06
Mar, Giu

1. Da che cosa dipese la grande “rivoluzione” che portò la funzione del personale, a metà degli anni Settanta del secolo scorso, al centro dei processi organizzativi? Che cosa fece sì che si determinasse quel significativo mutamento di ruolo da un profilo eminentemente gestionale a uno marcatamente orientato allo sviluppo delle risorse umane? Molti fattori vi concorsero, non c’è dubbio. Ma uno in particolare a me pare decisivo e cioè l’assunzione, da parte della funzione, di uno specifico compito nel farsi interprete attento e autorevole dello scenario esterno. È questo spostamento di attenzione alla complessa realtà dei fenomeni sociali con cui ogni contesto organizzativo doveva fare i conti, non potendo più ritenere di vivere in una qualche sorta di “splendido isolamento” e pertanto di essere al riparo da ogni influenza dell’ambiente, che fu decisivo per il suo ingresso nel nucleo ristretto di coloro che, ai vertici dei sistemi organizzativi, erano impegnati a definire vision e mission. La funzione del personale, in qualche caso, seppe valorizzare talmente bene questo compito di “vigilanza dello scenario” da ottenere un significativo riconoscimento e ritrovarsi ad assumere un ruolo di primo piano nell’elaborazione delle strategie di sviluppo, non solo di quelle rivolte alle persone, ma di quelle più generali organizzative.
Detto in altri termini, la grande rivoluzione della funzione del personale dipese anzitutto, in questa ipotesi di lavoro, dalla capacità e dal coraggio di fare proprio il compito di lettura e interpretazione dell’ambiente esterno, di raccolta e decodificazione dei “segnali deboli”, come si diceva allora, e di conseguente ridefinizione dei processi organizzativi interni: riallineamento, aggiornamento, innovazione, trasformazione. Questo ovviamente rappresentò un profondo ripensamento di competenze e comportamenti, un ri-orientamento di strumenti e metodi, nuovi e diversi approcci alla lettura dei fenomeni del clima, della cultura, dei valori: come dire un vero e proprio passaggio epocale. Se c’è una parola d’ordine capace di riassumere in sé la discontinuità di scenario da un lato e dall’altro la chiave di lettura di cui la funzione del personale si fece portavoce mi pare possa essere ritrovata nell’espressione, peraltro ben nota, dell’ambiente turbolento. L’espressione voleva indicare ciò che era percepito come un cambio radicale da un tempo e da un mondo di relativa stabilità a uno di crescente instabilità.
Potremmo allora chiederci, sempre per ipotesi di lavoro: come sono andate poi le cose nei quaranta anni che ne sono seguiti? L’ambiente esterno ha mutato ancora una volta aspetto? Abbiamo assistito a un nuovo transito, a una nuova fase? Certamente i transiti, i passaggi di “stato”, le discontinuità sono state più d’una ma nessuna in realtà ha rappresentato un ritorno al passato in termini di indebolimento dell’instabilità. La turbolenza semmai è cresciuta: ha accelerato, talvolta ha assunto un’intensità parossistica, è diventata endemica. Da qui l’insistenza sul “cambiamento permanente”. E della funzione del personale, divenuta ormai per tutti HR, che ne è stato? È proceduta di pari passo su questa linea? Ha saputo affinare, perfezionare, sofisticare le sue letture dello scenario? Ha saputo cogliere, se non anticipare, i complessi risvolti della turbolenza dell’ambiente esterno, le ricadute sull’ambiente interno, gli effetti “indesiderati” sulla vita organizzativa? Purtroppo la risposta sembra qui più complessa, perché quello a cui si è assistito è stata sicuramente una significativa crescita, da parte della funzione del personale, di qualità “metodologica” della sua azione (basti pensare alle tematiche della valutazione e della formazione) ma in molti casi ciò ha finito per assorbire gran parte delle energie destinate alla lettura dello scenario esterno, determinando così un abbandono del compito di “vigilanza” dei fenomeni macro, e un ripiegamento nell’ambito micro, una concentrazione a governare il presente con l’unico obbiettivo di garantire anzitutto una gestione ottimale delle risorse umane di breve periodo, anziché di investire su un orizzonte di sviluppo di medio e lungo periodo. Ciò ha fatto sì che, almeno dalla fine degli anni Novanta, la funzione del personale abbia iniziato a perdere “presa” sulla comprensione approfondita dei fenomeni di scenario finendo per ritrovarsi sempre più confinata nel ruolo specialistico che ovviamente le è proprio. Se dunque fossimo alla ricerca di una nuova stagione per la funzione del personale, per la funzione HR, dal momento che, come è evidente, il prolungarsi della situazione attuale di confinamento del ruolo specialistico finirebbe per tramutarsi in un percorso più involutivo che evolutivo, dovremmo a mio avviso riprendere il senso e il contenuto di ciò che rappresentò la grande rivoluzione di metà anni Settanta. Cioè una riconquista del presidio interpretativo dello scenario e una conseguente riappropriazione di un pensiero di indirizzo dello sviluppo organizzativo con nuove parole d’ordine e nuove formule.

2. La formula dell’ambiente turbolento ha fatto il suo tempo e già da un bel po’. Non è oggi che una tautologia. L’ambiente è per definizione turbolento. La turbolenza è il suo stato permanente, il suo carattere, il suo marchio. Quello che è accaduto (quello che abbiamo registrato negli ultimi trenta anni) è stato un progressivo affinamento di sguardo, da parte dei più attenti osservatori e studiosi, nel cogliere i molteplici volti e risvolti di questa turbolenza, i diversi aspetti che, di momento in momento, si imponevano all’attenzione, i segni particolare i che ne emergevano. Molti si sono dedicati a ciò, e disponiamo ormai di un quadro di lettura assai ricco e approfondito, sfaccettato e articolato. Se volessimo, sempre per ipotesi di lavoro, tentare di riassumere questo scenario in un’unica formula analoga a quella che è stata l’etichetta dell’ambiente turbolento, ci troveremmo certo in difficoltà. Ma in ogni caso, insistendo, potremmo ritrovarla a mio avviso nell’espressione, peraltro ben nota, della modernità liquida.
Diamo una rapida occhiata ai più significativi contributi a cui si può fare riferimento. Seguiamo il rincorrersi di etichette in ordine cronologico. Mi limito qui a una dozzina di contributi, quelli che mi paiono i principali, e li elenco semplicemente: 1986, La società del rischio (U. Beck); 1995, La vita in frantumi (Z. Bauman); 1996. L’intossicazione ermetica (J. Hilmann); 1999, La società dell’incertezza (Z. Bauman); 2000, La modernità liquida (Z. Bauman); 2002, La società eccitata (C. Türcke); 2004, Vite di scarto (Z. Bauman); 2006, L’epoca delle passioni tristi (M. Benasayag, G. Schmidt); 2007, Vite di corsa (Z. Bauman); 2010, La società della stanchezza (H. Byung-Chul); 2010, Guasto è il mondo (T. Judt); 2013, Eros in agonia (H. Byung-Chul).
Lo scenario che questi titoli illuminano è inequivocabile: la criticità del tempo presente è pervasiva, orientata in più direzioni, intricatissima. La domanda che allora si impone è una sola: si può sostenere a buon diritto che i contesti organizzativi siano stati e siano del tutto impermeabili alla “modernità liquida”? Si può sostenere che non ne abbiano subito l’influenza o l’interferenza, che i processi, così come la vita stessa delle persone, ne sia rimasta al riparo? O non si dovrebbe invece tentare di riflettere per comprendere se e come la modernità liquida abbia potuto contaminare dall’esterno l’ambiente interno dei più diversi sistemi organizzativi? Questi interrogativi sono ovviamente retorici: le organizzazioni vivono totalmente immerse nel tempo della modernità liquida. I segnali sono molteplici. Alcuni sono sintomi ben evidenti che hanno sollecitato già da tempo preoccupazione: indebolimento del legame tra individui e organizzazioni, demotivazione e disaffezione, navigazione a vista, accelerazione dei ritmi operativi e perdita di rapidità dei processi decisionali, addensamento degli interlocutori su ogni problema e incremento dei modi e dei tempi degli incontri e delle riunioni, indebolimento delle leadership e dei presidi di integrazione, e così via. Se volessimo riordinare i diversi aspetti di criticità della modernità liquida in alcune dimensioni principali con cui poi fare i conti per verificare se come e quanto essi possono rappresentare altrettanti punti di criticità all’interno dei contesti organizzativi potremmo tentare con il quadro nella figura 1.
 

1_figura 1 per contributo teorico 1.png

 FIGURA 1. Dimensioni critiche principali della modernità liquida

Che cosa emerge da questo quadro? In grande sintesi emerge in primo luogo fragilità, debolezza e precarietà come sentimenti attivati da una turbolenza che genera frammentazione, dispersione e spreco di ogni tipo di risorse, in particolare per ciò che qui ci riguarda, certezze, convinzioni e conoscenze da un lato e propositi, intenzioni e volontà dall’altro. In secondo luogo mobilitazione, messa in scena e frenesia, come connotati emozionali di comportamenti e condotte “alterati” dallo stato di connessione permanente imposto dalla turbolenza, di continuo ingaggio, e di ossessiva chiamata al coinvolgimento totale su ogni problema e questione così come su ogni obbiettivo e compito. In terzo luogo sconforto, sovraffaticamento e apprensione, come vissuti profondi di danneggiamento e perdita del piacere di fare le cose, di spegnimento della passione a fare, di ritiro dell’investimento e di costante preoccupazione. Infine disorientamento, insicurezza e indecisione come stati d’animo indotti da una turbolenza sempre più confusiva, disordinata e caotica che rende nebbioso il procedere, opaco il futuro e oscuro il senso della meta.
Riformuliamo allora gli interrogativi: ci sono segnali deboli o forti, e quali, di emergenza nella vita organizzativa dell’una o l’altra di queste quattro dimensioni? Ci sono “sintomi” e quali? In che misura chi si occupa di HR dovrà in qualche modo farsene carico impegnandosi a ripensare, qualche volta anche da capo la sua azione e i suoi strumenti, oltreché ovviamente i comportamenti e le competenze attese dalle stesse persone a cui azioni e strumenti si rivolgono?

3. Recuperare da parte della funzione HR una nuova padronanza di scenario è riaprire una nuova stagione, un next che restituisca quell’autorevolezza conquistata quarant’anni fa. Significa, a mio avviso, un cambio di passo del pensiero, una nuova prospettiva intellettuale e conoscitiva capace di fare i conti fino in fondo con la modernità liquida. Il che vuol dire abbandonare ogni semplificazione che si sarebbe tentati di adottare per resistere alla complessità problematica che dall’ambiente esterno precipita nei contesti organizzativi, pur restando quasi sempre in ombra, annidata nel tessuto della vita organizzativa, nella trama implicita degli eventi in cui sono coinvolti gli attori organizzativi.
Se si vuole essere capaci di un’analisi sufficientemente disincantata nel valutare ciò che è accaduto negli ultimi vent’anni, si potrebbe cominciare con il riconoscere, ne sono convinto, che molte delle “azioni positive” intraprese dalla funzione HR all’interno del perimetro della gestione e sviluppo delle risorse umane, non abbiano saputo ottenere tutti i risultati che si ottenevano: molte delle iniziative formative, ad esempio, indirizzate ad aggiornare e innovare competenze e capacità che tanto hanno insistito sulla parola d’ordine del benessere organizzativo hanno poi trovato debole radicamento per non aver approfondito adeguatamente e criticamente le ragioni del malessere. Occorre prima padroneggiare il malessere in tutti i suoi risvolti, altrimenti ogni azione ispirata dall’ “ottimismo della volontà” perde molta della sua efficacia: non bastano ricette che enfatizzino lo slancio del “cuore oltre l’ostacolo” siano esse, per fare esempi ben conosciuti, il potenziamento o l’autoefficacia o la resilienza o quant’altro, per far la differenza, per produrre un cambiamento, se non si è consolidato un quadro di analisi consapevolmente impegnato a sfidare il “pessimismo della ragione”.
Al tempo della modernità liquida le cose sono purtroppo assai complicate: nessuna rassicurazione basta a se stessa, se prima non sono state approfondite le buone ragioni che possono convincere del senso di applicare nuove ricette, se non si sono chiariti gli ostacoli del passare dal dire al fare, se non si sono prese le misure di ciò che, sottotraccia, perdura come ambivalenza, perplessità, resistenza. Non bastano cioè le buone parole a costruire buone pratiche, né è sufficiente enunciare un dover essere per ottenere, da parte degli individui, il poter e il voler essere. Al tempo della modernità liquida tutto appare sfuggente, fluido, quasi inafferrabile. Ciò che è indispensabile è, prima di ogni nuova ricetta, un solido ancoraggio di pensiero per ottenere una più alta determinazione nell’azione. Proviamo allora a formulare una prima proposta su ciò che potrebbe essere questo “solido ancoraggio di pensiero”, dicendo che si tratta anzitutto di fare i conti con competenze, capacità, ma soprattutto qualità personali che occorre padroneggiare al meglio al di là del quadro ampiamente noto delle cosiddette hard e soft skills che evidentemente non è più sufficiente a esaurire in sé il saper fare e il saper essere che è necessitato dai tempi. Proviamo a riprendere le dimensioni critiche della figura 1 ritrovando per ciascuna, nella figura 2, quelle “doti di pensiero” che possono consentire di fronteggiarle.
 

3_figura 2 per contributo pratico.png

FIGURA 2. Doti di pensiero utili per fronteggiare la modernità liquida

Il tempo della modernità liquida è un tempo di forti discontinuità. Se i confini dei contesti organizzativi ne sono permeabili le risposte alle più differenti problematiche non potranno che essere trovate padroneggiando al meglio un pensiero della discontinuità. E se poi si ha in mente che tra le forze che accelerano la discontinuità vi è in primo luogo la tecnologia, saper pensare in profondità le ricadute sul terreno specifico dei comportamenti e delle competenze degli attori organizzativi così come su quello degli indirizzi e delle soluzioni di gestione e sviluppo delle risorse umane, non potrà che risultare decisivo.
Così, per stare a questo tema, il quadro di doti personali proposto nella figura 2 va visto anch’esso in discontinuità con l’assetto consolidato di quelle hard e soft skills che si rivelano una volta di più non sufficienti a rispondere alle questioni poste dalle nuove turbolenze. Al di là dei tradizionali saper fare e saper essere occorre dunque ribadire la necessità di un saper pensare capace di esprimere una nuova e diversa “dotazione” di qualità personali da padroneggiare al meglio. Occorre un pensiero sicuro di sé e determinato, capace di procedere con dinamismo e forza nei suoi propositi, di trasformare i vincoli in opportunità, di saper andare “fino in fondo”; occorre un pensiero capace di equilibrio non tanto come moderazione o misura, ma anzitutto come abilità a sfidare i limiti, dotato di un grande senso di realtà, di severità e rigore, nel prendere ogni volta veramente “le cose sul serio”; occorre un pensiero lucido e lungimirante, capace di districare le complessità sapendo andare all’essenziale dei problemi, sapendo cogliere “il cuore dei problemi e il nocciolo delle questioni”; occorre infine un pensiero vigile e al tempo stesso ingaggiato dal cambiamento, capace di inventiva, di escursioni in territori “non noti e non soliti”.
Se questa può essere una nuova dotazione di competenze imposta dallo scenario della modernità liquida, le ricadute saranno su ogni tema che coinvolga la gestione e lo sviluppo delle risorse umane: dalla formazione alla valutazione, dalla selezione al presidio del clima, e così via. Alla funzione HR spetta il compito di ripensare se stessa, il proprio ruolo, e la sua azione per una nuova stagione, per un next che la riveda al centro dei processi organizzativi, da protagonista nella definizione delle linee di indirizzo e da interprete autorevole dei mutamenti dell’ambiente esterno.

con Patricia Chiappini*

I processi di trasformazione che stanno investendo la società nel suo complesso e, in particolare, il mondo dell’economia e delle organizzazioni possono essere ricondotti a tre macro tendenze.
La prima è rintracciabile nel più ampio processo di terziarizzazione dell’economia che, iniziato a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, ha modificato radicalmente il sistema culturale e produttivo delle organizzazioni: l’asse dei valori, prima quasi completamente centrato sulla produzione di beni materiali tende ad essere sempre più focalizzato sulla realizzazione di beni intangibili e servizi immateriali, in cui il fulcro dei processi di creazione sono le capacità intellettuali, le competenze e le conoscenze sia interne che esterne ai confini del sistema organizzativo.
Il secondo orientamento riguarda la crescente diffusione di forme flessibili e decentrate di organizzazione del lavoro – come i processi di ridimensionamento di grandi imprese attraverso l’esternalizzazione o il subappalto di funzioni e attività, le nuove forme di lavoro a distanza o di lavoro collaborativo in rete o, infine, le diverse forme di aggregazione professionale e lavorative, che nascono sia internamente sia al di fuori dei confini delle imprese – che stanno alterando radicalmente i modelli organizzativi del passato, rendendo certamente più complesso localizzare e valorizzare il capitale cognitivo e relazionale esistente ma, allo stesso tempo, aumentando la capacità innovativa e adattiva delle imprese di rispondere in modo dinamico alle mutate e più imprevedibili condizioni dei mercati attuali.
L’emergere di una domanda di mercato più ampia e articolata (nuovi prodotti e prestazioni, quantità variabili, tempestività) ha spostato, infatti, l’attenzione delle organizzazioni dalla «scala» alla «flessibilità» (1) : l’impresa ha tentato di superare la rigidità delle grandi dimensioni e delle economie di scala per trovare soluzioni organizzative più snelle internamente e aperte verso l’esterno. Si è assistito, pertanto, «a un declino delle strutture gerarchiche e all’affermarsi di strutture reticolari e policentriche» (2) , più adeguate ad operare su mercati complessi e segmentati. Tutto ciò ha accresciuto l’importanza delle funzioni di servizio rispetto alle funzioni di produzione.  E’ emersa l’esigenza di valorizzare funzioni produttive immateriali (ricerca e sviluppo, marketing, logistica, etc.) e di sviluppare le funzioni finalizzate all’integrazione dell’intero sistema aziendale (pianificazione, innovazione, coordinamento e controllo, etc.): esse, infatti, tendevano un tempo ad essere inglobate in processi indistinguibili, perdendo la loro differenziazione (3).
Allo stato attuale, dunque, per le organizzazioni è fondamentale considerare strategiche le attività di gestione delle conoscenze e di valorizzazione del capitale intellettuale, quale leva su cui puntare per ottenere un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza. Questo perché focalizzarsi sulla conoscenza e l'innovazione permette alle imprese, sul breve e medio periodo, di differenziare i loro prodotti o servizi e, sul lungo periodo, di costruire relazioni di mercato stabili.
La terza tendenza concerne lo sviluppo tecnologico e il modo in cui le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno contributo a sostenere i cambiamenti descritti finora.
Volendo adottare una lettura “cognitiva” da una parte, e “sociale” dall’altra, della società contemporanea, tra tutte le definizioni che ne sono state date, le due che meglio aiutano in questa operazione sono rispettivamente «Knowledge Society» e «Network Society».
«Knowledge Society», in italiano “Società della Conoscenza”, è un’espressione che traduce in parole la centralità che il sapere, la conoscenza, hanno assunto nella società e nell’economia contemporanee, dove la capacità di governare, progettare, ottimizzare e divulgare conoscenza diviene il differenziale tra organizzazioni, tra prodotti, servizi e lavori.
Ripercorrendo l’evoluzione della “Società della Conoscenza”, si possono rintracciare tre milestones (4) : la prima tra il 1970 e il 1990, che chiamiamo società dell'informazione; la seconda dopo la capillare diffusione di Internet; la terza, che attualmente stiamo vivendo, che si concentra sul collegamento che esiste tra la estrema diffusione delle tecnologie e le repentine trasformazioni di tre domini sociali (vita quotidiana, sistemi di produzione, istituzioni e cultura).
Questa breve fotografia mostra tutta la complessità che il concetto di Società della Conoscenza assume nella terza milestone, ovvero nella nostra contemporaneità.
Le trasformazioni di cui si parla, fanno riferimento in modo tangibile ai corsi di vita degli individui, alle loro aspettative, progetti, bisogni lavorativi, al loro modo di pensare e di pensar-si e al modo di “fare” nei contesti professionali, di lavoro. In altre parole, ad essere messo in discussione, a rivoluzionarsi, è proprio quel processo di creazione di senso prima, e di conoscenza immediatamente dopo, che si pone alla base dell’agire sociale: il processo di apprendimento.
Infatti non a caso, nell'ultimo decennio abbiamo assistito ad una serie di cambiamenti che hanno investito lo scenario dell'apprendere e quello del formare. Parlare oggi di apprendimento e di formazione significa fare i conti, come detto, con uno scenario complesso: non possiamo più suddividere il processo di apprendimento in tre momenti - tempo per apprendere, di un tempo per fare e di un tempo per lavorare – separati e distinti, ma, anche grazie alle nuove tecnologie, i loro contorni si sfumano e si confondono.
Per avvicinarci ancora meglio alla complessità del contesto socio-economico in cui stiamo cercando di orientarci, è d’obbligo notare che nella stessa milestone, citata pocanzi, s’innesta anche la «Network Society»: questa “etichetta” porta in primo piano il concetto di rete, quale luogo privilegiato di produzione, consumo, comunicazione e organizzazione sociale nell’epoca contemporanea. Allo sviluppo della società in rete contribuiscono in maniera preminente le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), sulle quali si costruisce un nuovo paradigma sociale denominato «informazionalismo» (Castells, 2001). Alla sua base vi è l’idea secondo la quale ciò che caratterizza la società contemporanea, rispetto al passato, non è tanto la centralità della conoscenza o dell’informazione, bensì l’accrescimento delle capacità di elaborazione, trattamento e distribuzione resi possibili dalle tecnologie.
Guardandola attraverso queste due lenti – della conoscenza e della rete – la società assume le caratteristiche di un reticolo dinamico e flessibile, sottoposta a continue “trazioni” tra il livello locale e quello globale, in cui le relazioni tra i nodi del sistema sociale (individui, gruppi, organizzazioni) avvengono in modo nuovo, superando i tradizionali confini spazio-temporali. E i processi che attengono alla conoscenza: generazione, trasmissione, diffusione? Si adeguando a questi ai nodi del reticolo, che appaiono come aggregati di risorse e di competenze, dove si incontrano saperi impliciti ed espliciti, e dove nozioni isolate vengono condivise e riscritte generando saperi formalizzati (Di Corinto, Tozzi, 2002).
La sfida che si apre oggi è pertanto quella di comprendere come tali reti si stanno evolvendo, quali dinamiche si stanno generando, e, non da ultimo, come possono gli individui “camminare” su questo reticolo, ripensando l’apprendimento e la formazione per non perdere la bussola della conoscenza.
Tra le figure più coinvolte da questi cambiamenti, all’interno delle organizzazioni, si trovano certamente i professionisti che si occupano di risorse umane: il questo speciale verrà riportato il quadro teorico e l’esperienza di HR Next, un percorso che cercato un punto vista per leggere e ripensare proprio il ruolo delle risorse umane nell’epoca della complessità.
I contributi che seguono individuano tre livelli di analisi a diversi livelli di ampiezza.
Il primo contributo, di Gian Piero Quaglino, tenta di fare luce sulle dimensioni del senso e del significato all’agire organizzativo e in particolare del ruolo delle risorse umane oggi.
Scendendo a livello organizzativo, il secondo contributo, di Alvaro Busetti, descrive quale sia l’impatto dell’introduzione del digitale rispetto all’attuale organizzazione del lavoro.
Infine, il terzo contributo presenta nuovi modelli e metodologie per la gestione dell’apprendimento, basati sul paradigma del TEL.

(1) Butera F., Il castello e la rete, Milano, Franco Angeli, 1992, p. 17-22
(2) Failla A., Lavorare in un mondo che cambia, Milano, Etas Libri, 1994, p. 213
(3) Butera F., op. cit.
(4) Sartori L., La società dell’informazione, Bologna, Il Mulino, 2012


Bibliografia
Butera, F. (1992). Il castello e la rete. Milano, MI, Italia: Franco Angeli.
Castells, M. (2001). Internet Galaxy. Oxford: Oxford University Press.
Di Corinto, A. T. (2002). Hacktivism. La libertà nelle maglie della rete. Roma : Manifestolibri.
Failla, A. (1994). Lavorare in un mondo che cambia. Milano: Etas Libri.
Sartori, L. (2012). La società dell'informazione. Bologna: Il Mulino.

* PhD in Sociologia, si occupa di formazione e di ricerca in ambito organizzativo.

con Michela Fiorese* e Patricia Chiappini**

Premessa
Quando le cose cambiano molto velocemente l’esperienza può diventare un nemico ed è chiaro che il mondo si sta radicalmente trasformando. Dare un senso a questo ambiente ‘turbolento’ e ‘liquido’ non è facile, ma è evidente che le aziende devono avere il coraggio di generare discontinuità, rinnovando il modo in cui viene gestito il lavoro e lo sviluppo delle persone.
Come hanno risposto le Risorse umane di fronte a questi cambiamenti? Hanno saputo cogliere le nuove esigenze delle organizzazioni, ripensare il loro ruolo, mantenere la leadership sui processi di apprendimento e di sviluppo?
Come già illustrato, nell’arco di un decennio siamo passati dalla «Knowledge Society» - in cui la capacità di, progettare e governare il sapere organizzativo rappresentava il valore aggiunto di una azienda,  alla «Network Society» - che mette al centro la messa in rete dei saperi, il coinvolgimento trasversale delle persone e la creazione di nuove conoscenze.
Oggi stiamo attraversando una fase in cui entrambi questi modelli vanno compresi ed esplicitati attraverso l’acquisizione di nuove categorie, competenze, nuovi modelli e strumenti. Concretamente l’HR deve ripensarsi se vuole continuare a supportare persone e organizzazioni per generare apprendimento e sviluppo.

HR Next
Entropy Knowledge Network, ha progettato ed erogato la prima edizione HR Next: un percorso, appena concluso, nato dalla presa d’atto di questa esigenza e dedicato a Manager di linea, HR manager ed HR specialist che si occupano di formazione, organizzazione e sviluppo, HR Partner, che sono chiamati a promuovere il cambiamento in azienda.
Il percorso ha previsto un Kick off meeting iniziale in cui è stato presentato il progetto e in cui sono stati preannunciati i temi di ‘scenario’, oggetto del primo modulo. Ciascuno dei tre moduli previsti è stato anticipato da contributi forniti tramite la piattaforma di social collaboration che ha supportato la didattica. In questo modo è stato possibile sfruttare l’aula soprattutto come luogo di sperimentazione, di contaminazione e di co-creazione. Infine i partecipanti hanno elaborato una idea/proposta innovativa riguardante lo sviluppo organizzativo, presentata durante una occasione finale di celebration del percorso.

HRnext  si è poneva un triplice obiettivo:

  • Comprendere e valutare l’efficacia delle risposte date dalle organizzazioni ai cambiamenti esterni, analizzando in particolare il ruolo dell’HR: le risposte che ha saputo fornire e le sfide attuali che si trova a fronteggiare, gli strumenti che ha a disposizione per lavorare sulla creazione di senso.
  • Il Digitale sta trasformando il modo di gestire i processi lavorativi dal punto di vista dei dipendenti, dei clienti, dei fornitori e dei partner. HRnext ha illustrato cause e driver di tale cambiamento e i suoi effetti, con particolare attenzione ai nuovi modi di lavorare e agli strumenti tecnologici e concettuali necessari a governarli.
  • Chi si occupa di formazione, comunicazione e sviluppo può oggi contare su strumenti in grado di massimizzare il coinvolgimento, la condivisione e la creatività delle persone. Serious game, Realtà aumentata, ambienti multiplayer aprono nuovi scenari ma richiedono un approccio nuovo per essere usati al meglio. HRnext  ha voluto esplorare le potenzialità di queste tecnologie e trasferire le competenze per usarle al meglio.

Nuovi modelli per l’apprendimento
In questa sede, ci soffermeremo in particolare sul terzo modulo di HR Next, dedicato al TEL (Technology Enhanced Learning), ovvero un insieme di metodologie formative, basate su particolari tecnologie digitali, che enfatizzano l’interattività del processo di apprendimento, la sperimentazione attiva dei saperi e la costruzione comune delle conoscenze. Si tratta di soluzioni che ampliano e arricchiscono le potenzialità offerte dall’e-learning e più in generale dagli strumenti della Rete (spesso integrandosi con questi ultimi), ma che possiedono specificità tecniche e metodologiche originali capaci di potenziare l’apprendimento.
Pur senza negare l’importanza di focalizzare l’attenzione sull’individuo in quanto produttore e portatore del sapere, la tecnologia rappresenta una risorsa strategica. Le tecnologie contribuiscono a determinare il modo in cui vediamo noi stessi, il mondo e il modo in cui ci rapportiamo ad esso. L'evoluzione del pensiero è anche evoluzione delle tecnologie che vi sono legate, e pertanto il problema non è prendere posizione nella diatriba "tecnologia sì/tecnologia no", ma scegliere di volta in volta le tecnologie più efficaci per lo sviluppo della conoscenza. I nuovi media e internet, dal punto di vista dei processi di apprendimento, possono essere considerate vere e proprie tecnologie cognitive (Calvani, 1999), ovvero dispositivi auto-alfabetizzanti in grado di coinvolgere i processi interni della mente: esse possono contribuire a far emergere nuove forme di organizzazione del pensiero, nuovi modi di apprendimento e nuove modalità di comunicazione e collaborazione interpersonale. Ancora una volta ha senso parlare di “Network Knowledge Society”: la rete si afferma cioè come un vero e proprio ambiente di apprendimento all’interno del quale si verificano attività ed esperienze che sottendono dinamiche di apprendimento, non solo di tipo formale (come nel caso in cui internet è utilizzato per la costruzione di percorsi di formazione e-learning), ma anche e soprattutto di tipo informale (Cross, 2007).
L’urgenza che si registra ha una duplice prospettiva:

  • sotto il punto di vista delle competenze necessarie allo sviluppo personale, alla piena partecipazione socio-culturale e ai futuri impieghi;
  • in relazione alle attitudini necessarie rispetto alle nuove modalità di apprendimento che si aprono grazie alla mediazione tecnologica (Batsleer, 2008; Trinder et al., 2008; Drotner et al., 2008).

Per questi motivi, il concetto di “Maturità digitale” assume forse il peso maggiore nel percorso di rivoluzione cui la formazione deve tendere: essa fa riferimento al rapporto che sussiste tra ‘forme di pensiero’ – il modo in cui gestiamo le informazioni e le conoscenze, le analizziamo, prendiamo decisioni e facciamo problem solving – e le nuove tecnologie.
Per questo, è di facile comprensione che la Maturità Digitale trascende dal “contenuto” del lavoro, e che ogni professione contiene, ora che ci troviamo nella “Network Knowledge Society”, un pacchetto di competenze e di processi legati alla gestione della conoscenza che hanno decisamente cambiato forma rispetto al passato. Ne deriva che anche il modo in cui si acquisiscono le conoscenze e si attivano processi di apprendimento, deve trasformarsi, e quindi devono essere studiati non solo nuovi ambienti di apprendimento, ma anche nuovi strumenti che facciano da ponte per raggiungere la  Maturità Digitale.

Le nuove metodologie formative sono sempre più basate su tecnologie digitali che enfatizzano l'interattività del processo di apprendimento, la sperimentazione attiva dei saperi e la costruzione comune delle conoscenze. Si tratta di soluzioni che ampliano e arricchiscono le potenzialità offerte dal semplice – e forse per certi versi obsoleto – e-learning e più in generale dagli strumenti della rete (spesso integrandosi con questi ultimi), ma che possiedono specificità tecniche e metodologiche originali.
Da un punto di vista formativo, il Technology Enhanced Learning offre una serie di vantaggi che vanno dalla possibilità di personalizzare l’apprendimento, svincolandolo dai limiti spazio-temporali della formazione tradizionale, alla possibilità di creare spazi di condivisione e collaborazione anche per numeri molto elevati di persone, fino alla possibilità di sperimentare, ovvero simulare fenomeni complessi.
Inoltre, grazie a soluzioni che enfatizzano engagement e gamification, è possibile facilitare il coinvolgimento delle persone e creare le condizioni perché esse producano nuove idee e conoscenze.
 

1_figura 1 per contributo3.png

FIGURA 3. Dimensioni del Technology Enhanced Learning

Il TEL dimostra che la distinzione tra apprendimento formale e informale sia sostanzialmente superata: gli ambienti e i dispositivi tecnologici possono essere usati per integrare, arricchire e rendere più interessanti i processi di acquisizione delle conoscenze.
Il TEL produce un cambiamento nel modo di concepire alcuni degli aspetti fondamentali della formazione tradizionale, come ad esempio:

  • il ruolo e le competenze del formatore: da esperto della materia a validatore del processo e progettista di esperienze didattiche
  • le leve dell’apprendimento: dall’impegno e motivazione al gioco e alla sfida collaborativa
  • i modelli di riferimento: dai modelli tradizionali al costruzionismo
  • i setting formativi: dai formali standardizzati eterogestiti a informali, customizzati ed autogestiti.


Conclusioni
Tra poco tempo, la tecnologia non sarà più, probabilmente, solo uno dei mezzi, ma il binario attraverso cui passeranno tutte le dimensioni sociali, gestione della conoscenza, processi di apprendimento, formazione e lavoro compresi.
La domanda che è giusto porsi a questo punto è: sopravvivrà la “Network Knowledge Society”, delineata nella prima parte, oppure verrà scalzata da un altro tipo di “forma sociale”? È possibile ipotizzare il suo nome, muovendosi tra la techno-fantasia e la ipotesi sociologiche?
Probabilmente le reti di cui è composta la attuale, le mappe reticolari, si infittiranno a tal punto che diventerà un unico piano, fluido, in cui le dimensioni di tempo e spazio si perderanno, fino ad annullare nodi e reticoli in favore di una onnipresente “aurea tecnologica”. I nostri “luoghi” – dalle case, alle città – saranno pieni di oggetti che dialogheranno tra loro. Sicuramente il sistema sociale verrà de-strutturato e perderemo i punti di riferimento classici che già ora vacillano, per adottarne di nuovi. Verosimilmente, anche l’elaborazione di beni e servizi si scardinerà dal sistema produttivo per come lo conosciamo oggi, e di conseguenza il lavoro si trasformerà in una attività individuale, in cui ognuno si autogestirà (Allegri, Ciccarelli, 2013) e saremo tutti autonomi – o intelligenti artificialmente – nella ricerca delle risorse e delle conoscenze necessarie, per creare quello di cui avremo bisogno.
Per parlare di apprendimento si dovrà ribaltare tutta la teoria finora validata, ampliarla, estremizzarla: il Costruttivismo, il paradigma secondo cui ognuno costruisce attivamente la propria conoscenza, lascerà forse il passo al Connettivismo (Siemens, 2005), che implica la capacità di superare le reti già esistenti e, sfruttando il “caos” prodotto dalle connessioni spontanee tra utenti e risorse, ridefinirà l’apprendimento come un processo di riconoscimento e di configurazioni di informazioni.
In questo contesto nasceranno spazi di interattivi, orientati alla soluzione di problemi, alla ricerca collaborativa, che metteranno al centro il learner, un soggetto sempre più attivo di una comunità di apprendimento, in cui riuscirà a portare un suo “tessuto” e che si renderà responsabile della sua presenza. Ogni learner potrà creare non più solamente la propria conoscenza, ma anche i propri contenuti, basandoli sui propri fabbisogni effettivi, e decidendo addirittura le strategie, in uno scenario di strutture e configurazioni - “interagibili” e modificabili – che favoriranno l’accesso all’informazione condivisa e l’uso di strumenti individuali ma collaborativi.
Continuando con ipotesi immaginifiche, questa società potrebbe chiamarsi “Wired Sharing Society” – società della condivisione cablata – e sostituire la neonata “Network Knowledge Society” nel giro di qualche anno.
Questo esercizio logico, che oscilla tra la sociologia e la futurologia, può essere utile non solo, e non tanto, per capire dove stiamo andando, ma dove siamo in questo momento.
Sia che resista la “Network Knowledge Society”, sia che la “Wired Sharing Society” abbia un repentino sopravvento, resta un quesito da risolvere: che ruolo, che competenze, che strumenti avranno coloro che si occupano di risorse umane?
In entrambi gli scenari, la figura dell’HR dovrà subire un’evoluzione significativa. Quello che possiamo osservare è che il suo ruolo è passato dal tradizionale monopolio della procedura, alla mediazione e all’accompagnamento, evolvendosi fino a diventare una figura di processo, polivalente. Questa evoluzione però è stata di tipo adattivo e non attivo: gli HR si sono trovati in un setaccio metodologico in cui può passare solo chi ha “raffinato” le proprie competenze e conoscenze. Il “sistema”, infatti, ha posto in essere una serie di strategie, più o meno riuscite, per accompagnare i cambiamenti sociali nel campo della gestione delle risorse e delle conoscenze, ma senza soffermarsi un momento sulla figura e sul ruolo dell’HR.
Essi operano su un terreno che cambia costantemente forma e sostanza, e per sopravvivere devono dotare sé stessi di quegli strumenti individuati come chiavi di cambiamento: strumenti concettuali, nuove competenze, maturità digitale.

Strumenti concettuali. Gli HR dovranno dotarsi di nuovi strumenti concettuali, necessari per rapportarsi con i nuovi saperi e con le nuove crucialità proprie dell’approccio sistemico alla formazione e alla gestione della conoscenza contemporanea, nonché ai nuovi learners che stanno acquisendo autonomia e coscienza di auto-costruzione. Devono essere in grado di gestire la trasferibilità della conoscenza, la personalizzazione dei contenuti, il coinvolgimento pervasivo.

Nuove competenze. Gli HR dovranno essere in grado di rendere “continui e sinergici” i processi di gestione delle competenze e delle conoscenze, sia all’interno sia all’esterno di percorsi istituzionali, non solo per le risorse umane, ma prima di tutto per sé stessi. In un mercato del lavoro – ma potremmo dire in un mercato della conoscenza – come quello attuale, non esistono più, e non esistono solo, le competenze tecniche e specializzate, ma esiste la necessità di attribuire senso e significato alla realtà, alle relazioni, alle situazioni: gli HR hanno il compito di innescare e facilitare questo processo, favorendo lo sviluppo di potenzialità latenti, che evolvono in competenze personali e situazionali, più che procedurali e tecniche.

Maturità digitale. Gli HR dovranno diventare perno e amplificatore di conoscenze tecnologiche applicate alle capacità cognitive, e diventare facilitatori per potenziare l’efficacia dei tradizionali processi di apprendimento e di agire organizzativo. Dovranno, di volta in volta, saper scegliere – e guidare le risorse umane nella scelta delle tecnologie più efficaci per lo sviluppo, la creazione e la condivisione della conoscenza.

Queste direttrici potrebbero essere i binari su cui gli HR potranno innovare il proprio ruolo, e conquistare una presenza attiva nella nuova cornice dei processi di apprendimento e della formazione nelle organizzazioni. D’altra parte anche gli HR sono lavoratori, e soggetti in continuo apprendimento, come le risorse che supportano. Ma saranno in grado di raccogliere la sfida?

* Michela Fiorese
Psicologa del lavoro, Senior Partner di Entropy KN, dal 2008 coordina diversi progetti europei di ricerca in ambito nuove tecnologie applicate alla formazione continua.

** Patricia Chiappini
PhD in Sociologia, si occupa di formazione e di ricerca in ambito organizzativo.

Premessa
Le tecnologie dell’informazione (Internet, il web 2.0 e la cosiddetta “terza piattaforma” (1) …) stanno modificando radicalmente la società, il modo di vivere, lavorare e fare azienda perché modificano il modo di produrre e gestire le informazioni e quindi intervengono altrettanto radicalmente su modi, costi, tempi e competenze necessari alla produzione, gestione e utilizzo delle risorse che sono basate su di essa.
Le risorse basate sull’informazione, note come risorse invisibili (o intangibili (2)) , sono fondamentali per il buon funzionamento (e quindi per il successo) di Aziende e Pubbliche Amministrazioni, tra esse: la fiducia degli utenti, l’immagine del brand, la capacità di gestire sia persone e processi interni che relazioni e processi verso clienti, fornitori e partner.
Le risorse invisibili più rilevanti come la reputazione aziendale, la conoscenza del mercato o le competenze interne, sono “incorporate” nelle persone che interagiscono con l’organizzazione (clienti, dipendenti, rete commerciale…), sfuggono alla gestione esplicita dell’organizzazione e vengono trasmesse sui canali formali e informali a disposizione degli individui: passaparola, social networks, posta elettronica, riunioni, incontri diretti con clienti, colleghi, fornitori e partner. Per questo motivo la gestione delle persone e dell’organizzazione del lavoro, proprio a causa della tecnologia, diventa un fattore sempre più critico per il successo delle organizzazioni.

Risorse invisibili e processi operativi: perché la trasformazione digitale del lavoro
La rilevanza delle risorse basate sull’informazione nelle economie avanzate è dimostrata dal fatto che più del 60% della forza lavoro e oltre il 70% del costo del lavoro in paesi come Stati Uniti, Germania, Inghilterra e Francia sono dedicati ad attività basate sull’informazione (3) .
Le risorse invisibili possono essere suddivise in tre tipologie: ambientali, interne e aziendali.

  • Le risorse ambientali  si originano nell’ambiente (4) e sono usate dall’organizzazione: le richieste dei consumatori, la percezione del prodotto/servizio da parte degli utenti, l’immagine dell’azienda,...
  • Le risorse interne si originano e vengono usate all’interno dell’organizzazione: la conoscenza del mercato e dei concorrenti, le conoscenze operative e di processo,…
  • Le risorse aziendali si originano nell’organizzazione e vengono da essa trasferite all’ambiente: le comunicazioni di marketing, il supporto ai clienti, le interazioni della front-line con i clienti,…

Le risorse ambientali sono l’input dell’ambiente verso l’organizzazione, la quale le elabora internamente integrandole con le informazioni che emergono dai processi (risorse interne) per generare le informazioni (i.e. risorse) aziendali da trasferire all’ambiente secondo gli obiettivi/compiti dell’organizzazione.
Così ad esempio, nel caso venga rilevato dagli utenti un problema in un prodotto/servizio (informazione ambientale), le informazioni relative vengono raccolte e analizzate alla luce delle informazioni interne, vengono apportate le modifiche necessarie al prodotto e/o ai processi interessati e le informazioni che ne derivano, i.e. la soluzione del problema, vengono comunicate agli utenti interessati (informazione aziendale), contribuendo a modificare soddisfazione degli utenti, immagine del brand, etc.. Questo tipo di interazione tra utenti e organizzazioni è cambiato radicalmente nella forma e nella sostanza con il diffondersi delle nuove tecnologie, ad esempio dei social networks.
In generale sono i processi interni a generare il contenuto da trasferire all’ambiente e quindi ad avere un ruolo chiave nel ciclo con cui l’organizzazione elabora l’input ambientale e reagisce (i.e. comunica) efficacemente verso l’ambiente; l’accelerazione di questo ciclo prodotta dalla tecnologia sta rapidamente trasformando i processi interni, e quindi il lavoro e la sua organizzazione, nell’anello debole della catena con cui le organizzazioni interagiscono con l’esterno; tempestività, qualità e accuratezza delle informazioni prodotte dai processi interni, devono necessariamente essere tali da generare informazioni (e quindi interazioni) aziendali verso l’ambiente coerenti nei tempi e nei modi con le aspettative di un contesto ormai abituato ai tempi e modi della nuova comunicazione interpersonale, come per esempio quella dei social network, pena la marginalizzazione (se non la scomparsa) dell’intera organizzazione.

La tecnologia è la risposta, ma qual è la domanda?
Se l’organizzazione vuole essere in grado di interagire adeguatamente con l’ambiente è abbastanza evidente che l’uso, anche internamente all’organizzazione, degli stessi paradigmi tecnologici utilizzati nell’ambiente può essere d’aiuto, a condizione che si tenga presente che l’obiettivo non è tanto l’utilizzo della tecnologia in quanto tale, quanto la capacità dell’organizzazione di reagire alle informazioni ambientali nei modi e nei tempi consentiti dalla tecnologia.
Non è quindi questione di uso di una tecnologia, ma di uso delle tecnologie disponibili in funzione degli obiettivi (di servizio) da raggiungere. La tecnologia è un fattore strategico di successo solo a condizione che l’organizzazione abbia la chiara percezione dell’esistenza, del ruolo e dell’importanza delle proprie risorse intangibili e un’altrettanto chiara strategia su come utilizzarle per il conseguimento dei propri fini.
È la gestione delle risorse invisibili, soprattutto interne per i motivi visti sopra, e non la tecnologia (anche se tramite la tecnologia) a essere un fattore chiave per l’affermazione dell’organizzazione nel proprio ambiente e nel nuovo contesto tecnologico: mercato per le aziende, società per le pubbliche amministrazioni.

Perché il lavoro non è più un posto?
La fabbriche nascono con la prima rivoluzione industriale come luogo dove poter disporre economicamente e simultaneamente dei fattori di produzione necessari alla produzione di beni e/o servizi: forza lavoro, macchinari, materie prime, competenze delle persone.
In origine lo stessa valeva per le informazioni (le risorse invisibili): prima dell’introduzione delle tecnologie informatiche la gestione dell’informazione coincideva con la gestione fisica dei suoi supporti. Così le informazioni venivano raccolte su carta, sintetizzate ed elaborate in documenti sempre cartacei e conservate negli uffici aziendali. Conseguentemente, anche le attività concettuali potevano essere svolte solo dove (i supporti de) le informazioni e le competenze dei colleghi erano disponibili: negli uffici.
Questo non è cambiato quando, in tempi più recenti, le informazioni, anche se in formato digitale, venivano (e in gran parte vengono ancor oggi) gestite utilizzando infrastrutture informatiche private accessibili per la maggior parte, per legittimi motivi di costi e di sicurezza, solo all’interno degli edifici aziendali. Tutti i processi produttivi, di beni e servizi, la loro organizzazione e la gestione delle relative informazioni sono stati progettati a partire da questi presupposti.
Con la trasformazione dell’economia (globalizzazione, delocalizzazione, terziarizzazione,…), risulta sempre più difficile concentrare l’intero ciclo produttivo di un bene o di un servizio in uno stesso luogo fisico e sotto il governo della stessa organizzazione: sempre più spesso un singolo processo coinvolge risorse tangibili e intangibili (e quindi anche persone) collocate in sedi diverse e appartenenti o meno alla stessa organizzazione (5).
In questo caso sedi e strutture tecnologiche private si trasformano in barriere, anche di costo, all’evoluzione dei processi e alla trasformazione in senso competitivo dell’organizzazione, trasformando il poter/dover disporre in uno stesso luogo fisico di tutte le informazioni necessarie allo svolgimento delle attività (comprese le competenze delle persone) da vantaggio economico a generatore di inefficienza se non di malfunzionamenti. Una buona misura di questo fenomeno è l’aumento esponenziale delle attività di comunicazione (riunioni, trasferte, e-mail, video conferenze, etc…) tra sedi, funzioni e unità organizzative della stessa azienda, di clienti, fornitori e/o partner, problematica che affligge la quasi totalità delle organizzazioni.
Le nuove tecnologie, essendo basate su standard pubblici (Internet) e garantendo livelli di sicurezza ormai adeguati all’uso aziendale, si propongono come una valida soluzione consentendo di affrontare e risolvere in maniera soddisfacente, anche dal punto di vista dei costi oltre che dell’efficienza, il problema della gestione e dell’utilizzo delle informazioni (e quindi delle risorse invisibili) quando i processi si svolgono tra luoghi e organizzazioni diverse. La loro adozione si rivela quindi necessaria nello svolgimento della maggior parte delle attività lavorative (i.e. quelle legate al trattamento delle informazioni) nel nuovo contesto economico; l’affermarsi di nuove forme di organizzazione del lavoro come lo smart working e il lavoro agile è tra i primi segni di questa trasformazione.

Perché la tecnologia è solo una (piccola) parte della risposta
Tuttavia, se le tecnologie possono essere uno strumento valido e necessario per gestire le informazioni legate anche ai processi interni, esse non sono sufficienti per garantire un’interazione adeguata alle aspettative dell’ambiente; esse incidono sui tempi e i modi di gestione e trasferimento delle informazioni, ma solo indirettamente sui tempi e la qualità dei processi nel loro insieme, fattori che sono invece fortemente connessi al modo in cui è organizzato il lavoro e gestita l’organizzazione, a cominciare dai processi decisionali.
Poter trasferire le informazioni in frazioni di secondo, quando livelli e tempi di decisione rimangono immutati, genera frustrazione nel personale, rende inutili i vantaggi resi possibili dalla tecnologia e uno spreco i relativi investimenti.
Adottare nuove tecnologie di comunicazione (e di gestione dell’informazione in genere) può infatti risultare controproducente dal punto di vista del risultato se non si mette mano ai processi e alla gestione delle persone nel loro insieme, riprogettandoli attorno ai nuovi modi di comunicare e gestire le informazioni, ovvero se processi e organizzazione non sono coerenti con i nuovi modi e strumenti del comunicare all’interno dell’organizzazione e tra le organizzazioni, se cioè non si passa dalla semplice adozione delle tecnologie digitali alla trasformazione digitale del lavoro.

(Conclusioni)
L’intera economia sta subendo una profonda trasformazione legata alla diffusione delle tecnologie digitali rese disponibili dalla rete. Questo processo tocca essenzialmente la gestione delle risorse intangibili che hanno nell’informazione la loro materia prima e che costituiscono una parte crescente del mix di prodotti e servizi erogati da Aziende e Pubbliche Amministrazioni
L’interazione delle organizzazioni con gli utenti muove dalle informazioni originate nell’ambiente e si chiude con le informazioni trasmesse dall’organizzazione all’ambiente frutto delle attività interne, del lavoro e della sua organizzazione.
Affinché questa interazione sia tempestiva e qualitativamente adeguata è necessario che il lavoro e la sua organizzazione subiscano una trasformazione analoga a quella intervenuta nell’interazione tra l’organizzazione e il mondo esterno. Questa trasformazione non può essere limitata alla sola adozione di tecnologie simili alle tecnologie utilizzate dagli utenti, ma deve prevedere necessariamente anche il ridisegno dei processi e dell’organizzazione attorno alle possibilità offerte dalle tecnologie; smart working e lavoro agile sono solo i primi segni di questa trasformazione.

(1) http://en.wikipedia.org/wiki/Third_platform
(2) Il ruolo delle risorse invisibili nella gestione aziendale è stato ben descritto alla fine degli anni ’80 da Y. Itami
(3) SI tratta della somma delle attività codificate di elaborazione di informazioni (attività di tipo transattivo: es. impiegati, cassieri di banca,…) e delle attività che richiedono che richiedono interazioni con altri, giudizio indipendente o comunque non standardizzabili (es. manager, professionisti, venditori,…).
(4) Per ambiente intendiamo il contesto in cui l’organizzazione si muove: utenti, partecipanti, fornitori, partner, istituzioni, parti sociali,…
(5) Da uno studio del CEB (http://www.cebglobal.com/) basato su circa 23.000 interviste di dipendenti di aziende dei paesi industrializzati risulta che, nel 2012, sono significativamente aumentati: le attività che richiedono collaborazione attiva (67%), il numero di persone coinvolte nei processi decisionali (50%), il numero di colleghi di altre sedi con cui collaborare (57%). Risulta inoltre che il 60% di essi collabora con più di 10 persone, mentre il 65% gestisce relazioni con persone esterne all’azienda nello svolgimento delle proprie attività

4_figura 4_copertina libro Quaglino per recensione.jpgIl testo di Gian Piero Quaglino “Formazione. I metodi” del 2014 è un tentativo, ottimamente riuscito, di fare il punto sulle metodologie formative, presentando un ampio panorama di contributi su metodi vecchi e nuovi, tradizionali ed innovativi.

Per dimensioni e ampiezza dei temi trattati, il libro non è una di quelle letture che possono essere fatte in modo “verticale”, ma piuttosto un testo che permette al professionista o a chi fosse interessato alla formazione, di aprire delle finestre su singoli item.

Il lettore afferra, anche solo al primo sguardo, la ricchezza delle competenze professionali che possono appartenere ai “lavoratori” della formazione: per questo, si coglie, nell’intenzione dell’autore, anche una volontà di offrire al formatore, non solo una fotografia del vasto panorama metodologico, ma anche la possibilità di conoscere altri metodi, altre strade possibili, altre competenze, appunto.

Oltre a citare metodologie formative basate su tecnologie 1.0 (come ad esempio il cinema), sono interessanti i contributi che riguardano le nuove tecnologie (e Learning, Serious Game, Video Interattivo) poiché sembrano cogliere lo spirito di cambiamento, le tendenze evolutive, che il mondo della formazione sta vivendo.

Utile lo spunto che lo stesso autore offre, per facilitare la lettura e l’orientamento del lettore, all’interno del libro. I metodi infatti, possono essere raggruppati in 7 categorie: classici, centrati sul gruppo, centrati sulle competenze e sull’organizzazione, centrati sull’individuo, cetrati sulla “messa in scena”, centrati sulla tecnologia e centrati sulla persona. Questa proposta di categorizzazione è comunque una delle tante possibili, visto che l’architettura del testo si presta per una rilettura in termini pragmatici e non dogmatici.

copertina Alessandrini.jpg

Il termine “Nuovo” sta ad indicare non la riedizione di un “lavoro editoriale” pubblicato per la prima volta nel 1998 per poi ripresentarsi in una veste rivisitata nel 2005; bensì, rappresenta un’opera completamente ristrutturata sia alla luce dei continui cambiamenti che stanno interessando il mondo del lavoro e – nello specifico – della formazione sia come una guida che sappia orientare il potenziale lettore ai passaggi fondamenti da seguire per progettare, attuare e valutare un progetto di formazione.
Un Manuale che si rivolge agli esperti dei processi formativi, ed anche a coloro che intendano divenire tali!
La riflessione muove dalla fotografia che ci presenta l’ISFOL nel XV Rapporto di monitoraggio della formazione continua, ed in particolare nella partecipazione formativa degli adulti 25-64enni. Nel corso del 2013, i cittadini europei compresi nella fascia di età tra i 25 e i 64 anni che risultano aver partecipato ad attività di istruzione e formazione sono stati complessivamente oltre ventinove milioni, pari al 10,5% della popolazione di età residente nei paesi facenti parte dell’Unione europea; inoltre, in due casi su tre le attività hanno riguardato temi connessi al lavoro. In questo scenario, l’Italia registra un andamento complessivo al di sotto della media europea con una percentuale di partecipazione del 6,2%, ovverosia oltre due milioni di persone in età compresa fra 25 e 64 anni di età risultano coinvolti in percorsi di formazione. In ogni caso, si è in presenza di livelli di coinvolgimento lontani da qualsiasi risultato auspicato e ancora una volta si evidenziano le difficoltà che incontrano le politiche di formazione finalizzate al rafforzamento delle competenze dei lavoratori e alla collocazione o ri-collocazione nel mercato del lavoro. L’obiettivo europeo per il 2020, invece, sarà quello di coinvolgere ogni anno in attività di istruzione e/o formazione anche non professionalizzante non meno del 15% della suddetta popolazione.
In realtà oggi si sta imponendo il concetto di lifewide learning, ovvero l’istruzione e la formazione che interessano tutti gli aspetti della vita e che possono avvenire in contesti molto differenziati e in diverse fasi della vita delle singole persone. L’adozione della prospettiva del lifelong learning valorizza la formazione come dispositivo per accrescere l’empowerment individuale in chiave di partecipazione attiva all’economia e alla società. Tutto ciò rivoluziona le prospettive e la cultura stessa del rapporto formazione-lavoro. Occorre infatti pensare che “la formazione produce auto-realizzazione del sé” in quanto si dimostra capace di formare le nuove generazioni non a cercare lavoro ma a creare nuovo lavoro, per sé e per gli altri.
La formazione è sempre azione di sostegno al cambiamento e non si può dare cambiamento se non sussiste un contesto di valori, al di là degli aspetti legati ai metodi e alle tecniche che siano in grado di sostenerlo. Quindi, non è più soltanto un qualcosa di strumentale, a servizio di finalità e obiettivi concreti; bensì, la sua funzione pedagogica/educativa e formativa/professionale si sintetizza in una specie di alchimia chimica capace di generare un qualcosa di superiore, di particolare importanza, tracciando le linee di una nuova modalità di lavoro, quella di “agire per scoperta”, così come avviene nell’ambito delle realtà in progetti, in modelli, in situazioni pratiche concrete.
La formazione è lo strumento per crescere, per migliorare, per acquisire nuovi saperi e nuove competenze.
La formazione si pone come agente del cambiamento e della modernizzazione, con una particolare attenzione verso i fattori chiave della crescita e dello sviluppo ed al collegamento con gli obiettivi di innovazione delle imprese, che sono posti come elementi prioritari per la crescita economica del Paese. In un contesto nel quale la capacità di innovazione e di integrazione non è più solo un valore aggiunto delle aziende più avanzate ma una precondizione per fare impresa e operare nel mercato globale.
La formazione serve anche ad accompagnare e sostenere questi processi, valorizzando appieno il potenziale di crescita delle imprese aderenti e dei loro lavoratori.
Da qui l’attenzione sia ad un ripensamento da parte della pedagogia delle questioni più ampie legate alla società civile in ottica europea sia l’esigenza di costruire un “dialogo multidisciplinare” nell’ambito della pedagogia del lavoro e della formazione.
Tali questioni sono state affrontate nel volume di recente pubblicazione dal titolo “Nuovo Manuale per l’esperto dei processi formativi. Canoni teorico-metodologici” di Giuditta Alessandrini, Professore ordinario di Pedagogia generale e sociale del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Roma Tre.
Pubblicato nella collana “Studi Superiori” di Carocci editore, il manuale – come afferma l’autrice – segue due “percorsi di lettura” che vengono costruiti dal singolo lettore: nel primo, si propone una riflessione accurata sul ruolo possibile che la formazione sta assumendo a partire da una sua ricostruzione teorica per poi dare spazio ad alcuni riflessioni alla luce sia della recente normativa in ambito europeo sia dei dati pubblicati nei numerosi rapporti; la seconda, invece, descrive i principali strumenti, metodi operativi, metodologie per sviluppare interventi e pratiche di formazione.
Nello specifico, il primo percorso si presenta come un “vestibolo” che indirizza il lettore a comprendere la complessità dell’agire formativo, e su cui si snodano dieci stanze che offrono un’analisi dettagliata dei recenti cambiamenti – e non! – intervenuti in tale ambito: a partire da una riflessione dei possibili vantaggi e punti di criticità avvenuti a dieci anni dalla cosiddetta “fioritura” della società della conoscenza e quindi denominata dall’autrice come un “sogno”, per passare alla digital trasformation, sharing economy ed allo smart working (la “realtà”), soffermarsi poi al soggetto quale protagonista nel processo di apprendimento (la “danza”) per giungere all’importanza della comunità come difesa dell’incertezza (la “prospettiva”).
Come ha sottolineato la curatrice Giuditta Alessandrini, il cuore della monografia ruota attorno alla complessità dello sviluppo educativo e formativo soprattutto in riferimento alla recente crisi economica, e fornisce anche una serie di strumenti metodologici per potenziare la capacità di agire del formatore in situazione.
Viene, dunque, a tracciarsi il secondo percorso: dall’analisi dei fabbisogni formativi, alle famiglie metodologiche, la valutazione del progetto formativo, il tema cardine delle competenze, per chiudersi con uno studio relativo alle possibili comparazioni/differenze tra l’apprendimento organizzativo e le comunità di pratica.
Una “guida” che si snoda in trecentosei pagine e corredata da una serie di “riquadri” curati da esperti del settore (come Quadrifor, UIL, per citarne alcuni) e da giovani laureandi e dottorandi di ricerca: una riflessione sul quadro europeo delle qualifiche, l’importanza dei fondi interprofessionali, l’impatto delle tecnologie nei processi formativi al work-based learning; una rassegna di “casi di studio” dall’educazione all’imprenditorialità alla figura del formatori, al ruolo dei quadri del terziario; una rassegna di “tesi di laurea” sui temi della comunità di pratica nella sanità e nel project management al tema dibattuto dello Youth Guarantee; in ultimo, una rassegna dei progetti di ricerca nazionali ed europei (come CREA.M., SME_QUAL, il corso ANAS, ARNO, ecc.) condotti dal Laboratorio di Ricerca CEFORC “Formazione Continua & Comunicazione (www.ceforc.eu)”.
A chiusura del volume, una vasta rassegna bibliografica può fornire al lettore numerosi riferimenti di opere, rapporti nazionali ed internazionali al fine di approfondire una tematica specifica del vasto panorama qual è la formazione.
Riprendendo un passaggio dell’Autrice a pagina 18 e che può costituire un elemento utile ad accompagnare il potenziale lettore: «La tesi che si propone in questo volume è che l’approccio pedagogico alla formazione (nel senso di approccio centrato sulle scienze dell’educazione) mai come oggi sia generativo di senso e coerente alla domanda implicita rivolta alla formazione nella società contemporanea anche rispetto ai nuovi archetipi del lavoro».
Il filo che lega ogni capitolo, dunque, è la comune attenzione a condividere l’impegno alla diffusione e al sostegno di una cultura della formazione come cultura della valorizzazione della crescita della persona, come tramite per lo sviluppo della propria immagine identitaria, intesa nella dimensione individuale quanto nella dimensione collettiva.

Un invito a rileggere “La chiave a stella” di Primo Levi per riflettere sulla formazione

La chiave a stella.jpg

Primo Levi (Torino, 1919-1987), scrittore che fa dell’esperienza vissuta la materia prima del suo scrivere, ne La chiave a stella (1978), mette in scena la conversazione tra un Narratore (Levi stesso, chimico e scrittore) e Libertino Faussone, un tecnico piemontese, montatore e collaudatore di strutture metalliche, che racconta le sue imprese lavorative vissute in giro per il mondo. Nei quattordici capitoli del libro, ciascuno dei quali contiene un racconto che potrebbe anche essere letto autonomamente, confluisce la materia di diversi contatti e conversazioni sul lavoro che Levi stesso, in altre occasioni, dichiara di aver avuto con montatori in carne e ossa e operai specializzati conosciuti personalmente nella sua lunga esperienza lavorativa di chimico e di industriale. Lo stile è quello dell’intervista: il Narratore sollecita con una serie di domande e asseconda con delicatezza i racconti del protagonista, che sembrano quasi audio-registrati e trascritti.
È forse possibile leggere questo libro come il resoconto di un’azione formativa, se intendiamo la formazione come una forma di relazione che accompagna il soggetto a mettere in parola il sapere dell’esperienza, sollecita a raccontare storie e per questo richiede rispetto, attenzione, ascolto, interesse per la storia altrui e capacità di coinvolgersi nella relazione anche con la narrazione della propria. Non è che Levi metta esplicitamente a tema la questione della formazione, se non con brevi cenni dedicati per la verità più all’esperienza scolastica che a quella formativa (non senza battute polemiche sul sapere astratto della scuola), ma forse l’operazione non è priva di una certa plausibilità. L’idea di una formazione come paziente accompagnamento alla messa in parola del sapere maturato nell’esperienza si lega del resto alla ricerca etnografica, con la quale Levi aveva maturato una forte affinità, tanto da esprimere una cura da vero e proprio etnografo non solo ne La chiave a stella, ma in tutte le sue opere testimoniali. Il Levi “formatore” corrisponde un po’ al Levi etnografo delle esperienze brutalmente patite nel Lager nazista (Se questo è un uomo, 1958) e al Levi etnografo di vari mestieri (Il sistema periodico, 1975). Proprio il coinvolgimento relazionale e riflessivo dei vari soggetti che la pratica etnografica attiva, attribuendo loro il duplice statuto di fonti e strumenti di una conoscenza rilevante, assume del resto valore formativo e trasformativo per tutti coloro che sono in gioco.
La formazione consiste innanzitutto nel creare uno spazio in cui sia possibile far emergere o far rintracciare un senso nel lavoro che si fa. E questo può avvenire attraverso la narrazione, che è in se stessa attribuzione di senso – e di forma – a ciò che si vive. Il gusto del lavoro ben fatto e l’amore per il lavoro sono, per Faussone, al tempo stesso, indizio di un senso incontrato e motore che spinge a rigenerarlo continuamente. Nel dialogo, egli riesce a dare senso e forma alla sua passione per il lavoro e proprio questo è ciò che muove anche il suo desiderio di narrare. Non è che Levi non veda anche le ambiguità del lavoro, soprattutto la durezza e l’iniquità del lavoro servile e alienante; solo si rifiuta di identificare il lavoro tout court con il lavoro servile, come un’antica tradizione culturale (quella che contrappone appunto otium e ne-gotium) e il clima fortemente ideologizzato degli anni Settanta (che tendeva a considerare il lavoro, soprattutto quello di fabbrica, come pura alienazione) avrebbero invece indotto a fare. Per Levi, quando si ha la percezione che il lavoro è utile e ha un senso, il lavoro stesso diventa uno spazio di fioritura dell’umano; questo vale addirittura nel brutale contesto del Lager (Levi, 1958), che pure è il luogo della forma più radicale di de-umanizzazione.
La formazione si nutre di ascolto. Il personaggio Faussone racconta la sua storia secondo un suo stile particolare, nel registro tipico del parlato, che spesso lo porta a perdere il filo; il suo modo di raccontare è caratterizzato dalla concretezza che all’enunciato teorico fa sempre seguire un esempio pratico. Il Narratore riesce a sintonizzarsi col suo interlocutore, a distinguerne la voce singolare e a creare quel clima di fiducia che apre al reciproco ascolto. L’ascolto dell’altro richiede anche vigilanza e ascolto di sé. Per questo il Narratore-intervistatore inserisce spesso delle note riflessive in cui dà conto di accorgersi delle sue intromissioni e dell’effetto che esse fanno sul parlante. In realtà, è lo stesso dispositivo narrativo di sdoppiarsi, distinguendo un “io” narrante e un “io” narrato, che rivela quel distanziamento da sé che è necessario all’autoriflessione e consente di guardare da un punto di vista esterno tanto all’altro che a sé. Per Levi, ascoltare l’altro significa ascoltare anche se stessi, astenersi dal giudizio, non interrompere, rispettare, alimentare interesse per le parole dell’altro, immergersi nel suo mondo, chiedere quando non si capisce qualcosa. C’è un’arte dell’ascoltare, che è utile allo scrittore e – possiamo aggiungere noi – è essenziale anche al formatore. Solo un ascolto attento genera vera narrazione e la qualità di questo ascolto, così come la chiarezza dell’espressione nello scrivere e nel parlare, è in Levi direttamente collegata a una postura etica di responsabilità nei confronti dell’altro.
La formazione può essere vista come un modo per riconoscere e dare valore alle “malizie del mestiere”, ai trucchi e agli stratagemmi che si imparano – e non si finisce mai di imparare – con l’esperienza. Proprio l’esperienza, fatta di dimestichezza, di incontri e scontri con i materiali e le cose, affina infatti la conoscenza e rende i soggetti competenti e inventivi. La conoscenza che porta impresso il segno dell’esperienza è una conoscenza tacita, corporea, sensibile, che passa prevalentemente attraverso le mani. Di questa forma di conoscenza, che non disgiunge intelletto e manualità, che arriva al concetto proprio attraverso il lavoro delle mani e di tutto il corpo e si costruisce lentamente, a contatto con situazioni concrete sempre uniche e sfidanti, Faussone è un autentico campione. È una conoscenza che non si lascia rinchiudere in definizioni e leggi causali, ma si offre all’evidenza solo nel racconto. Dar voce al mestiere significa dar voce anche alla consapevolezza meta-riflessiva propria del lavoratore competente, che non solo sa fare, ma sa anche riflettere su ciò che sa e sul suo stesso percorso di apprendimento, su come ha imparato a fare quello che sa fare e sull’effetto che tale apprendimento ha in lui generato. Imparare dall’esperienza significa acquisire una sicurezza che fa camminare nella vita, ma anche sviluppare un senso di prudenza, una forma di saggezza che si apprende anche – o forse solo – attraverso “i guai”. Sono proprio gli errori, i “collaudi negativi” e, in genere, i feedback che provengono dalla realtà rispetto a ciò che si crea con le proprie mani ciò che fa imparare non solo il mestiere ma anche come stare al mondo.
Le malizie, la pazienza di imparare dagli errori e tutti gli altri saperi connessi con l’esperienza, come dicevamo, sono proprio ciò di cui la formazione è chiamata a facilitare una messa in parola. L’idea stessa di formazione che si può ricavare da Primo Levi coincide con l’accompagnamento a rendere dicibile un sapere che altrimenti sarebbe condannato a restare inespresso e inerte. La narrazione e il pensiero che nasce da essa resistono alla tentazione di semplificare la realtà e tengono insieme in modo complesso anche elementi apparentemente tra loro distanti. Proprio le difficoltà e le difformità con cui la pratica mette a confronto sono le situazioni ideali che fanno pensare e rendono piacevole il raccontare. La narrazione è un fondamentale atto conoscitivo, consente di accorgersi retrospettivamente, attraverso la riflessione, di come sono andate le cose e contribuisce così a una comprensione più profonda della vita, ma anche all’apertura prospettica di ulteriori possibilità di pensare e di agire.
Nel gesto a cui Primo Levi dà efficace rappresentazione letteraria sta molto del lavoro del formatore che consiste nel raccogliere le storie che vengono donate e nel restituirle, generando così un sapere inedito sull’esperienza, ma anche nell’intrecciare le storie proprie con quelle degli altri, costruendo così una comunità di racconto. Le storie di Faussone – o dei tanti Faussone che Levi ha incontrato nella sua vita – sono storie regalate, germogliate da atti di fiducia che hanno reso possibile la comunicazione reciproca. L’etnografo-scrittore osserva, raccoglie i racconti, li trasforma in testi ben levigati e restituisce al parlante – e, attraverso la scrittura, non solo al parlante ma a ciascun futuro lettore – un racconto di racconti, e così facendo genera nuova conoscenza. Anche la formazione può essere vista in modo analogo, come opera di tessitura, che porta a cucire insieme storie e parole ricevute e a riconsegnare testi/tessuti che, proprio in questa tessitura, guadagnano un valore aggiunto di significato, come se diventassero i tasselli che vanno a comporre un unico mosaico.
La narrazione di Primo Levi, soprattutto se messa a confronto con i vissuti di chi opera nel mondo della formazione e delle organizzazioni, può ancora oggi ispirare e aprire possibilità nuove di pensare e di configurare l’agire formativo. Nel modus operandi del Levi Narratore-intervistatore de La chiave a stella, ma anche in quello del Levi scrittore, è possibile rintracciare alcuni spunti rilevanti per chi opera nel campo della formazione. L’esperienza è materia prima sia per lo scrittore che per il formatore. Forse non è un caso che proprio quella letteratura che si alimenta di un interesse autentico per il reale, e che per questo esprime anche una sensibilità etnografica, riesca a dar conto in modo così ricco e profondo anche del nesso che si dà tra agire lavorativo e costruzione di significati, che è poi il terreno privilegiato su cui sono chiamate a muoversi anche la formazione e la ricerca sulle pratiche formative.

copertina Peretti.jpg

Tra i tanti cambiamenti che hanno interessato le epistemologie contemporanee, una rilevanza particolare assume la duplice svolta che, nella seconda metà del secolo scorso, ha investito, trasformandole radicalmente, le scienze sociali: la “svolta linguistica”, da un lato, e la “svolta narrativa” dall’altro. La prima muove dall’elaborazione di Wittgenstein (successivamente ripresa ed autorevolmente sviluppata da Rorty) e mette in evidenza la centralità del linguaggio nell’esperienza umana. La seconda, riconducibile ai contributi di Lyotard e di Bruner, mette in dubbio il primato della scienza sulla narrazione rivalutando il sapere narrativo (che secondo Lyotard è a fondamento dello stesso sapere scientifico in quanto quest’ultimo, per essere espresso e reso pubblico, deve necessariamente far ricorso al racconto). Il linguaggio, in quanto fondamento di ogni tipo di agire e persino del pensiero, è strettamente legato alla narrazione la quale rappresenta il tratto essenziale e costitutivo della dinamica esperienziale dei soggetti e dei gruppi. Come scrive Sartre in una memorabile pagina de La nausea, “un uomo è sempre un narratore di storie, vive circondato delle sue storie e delle storie altrui, tutto quello che gli capita lo vede attraverso di esse, e cerca di vivere la sua vita come se la raccontasse” (J. P. Sartre, La nausea, La biblioteca di Repubblica, Roma, 2003, pp. 53-54). Le tendenze che ho appena evocato hanno contribuito notevolmente a generare, nel campo delle scienze sociali, un clima più favorevole che in passato nei confronti dei modi di produzione di conoscenza fondati sugli approcci qualitativi e soprattutto hanno restituito legittimità a modalità di rappresentare i fenomeni mediante descrizioni dense e basate su stilizzazioni tipiche della narrazione.
La narrazione, non solo rende possibile la costruzione e la condivisione del significato, ma dà ordine logico e temporale ai flussi caotici del pensiero e dell’esperienza.
Da questo punto di vista la scrittura (e la scrittura narrativa in particolare) diventa cruciale per descrivere efficacemente i fenomeni oggetto d’interesse dei ricercatori (sociologi, antropologi e psicologi), ma anche dei formatori e dei consulenti che operano nell’ambito delle organizzazioni.
E’ un modo di rappresentare la realtà osservata che riesce ad integrare (e spesso sostituire) modalità argomentative basate su stilizzazioni tipiche delle scienze sperimentali. E spesso il “modello”, il punto di riferimento di guardare e raccontare il mondo è costituito dalla letteratura e in particolare dal romanzo. L’uso delle narrative per descrivere la realtà rende possibili letture dei fenomeni tanto penetranti quanto puntuali – e talora molto più potenti di quanto non possano essere quelle proposte da analisi rigorose e fondate su basi tecniche di una certa affidabilità.
La pagina letteraria rende possibile la comprensione profonda dei fenomeni nella misura in cui riesce a concentrare nel testo (e a trasmettere al lettore) descrizione, narrazione e, al tempo stesso, riflessione ed emozione: è la combinazione di tali “ingredienti” che rende possibile la partecipazione del lettore alla costruzione del significato e all’interpretazione del testo.
C’è una grande varietà di testi letterari che costituiscono casi esemplari di descrizione e interpretazione di fenomeni particolari (si pensi, ad esempio, alle dinamiche di potere, al funzionamento delle istituzioni o delle organizzazioni, al mondo del lavoro) ai quali le scienze sociali dedicano risorse ed energie intellettuali cospicue senza ottenere risultati comparabili con quelli derivanti dalla lettura delle narrative: basterà citare a questo proposito le descrizioni dei mercati generali di Parigi proposte da Il ventre di Parigi di Zola, la lettura della burocrazia derivante da Gli impiegati di Balzac o da Il castello di Kafka, la folgorante analisi della fabbrica fordista contenuta nel Viaggio al termine della notte di Céline.
Tra i tanti temi su cui il contributo della letteratura è particolarmente fecondo, quello del lavoro trova nella riflessione proposta da Alberto Peretti (La sindrome di Starbuck e altre storie. Il lavoro attraverso la letteratura, Guerini e Associati, Milano, 2011) un contributo di grande interesse.
La scelta di campo dell’autore nel proporre la sua analisi del lavoro attraverso la letteratura è molto netta: il libro, scrive Peretti nella Premessa, “muove dall’idea che il lavoro sia prima di ogni altra considerazione, un’espressione dell’umano esistere e non un semplice strumento per guadagnarsi da vivere. Sono convinto che il lavoro, per diventare autenticamente produttivo, vada liberato dai paraocchi che lo hanno aggiogato agli apparati di produzione e alle loro logiche, reso docile bestia da soma intorpidita dalle parole dell’efficientismo e del profitto.  Penso che occorra guarire dall’accecamento che separa la produttività materiale dalla produttività esistenziale e spirituale.  Insomma, che un grande processo politico e culturale di civile convivenza sia possibile a partire dal lavoro. Anche da quello malato, offeso, banalizzato. Che chiede gli sia offerta una possibilità di riscatto” (p. 17).
Muovendo da un simile punto di vista, il volume offre al lettore un panorama molto ampio del modo in cui nel tempo la letteratura – dall’Antico testamento all’Iliade, dalla grande produzione rappresentata dal romanzo europeo dell’800 alla narrativa contemporanea – ha affrontato e trattato il tema del lavoro.
Il volume è strutturato in modo da proporre una serie di suggestioni e “concetti” legati al tema del lavoro (tra gli altri: identità, bellezza, creatività, onore, tecnica, ecc.); ciascuno di essi è affrontato e sviluppato attraverso la presentazione e l'analisi del personaggio protagonista di un romanzo o, più in generale, di un'opera letteraria in cui li lavoro ha una rilevanza particolare. Ne deriva, per ogni capitolo-tema-protagonista, una lettura che ci offre interpretazioni dense e ricche di stimoli che aiutano a comprendere la potenza descrittiva dei testi letterari così come la loro capacità di dar conto in maniera compiuta del fenomeno oggetto di analisi. Al punto da poter constatare come una pagina letteraria risulti spesso più rilevante ed efficace nella descrizione di un fenomeno sociale di quanto non riesca ad esserlo un’analisi scientifica puntuale e molto rigorosa.
Lasciando ai lettori il piacere di entrare direttamente in contatto con la ricca proposta di Peretti (essa ha anche una certa utilità didattica che si esprime attraverso una serie di rinvii tematici ai quali è riservato un approfondimento specifico al termine di ogni capitolo), mi limito qui a segnalare, a titolo puramente esemplificativo, il capitolo dedicato al protagonista de La chiave a stella di Primo Levi (il romanzo di Levi è recensito in questo stesso numero di “Formazione & Cambiamento” da Giuseppe Tacconi, autore tra l'altro, di un saggio di notevole interesse dedicato appunto al libro di Levi e al suo contributo all'analisi del lavoro: cfr.: G. Tacconi, Il mestiere del formatore secondo Primo Levi, in “Rassegna Cnos”, 32(2), 2016).

Dalla lettura di Levi proposta da Peretti, emerge non solo una figura vitalissima di lavoratore intelligente e creativo (il montatore di tralicci Faussone) che svolge la sua attività con lo spirito di chi usa la sua intelligenza per “dar vita al mondo, per trasformarlo e portarlo a maggior compimento” (p. 45), ma anche una visione del lavoro come processo in cui l’attività umana è sottratta alla logica reificante dell’economicismo imperante per essere restituita alla sua essenza di opera in cui si riversa la creatività e l’atto vivificante del soggetto in una dinamica che mentre da un lato esalta la dignità di chi lo compie, dall’altro vitalizza (“rende vivente” dice Peretti) il prodotto realizzato. Come si vede da questo cenno all’interpretazione leviana di Peretti, il lavoro incarnato dalla figura di Faussone è davvero un processo di emancipazione soggettiva dai vincoli insopportabili della riduzione meccanica e impersonale del lavoro mercificato.

Abbonati gratuitamente alla rivista

* dato obbligatorio