed obiettivi differenti. Il circolo produttivo di comprensione ed azione che alterna momenti di codifica e di  decodifica si può ripetere più volte, in relazione alla complessità del tema affrontato, delle esigenze di approfondimento, dell’interesse delle persone.

L’esposizione sintetica dei momenti che contraddistinguono un percorso formativo, educativo, animativo di sviluppo della coscienza critica non va in alcun modo inteso come procedura da adottare rigidamente ma come guida logica per mantenere saldo l’orientamento nel corso della prassi (formativa, educativa o di intervento sociale). La logica viene rispettata nella misura in cui viene coerentemente adattata alle caratteristiche del contesto di riferimento e delle persone con le quali viene agita[2]. Modalità, tecniche e strumenti da utilizzare vanno individuati con analoghi criteri di coerenza con i principi metodologici di fondo.

Lo sforzo necessario è di una incessante reinvenzione delle forme con le quali attivare processi di coscientizzazione, necessari  oggi per sviluppare nelle persone, nelle organizzazioni e nei gruppi sociali competenze per affrontare criticamente situazioni problematiche, complesse, non sempre facilmente decodificabili e la cui trasformazione sembra spesso assai ardua. Lo sviluppo della coscienza critica – a livello personale e collettivo - è il principale contributo che la formazione e l’educazione possono dare a tale compito assai impegnativo.

 

Riferimenti bibliografici

 

Freire P. (2011), La pedagogia degli oppressi, ed. Gruppo Abele, Torino  (ed. or. 1968)
M.Gadotti (e outros) (1996), Paulo Freire. Uma biobibliografia, Cortez Ed., Brasilia
Gerhardt H.P. (1996), Uma voz européia. Arqueologia de um pensamento, in Gadotti 1996, pp 149-172
Manfredi S.M. – Reggio P. (2207), “Educazione e coscienza critica. Note sul concetto di“coscientizzazione” in Paulo Freire, in   “Animazione Sociale”, n° 5, Maggio 2007, p.11-20
Reggio P. (2010),Parole nuove che generano l’azione, in “Animazione Sociale”, n°241/2010, pp 56-66
Reggio P.-Manfredi S.M. (2011), Prefazione a Freire P., La pedagogia degli oppressi,  Torino, Ed.Gruppo Abele, pp. 4- 20


[1] Per una ricostruzione del percorso educativo e di pensiero di Paulo Freire, vedi il testo fondamentale in lingua portoghese M.Gadotti (e outros), Paulo Freire. Uma biobibliografia, Cortez Ed., Brasilia, 1996. Indicazioni bibliografiche e relative alle esperienze di pedagogia freiriana in diversi continenti di possono consultare sul sito dell’ Instituto Paulo Freire  di San Polo del Brasile  http://paulofreire.org/  e su quello dell’Istituto Paulo Freire Italia www.paulofreire.it

1.     [1] Un esempio di adattamento e reinvenzione metodologica si può vedere in Reggio Parole nuove che generano l’azione, in “Animazione Sociale”, n°241/ 2010, pp 56-66, che riferisce di un’esperienza di lavoro sociale con la popolazione sinta di Trento adottando principi metodologici freiriani

 

Tutti gli uomini per natura aspirano al sapere (Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000), sono in tensione verso la conoscenza e la comprensione. Attraverso la tecnica, la cultura, i miti, le narrazioni e le grandi istituzioni gli uomini, fin dai tempi antichi, hanno cercato di raggiungere una sorta di ‘umana immortalità’ nel tentativo di superare i limiti della loro finitezza esistenziale. L’uomo è l’essere incompiuto che desidera e cerca la compiutezza, tenendo così aperta la dimensione della speranza e della proiezione verso il futuro. L’uomo è un essere che progetta e la cui identità è in movimento e in continua costruzione di sé.

Ai temi dello sviluppo umano, declinati dal punto di vista dell’apprendimento e della pratica formativa, è dedicato il volume di Gianluca Cepollaro e Giuseppe Varchetta, La formazione tra realtà e possibilità. I territori della betweenness, (Guerini Next, Milano, 2014). Quando Cepollaro e Varchetta ci dicono che viviamo nella tensione verso il possibile ciò significa che l’uomo è portatore innato di questa tensione. Il possibile è tutto ciò che può essere e l’uomo è possibilità data. In quanto portatori sani di questa tensione siamo “abitanti di mondi intermedi”: dal reale che già c’è possiamo sconfinare nel possibile attraverso l’attivazione di nuove connessioni. Il possibile precede il reale perché i suoi confini sono molto più ampi: tendere e aprirsi al possibile significa mettersi in discussione e non darsi mai per conclusi, chiusi, finiti, born and bred.

C’è di più: la nostra natura è intrinsecamente relazionale; siamo biologicamente disposti e pre-disposti a vivere con gli altri. Siamo in continua relazione con il mondo in cui agiamo, con gli altri con cui condividiamo lo stesso mondo e con noi stessi. Io e l’altro siamo un noi, siamo identità relazionali. Una logica relazionale e dialettica governa il movimento di costruzione del sé, l’apertura e la tensione verso il possibile e quindi ogni processo di apprendimento.

L’apprendimento è un movimento permanente, un processo di cambiamento del sé per adattarsi meglio alla realtà, e allo stesso tempo un intervento sulla realtà per adattarla al sé. L’apprendimento non è lineare né solitario, ma è un’esperienza soggettiva, intersoggettiva e relazionale, è “un’emergenza situata temporalmente e localmente, irriducibile e unica” (Cepollaro e Varchetta, cit., p. 62). Se l’apprendimento è un’emergenza, è anche l’emergenza della formazione.

Gli autori mostrano l’importanza e la necessità, per chi si occupa di formazione, di prendere le distanze da un modello di uomo logico-razionale e da un’idea di apprendimento come un atto cognitivo lineare, meccanico e individuale. Nasciamo in un mondo che già esiste, costituito da individui e relazioni. La prima relazione è con il mondo, ed è una relazione che costruiamo e ricostruiamo ogni giorno, in continuo movimento e cambiamento perché è il mondo stesso a esserlo.

L’apprendimento è un “attraversamento di mondi” che richiede una riflessione sull’idea di intermedietà che permetta tale movimento. Uno spazio intermedio tra il riferimento all’esistente e il riferimento al possibile: lo spazio delle relazioni tra un soggetto e un altro, e quello delle relazioni tra soggetto e contesto. L’apprendimento è un attraversamento di mondi perché l’uomo per sua natura è portato a sostare nella “terra di mezzo” tra ciò che è e ciò che può essere. La mente umana è in grado di stare sul confine di più mondi e attraversali in virtù della sua capacità di apprendere riconnettendo esperienze e saperi diversi e pregressi.

La formazione si delinea così come “una pratica di confine caratterizzata da un movimento che tende all’attraversamento di contesti diversi e alla connessione di risorse ed esperienze” (Ibidem, p. 91). Se la formazione è una pratica di confine bisognerebbe chiedersi quali sono le sue Colonne d’Ercole.

Le pratiche formative hanno il compito di creare e attraversare spazi intermedi e di mediazione, per allenare all’intermedietà e al senso del possibile. Le Colonne d’Ercole della formazione possono solo essere le convinzioni dogmatiche, marmoree ed esenti da qualunque forma di critica, ossia l’esito di azioni “conformative” e orientate esclusivamente al risultato.

La formazione deve così orientare le sue pratiche verso i territori della betweenness, quelli cioè della cura, dell’attenzione, della riflessività, dell’ascolto e della narrazione, della creatività e della responsabilità, abbandonando l’idea di completezza, finalismo ed esaustività. Quando Cepollaro e Varchetta sottolineano l’importanza di “assumersi il rischio educativo”, intendono dire che in quanto formatori siamo responsabili dei territori che esploriamo e degli spazi di possibilità che contribuiamo a creare.

“Non ci sono passi avanti da fare ma solo nuovi passi” (Ibidem, p. 165).

 

A fasi cicliche l'umana avventura ci chiede conto delle scelte fatte a livello personale e sociale, come pure in campo professionale. In questo breve saggio Piergiorgio Reggio, da anni impegnato nell'educazione di giovani e adulti, prova a rendere ragione di tali cammini.  Si confronta così senza più remore con l'esperienza di Barbiana e il suo mito educativo, da lui stesso incontrati e praticati fin da giovane studente. E lo fa a partire dal ricordo dello schiaffo ricevuto ("Venne preso a sberle il nostro conformismo educativo e sociale", p. 9) e dalla provocazione a interrogarsi, ieri come oggi, sul proprio ruolo di educatore, obiettore, genitore, insegnante. Piergiorgio Reggio ci introduce fin da subito nel cuore di questo mito - l'educazione come giustizia - attraverso il fare scuola di don Milani, prima ai giovani operai di San Donato poi ai figli dei montanari del Mugello. Non si tratta di riscriverne la biografia o semplicisticamente riprodurne la pratica pedagogica, magari tradendone lo spirito, quanto piuttosto di tornare a quell'esperienza per attingervi i cosiddetti temi generatori, le istanze di fondo per una nuova prassi educativa critica e creativa. O, come dice Paulo Freire, a cui l'A. compara l'azione milaniana, per imparare a diventare umani, cioè "essere più". Bisogna allora accettare di credere fiduciosamente nella relazione maestro-allievo, per stare insieme non solo "nel mondo", ma anche e soprattutto "col mondo", secondo la felice espressione coniata dal pedagogista brasiliano. Ovvero imparare sempre, ovunque e da chiunque, come lo stesso priore di Barbiana faceva, sforzandosi di aprire i suoi ragazzi alla conoscenza di sé e appunto del mondo, attraverso occasioni di formazione esperienziale (lettura di giornali e lettere, incontri con ospiti o visite di interlocutori esterni, viaggi di lavoro all'estero, ecc.), per poi spingerli a porsi domande e a cercare insieme le possibili risposte circa i motivi profondi che generano ingiustizia e violenza. 

Nell'introduzione Reggio ci aiuta a riflettere sul fatto che oggi viviamo un passaggio generazionale di vaste e profonde dimensioni, in cui diventa sempre più necessario tornare al senso ultimo del nostro educare ("in epoca generalmente considerata di crisi, nella quale sembrano non essere più presenti la speranza educativa e la convinzione che un altro mondo sia possibile", p. 10). Dopo il primo capitolo, in cui si declina, come già accennato, la forte provocazione milaniana e il mito dell'educazione come giustizia sociale, egli ci accompagna nei luoghi e negli ambienti abitati dal sacerdote fiorentino. Quindi focalizza l'attenzione sul ruolo fondamentale del rapporto maestro–allievo: una relazione di per sé asimmetrica, ma proprio per questo portatrice di potenzialità reciproche, nella rispettiva diversità dei ruoli. Non solo: vissuta anche in una dimensione domestica, in cui cioè non c'è distinzione tra vita e apprendimento, dove appunto si vive la piena e appassionata adesione di chi insegna al mondo di chi impara. "Io do attenzione, tenerezza, ascolto e non chiedo niente. E' una carta vincente" (p. 49). Da ciò consegue la consapevolezza quotidiana e insistente del valore/potere della parola, che appare allora condizione essenziale della coscienza critica, strumento non solo di riscatto sociale, ma vero e proprio diritto di cittadinanza. Si pensi solo alla scrittura collettiva delle due Lettere più famose: quella ad una professoressa e l'altra rivolta ai cappellani militari toscani. L'educazione diventa così un atto politico. E' dare/restituire la parola agli oppressi, ai "muti" di ogni tempo e spazio, per riconoscere e affrontare insieme i problemi, cercando la soluzione dei conflitti con modalità nonviolente, attraverso cioè il dialogo, il confronto, il lavoro su di sé, alla continua e incessante ricerca della verità. 

Ma allora come insegnare? Come imparare? Insomma cosa bisogna fare per fare scuola? A queste domande tentano di rispondere gli ultimi due capitoli. Certo non esistono ricette precostituite… Anche se don Milani, proprio perché cercava di trasformare i fatti in apprendimenti, cioè in esperienze concrete di vita, poteva a ragione scrivere: "Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter far scuola" (p. 88). Perché non si è educatori naturalmente o per vocazione, ma per "edificazione" personale, per scelta esistenziale prima che per compito professionale, perché chi impara ci sta a cuore, ci interessa, è lui al centro quale persona unica e irripetibile, non la nostra conoscenza astratta e generica.

E oggi è ancora possibile un'educazione milaniana? A quest'ultima domanda Piergiorgio Reggio rimanda a sé e a ciascuno di noi la responsabilità di intraprendere nuovi sentieri di ricerca, come s'addice a una educazione realmente critica e creativa ovvero esperienziale. Tre allora sono le possibili azioni e direzioni da intraprendere:

  • esplorare gli ambienti, cioè costruire senso, vivendo radicati nei luoghi che abitiamo;
  • imparare con gli altri, investendo in relazioni particolarmente significative e in comunità di reciproco apprendimento;
  • imparare, ultimo ma non ultimo, da noi stessi, praticando cioè l'autoformazione culturale ma soprattutto umana, direi del carattere. 

Fino a sperimentare sulla propria pelle, nella e dalla pratica quotidiana, che veramente "il sapere serve solo per darlo" (p. 91).  

 

Cambiamenti sociali, economici e politici. Nascita di nuovi paradigmi parallelamente al mantenimento di quelli vecchi. Un mondo del lavoro divenuto irriconoscibile a chi lo abita e inconoscibile a chi si appresta ad entrarvi. Tecnologie informatiche e della comunicazione che offrono e tolgono opportunità. Il territorio della formazione è instabile, endemicamente frammentato. Difficile, forse superflua, la sua mappatura. Ma è senz'altro importante tentare di tratteggiarne i contorni  tematici a partire dal confronto con chi opera in quel territorio. La formazione vive nel discontinuo, dialoga con nuove pratiche senza l’apparente conforto di una teoria materna e protettiva. Quali sono, allora, i suoi tratti identitari, orientamenti e intenti? è possibile trovare delle risposte, anche incomplete, in poco meno di trecento pagine? Il volume “Nuove parole della formazione”  - curato da Domenico Lipari e Serafina Pastore - accoglie punti di vista, prospettive, pratiche tradizionali rinnovate e nuovi lessici nati dalla pratica con scopo di comprendere cos’è e cosa sarà la formazione.

Appare come un punto di osservazione sincronico sui lavori in corso all’interno di un campo professionale in continua trasformazione. Fare formazione è un mestiere difficile, che richiede una continua attenzione all’Altro. Altro come destinatario delle azioni formative, con le sue peculiari caratteristiche, abilità ed idiosincrasie. Altro come contesto organizzativo, con le sue regole, routine e linguaggi. Altro come altri formatori, esperti e studiosi di processi di apprendimento che si impegnano a ricercare soluzioni praticabili con metodi e prospettive differenti. I curatori fanno emergere le voci di chi, nella formazione, lavora da tempo, come Gian Piero Quaglino, Enzo Rullani, Massimo Tomassini, Giuseppe Tacconi, Giuseppe Varchetta, Giuseppe Scaratti, Arduino Salatin, ecc. Raccolgono riflessioni e resoconti capaci di fornire al lettore gli elementi più adatti a mostrare la morfologia del settore. E su temi noti come l’apprendimento esperienziale e riflessivo, l’autoformazione, il bilancio di competenze, l’approccio etnografico, l’e-learning, la progettazione, la valutazione e la narrazione germinano neologismi, parole chiave, rivisitazioni, nuove pratiche e tendenze. L’opera è suddivisa in cinque sezioni - tendenze, parole chiave, politiche formative, pratiche classiche rivisitate e nuove pratiche - i cui confini appaiono laschi e intersecabili. Non si tratta, infatti, di categorie o di etichette rigide ma di sezioni in grado di agevolare la lettura del testo sia attraverso una modalità lineare, dalla prima all’ultima pagina, sia andando a recuperare, all’interno delle varie aree tematiche, quei contributi che suscitano maggior interesse e curiosità.

E’ un’opera formata dalla confluenza di tante piccole opere, complessa ma non complicata e per questo consigliabile non solo agli esperti del settore, ai professionisti, ai responsabili della formazione o ai ricercatori ma anche agli studenti o a coloro che iniziano a manifestare curiosità e interesse per un “mondo” dinamico e multiforme. Un testo che dà al lettore l’opportunità di gettare uno sguardo sul punto di arrivo della formazione nel nostro Paese e di ampliare il proprio orizzonte visivo sugli innumerevoli punti di partenza. 

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