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N° 13 / 2019 - L'idea Europa al tempo dei nazionalismi in riemersione

 

 
 

Nel 1934 chiesero a Thomas Mann di scrivere un articolo in occasione della morte di un uomo che per lui era sempre stato un padre: Sammi Fischer, il suo editore berlinese, l'ebreo ungherese che aveva contribuito in maniera determinante a fare di lui un autore di fama mondiale. Mann ricordava questo scambio di battute, avvenuto qualche mese prima, nel corso del suo ultimo incontro con l'anziano amico, ormai gravemente ammalato. Fischer fece un commento su una persona che conoscevano entrambi:
«Non è europeo» disse scuotendo la testa.
«Non è europeo, signor Fisher? E perché?»
«Non capisce niente delle grandi idee umane».
(Rob Riemen, “La cultura come invito”, in George Steiner,
Una certa idea di Europa, Garzanti, Milano, 2006, p.18)

Con lo speciale dedicato ad una riflessione sull'”Idea Europa al tempo dei nazionalismi in riemersione”, il gruppo redazionale di “Formazione & cambiamento” si propone di dare un contributo al dibattito attuale – che certamente si intensificherà nelle prossime settimane con l’avvicinarsi delle elezioni per il rinnovamento del parlamento europeo – sul senso da attribuire all’appartenenza all’Europa.
Il nostro contributo muove dalla consapevolezza della necessità di reagire alle spinte centrifughe che attraversano oggi l’intero continente. Per la prima volta da quando, nel 1957, per impulso di Adenauer, Schuman, De Gasperi, Monnet ed altri, con il Trattato di Roma si è dato vita ad un processo di enorme portata per i cittadini del vecchio continente, in Europa si vanno manifestando e intensificando forti pressioni, spesso incoraggiate da potenze extra-europee, che si propongono di scardinare il processo unitario e, in definitiva, di infrangere un disegno di grande respiro storico (si pensi al referendum inglese sulla cosiddetta Brexit o ai focolai di nazionalismo riemergente in vari Paesi).
In una simile congiuntura che, proprio per la sfida che siamo tutti chiamati a fronteggiare, non esitiamo a considerare di portata storica, abbiamo fatto la scelta di orientare il nostro contributo evitando di proporre articoli e riflessioni specialistiche (di tipo politico, giuridico, economico o sociologico) sul tema oggetto del nostro “speciale” ben sapendo che di tali contributi il dibattito attuale è (e sarà nelle prossime settimane) ricchissimo. Abbiamo pensato invece di dare la parola ai giovani, e in particolare a quanti dell’Europa hanno fatto una concreta esperienza di vita, di studio o di lavoro in vari paesi dell'Unione.
L’idea che ci ha mosso è quella di illustrare e descrivere mediante testimonianze autobiografiche di un piccolo numero di giovani individuati sulla base della loro disponibilità a raccontarsi (e dunque senza pretese di completezza o di rappresentatività), il “sentimento europeo” radicato tra larghe fasce di cittadini e in particolare tra le nuove generazioni.
E’ un sentimento basato su un’idea di appartenenza, divenuta ormai quasi fisiologica, all’Europa che è considerata come luogo dell'esercizio di un diritto di cittadinanza largo e privo di chiusure nazionalistiche, un diritto che si esprime attraverso libertà di circolazione, di studio, di sviluppo personale e professionale, di impegno civile, di lavoro.
Gli oltre 70 anni di pace solida (quasi un miracolo in un continente percorso da guerre feroci e distruttive) e la costruzione (graduale, lenta, tortuosa e “zigzagante” quanto si voglia, ma decisa e mai messa seriamente in discussione) di un soggetto istituzionale orientato all'unità, rappresentano un fatto storico di assoluto valore e comunque prezioso per tutti.
Al di là delle non rare tensioni tra i singoli stati (la cui composizione risulta sempre più riconducibile – e quasi sempre ricondotta – entro lo spazio delle istituzioni sovranazionali); e al di là del riemergere di tanto in tanto di egoismi nazionalistici e relative pressioni su temi particolari, il processo unitario sembra talmente radicato nelle culture, nei comportamenti e nelle pratiche di vita degli europei, specie di quelli più giovani, da poter essere considerato solido e probabilmente irriducibile.
Nonostante i numerosi problemi politici ed economici e nonostante i rischi causati dai riemergenti nazionalismi dell’attuale fase del processo di costruzione dell’Unione, la tensione “cosmopolitica” legata al sentirsi cittadini europei (conseguenza immediata della scomparsa dei vecchi confini) si manifesta e si esprime concretamente come aumento delle libertà individuali, come moltiplicazione delle opportunità, intensificazione degli intrecci relazionali, di dilatazione dello spazio vitale, fisico e culturale per i singoli e per i gruppi.
Lo status di cittadino europeo è diventato, nell’autopercezione di molti, parte integrante, quasi data per scontata, del modo di essere dei giovani di tutto il continente.

Questo ci raccontano le 12 storie di vita delle ragazze e dei ragazzi che hanno aderito al nostro invito (e che immaginiamo simili a quelle che potrebbero raccontare le centinaia di migliaia di loro coetanei di vari Paesi del continente che hanno alle spalle storie analoghe).
Leggendo i loro testi – problematici certo, ma sempre decisamente orientati a rivendicare il valore culturale politico e soprattutto umano dell’essere cittadini europei – si può cogliere, nella varietà delle espressioni narrative di ciascuna microstoria, il racconto di esperienze dense dei molti valori che hanno arricchito sul piano personale e professionale chi ne è stato protagonista. Ma si può cogliere anche – e questo merita una sottolineatura speciale – come l’idea di Europa sia talmente radicata nel loro modo di percepirsi come gli europei del futuro, da poter essere considerata solidissima e si spera irreversibile.

Mi chiamo Letizia, ho trent’anni (purtroppo ancora per pochissimo) e sono nata e cresciuta a Roma. Dopo gli studi classici e anche un po’ omologato-borghesi, mi sono laureata in economia a Tor Vergata. Per motivi diversi ho sempre sentito la necessità di andare a studiare fuori dall’Italia: un po’ perché a differenza di molti amici non ho fatto l’Erasmus ma soprattutto perché, per curiosità e anche ambizione, avevo voglia di sperimentare diversi metodi di studio e scoprire nuovi obiettivi o percorsi.
Per questo sono partita per il Regno Unito nel 2010 e, tra una cosa e l’altra, non sono più tornata, se non per un anno. Detta così potrebbe sembrare che questo Paese abbia rapito il mio cuore e mi piacerebbe poterlo dire – o forse no – ma non è così. Sono tornata in Italia nel 2011 per un dottorato a Roma ma poi quella stessa spinta, non completamente razionale, al cercare di nuovo e di più mi ha riportato all’estero l’anno dopo (tra l’altro nello stesso posto). Il dottorato si sa – anche se forse non abbastanza – è una cosa lunga, soprattutto quando non trovi subito la tua strada o la trovi ma poi la perdi. Fatto sta che tra dottorato, amore e lavoro sono ormai quasi 7 anni che sono qui.

(Soprav)ivere all’estero non è facile. In un paese come l’Inghilterra poi per me non lo è stato per niente. Non ho mai vissuto a Londra, l'immensa città-stato che poco ha a che vedere con il resto del Paese. Ci sono più di 250mila italiani ed in generale moltissimi stranieri. L’integrazione è più facile e, quando non lo è, è meno evidente. In ogni caso, io ho vissuto a Coventry, Leamington Spa (che ha meno abitanti di Monte Sacro a Roma) e Bristol, in ordine cronologico e forse un po’ anche di vivibilità (Bristol ovviamente è la migliore, tra le altre due è una brutta lotta).
Nei miei primi anni qui ho avuto molte difficoltà nell’accettare la maggior parte delle diversità culturali e ambientali tra l’Italia e l’Inghilterra: l’assenza del culto del cibo, il clima terribile, l’ostinata assenza di flessibilità, la mancanza di un passato artistico (a parte quello musicale semi-contemporaneo), la guida dal lato sbagliato, la repressione emotiva sfogata nell’alcool. Tutte queste cose nel loro complesso hanno sempre creato un senso di alienazione e solitudine culturale, che per qualcuno come me, che prende energie quasi interamente dalle interazioni con l’esterno, è stato a tratti spaventoso. Questo spavento è però rimasto abbastanza contenuto fino a quando sono rimasta nel contesto universitario che è estremamente internazionale, aperto e comunque pieno di italiani e quindi un po’ più familiare.
Quando però ho cominciato a lavorare a Bristol ho trovato un ambiente di soli inglesi (no non è vero, anche scozzesi). Ciò ha senza dubbio ingigantito questo senso di alienazione ma ha anche stimolato la consapevolezza di dover necessariamente provare a combatterlo, focalizzandomi sulle cose che rendono più facile la sopravvivenza all’estero o, in particolare, in questo Paese. In ordine sparso: imparare a prendersi cura degli altri anche a distanza, avere la possibilità di gestirsi in autonomia, sia finanziariamente che a livello pratico, sentirsi parte di una generazione che è il motore principale, e non lo scarto, della società, avere la consapevolezza che la mente si stia aprendo ogni giorno un po’ di più, lontano dalla propria comfort zone, scoprire che alla fine l’accento british non ce l’ha quasi nessuno e va bene anche così, avere la certezza che il pregiudizio, se esiste, è socialmente inaccettabile e che non importa quanti anni hai, di che sesso sei, da dove vieni o quali sono le tue preferenze sessuali. Davvero non importa. E questa è un’arma a doppio taglio perché a volte questo sistema, così giusto ma così freddo, così bilanciato ma anche così indifferente, mi fa sentire vittima di un inganno in cui si fa del bene non perché lo si voglia ma “solo” perché così si fa. E allora ci si può chiedere cosa succede se si dice alla gente che si può anche non fare così (e la risposta a volte la si trova durante il weekend nei pubs con la moquette impregnata di birra).

Quello che mi manca dell’Italia è il senso di familiarità. Di guardarmi intorno e sapere alla perfezione cosa sta succedendo, nel bene e nel male, di sentire discorsi in sottofondo e poterli intercettare anche senza prestare attenzione perché sono fatti nella mia lingua madre (purché non siano in qualche dialetto), di mangiare bene senza spendere metà stipendio. Mi mancano i motorini, mi mancano le persone che si prendono una confidenza mai autorizzata, mi manca a volte non passare inosservata, mi manca poter parlare del più e del meno senza annoiarmi a morte, mi manca capire quando sto antipatica a qualcuno e allo stesso avere io stessa motivi per non sopportare qualcuno.

Penso sia impossibile non sentire la mancanza delle proprie radici ma vorrei potermi sentire un po’ a casa anche qui, tra di loro. Però non sono mai riuscita davvero ad avvicinarmi all’identità di questo Paese. Quando sono venuta qui immaginavo di allontanarmi un po’ dall’Europa ma non così tanto: ho sempre respirato poca cultura, poca autenticità, poca tradizione e poca Europa e poca identità. So che molti miei amici o connazionali la vedono diversamente, ma ho sempre vissuto il risultato di Brexit con molta indifferenza, forse anche perchè non ho mai visto il mio futuro qui. Un po’ come se appena terminata una cena a casa tua, i più noiosi fanno per andarsene; un po’ ti chiedi se sono stati male, ma poi ti rendi conto che forse sono solo molto diversi da te.

Per quelli della mia generazione non esiste un pre-Europa, ma esiste un pre-Euro. E io non ho mai percepito che cosa volesse dire essere europeo o meno fino a quando è arrivato l’euro, durante le scuola medie. Ancora mi viene da sorridere per l’eccitamento e mistero che si erano creati intorno a questo evento per noi pre-adolescenti completamente ignari della politica e tantomeno dell’economia. Soprattutto, ho cominciato a capire cosa volesse dire essere europeo quando sono uscita per la prima volta da sola dal continente nell’estate del 2005 per andare ad una summer school negli Stati Uniti. Eravamo una cinquantina di 15enni da tutto il mondo. Io ero l’unica italiana e ricordo benissimo la sensazione di similarità che ho sentito con Louise, una ragazza danese. Anche se rischio di risultare retorica, ho proprio percepito il significato di comunità, nel senso di avere qualcosa in comune. Avevo ovviamente cose in comune anche con gli americani, i messicani, gli israeliani, i palestinesi ma dal punto di vista più astrattamente culturale mi sono ritrovata molto piu’ vicina a lei, nonostante fosse danese, nonostante quasi vivesse da sola ed io a Roma avessi il coprifuoco a mezzanotte o al massimo l’una, e nonostante avesse gia’ fatto il triplo delle mie esperienze. Sentivo che le nostre lenti culturali erano, in qualche modo, simili.

Ho cominciato a guardare all’Europa in senso critico e politico solo più avanti, durante l’Università. Ricordo ancora quanto ci sono rimasta male quando ho scoperto dal libro di Economia Monetaria che secondo alcuni modelli l’Europa non è un’area valutaria ottimale. Ricordo anche quanto ho considerato ingiuste o almeno poco lungimiranti tante decisioni di austerity dopo la crisi finanziaria. Nonostante abbia accumulato sempre più strumenti per criticare l’Europa, ho sempre dato per scontato di farne parte e vorrei poter continuare a farlo. Questo non vuol dire legitimmare qualsiasi cosa venga proposta o decisa dall’Unione Europea ma vuol dire riconoscerne e rispettarne le radici, pur criticandola e cambiandola. L’Europa è fatta anche di contraddizioni, strani giochi di potere, inefficienze politiche ed economiche ma ha il potenziale per essere uno strumento di pace e rispetto reciproco e un luogo dove forse si può preservare quella familiarità e quel senso di appartenza che tanto mi sono mancati in tutti questi anni.

Sono arrivata a Lisbona perché mi sono innamorata del portoghese.
Per un lungo periodo ho ricondotto questa attrazione verso la lingua di Pessoa a un viaggio in Brasile che ho fatto a vent’anni con la mia migliore amica, durante gli anni dell’università. Poi ho capito che quella è stata soltanto la seconda tappa di un viaggio linguistico cominciato almeno dieci anni prima, a Villa Aldobrandini di Frascati, dove i miei genitori mi hanno portato a sentire un concerto dei Madredeus.
Quella musica struggente, accorata, cantata in una lingua incomprensibile e misteriosa ha lavorato dentro di me per anni, fino a quando, da grande, ho capito che si trattava del modo di parlare di un popolo che occupa una lingua stretta di terra schiacciata tra la Spagna e l’Oceano Atlantico. Su queste note romantiche e spinta da un desiderio di evasione tipico dei vent’anni, ho fatto richiesta per l’Erasmus a Lisbona, della durata di un anno, e l’ho vinto. Studiavo antropologia alla Sapienza di Roma, abitavo con degli amici in una casa allegra e piena di gente a Piazza Bologna, riuscivo a guadagnare abbastanza bene con le ripetizioni  e avevo un fidanzato a Milano. Ero contenta di come andavano le cose, ma volevo partire, trasferirmi da qualche parte, immergermi in una cultura aliena e vedere che cosa si provava. Non c’era una meta che desiderassi più del Portogallo: se ne sentiva parlare ancora poco, conoscevo la lingua, perché nel frattempo l’avevo studiata, e amavo il fado e Pessoa. E poi il mio coinquilino mi aveva detto che Lisbona era la città europea più bella che avesse mai visto (poi ho scoperto che però era anche l’unica!). Mi sembravano degli ottimi motivi per volerci vivere.
Così ho preso qualche libro di antropologia e a settembre del 2010 sono arrivata a Lisbona insieme al mio paziente fidanzato dell’epoca, che aveva deciso di accompagnarmi in questa nuova avventura, prima di sparire per sempre dalla mia vita.

Lisbona era allegra, gialla e piena di sole: molti di noi l’hanno ribattezzata la città della luce, alcuni mesi dopo.
Ho trovato casa nel quartiere più incasinato della città, ho cominciato a frequentare l’università, ho stretto le prime amicizie (che poi sono rimaste anche le più solide) e ho trovato un nuovo fidanzato. Nel giro di un mese la mia piccola vita di ventiquattrenne è cambiata del tutto, ero felice di vivere fuori, di conoscere ogni giorno persone e strade nuove, di innamorarmi della città più malinconica d’Europa e di sentire che trasferirsi all’estero non era poi così male… Ricordo un anno pieno di euforia, scoperte quotidiane, nuovi legami, curiosità e salti nel vuoto: un anno indimenticabile. Ho dato tutti gli esami previsti, ho ballato su ritmi nuovi, ho mangiato e bevuto alcune delle cose più buone della mia vita e soprattutto ho ascoltato tantissima musica dal vivo, perché la sera Lisbona si trasforma in un’isola tropicale, in cui si suona fino al mattino.
Allo scadere del periodo di Erasmus, così, ho deciso di rimanere a Lisbona, mentre tutti gli amici (o quasi) tornavano a casa per finire l’università. Lisbona e io avevamo ancora molto da dirci, tanto che ho avuto un indirizzo portoghese per altri due anni. Ho continuato a studiare a distanza, tornando a Roma soltanto per sostenere gli esami all’università. Mentre ero a Lisbona lavoricchiavo, ma soprattutto camminavo, prendevo treni, scoprivo quel piccolo grande Paese che si affaccia sull’oceano e mi entusiasmavo.

Studiare i luoghi, la storia e la cultura portoghese ha cambiato il mio sguardo inesorabilmente, lasciandomi in eredità la passione per i bar gestiti da persone anziane, per le mattonelle colorate (gli azulejos), per la musica di inizio 900, per i bar al porto che friggono il pesce anche di notte, per i tram d’epoca, per i castelli dei Mori, per il salmone e l’interesse spasmodico per le dittature (quando ero lì ho svolto una ricerca antropologica su Salazar che ho presentato in un’università turca).

Di casa mi mancavano soltanto i miei e gli amici e sono tornata a Roma per fare un altro lungo viaggio che mi ha portata in India, dove ho svolto la mia ricerca di antropologia sul campo. Dopo l’India ho lasciato definitivamente il mio indirizzo portoghese e mi sono ributtata nella vita romana: avevo molto da recuperare e soprattutto dovevo mettere radici da qualche parte. Farlo a casa all’inizio mi è sembrato un piano folle e un po’ forzato dagli eventi, ma sicuramente necessario e oggi sono contenta di averlo fatto, anche perché bisogna imparare a restare, secondo me.

Quando sono tornata in Italia, mi è capitato di leggere “Il mondo di ieri” di Zweig, un libro che, tra le tante cose, racconta la creazione delle frontiere europee, l’invenzione dei passaporti, la divisione di quello che un tempo era stato unito, la decadenza di una comunità artistica transfrontaliera che vedeva Milano, Vienna, Parigi e Torino nella stessa mappa geografica. Ricordo di aver pensato all’Europa che avevo conosciuto nei baretti di Lisbona e di Porto, così naturalmente spalancata all’altro, socievole, intrigante, collaborativa, allegra. Ricordo di aver pensato alle centinaia di persone che avevo incrociato in tre anni, a tutte le lingue che avevo sentito parlare, ai dialetti che avevo imparato a capire, alle confidenze che avevo scambiato, ai libri che avevo letto, ai cibi che avevo assaggiato e alle canzoni che avevo imparato a memoria.
L’Europa dei miei vent’anni era pacifica, entusiasta e un po’ sprovveduta, come eravamo noi, buttati in cento sulle rive del Tago a sentire musica e a sentirci leggeri.

 

Mi chiamo Cristina Ceccarelli, ho 31 anni e sono nata a Roma, dove ho vissuto la maggior parte della mia vita.
Mi sono diplomata al liceo classico Augusto di Roma nel 2006, per poi continuare gli studi in Scienze politiche presso l'Università "La Sapienza" (sempre a Roma), dove mi sono laureata nel 2011. Aggiungo che attualmente la mia sede di lavoro è… Roma!
Fino a qui la mia storia sembrerebbe molto ancorata alla mia città natale e all’Italia, ma scoprirete a breve che la realtà è ben diversa.

È stata sufficiente un’esperienza di studio all’estero presso la Copenhagen Business School per cambiare completamente la prospettiva della mia vita.
Quando sono partita nel gennaio del 2011, ho scelto Copenhagen come destinazione del mio Erasmus principalmente perché volevo praticare l’inglese e la Danimarca era uno di quei paesi disponibili, dove la popolazione si può considerare quasi bilingue. Ricordo perfettamente una delle prime lezioni introduttive che l’Università aveva organizzato per accogliere gli studenti stranieri, in cui si sottolineava di dover essere pronti ad affrontare uno shock culturale. Dopo una prima fase di entusiasmo, ci dissero che era molto frequente soffrire di un sentimento di distanza e di spaesamento, e di dover resistere per trovare la nostra dimensione.
In quel momento non capivo bene cosa volesse significare questo “shock culturale”, e avevo percepito quell’avvertimento come troppo allarmista.
Poco tempo dopo però, iniziai a realizzare a cosa facessero riferimento.
Dopo circa un mese dal mio arrivo iniziai a sperimentare come alcuni stereotipi nazionali a volte non sono troppo lontani dalla realtà. Tra le varie persone che stavo conoscendo, riscontravo delle affinità quasi naturali con amici spagnoli, portoghesi e italiani, mentre era abbastanza difficile entrare in confidenza con le persone locali o provenienti dai paesi scandinavi. Ad esempio, vivevo con una ragazza finlandese, Reetta, che inizialmente non accettava nemmeno che le offrissi un caffè o che passava la maggior parte del suo tempo chiusa nella sua stanza. Un approccio che era molto diverso dal tipo di relazioni interpersonali a cui ero abituata.
Ancora più scioccante era partecipare a cene in cui ognuno doveva portarsi le proprie bevande e non condividerle come invece siamo soliti in Italia e in tutti i paesi mediterranei!
Erano tante le differenze che stavo riscontrando, non ultimo il clima nordico effettivamente impattante sulla vita quotidiana, soprattutto perché al di là del freddo, sono tante le giornate in cui il cielo è grigio e non si intravede neppure un barlume di sole.

Nonostante questo però, sono stata felice di ricredermi e di realizzare come gli stereotipi dimostrino di avere i propri limiti e di essere solo una prima fase di passaggio nella conoscenza delle persone. Al termine del mio soggiorno, la mia coinquilina finlandese mi invitava ogni giorno a prendere il caffè insieme e mostrava sempre più affetto verso di me. Ovviamente prima di salutarci non ho potuto non regalarle una moca italiana. Ed io che ero partita con l’obiettivo di imparare bene l’inglese, sono tornata in Italia parlando il danese e con una nuova passione che avrebbe impattato di molto sulle mie scelte future.

In Danimarca, oltre che sostenere esami per completare la magistrale, stavo anche scrivendo la tesi sul ruolo del Parlamento danese nel processo decisionale europeo. Proprio nelle giornate chiuse nella bellissima libreria nazionale che chiamano “Black Diamond”, avevo iniziato ad incuriosirmi sul progetto europeo, su cosa significasse realmente, su quali fossero le opportunità insite nell’Unione europea.
Vivere in un paese con una cultura così diversa, coltivare amicizie con persone provenienti da tutta Europa, aveva iniziato a creare in me un interesse sempre più forte per una dimensione che fino a quel momento non avevo troppo preso in considerazione. Proprio in quei mesi mi capitò di vedere un annuncio su Facebook in cui si parlava delle carriere europee e lessi che era possibile sostenere dei concorsi per lavorare in Unione europea.
Completamente ignara di cosa volesse realmente significare, ma incuriosita da questa prospettiva, decisi di provare il concorso europeo EPSO. È un concorso che è possibile sostenere in qualsiasi paese europeo. Mi iscrissi, presi un treno per arrivare al centro EPSO più vicino e feci l’esame.
Ad oggi posso dire che fortunatamente non superai quel concorso, ma fu per me un primo momento in cui iniziai a capire che le mie aspirazioni lavorative non erano legate ad una dimensione solamente nazionale.

Tornata a Roma, nel dicembre dello stesso anno mi laureai e a quel punto avevo abbastanza chiaro in mente che avrei voluto lavorare in un settore che mi permettesse di avere contatti in tutta Europa. Essendomi laureata in Scienze politiche e avendo delle ambizioni legate anche al mondo istituzionale, iniziai a contattare tutte quelle istituzioni che avessero degli uffici dedicati agli affari europei.
La mia ricerca, basata essenzialmente su invio di CV e lettera di motivazioni, finì per essere accolta dalla Rappresentanza in Italia della Commissione Europea.
Una particolare coincidenza volle che la persona che mi reclutò aveva studiato nella mia stessa università a Copenhagen. Da quel momento ho lavorato presso il settore politico della Rappresentanza della Commissione europea per quasi quattro anni, fino al dicembre 2015.
Anche la Rappresentanza presentava quel micro-cosmo multiculturale che avevo vissuto durante la mia esperienza Erasmus: colleghi da tutta Europa, ognuno con il proprio portato culturale e abitudini diverse. Ovviamente non poteva mancare anche un collega danese, Christian.

Da ognuna di queste persone ho appreso moltissimo e la lista diventerebbe troppo lunga se dovessi nominarli tutti, ma posso affermare che grazie ad ognuno di loro ho avuto modo di apprendere gli aspetti più tecnici del lavoro, ma anche di sviluppare ulteriormente una sensibilità interculturale necessaria per rapportarsi con persone di culture diverse.
La mia esperienza in Rappresentanza fu inoltre decisiva per le scelte lavorative che di lì a poco avrei fatto. Anche qui posso dire che l’Europa ci ha messo uno zampino.
In quegli anni infatti avevo iniziato ad interessarmi all’ambito della progettazione europea, vale a dire a quel settore che permette di svolgere progetti internazionali finanziati dalla Commissione europea, in alcuni settori chiave in cui essa intende intervenire. Proprio in Rappresentanza ho avuto l’opportunità di conoscere delle persone che condividevano questa mia stessa passione: Erika e Gianna.
Da quel momento abbiamo iniziato a pensare a come poter mettere a frutto le nostre diverse competenze, a come poter realizzare quello che allora sembrava essere un sogno nel cassetto: lavorare in proprio realizzando progetti che permettessero di far sentire l’Europea più vicina alla società.
Proprio da questa idea nel settembre 2014 è nata Euphoria, un’associazione con la quale abbiamo deciso di lanciare progetti europei nel settore dell’educazione. Il nome stesso della nostra associazione racchiudeva la nostra ambizione: oltre a portare il “bene”, avremmo voluto portare avanti anche gli ideali dell’Unione europea.
Dal gennaio 2016, anno in cui decisi di dedicarmi completamente a questa nuova attività, sono ormai passati 3 anni, e di seguito proverò a riassumere cosa è successo da allora:
•    abbiamo incontrato più di 2.000 insegnanti e dirigenti scolastici italiani e non durante corsi di formazione organizzati per le scuole per sviluppare la loro dimensione internazionale e modernizzare le metodologie di insegnamento e apprendimento;
•    abbiamo vinto 6 progetti europei Erasmus Plus;
•    lavoriamo con partner provenienti da Grecia, Spagna, Portogallo, Ungheria, Irlanda, Svezia, Polonia, Belgio, Romania, Turchia, Bulgaria, Germania, Estonia (e forse ne dimenticherò qualcuno).

Ad oggi lavoro come project manager all’interno di questi progetti, mi occupo sia del loro coordinamento che della comunicazione, e posso affermare di non lavorare a Roma o in Italia, ma in Europa.
Sono in contatto tutti i giorni con partner di paesi stranieri, la mia lingua di lavoro è l’inglese, e spendo almeno 2/4 del mio tempo lavorativo viaggiando proprio per coordinare questi progetti.
Sicuramente la mia realtà attuale è molto diversa dal lavoro di ufficio che mi immaginavo quando avevo iniziato l’Università, ma è proprio questo aspetto che mi rende ancora più motivata.

La mia fortuna è stata quella di avere l’opportunità di svolgere una carriera internazionale, pur rimanendo vicina ai miei affetti e alle mie amicizie. Ma devo ammettere che ci sono ormai tanti altri luoghi in Europa in cui posso dire di sentirmi a casa e in cui ho persone pronte ad accogliermi.
A prescindere dal mio lavoro che per sua stessa natura necessita di contatti in tutta Europa, ho realizzato che in qualsiasi settore l’approccio internazionale sta diventando sempre più importante. Possiamo essere insegnanti, commercianti, ricercatori, liberi professionisti, ingegneri, informatici, ma ormai l’orizzonte europeo è presente in tutte le nostre vite. E non si tratta solo di un obbligo astratto. L’arricchimento che può derivare dal confronto con l’altro, non ha assolutamente prezzo.
Dicendo questo non voglio dire che l’Europa sia un progetto perfetto, né tanto meno che non abbia le sue storture. Ma nonostante questo è un dato di fatto che essa rappresenti la nostra nuova dimensione, e chiunque ha bisogno di strumenti appropriati per saper leggere questa nuova realtà.

Essere cittadini europei per me significa principalmente vivere l’Europa come la propria casa, apprezzarne le opportunità che ne derivano in termini lavorativi e di diritti, e mettersi in campo in maniera attiva qualora si voglia intervenire per modificarne la rotta, perché esistono degli strumenti per farlo.
Un cittadino europeo ideale, a mio avviso, è colui che, pur continuando ad essere ancorato ai propri valori e tradizioni, non ha paura della diversità, sia essa culturale, etnica, religiosa, di orientamento politico, ma ne sappia cogliere delle opportunità di crescita personale e sociale. Solo se si è in grado di abbracciare le differenze, si può realmente vivere non solo in Europa, ma nel mondo.

Sono della generazione Xennials, di quelli che ricordano come funzionava un telefono a gettoni, ma che oggi non potrebbero fare a meno del cellulare, che ricordano lo stupore per la caduta del muro di Berlino, ma non hanno mai avuto la percezione che in Europa esistessero frontiere.
L'Europa, i meccanismi che la regolano e la cittadinanza europea mi hanno incuriosito prima, e riempito d'orgoglio poi. Sicuramente le opportunità che ho avuto e le scelte che ho compiuto sino ad ora sono legate a una mia attitudine di apertura al dialogo interculturale e alla negoziazione continua di significati simbolici.
È difficile rintracciare nella memoria un momento preciso in cui ho capito cosa volesse dire per me essere europea, ma fra i molti aneddoti che mi sono rimasti impressi ce ne sono alcuni che sento come particolarmente emblematici.

Per cominciare, nel 2003 arrivai in macchina a Valencia per iniziare un anno di progetto Erasmus. Neanche avevo avuto il tempo di capire la portata dell’esperienza che mi aspettava, che fui subito battezzata dai miei coinquilini tedeschi e finlandesi la “Princesa de Roma”. Effettivamente, mia madre mi aveva fatto caricare la macchina con abiti per le quattro stagioni e un kit completo da campeggio con cui avrei potuto fare un safari in Kenya, tutte cose ovviamente inutili per sopravvivere nella civilissima Spagna e che nei vari traslochi che sono seguiti mi sono dovuta caricare a piedi più volte con mia somma gioia. Fu quella la prima volta che ebbi la consapevolezza di uno degli stereotipi più famosi nel mondo: la “mamma italiana”, vigile apprensiva e onnipresente, indipendentemente dalle distanze fisiche ti sa sempre dare consigli su meteo e abbigliamento. Capii che non tutte le mamme del mondo sono così. Questo nomignolo me lo portai avanti per mesi e diventò subito un mezzo confidenziale con cui sfidavo e smontavo stereotipi e pregiudizi sulle diverse lingue e culture europee. Ogni giorno, ogni situazione, che fosse all’università o alle feste “en los pisos” (in casa), era fonte di stimoli e nuove domande. Come se entrassi in una sorta di “biblioteca vivente” (metodo che si usa in educazione non formale), per me ogni persona era un libro inedito da scoprire su modi di vivere il presente, ma soprattutto modi di interpretare gli eventi storici e sociali. Infatti, sebbene studiassi lingue e culture straniere, solo in quel momento mi resi davvero conto di quanto la storia e le tradizioni nazionali siano narrate da un punto di vista culturalmente soggettivo e parziale. Così scoprii che a seconda dello studente europeo con cui parlavo, Cristoforo Colombo poteva avere origini e nazionalità spagnola, portoghese, francese e in molti casi anche italiana! Io che ero cresciuta con il mito che l’uomo del nuovo mondo era di Genova.

Le amicizie strette, la libertà di vivere e viaggiare in autonomia, l’abitudine a conoscere, discutere e sperimentare sempre cose nuove ormai erano parte integrante del mio modo di essere e relazionarmi con il mondo. Quindi, tornata in Italia, il giorno dopo la laurea acquistai un volo solo andata per Londra alla modica cifra di 18,00 euro tasse incluse. Dovevo fermarmi tre mesi, invece sono ripartita dopo quasi due anni. Ero già stata diverse volte in Inghilterra per frequentare corsi d’inglese, ma un conto è viaggiare in modalità vacanza, un conto è vivere in un paese. Londra per me rappresentava l’ombelico del mondo. Ho conosciuto gente di ogni luogo, cultura, genere e orientamento, però a differenza della Spagna in cui i rapporti sono più amicali e informali, lì invece capitava che discutessi per ore dei massimi sistemi con qualcuno e il giorno dopo eravamo di nuovo perfetti sconosciuti. Fu uno dei motivi per cui alla lunga decisi di ritornare a casa (oltre al sole del bel paese).

Sono moltissime le cose che ho imparato in quei due anni: innanzitutto che in un paese civile esiste un minimo salariale, avevo appreso che come lavoratrice avevo diritto a uno stipendio minimo di 5,95£ l’ora, che rivendicavo soprattutto i primi tempi in cui facevo lavoretti, cosa che in Italia ancora oggi non esiste. Poi ho sperimentato il famoso aplomb inglese in situazioni estreme. Arrivai a Londra a giugno del 2005 e dopo neanche un mese ci furono due attentati. Quando avvennero, una volta ero su un bus, l’altra in metropolitana. Mi sconvolse quasi più la reazione composta, ordinata, silenziosa e comunitaria delle persone intorno a me, che la paura reale per quello che stava accadendo e le sue conseguenze in termini di diffidenza involontaria verso chiunque portasse un turbante in testa. Non riuscivo a smettere di pensare che se fosse successo a Roma le urla della gente impazzita si sarebbero sentite fino a Milano. E per confermare lo stereotipo, mia madre, in preda al panico perché non riusciva a chiamarmi, mi ha fatto contattare da mezza Telecom Italia.
Altra scoperta londinese fu l’esistenza degli apolidi. Conobbi un ragazzo giamaicano cresciuto a Seattle, che nonostante avesse il padre in fin di vita non poteva rientrare negli Stati Uniti per andare al suo capezzale in quanto era stato espulso per vilipendio alla bandiera. A quanto pare la US Army fa campagna acquisti nelle scuole superiori, lui lì per lì aveva firmato per arruolarsi nei marines, ma poi aveva preferito continuare gli studi. Nessun ripensamento possibile, espulsione immediata. E come lui c’erano tante persone bloccate in Gran Bretagna senza diritti e senza nazionalità. Rimasi così indignata da questo fenomeno, che tornai a Roma e mi iscrissi a un master in mediazione culturale in contesto migratorio mentre facevo il servizio civile, insegnando italiano L2 in moschea e a Via Giolitti, ben prima dell’”emergenza” migranti.

Roma mi stava stretta, la chiamavo la capitale di provincia, ero sempre in centro per parlare almeno un po' d’inglese, però proprio da Roma è iniziata una nuova fase della mia consapevolezza europea.
Nel 2008 la campagna giovanile paneuropea “All Different – All Equal” era agli sgoccioli e in diverse città italiane si stavano organizzando eventi locali. Un’associazione giovanile mi coinvolse come volontaria nell’organizzazione di alcuni eventi di sensibilizzazione in città.
Dopo aver viaggiato e vissuto tre anni fra Spagna e Gran Bretagna, proprio da casa mia diedi forma al mio ideale di Europa che tutt’ora ritengo valido: tutti diversi – tutti uguali, non importa come ti vesti, che lingua parli, che religione pratichi e che usanze hai, in ben 27 stati abbiamo tutti gli stessi diritti riconosciuti dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (1), che sono oltretutto la forma più avanzata al mondo di applicazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (2).

Da qui in poi, l’Europa ha investito su di me. Con un gruppetto di esuli da esperienze simili a quelle sopracitate costituimmo un’associazione giovanile ricchi solo del nostro entusiasmo e della nostra creatività. Iniziammo a scrivere progetti per organizzare e inviare giovani a scambi giovanili e corsi di formazione in educazione non formale finanziati dal programma europeo Gioventù in Azione. Senza raccomandazioni nè agganci nel giro di poco tempo ero sempre su un aereo per partecipare attivamente alla costruzione del sogno europeo di tanti giovani della mia generazione: un'Unione politica che si rifacesse ai principi del Manifesto di Ventotene (3) scritto in esilio nel 1941 da Altiero Spinelli.

Nonostante chi mi diceva che ormai era tempo di trovarmi un lavoro serio e guadagnare di più, io non ho mollato. Avevo studiato lingue, ma avevo giurato a me stessa che dietro una cattedra non mi ci sarei mai seduta. L’educazione non formale applicata a temi di attualità generale mi ha fatto scoprire il valore dell’esperienza e del confronto nelle fasi di apprendimento e crescita, esperienze che se avessi fatto quando ero a scuola mi avrebbero evitato di percepire molte lezioni come una noia mortale.

Così, sempre per caso, nel 2009 mi ritrovai a progettare per la piattaforma delle associazioni giovanili nazionali, ora formalmente riconosciuta come Consiglio Nazionale di Gioventù, e insieme ad altri giovani ci creammo il lavoro dei nostri sogni accedendo sempre a finanziamenti europei. Iniziai prima come trainer nel processo di cooperazione giovanile Euro-Arabo Mediterraneo, poi diventai coordinatrice del pool di trainers nazionale del FNG come risultato del processo di scambio metodologico fra formatori del sud Europa e dei paesi africani di lingua portoghese; infine, divenni international officer, ovvero raccoglievamo le istanze sulle politiche giovanili in eventi non formali nazionali e internazionali e poi scrivevamo documenti di policy da sottoporre alle istituzioni nazionali ed europee. Proprio come si fa politica in Europa.
Nei gruppi di lavoro e nelle assemblee del Forum Europeo della Gioventù le attività di policy e advocacy svolte attraverso il metodo del dialogo strutturato fra giovani e istituzioni, solo negli anni in cui ho partecipato direttamente, hanno permesso di promuovere iniziative come "garanzia giovani", che offre opportunità di tirocinio retribuito nelle Regioni in tutta Europa, la strategia europea per i giovani, proposte di riconoscimento dei diritti di cittadinanza delle seconde generazioni in Europa e molto altro, perché quando si parla attraverso il linguaggio dei diritti umani, le differenze culturali non esistono.

Ci vorrebbero molte altre pagine per raccontare come sono evoluta negli ultimi anni, ma qui mi preme sottolineare ancora due cose: la prima è che se ho una professionalità riconosciuta e uno stipendio da diversi anni lo devo ai fondi europei, grazie ai quali mi sono specializzata come formatrice e che mi offrono la possibilità di sperimentare costantemente nuovi approcci metodologici in rete con università, istituzioni e associazioni di tutta Europa.
La seconda è un aneddoto che porterò sempre con me: nel 2012 ero in Tunisia per un Simposio sulla cooperazione giovanile Euro-Araba organizzato dal Consiglio d’Europa e molti attivisti del nord Africa mi ripetevano: We are learning Democracy – stiamo imparando la democrazia. Io gli risposi: We are forgetting Democracy – stiamo dimenticando la democrazia. E purtroppo, effettivamente quello che al tempo era solo un sentore, si è rivelato realtà. Infatti, i sogni di libertà e diritti di tanti amici che avevano popolato le piazze delle primavere arabe svanirono velocemente, soprattutto per colpa di una mancata unità politica europea e per l’indifferenza dell’opinione pubblica, la quale anziché chiedere ai governi dell’Unione di appoggiare le spinte democratiche in Nord Africa, si è ripiegata su sé stessa inneggiando all’emergenza immigrazione e supportando la chiusura delle frontiere esterne e interne, abbandonando milioni di persone al loro destino.

Oggi che sono senior education officer in educazione alla cittadinanza globale per una ONG, mi ritrovo a dover difendere il valore di cose che solo 10 anni fa erano vissute come la più grande opportunità della nostra generazione. Cercare il colpevole di questo processo involutivo è inutile, ma c’è tanto da lavorare per restituire alle nuove generazioni il senso dell’Europa delle opportunità. Paradossalmente, l'innovazione tecnologica e i social network, che un tempo credevamo avrebbero accelerato il processo di integrazione e partecipazione europea, hanno contribuito a distrarre l'opinione pubblica. Inoltre, l'innovazione tecnologica e i social network hanno favorito processi di disgregazione e mistificazione della realtà legati a una visione consumistica, in cui l’avere e l’apparire individuale contano più dell’essere una collettività unita in un solo destino, che deve affermare quotidianamente i valori della pace fra i popoli, dell’uguaglianza e del rispetto per ambientale per mitigare le disuguaglianze economiche e gli effetti dei cambiamenti climatici in corso. In queste sfide, come in molte altre, possiamo essere tutti diversi, ma siamo tutti ugualmente esposti e nessun paese potrà farcela da solo.



Note
1 https://www.europarl.europa.eu/charter/pdf/text_it.pdf
2 https://www.ohchr.org/en/udhr/pages/Language.aspx?LangID=itn
3 https://it.wikipedia.org/wiki/Manifesto_di_Ventotene

L'estate scorsa ho conosciuto un ragazzo mio coetaneo, nato e cresciuto a Firenze, figlio di due genitori marocchini che, da diversi anni, dopo la maturità, si è trasferito a Parigi per l'università. Mi raccontava di essere convintamente ateo e orgogliosamente omosessuale. Mi diceva di non conoscere l'arabo e di non ricordare con gran piacere i periodi estivi in cui da piccolo lo portavano dai nonni e dai cugini, non so più in quale città del Marocco. Come se volesse rispondere a una mia domanda, come se già la conoscesse e io stessi per porgergliela, mi rispose: “No, io non sento le mie radici marocchine. E neanche tanto quelle italiane, visto che a Firenze ci torno giusto per vedere i miei, mentre la mia vita, i miei amici, i miei interessi e casa mia sono a Parigi.”
Quella sua affermazione mi fece molto riflettere. Intanto mi aveva colpito che l'aveva detto quasi con dispiacere di dispiacermi, come se io invece avessi assai desiderato che mi raccontasse il contrario e mi aspettassi un suo commento esotico e purtroppo invece lui dovesse precedermi e deludermi con la cruda verità. Poi, quella sua affermazione mi fece ragionare sul fatto che il concetto delle “mie radici” è qualcosa di nettamente sopravvalutato, eppure apparentemente obbligatorio, nel raccontarsi e nel decostruire un'autobiografia. D'altronde, riflettevo, può darsi che il “sentire” un'origine, delle radici culturali, una sorta di background intellettuale eppure materialmente genetico, sia come provare un'aderenza zodiacale alla propria sostanza individuale e originale di persona. Per ultimo feci una riflessione più politica: tutti i Salvini, i Minniti, le Le Pen, gli Orbán, le Albe dorate, le Alternative für Deutschland etc. etc., con i loro muri, i confini, i Cpt o i Cie e le violenze verbali o fisiche, non potranno in nessun modo arrestare l'inevitabile realtà di un mondo in cui le persone viaggiano, si muovono e si scambiano idee e esperienze.

Questa Unione Europea non è la soluzione. Questa Unione Europea è invece la causa, la malattia che ha come sintomi dolorosi e debilitanti l'odio xenofobo e la chiusura nazionalista. Eppure, penso, l'Unione non può che essere la soluzione e la medicina per curare se stessa.
Mi spiego. L'Unione Europea attuale si basa sostanzialmente su due principi: la competizione economica tra gli Stati che ne fanno parte e la libertà, praticamente deregolamentata, di movimento per prodotti e merci, per capitali, finanze e imprese. È evidente che questo sistema non possa funzionare visto che crea naturalmente e necessariamente baratri di disuguaglianze e cosiddette guerre tra poveri. Se per fare il pecorino conviene comprare il latte in Polonia, è ovvio che i pastori sardi non sapranno più che farsene dei loro prodotti. Se conviene, ed è possibile, spostare la fabbrica in un paese dove i diritti sindacali degli operai sono più arretrati, è ovvio che altrove si creeranno disoccupati. E così via: più sfruttati da una parte, più disoccupati da un'altra. È semplice quanto banale. In più c'è un terzo asse su cui si basa questa Unione: ogni Stato membro è obbligato a rispettare un vincolo nel proprio bilancio, vincolo stabilito negli uffici dell'Unione Europea. Giocoforza questo sistema ha creato al proprio interno pulsioni e propulsioni autodistruttive.
Per fini elettorali, per qualche voto in più, hanno inventato il problema perennemente emergenziale dell'immigrazione: folle di gente senza scrupoli che premono ai confini di terra e di mare per derubarci di pane, lavoro e donne e poi magari farsi esplodere in una chiesa... D'altronde è molto più semplice e veloce dare la colpa di qualsiasi catastrofe all'uomo nero o allo zingaro sotto casa, piuttosto che soffermarsi a spiegare che a Bruxelles hanno deciso di lasciar scegliere al mercato chi mangia e chi digiuna, chi si fa sfruttare e chi fa il disoccupato, chi vive e chi muore.
Altrettanto sbrigativa è l'opzione di chi propone di uscire dall'Unione. Chiudersi a riccio, sigillarsi nei propri confini, godere della propria solitudine, autocelebrare la propria presunta unicità e scegliersi liberamente gli amici e i capri espiatori. Tale prospettiva mi appare perfino più spaventosa del presente malato. Decine e decine di egoismi, rancori, xenofobie, paure, diffidenze, indifferenze e chiusure. Qui in Italia torneremmo ai tempi di “Roma ladrona!”, continueremmo a mortificare il Meridione, a sviluppare sistemi sanitari e scolastici di serie A e di serie B, ad arricchire Regioni già ricche e a impoverire le più povere. Certo, è esattamente ciò che accade anche adesso, ma proprio per mano di quelle forze politiche che fanno dell'antieuropeismo, del razzismo, del nazionalismo e del populismo pauperista la propria bandiera.
All'Unione Europea non resta che riformarsi completamente, rivoluzionarsi, mettendo al centro di una propria Costituzione i popoli e gli individui, applicando un unico sistema fiscale, un unico sistema di welfare e un solo sistema di diritti dei lavoratori. L'Unione Europea guarirà solo quando passerà dalla competizione alla solidarietà tra gli Stati membri. Anzi, federati.
 

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Sono Giulia Di Mascio e sono nata a Roma 24 anni fa.
I miei genitori si sono entrambi laureati in economia in una delle migliori università italiane ed entrambi hanno contribuito alla mia scelta di affrontare un percorso di studio universitario prima e di completarlo all’estero poi.
Mi sono laureata nell’estate del 2016 in Economia presso la LUISS a Roma e successivamente ho intrapreso il percorso di laurea magistrale in Management nella stessa università.
Entrambi i miei percorsi di studio sono stati caratterizzati dalla mia decisione di svolgere un periodo di studio all’estero.
Durante la triennale in Economia, quando avevo 21 anni, sono andata in Inghilterra per circa 4 mesi grazie al programma Erasmus che consente a milioni di ragazzi ogni anno di studiare in uno dei paesi europei.
Attualmente, sono in Svezia per un programma di doppia laurea.

In entrambi in casi ciò che mi ha spinto a partire è stata la curiosità di sperimentare la vita universitaria in paesi notoriamente diversi dall’Italia ma europei, con persone provenienti da tanti paesi diversi paesi e con background differenti.
Inoltre, la scelta di svolgere un intero anno di studio in Svezia è stata dettata anche, e soprattutto, dalla presenza di corsi specializzati, su ciò che mi interessa, nell’università che sto frequentando.
Certo, le differenze comportamentali ci sono e la mancanza di casa si sente.
Tuttavia, dopo le prime settimane di confusione e spaesamento, alcuni luoghi iniziavano a sembrarmi familiari e costruivo le mie nuove abitudini. Le persone che fino a poco tempo prima consideravo sconosciute iniziavano a diventare amiche e parte integrante dell’esperienza.

Grazie ai 4 mesi vissuti in Inghilterra e al periodo che sto vivendo in Svezia, ho imparato ad apprezzare la diversità e renderla risorsa per arricchire la mia personalità.
Secondo me essere cittadini europei vuol dire avere la possibilità di mettersi in gioco in un contesto diverso ma non estremamente complicato dove, nonostante i rispettivi paesi di appartenenza, le persone percepiscono la presenza di un filo conduttore comune che le unisce.

Vedo l’Europa come lo strumento che connette gli individui degli Stati membri in modo piuttosto semplice, consentendogli di muoversi liberamente e di porre in essere uno scambio culturale senza precedenti.
Descriverei il cittadino europeo ideale come colui che non ha paura di muoversi in Europa perché in ogni paese ha la possibilità di trovare qualcosa che lo fa sentire un po’ a casa.

Sono Rebecca, 25 anni a maggio, da poco laureata in giurisprudenza. Vivo a Lucca, piccola città vicino Pisa dove ho frequentato l’università. È stato proprio grazie all’Università di Pisa che ho avuto la possibilità di sentirmi “cittadina europea”. Il progetto Erasmus, infatti, mi ha concesso di frequentare per nove mesi un’università straniera.
La meta da me prescelta è stata l’Inghilterra, Birmingham, più precisamente. A spingermi a fare domanda sono stati un insieme di fattori: la volontà di apprendere finalmente bene l’inglese, a cui si univa la voglia di vivere un anno da sola, la curiosità per i metodi di studio usati fuori dall’Italia e l’obiettivo, per me fondamentale, di non rimanere indietro con gli esami.
Man mano che il giorno della partenza si avvicinava però la paura e l’ansia aumentavano. Avevo l’idea di aver fatto la scelta sbagliata: trascorrere un anno all’ estero poteva non essere poi così valido per il mio futuro. E poi c'era la paura di stare lontano da amici e famiglia per così lungo tempo.

Il giorno in cui sono atterrata a Birmingham mi sentivo sperduta, nella mia mente avrei trovato all’aeroporto un “comitato di benvenuto” e, invece, non c’era nessuno! Così, da sola, con tre valige che contenevano “l’indispensabile” per un anno di viaggio, mi sono diretta – impresa tutt’altro che facile – alla ricerca di un taxi e da lì all’accommodation del college. La prima sera non è andata meglio, la mattina dopo neanche. Cercavo un volo per tornare a casa almeno una volta ogni due ore!
Le mie coinquiline inizialmente mi sembravano schive e restie a fare amicizia con me, solo dopo mi sono resa conto che invece ero io ad esserlo, ad avere nei loro confronti un atteggiamento diffidente e critico. Giudicavo negativamente ogni abitudine diversa dalla mia: la cena alle cinque e mezzo, l’andare in chiesa la domenica mattina, i cibi che mangiavano – che comunque, anche dopo averle conosciute e superato i miei pregiudizi, rimanevano, nella maggior parte dei casi, per me, disgustosi!
Ogni piccola difficoltà mi sembrava un ostacolo insuperabile come fare la spesa, districarmi tra gli infiniti scaffali del supermercato, trovare qualcosa da mangiare che potesse piacermi – per circa una settimana ho mangiato insalata, solo dopo ho iniziato ad aggiungere altre cose –. Se non capivo cosa mi diceva la cassiera o se il bancomat non funzionava, ne facevo una tragedia. Credo, nella prima settimana a Birmingham, di aver chiamato mia mamma circa venti volte al giorno, ogni volta sottoponendole un problema vitale, che ovviamente dall’Italia non poteva risolvere come quando la chiamai disperata perché non sapevo che autobus prendere per tornare a casa!

Pian piano, però, le cose sono migliorate. Superando i miei pregiudizi e la mia riluttanza nei confronti dell’altro, mi sono resa conto che, nel mio appartamento, c’erano altre cinque ragazze che potevo conoscere, cinque potenziali amiche, che lo stabile era pieno di ragazzi con cui poter legare, esperienze da poter fare, opportunità da sfruttare.
Dopo un anno in quell’appartamento posso senza dubbio affermare che, se con alcune ho effettivamente stretto amicizia, con altre, invece, non ho scambiato più di due parole. Di una delle mie coinquiline, ad esempio, dopo un anno nella stessa casa non sapevo neanche il nome; in questo caso però posso dire con un’elevata sicurezza che il problema non è stato il mio essere schiva, quanto piuttosto il suo isolamento che ha fatto sì che, mentre io e le mie coinquiline eravamo in cucina insieme – e nonostante l’avessimo più volte invitata – lei stesse da sola in camera sua, portandosi addirittura via le pentole con cui cucinava onde evitare che le usassimo.

Vivere in un altro paese significa anche lavorare su se stessi; rinunciare ad alcune abitudini per far spazio ad altre, confrontarsi con culture, modi di essere differenti. Era ovvio che, nonostante abbia messo un po' a capirlo, la mia routine italiana non poteva essere trasportata, immutata, là: i pranzi della domenica dai miei nonni, i caffè del sabato pomeriggio al solito bar con le solite amiche, la preparazione degli esami insieme alla mia compagna di studi, etc.. Questo, però, non vietava che me ne potessi creare un’altra. E così ai pranzi domenicali dai nonni si sono ben presto sostituiti i brunch con Chiara, Pauline, Bensu, che erano diventate un po' la mia famiglia; ai caffè con le amiche di sempre quelli con nuove amiche; e gli esami potevano sempre essere preparati con i nuovi colleghi di corso.

Niente è insuperabile, basta ingegnarsi per far funzionare le cose. È ovvio infatti che avere le proprie abitudini o impegni fissi dà stabilità e sicurezza, soprattutto nei primi tempi in cui tutto sembra nuovo. E il nuovo, si sa, un po' spaventa.
La necessità di parlare un'altra lingua non aiutava; c’era sempre la paura di sbagliare pronuncia, che non venissi compresa. Velocemente però, mi sono resa conto che, anche se la mia pronuncia non era perfetta – e non lo è tutt’ora, nonostante un anno in Inghilterra – o se mi inventavo alcune parole era comunque possibile instaurare una conversazione. Conoscersi.  Uno dei modi più semplici e divertenti per farlo, è stato attraverso il cibo. Con il gruppo di amici che ero solita frequentare avevamo introdotto la “cena della domenica sera” per cui, a turno, ognuno cucinava il piatto che preferiva del suo paese. Io ho fatto le lasagne, ma ho così scoperto quanto siano buone le natas portoghesi, i lady’s figer indiani, il cozonac rumeno.

Anche l’inizio dell’università è stato destabilizzante, già sull’elaborazione del piano di studi sono sorte le prime difficoltà. La prima lezione l’ho mancata perché non avevo capito che si sarebbe tenuta “on Tuesday” e non “Thursday”. Confrontarsi poi, con un linguaggio tecnico non è stato facile, molte parole erano per me incomprensibili e non sempre seguire i docenti era possibile.
Superato il primo impatto però ho avuto modo di confrontarmi con un altro sistema universitario, completamente differente da quello italiano. La maggior parte degli esami in Inghilterra avevano la forma dell’essay, che consiste in un tema di 1000 o 2000 parole, in cui prendere posizione su una tematica o risolvere quesiti giuridici. Esami quindi scritti e non, come la maggior parte di quelli della mia università italiana, orali. Tutti i corsi erano composti, oltre che dalla classica lezione accademica, anche da seminari in cui, a gruppi di 10 studenti, facevamo dibattiti, simulazioni di processi, lavori di gruppo. Come prova finale di un corso ad esempio abbiamo fatto un dibattito a squadre su problematiche quali la pena di morte, la tortura, il trattamento dei prigionieri in carcere. Non era solo la didattica ad essere completamente differente ma anche l’ambiente e le strutture. Avevamo a disposizione una biblioteca universitaria aperta 24h, tutti i giorni, computer accessibili a tutti, strutture super moderne e docenti sempre reperibili e, soprattutto, giovani.
Nell’università, inoltre, gli studenti di Birmingham erano la minoranza, il numero di “international students” era invece elevatissimo, tantissimi dunque gli universitari provenienti dai posti più disparati per cui, le varie attività di gruppo organizzate diventavano anche un’occasione per confrontarci sui vari sistemi giuridici e universitari vigenti negli altri paesi, europei e non.

In poche settimane mi sono accorta che quella routine all’inizio tanto agognata, l’avevo già ricreata: la spesa del sabato pomeriggio al supermercato accanto casa, dove tutti gli studenti andavano, che era anche il luogo in cui, incontrandoci tra gli scaffali, ci organizzavamo per l’uscita serale; i venerdì sera a cena da Pauline; le lezioni tre volte a settimana; il solito posto nella biblioteca, quello alla vetrata!

Il bello – e il brutto – di vivere fuori, da soli, è che in breve tempo crei legami molto profondi. Vedere la solita persona tutti i giorni; sapere che, essendo anche lei sola, sicuramente avrà voglia di compagnia. Il tempo libero da trascorrere insieme ha fatto sì che, quando, per Natale sono dovuta tornare in Italia per le vacanze, sia stato per me impensabile stare tutto quel tempo senza quelle persone e quelle abitudini che avevo trovato a Birmingham.
Quando a giugno sono dovuta tornare in Italia la voglia di non farlo era tantissima, la mia città mi stava stretta, mi sembrava che gli amici di sempre non capissero le mie esigenze, i miei bisogni, mi ci sentivo troppo lontana. Purtroppo, essendo partita per studiare un anno fuori dall’Italia con un programma, quindi, a scadenza, non era possibile prorogare oltre questa esperienza, dovevo infatti tornare in Italia e completare il mio percorso universitario.

Quell’anno è stato per me un anno di crescita personale e di esperienza, un modo per mettermi alla prova e testare le mie capacità. Un’occasione per capire le mie priorità, i miei bisogni ma anche i miei limiti. Mi ha insegnato il valore dei legami, di quelli creati in Inghilterra, e di quelli lasciati in Italia, facendomi inoltre capire che in alcuni casi quei legami che credevo forti, in realtà erano probabilmente dettati da situazioni contingenti, che i sentimenti che ho provato per alcune persone erano più dettati dalla situazione in cui vivevo, dalla volontà – e a volte dalla necessità – di attaccarmi ad un'altra persona più che dalle mie emozioni.
Questa esperienza a livello universitario mi ha lasciato un senso critico nello studio delle materie, che nell’analisi delle questioni giuridiche mi è stato, tra le altre, utilissimo per la redazione della tesi.

Non è sempre stato facile essere lontana da casa, confrontarmi con persone che, a causa delle innegabili differenze culturali e linguistiche, erano – in alcune cose – lontanissime dalla mia cultura o modo di vivere. Però a mio avviso, essere cittadini europei è proprio questo: avere una marcia in più! Questa doppia cittadinanza ci permette di fare cose che noi, troppe volte, diamo per scontate, come attuare progetti che in passato erano solo sogni destinati, spesso, a rimanere tali. Il rischio è che, di questo vantaggio, di questo valore addizionale che la Comunità Europea ci dà, spesso ci dimentichiamo: lamentiamo il peso dell’essere parte dell’Europa ma non ne vantiamo i meriti.
Se fossi vissuta in un altro periodo o in un'altra area geografica, fare questa esperienza sarebbe stato per me molto più difficile, forse impossibile.
La cittadinanza europea non solo ci consente di intessere relazioni fuori dall’Italia, di sfruttare opportunità nuove a livello di studio, di lavoro, di crescita personale. Ma ci consente anche di mantenerle. Poter in qualsiasi momento partire per andare a trovare un amico a Zurigo o a Parigi, senza bisogno di visti e passaporti, non è scontato.
Adesso, da laureata, nonostante non abbia in programma di tornare a studiare all’estero, almeno in un futuro prossimo, in quanto la scelta del percorso che ho fatto non me lo consentirebbe, non escludo che, se avessi l’occasione, non lo farei.
 

Mi chiamo Victoire, ho 28 anni, e vivo e lavoro a Roma. Nata francese, cresciuta a Parigi, ho svolto tutta la mia scolarità nelle scuole pubbliche del mio quartiere. Dopo il liceo, sono entrata a Sciences Po, dove mi sono laureata in scienze politiche e comunicazione.
Fin da piccola, nutro un interesse profondo per le storie, da quelle narrate nei romanzi classici come L’Assommoir, Il Dottor Zivago e Il Gattopardo, fino alla Storia con la “S” maiuscola, passando per la storia “piccola”, “quotidiana”, quale quella della mia famiglia, fortemente influenzata da quanto accaduto in Europa durante l’ultimo secolo. Da parte materna, i miei nonni, francesi del Nord con origini belghe, non si sarebbero mai conosciuti se i loro propri padri non si fossero ritrovati prigionieri nello stesso stalag durante la seconda guerra mondiale. Dalla parte paterna, invece, mia nonna, polacca e ebrea, non sarebbe sicuramente mai diventata francese se, durante l’ultima guerra, mio nonno non l’avesse nascosta dai nazisti in un piccolo paesino protestante del sud della Francia.
La storia della mia famiglia, che non può essere distaccata dagli orrori, dalle migrazioni e dalle evoluzioni trascorsi in Europa durante la prima parte del 20° secolo, ha quindi ovviamente fortemente partecipato a rinforzare il mio sentimento europeo e il mio desiderio di sentirmi appartenente ad una comunità ricca di diversità ma ormai unita. E da quando vivo in Italia questo sentimento si è, per ovvie ragioni, rinforzato. In particolare, quando penso, per esempio, al fatto che, durante la prima guerra mondiale, il bisnonno del mio compagno, che è italiano, combatteva contro il mio proprio bisnonno polacco a Caporetto!

Oggi, ho poche certezze e purtroppo non vedo ancora le soluzioni a molte delle sfide che si pongono alle nostre società e alla costruzione europea. Però, sono convinta di una sola cosa, molto semplice: solo un’Unione forte ci permetterà di garantire la pace nei nostri paesi europei e tra di noi cittadini europei.

La mia vita in Italia si divide in tre esperienze, che corrispondono a dei momenti diversi della mia vita personale e professionale. Tutte e tre mi hanno permesso di maturare e di far evolvere la mia visione e il mio sentimento di appartenenza a questo paese e, più in generale, all’Europa.
Ho trascorso la mia prima esperienza di vita fuori dalla Francia, in Italia, nel 2011-2012, all’età di 20 anni, nell’ambito di uno scambio Erasmus. All’epoca, non avevo esitato molto tempo tra tutte le destinazioni che mi erano state presentate: studiavo l’italiano fin dalla scuola media, mi ero già innamorata della dolce vita italiana durante delle vacanze in famiglia, e la bellezza e la Storia di Roma mi affascinavano. Con molta spontaneità e convinzione avevo quindi scelto di andare a studiare le scienze politiche, per un anno intero, nella città eterna.
Quel primo anno in Italia costituisce ancora oggi per me una delle esperienze più belle e marcanti. Senza esagerare, direi anche che quella esperienza ha avuto un effetto determinante sul mio percorso professionale e personale finora.
Per la prima volta nella mia vita, vivevo da sola  –  anche se con molti coinquilini  – , in un posto dove non avevo più le mie abitudini  –  neanche quelle linguistiche  – , e senza i miei amici e la mia famiglia  –  a chi ero e sono ancora molto legata. Mi ricordo ancora del sentimento di libertà che mi procurava quella situazione e della mia voglia di scoprire e capire al meglio la mia nuova città e il mio nuovo paese di adozione. Ho quindi approfittato di tutte le occasioni per visitare e girare Roma (da Ostia Antica a Ponte Milvio passando per il Pigneto e piazza Navona), e l’Italia (dalla Puglia a Torino e Padova).
La mia conoscenza dell’Italia si è anche fatta tramite la degustazione delle sue numerosissime specialità culinarie, e la scoperta delle sue opere letterarie e cinematografiche.

Il mio adattamento in Italia è stato molto facile e non ho vissuto lo choc culturale che alcuni amici francesi hanno avuto vivendo in altri paesi come gli Stati Uniti, l’Ungheria o la Cina. Ero già stata in Italia in vacanza, parlavo già un po’ la lingua, e la Francia e l’Italia, in quanto paesi cugini, condividono la stessa cultura. Ovviamente, all’inizio della mia esperienza, ho notato certe differenze tra il mio modo di vivere e di pensare “francese” e quello italiano: l’ossessione degli italiani per il cibo e il sacrosanto antipastoprimo-secondo; i primi esami orali all’Università davanti a tutti gli altri studenti; il fatto che uno studente possa rifiutare un voto (cosa inconcepibile in Francia); il quarto d’ora accademico; la diversità degli accenti anche da un paesino all’altro; la tradizione del Bingo e della tombolata, etc. Ma queste particolarità culturali mi sembravano  – e mi sembrano ancora  –  piuttosto simpatiche!

Aggiungerei che il legame culturale forte che esiste tra l’Italia e la Francia e la mia conoscenza della lingua italiana mi hanno anche permesso di conoscere e legare abbastanza facilmente con i giovani italiani incontrati all’Università o in altre occasioni. Durante quell’anno ho frequentato poco gli altri studenti Erasmus e sono rimasta soprattutto con ragazzi italiani. Molti di loro sono addirittura diventati dei veri e propri amici, quanto i miei amici francesi, e ovviamente questo mi ha permesso di migliorare il mio livello d’italiano e di integrarmi velocemente.

Ho svolto la mia seconda esperienza in Italia, sempre a Roma, dal 2013 al 2014. All’epoca lavoravo come stagista presso l’Institut Français, il servizio culturale dell’Ambasciata francese a Roma.
Quell’anno, ho ritrovato i miei amici italiani conosciuti durante il mio Erasmus, ho avuto l’opportunità di legare con i miei colleghi italiani, e ho anche potuto approfondire la mia comprensione del funzionamento del Paese. La mia vita da stagista in Italia, anche se svolta in una realtà molto francese, mi ha permesso di esperimentare, a Roma, una vita più “classica” perché condizionata dai miei impegni lavorativi.
Durante quella seconda esperienza, ho anche sviluppato un interesse più marcato per l’attualità e la vita politica italiane, e ho preso maggiore coscienza di certi elementi che avevo solo intuito durante il mio Erasmus: la situazione del mercato del lavoro, la famosa fuga dei cervelli all’estero (alcuni dei miei amici italiani, per esempio, sono poi venuti a vivere in Francia), il peso ancora marcato della religione sulla società, etc.

Ad ottobre 2017, dopo una prima esperienza lavorativa di tre anni a Parigi, ho deciso, per motivi personali e professionali, di tornare a vivere a Roma. Attualmente, lavoro per un think tank italiano, dentro uno spazio di coworking in cui “co-lavorano” giovani italiani e anche alcuni francesi e inglesi, tedeschi, etc.

Anche se continuo a ascoltare la radio francese e a leggere libri francesi, nella mia vita quotidiana – al lavoro, nel quartiere dove vivo, e con i miei amici italiani – non mi sento mai come “una francese che vive all’estero”. Mi sento proprio appartenente, come qualsiasi altra persona, a tutte le comunità che frequento.
Questo sentimento di appartenenza all’Italia mi porta ovviamente a seguire con grande attenzione l’attualità politica, economica e sociale del Paese, esattamente come faccio in Francia. Perché quello che succede qua ha un’influenza diretta sulla mia vita, ma anche perché il destino dell’Italia, e quello della Francia e dell’Europa sono completamente legati.
Non so se rimarrò tutta la mia vita in Italia, dipenderà da diversi fattori. Ma so che se dovessi lasciare l’Italia, mi mancherebbe quanto la Francia mi può mancare oggi. A Parigi, ormai, mi chiamano “la Romana”…

Sono nata e cresciuta a Parigi, vivo attualmente a Roma, e domani potrei anche decidere di andare a vivere a Bruxelles o a Madrid. La facilità con la quale si può viaggiare, cambiare paese e incontrare altre persone è sicuramente, per me, una delle cose più belle che offre l’Union Europea.
Vorrei che tutti i giovani europei avessero l’opportunità di vivere la stessa esperienza che ho vissuto e che potessero imparare a conoscere gli altri paesi che compongono l’Europa. Solo cosi si potrà costruire una vera cittadinanza europea.

Quando di recente mi venne rivolta la domanda, ti senti europeo? Da quando? Ho immediatamente ricordato la mia infanzia: alle elementari studiavo le guerre mondiali, mio nonno mi corresse e disse “è sbagliato chiamarle guerre mondiali, è più appropriato chiamarle guerre civili europee.” E questo mi fece riflettere: "ma allora non è vero quanto è scritto sui libri di storia, sul cattivissimo Radetsky, il nemico austro-ungarico e quant’altro?"
Per mia fortuna ho passato un’infanzia di viaggi e vita all’estero, grazie al lavoro di mio padre. Ho imparato a distinguere, in parte comprendere e accettare, culture molto diverse dalla nostra, ed effettivamente ho iniziato a capire che, per noi europei, sono molte di più le cose che ci accomunano di quelle che ci dividono.

Un episodio, già in adolescenza, si svolse durante un periodo di vita in studio in Asia, sempre a seguito dei miei genitori, dove frequentavo una scuola internazionale. Ricordo nella scuola maschile vari episodi di bullismo da parte dei ragazzi più grandi; come nuovo arrivato ero abbastanza preso di mira. Dopo la classe di ginnastica uno dei miei nemici più acerrimi volle cercare lo scontro e buttandomi l’asciugamano bagnato addosso disse “Ma tu guarda questi europei quanto sono brutti e stupidi, promo come questo qua!” Ovviamente il ragazzo in questione era il doppio di me, ma in quel momento negli spogliatoi si voltarono altri quattro ragazzi a prendere le mie difese (e anche le loro): un danese, un francese e due tedeschi. Il bullo se la diede a gambe. Volevano difendere dall’offesa sia se stessi che me, che ero uno di loro. Capii l’Europa ed il suo significato.

Ma i veri benefici li ebbi più avanti, quando a 18 anni compiuti, maturità finita non proprio con il massimo dei voti, diciamo, mi ritrovai senza sapere cosa fare o a quale facoltà iscrivermi. Ed ecco una opportunità: nel 1996 l’Unione Europea finanziava tutte le rette universitarie per gli studenti interessati ad un corso di laurea in un altro paese UE. Colsi la palla al balzo, in quanto maturando europeo era un mio diritto. Di li a 3 settimane mi trovai con un biglietto di sola andata verso il Regno Unito, visto che conoscevo già l’inglese. Non ero il solo e ricordo una comunità veramente europea fatta da greci, spagnoli, portoghesi, bulgari e anche qualche italiano. Si viveva insieme e si condivideva pane e studio come in un’unica comunità. Forse è stato uno dei periodi più belli e multiculturali, dove scoprendo persone si scoprivano anche storie e culture, differenti ma anche molto simili. Da quel momento in poi ho cercato sempre di replicare nella mia vita professionale quest’atmosfera multiculturale.

Il vero inizio è stato nel 2002, abbandonata la strada del giornalismo, accantonata la possibilità di essere assunto da un’organizzazione internazionale, fondai insieme ai miei amici un’associazione culturale. Gli obiettivi dell'associazione: Giovani, Cittadinanza Attiva ed Europa. Nel 2003 scoprii il programma europeo “Gioventù” e feci domanda all’Agenzia Italiana per i Giovani, ed in un men che non si dica, eccomi a Budapest con altre ragazze e ragazzi che la pensavano proprio come me, che sognavano un futuro con meno frontiere, con partecipazione attiva, con responsabilità civica, con un ambiente pulito. E lì tutti noi abbiamo imparato a scrivere progetti.
L’apprendimento maggiore è stato proprio quando ho scoperto che le problematiche che credevo essere solo nostre, ossia italiane, sono in realtà molto comuni, dal sociale fino all’ambientale: le sfide che affrontiamo come cittadini europei hanno moltissime similitudini dalla Finlandia fino a Malta. Cominciai ad innamorarmi sempre di più del progetto europeo e volevo farne parte, volevo attivarmi per far sì che accadesse.
Certo i finanziamenti per il programma Gioventù e per il programma successivo Gioventù in Azione erano veramente pochi, e le possibilità molto limitate. Fu così che nel 2004 divenni formatore europeo per i giovani. Nel decennio successivo passavo più tempo all’aeroporto che a casa: aereo per una formazione sul dialogo interreligioso a Cipro, da li in Polonia per formarsi su democrazia e partecipazione e poi in Germania per un corso su come equipaggiare giovani e terzo settore per contrastare il razzismo. Un periodo eccitante, eclettico, dinamico e di forti cambiamenti sociali e politici. Si lavorava sulla base mentre da Maastricht si arrivava al Trattato di Lisbona, l’Europa si faceva più vicina e le distanze si riducevano, e non parlo solo di quelle fisiche.
Ricordo un giorno in particolare: in un'attività di formazione rivolta ai volontari europei del Servizio Volontario Europeo. Un pomeriggio li portammo in un luogo speciale, nel Nord Italia, dove nel 1944 i nazi-fascisti compirono un eccidio sia di civili innocenti che di partigiani. Per i volontari europei, per lo più provenienti da situazioni di svantaggio sociale, fu una visita emotiva, e come formatore improvvisai un’attività e dissi a ciascuno di loro: “Eccoti un foglio di carta, scrivi dai 3 ai 5 valori e principi in cui credi di più.” Dopo aver scritto i valori, li divisi in gruppi di tre e dissi: “Ora confrontatevi e mettete giù i valori che vi accomunano.” E poi procedemmo in gruppi man mano più grandi, fino a che non tornammo in plenaria con tutti e 50 i volontari e si arrivò alla scelta dei 3 valori/principi comuni al gruppo intero. La conclusione fu: avere dei valori personali non esclude averne altri come gruppo ed altri ancora come macro-gruppo. Le identità personali, del proprio territorio, del proprio paese si traducono in valori e principi personali e condivisi, e gli uni non escludono gli altri, ma si sommano. In quel momento specifico, con quel gruppo di volontari internazionali, credo che tutti ci siamo sentiti più europei e abbiamo capito cosa vuol dire essere europei.

L’esperienza svolta nell’associazionismo giovanile volgeva al termine, era ora di passare la palla ai giovani dei quartieri di periferia con cui avevo lavorato e spostarmi in altri ambiti professionali, alla consulenza, al capacity building.
Sette anni passati nel Partenariato Orientale in un periodo storico coronato da crisi e sfide politiche e guerra e gli albori del confronto tra due scuole di pensiero: una scuola russa che punta al protezionismo economico, al nazionalismo, all’intolleranza e all’autoritarismo; ed una via europea rivolta al libero mercato, alla partecipazione attiva della società civile e alla democrazia. In tutti i paesi del partenariato orientale, confrontandomi sia con ministri che con piccole comunità lontane, l’Europa, o meglio la UE, è vista come un barlume di speranza. Speranza di liberarsi dal giogo dei piccoli tiranni locali e da truppe di eserciti stranieri che occupano con prepotenza le loro case, speranza di vivere in una società più partecipata, speranza di uno sviluppo economico sostenibile e speranza di mobilità per studio, svago e lavoro. Tantissime cose che noi, nati in queste generazioni, diamo per scontate ed ovvie.
Fino ad arrivare alla rivoluzione ucraina per la dignità, erroneamente chiamata Euromaidan: cittadini che spontaneamente, inizialmente pochi e poi a centinaia di migliaia, rivendicavano i valori dell’UE e manifestavano il loro dissenso al modello ottocentesco di stato-nazione proposto dal Cremlino. Una scelta che tutt’ora pagano con l’occupazione della Crimea e la guerra ibrida del Donbass. Sono stato testimone di giovani che con orgoglio e speranza sventolavano una bandiera blu a dodici stelle, che per loro significa libertà, mentre per molti di noi ha perso significato, ed è addirittura osteggiata. Solo lì ho capito che i nostri valori condivisi europei sono sotto attacco, nel caso ucraino, militare.

Qui finisce questa breve autobiografia: è il marzo 2018, in Italia vince democraticamente e con ampio sostegno una forza che personalmente non sostengo, ma che, secondo le regole democratiche ha diritto di governare ed a cui io come cittadino romano-italiano-europeo ho diritto di fare opposizione con i mezzi che ho a disposizione – la formazione, il coaching, la consulenza ed in parte l’attivismo politico – per far sì che l’Europa e l’UE non collassino, nè facciano passi indietro nella storia, ma che vadano avanti e diventino realtà più trasparenti, democratiche, coese, unite e partecipate.
Per questo nel settembre del 2018 ho rassegnato le dimissioni dal progetto EuropeAid in cui lavoravo e sono tornato in Italia: l’Europa ha fatto tanto per me, è ora di fare la mia parte.

Sono Erika Nemes, ungherese nata nella splendida città di Budapest. Sono cresciuta in un paese dove a scuola era obbligatorio studiare la lingua russa in classe (cosa che odiavamo in quei tempi) e alle ricorrenze nazionali dovevamo cantare l’inno sovietico subito dopo quello ungherese. Come tutti, anche io ho fatto tutti i percorsi obbligatori: piccola tamburina in divisa e cravatta blu e poi pioniere con la cravatta rossa.

Vengo da una famiglia apparentemente classica, come il regime richiedeva negli anni '70-80, ma con dei genitori contraddistinti da una visione liberale senza cravatta e in una piccola casa colma di libri. Mamma era appassionata di arte e gli scaffali si piegavano affannosamente sotto grandi volumi di pittori classici e impressionisti. Il mio primo amore non era il classico principe azzurro della Disney, bensì Henri de Toulouse-Lautrec. Papà invece, attraverso centinai di libri di storia, di George Orwell e delle Cronache Marziane, non poteva che contaminarmi con una generosa dose di indipendenza e di pensiero critico.
Sono sempre stata educata in modo da seguire la mia strada, a prendere decisioni autonomamente e i miei genitori mi hanno cresciuta senza impormi limiti.

Mi ricordo l’edizione ungherese Fahrenheit 451di Ray Bradbury, in cui la prima pagina conteneva una frase di Juan Ramon Jimenez: “Se mettono davanti a te un foglio a righe, scrivi su qualcos'altro". Non ho mai ritrovato quella frase in nessun’altra prefazione di edizioni straniere. Ma nonostante questo è rimasta impressa dentro di me e non solo mi sono sempre rifiutata di scrivere in fogli a righe, ma ho messo in pratica quel messaggio, che ha profondamente influenzato la mia visione del mondo.

Oggi vivo in un’altra splendida città, Roma, di cui sono profondamente innamorata.
Proverò a riassumere quale delle tante strade mi abbia portato a Roma.
La mia storia europea inizia nel lontano 1992, quando lasciai la mia città all’età di 19 anni, appena finiti gli studi della scuola superiore. Cosa mi stavo lasciando alle spalle? Da poco era caduto il muro di Berlino e le truppe russe si erano ritirate dal territorio ungherese. Con il grande cambiamento, in quel periodo iniziarono ad arrivare prodotti dai paesi capitalisti che durante il regime erano vietati. Giungono a noi “emtìvì” (Music Television), i walkman con le audiocassette scricchiolanti e copiate dagli amici. Lo Spotify dell’epoca consisteva nell’attendere che il brano passasse alla radio e lo registrassi rapidamente nella speranza che lo trasmettessero fino alla fine. Non c’era internet, quindi si scambiavano lettere.

Da adolescente curiosa, mi rimase impressa una particolare rivista: Gioia. Oltre ai prodotti e vari oggetti di bellezza in mini formato gratuiti (cose mai viste prima!), sulle ultime pagine di questa rivista erano numerosi gli annunci di richieste di penpal friend. I miei messaggi preferiti riguardavano spesso giovani coetanei italiani con i quali scambiavo foto, audiocassette con musica italiana e brevi discorsi che cercavo di sostenere utilizzando diligentemente vari vocabolari, dizionari e libri di grammatica italiana. Questa esperienza mi sarà molto utile nel mio prossimo futuro.

Sono partita in un’epoca in cui la nostra generazione ha visto gradualmente aprire le frontiere, per noi chiuse quasi ermeticamente fino al 1989. Negli anni precedenti si poteva viaggiare, soprattutto attraverso gruppi organizzati, negli altri paesi socialisti (Jugoslavia, Cecoslovacchia, Bulgaria, Polonia, ecc.) e si potevano intrattenere rapporti solo con persone provenienti dal blocco sovietico. In alcuni casi la “libertà di viaggiare” veniva data per altri paesi al di fuori del blocco su invito di parenti o per turismo, ma con un piccolo impedimento “tecnico”: non si potevano esportare dal paese oltre 50 o 70 dollari. La quantità di valuta acquistata e l'importo rimanente al rientro, venivano registrati su un allegato al passaporto. Portare fuori più valuta era un crimine. Quindi se viaggiavi, lo facevi in pratica con le tasche vuote.
Partire, viaggiare, essere fermati alle frontiere, entrare in un altro paese per me (ma per molte altre persone che conosco) significava anche tante sensazioni spiacevoli, un forte nodo alla gola davanti ad una divisa, lo stomaco che si stringe mentre attraversi la frontiera. Solo chi ha vissuto in un regime chiuso può comprendere appieno la sensazione.
In quei tempi partivano in molti, il che sembrerebbe per certi versi una contraddizione in quanto il Paese stava riacquistando una libertà negata fino a quel momento. Di libertà prima non si parlava e non si scriveva, non si era liberi di viaggiare e io respiravo una ventata di libertà grazie a quelle vite libere vissute epistolarmente.

A un certo punto ho voluto approfittare di un’opportunità a cui non potevo assolutamente rinunciare: andare all’estero e finalmente conoscere una vita al di fuori del mio paese.
Mamma non voleva che partissi, ma nulla poteva trattenermi. Racimolando 60 sterline lavorando in un albergo, e cercando di non vedere le lacrime di mia madre, un giorno salii sul pullman per affrontare il mio primo viaggio della durata di 23 ore fino a Londra.
L’obiettivo del viaggio era quello di migliorare il mio inglese e di restare per circa sei mesi. E così fu. Trascorso questo periodo, ritornai a Natale a Budapest con l’intenzione di proseguire la mia vita normale. Mi resi subito conto che per quanto amavo la mia Budapest, ormai mi stava stretta. Londra offriva una moltitudine di nazionalità, di persone diverse, di opportunità e di sogni non paragonabile. Per la seconda volta, nulla poté bloccarmi dal prendere la mia valigia e tornare nuovamente a Londra. La mia vita all’estero era piena di emozioni, di novità ma anche di impegni. Alternavo i miei studi in un college inglese, frequentando amici di varie nazionalità e lavori di diversa natura, vivendo in famiglie turche e greche. A dire la verità, non mi sono mai sentita una straniera e mi sono adattata sempre subito a vivere anche con culture molto diverse dall’ambiente in cui sono cresciuta. Le famiglie in cui ero ospite mi accolsero con affetto, forse perché non ho mai avuto la sensazione di essere diversa da loro. Ho partecipato a pieno titolo come parte della famiglia a grossi grassi matrimoni greci e, a detta della capofamiglia turca, il caffè turco più buono lo preparavo io durante le partite di bridge del venerdì.
All’epoca l’Ungheria non era uno stato membro dell’Unione Europea, per cui la mia permanenza in Inghilterra non poteva durare più di due anni.
Dovevo ritornare per forza a Budapest lasciando a Londra, oltre i sogni, anche un amore.
In fondo, due anni non sono poi così tanti, ma lo sono se succedono molte più cose di quelle che sono successe nel resto della tua vita: novità, successi, esperienze, persone, amici, amore, gioia, lacrime, addii. Rientrata nuovamente a casa, faticavo a reintegrarmi nella mia città natale perché la mia vita all’estero mi aveva ormai completamente travolta. Sentivo troppa nostalgia. Ma un giorno, del tutto inaspettatamente, si presentò l’amore londinese di origine italiana in Ungheria, a sorpresa davanti casa con in mano una grande mappa automobilistica d’Europa, esausto, stanco dopo aver attraversato in macchina tre paesi per riportarmi con lui a Roma.

E qui, per la terza volta, nessuno ha potuto fermarmi. L’impatto con l’Italia è stato travolgente, meraviglioso. Mi piaceva tutto, TUTTO. Il sole, il cielo sempre azzurro, il mare, le persone, i mercati rionali, il suono della lingua italiana, il romanaccio, i monumenti… l’ananas fresco e il fico conosciuto finora solo di nome in una favola della mia infanzia.
Poi ovviamente, con il tempo sono arrivate anche le difficoltà. L’Ungheria non era un Paese europeo. Formalmente ero una extra-comunitaria e i miei titoli di studio non erano riconosciuti. All’età di 24 anni, dovevo ricominciare da capo la scuola superiore per potermi iscrivere all’università. Presi il fatto (e il fato) con filosofia, perché frequentare la scuola significava avere ancora altre esperienze, altre occasioni di migliorare la lingua e di trovare un lavoro, e poi di incontrare tanti, tanti amici, ottimi amici, persone stupende, italiane e straniere. La mia classe sembrava il college londinese, colorato e pieno di multiculturalismo che adoravo così tanto anni prima. L’avventura proseguì fino all’università. Scelsi la facoltà di Economia, perché nel frattempo purtroppo l’amore finì, ma decisi comunque di rimanere a Roma, che cominciavo a considerare la mia città adottiva. Studiare in un’università italiana si rivelò una bella sfida sia in termini di impegno che di lingua, ma superai gli ostacoli della micro e macroeconomia, dei codici tributari, degli indici di bilancio laureandomi entro i tempi previsti.
Poche settimane dopo la discussione della tesi di laurea ero ancora inebriata del mio nuovo traguardo raggiunto, quando una compagna d’università mi parlò di un concorso europeo EPSO, a cui questa volta potevo partecipare perché nel frattempo l’Ungheria era diventata uno stato membro nel 2004. Presi dei libri in prestito, in francese, lingua che di fatto masticavo appena, mi preparai studiando politiche, funzionamento e organi di questa “nuova” Unione Europea. Passai il concorso al primo tentativo.
Tra diverse offerte di lavoro, scelsi di andare a Bruxelles, nella sede della Commissione Europea dove cercavano una lingua “esotica” (l’ungherese) per fare parte di un team di controllori finanziari. In un batter d’occhio fui catapultata in questo gigantesco mondo chiamato Europa, variopinto, multiculturale, pieno di stimoli, di ambizioni e con la possibilità di viaggiare negli stati membri per controllare progetti europei. In quegli anni, proprio mentre svolgevo controlli tra i beneficiari di progetti finanziati dalla Commissione europea, spesso mi sentivo chiedere perché non creassi qualche struttura per aiutare a gestire i progetti europei. Di fatto è proprio lì che cominciò a delinearsi l’idea di lavorare nel mondo della progettazione europea. Ma queste idee non erano compatibili con la posizione che ricoprivo allora. Lavoravo nella Commissione Europea, nel centro dell’Europa, cosa poteva darmi “più Europa” di così?

Il destino però è capriccioso, imprevedibile e confesso, imprevedibile era anche la mia nostalgia per l’Italia. E fu così che accettai senza troppe riflessioni un posto di Capo Amministrazione e il trasferimento alla Rappresentanza in Italia della Commissione Europea con sede a Roma. Sono nella mia città adottiva, con i miei amici, accanto a un nuovo amore (nuovamente italiano!). Potevo finalmente vivere insieme nello stesso momento sia Roma che l’Europa!
Passano altri tre anni stupendi, spensierati e professionalmente stimolanti a gestire budget, finanze, appalti, personale, finanziamenti ma, come al solito, il bivio arriva sempre puntuale davanti a me: alla scadenza del mio contratto, potevo tornare a Bruxelles, nella sicurezza ma sola, oppure dare seguito alla mia idea di un’organizzazione che si occupassw di progetti europei, qui in Italia. Dopo lunghe e, confesso, tortuose riflessioni, la bilancia pendeva verso quell’idea che molte persone intorno a me, consideravano come pazzia totale. Nella mia mente però riecheggia sin da bambina la frase della prima pagina di Fahrenheit 451: “Se mettono davanti a te un foglio a righe, scrivi su qualcos'altro”.
E così, cominciai a scrivere insieme a due ragazze, Cristina e Gianna, conosciute proprio in Rappresentanza, su quelle pagine bianche, candide, senza righe, la nostra idea di Europa.
Nel 2014 abbiamo dato vita ad un’associazione, Euphoria, che da una parte mi permetteva di mettere a frutto tutta l’esperienza europea e di non perdere, anzi, di sviluppare ulteriormente le competenze acquisite in Commissione Europea, ma mi dava anche un modo di portare avanti (phéro), quello che per me ha il significato non solo etimologico della parola EU: il bene.

Oggi lavoro come Project Manager di Euphoria e sono anche una libera professionista autonoma. Incontro ogni giorno molte persone di nazionalità diverse e le mie giornate sono arricchite sempre di nuove culture, tradizioni, lingue, colori, profumi, sapori.
Coordino progetti europei e quindi attraverso molte frontiere senza più avere quel nodo alla gola. Probabilmente, anzi mi auguro, che la maggior parte di coloro che stanno leggendo, non abbiano sperimentato cosa voglia dire vivere in un regime autoritario. Ma la mia esperienza mi ha insegnato a non dare nulla per scontato.
E quindi continuo a entusiasmarmi proprio per quella sensazione che ho cercato di trasmettere con qualche piccolo aneddoto. Poter fare tutto ciò liberamente. Ecco, penso che in quest’ultima frase è racchiuso quello che per me significa l’Europa, quello che per me è il mio sentimento europeo più importante: la libertà

Mi chiamo Francesco Pretagostini, ho 24 anni e oggi abito a Sassuolo, in provincia di Modena. Sono rientrato in Italia a settembre del 2018 per vedere come sarebbe stato provare a lavorare nell’azienda che ho sempre sognato da bambino: Ferrari.
Ma andiamo un po’ indietro. Proprio per seguire la passione che mi ha spinto poi a tornare in Italia, due anni prima avevo deciso, dopo aver conseguito la laurea triennale all’Università di Roma Tor Vergata, di andare a studiare all’estero. In particolare, dopo aver valutato diverse Università, la scelta è ricaduta su una università in Olanda. A Delft, infatti, si trova una delle più importanti università tecniche europee. Una delle ragioni principali per cui tra le scelte possibili c’erano solo università europee risiede nell’incredibile facilità con cui oggi ci si può muovere in Europa. Grazie all’Unione Europea, infatti, non sono necessari visti per muoversi da un paese all’altro ma soprattutto è possibile sentirsi un po’ più a casa nonostante si sia lontani dal proprio Paese.

Come me migliaia di studenti ogni anno si spostano per studiare da un paese all’altro e non è difficile sentirsi oltre che italiani, anche cittadini europei con storia e tradizioni in comune, di cui chiacchierare, su cui ridere o scherzare. Ecco la cosa bella dell’Europa. Non sono, infatti, le molteplici leggi e accordi che ci rendono più semplice la vita quando decidiamo, per un motivo o per l’altro, di allontanarci momentaneamente o indefinitamente dal nostro paese. Ma il fatto che, proprio grazie a questi accordi e leggi, tantissimi ogni anno fanno la nostra stessa esperienza. Si sviluppa, così, una coscienza comune che ci permette di non sentirci così soli a svariate centinaia di chilometri dalle nostre radici.
Questo è proprio quello che è capitato a me quando, un po’ timoroso sul come sarebbe andata, ho deciso di mettermi in macchina con i miei genitori, che forse quella mentalità europea me l’hanno trasmessa, e ‘mezza camera’ nel portabagagli. Arrivato li, dopo l’immancabile tappa all’Ikea ordinata dalla premurosa mamma italiana che non vuole far marcare nulla a suo figlio, ho iniziato a guardarmi intorno e ho pensato: “Ma lo sai che alla fine non mi sento poi così a disagio, è pieno di ragazzi nella mia stessa condizione che vogliono farsi nuovi amici. Non vedo perché dovrei ritrovarmi da solo”.

Un’altra cosa che spesso si dà per scontata ma che scontata non è per niente, è che, a mio avviso sempre grazie all’Europa, chi più chi meno parliamo tutti una lingua comune: l’Inglese. Ecco, nonostante le buone intenzioni e il fatto che fossimo tutti nella stessa condizione, se non avessimo avuto una lingua comune, difficilmente avrei potuto stringere amicizie così profonde come poi mi è capitato nei successivi due anni.
Ad ogni modo, dopo un breve periodo di ambientamento, mi sentivo molto a mio agio in questa nuova realtà. Già dopo le prime lezioni si era creato un bel gruppo di studio ma di amici soprattutto. Come in una barzelletta eravamo due italiani, un tedesco, un polacco, un indiano e un islandese a scherzare sulle varie differenze culturali e gli innumerevoli siparietti che si verificavano ogni giorno.
Dopo circa un mese che ero lì, ho deciso anche di iscrivermi al team di Formula Student, una specie di mini campionato di Formula Uno per studenti in cui gareggiano università di tutto il mondo. Anche questa volta, nonostante il contesto non fosse prettamente quello universitario e quindi progettato ad hoc, tutto era in lingua inglese e nel team, di ottanta studenti, c’erano 23 nazionalità. Incredibile. Gente da 23 paesi diversi con una singola passione comune a lavorare ogni giorno uno a fianco all’altro come se fosse tutto normale, quando invece, a rifletterci, è una cosa straordinaria e meravigliosa!
Dopo un anno di duro lavoro e con la macchina finalmente pronta per gareggiare, tutto il team è andato prima in Ungheria, poi in Germania e infine in Spagna. Il tutto con incredibile semplicità. Ma ci pensate che lavoro pazzesco sarebbe stato se non ci fosse stata l’Europa: muovere 80 persone, un camion di attrezzature e un prototipo realizzato da studenti attraverso almeno una decina di paesi? Vi chiederete inoltre “ma i soldi per fare tutto questo chi ve li ha dati?”
La risposta è semplice: una cinquantina di aziende europee che hanno creduto in noi e nel valore formativo del progetto. Ancora una volta l’Europa aveva non soltanto reso a tutti la vita più semplice, ma soprattutto fornito molti dei presupposti che avevano reso possibile il tutto.

Ora probabilmente starete pensando: okay Schengen, okay il movimento libero di capitali e beni all’interno dei paesi europei ma che altri benefici ci darà mai quest’Europa?
Vi faccio un altro esempio un po’ meno scontato. Durante i due anni di studio mi è capitato qualche migliaio di volte di ritrovarmi a leggere articoli sulle più disparate ricerche fatte nel campo automotive e della robotica, ecco, almeno la metà di quelle era sostenuta da qualche fondo europeo che le aveva rese possibili economicamente e che aveva anche portato a collaborare università e ricercatori da tutto il continente.

Ma torniamo un secondo a parlare di alcune delle persone di cui vi stavo raccontando prima. In particolare, stiamo parlando delle mie amiche Chiara ed Elettra e del mio amico Carlo. Tutti e tre sono amici di lunga data conosciuti a Roma ma che ora si trovano sparsi a lavorare in Europa e per l’Europa. Carlo, che ha studiato con me a Delft, sta facendo un internship all’Agenzia Spaziale Europea. Elettra, dopo aver studiato a Londra, si è trasferita a Bruxelles e ora lavora al Parlamento Europeo. Chiara lavora invece alla Banca Centrale Europea a Francoforte. Non penso sia un a caso che tre delle persone più brillanti che conosco lavorino nelle istituzioni europee e che queste siano in tre campi molto diversi. Per i neolaureati attuali sono, infatti, tra i posti di lavoro più ambiti, al fianco di grandi multinazionali e medie aziende leader nel loro settore, come appunto Ferrari. Ciò che attira è la qualità del lavoro che svolgono e l’ambizione dei loro progetti.

Al termine del primo anno di università, con la stessa semplicità di movimento che avevo trovato l’anno prima, mi sono trasferito a Bruxelles per fare un internship e scrivere la tesi presso la sede europea di Toyota. Ancora una volta una cultura differente e buona parte della mia vita sociale da ricominciare da zero; questa volta però a rendere il tutto più semplice non c’era un ambiente universitario pensato per favorire il benessere e l’apertura dello studente.
A mio favore però c’era il trovarmi nel cuore dell’Europa, dove i suoi trattati sono pensati e redatti e dove tutto, prima di essere belga, è europeo. Nuovamente senza grossi problemi mi sono ambientato e pian pianino ho scoperto un paio di posti dove andarmi a rifugiare quando avevo nostalgia del mio paese: Paolo’s Idea ad Ixelles faceva una fantastica pizza napoletana e il bar da Michele a Meiser un ottimo cappuccino e cornetto. Nel mio team in Toyota c’erano un italiano, un greco, uno spagnolo, un irlandese, un francese, due belgi, un portoghese e quattro giapponesi. Altro scenario da barzelletta che nuovamente mi fa porre l’attenzione su come qualsiasi paese europeo sia cosmopolita.

A Bruxelles mi è capitato anche di vedere la parte tanto criticata dell’Europa. Almeno una volta al mese infatti si tenevano corpose manifestazioni che contestavano i più variegati aspetti della politica comune europea. Spesso capitava anche che mi trovassi in accordo con quello contro cui i manifestanti – provenienti da ogni dove – protestavano. Certo ce n’è da lavorare per migliorare le cose ma, allo stesso tempo, l’idea che ci sia un’organizzazione super partes a vigilare sull’operato dei vari paesi e a invogliarne la collaborazione mi fa dormire sogni più tranquilli la notte, sebbene riconosca che, a volte, questo vada contro gli interessi dei singoli paesi portando a una più difficile attuazione delle politiche interne. D’altronde in ogni cosa c’è un compromesso ed ogni cosa, anche la migliore, è migliorabile.

Finita la parte di ricerca della tesi, dopo aver deciso di inseguire per un po’ la passione che avevo sin da bambino e avendo messo da parte il Francesco più adulto e razionale – che mi diceva “ma perché non te ne rimani in Toyota, che si sta benissimo!” – sono tornato in Olanda per un mese e mezzo per completare la stesura della tesi. Avrebbe dovuto essere un passaggio ‘rapido e indolore’, prima di ritrasferirmi in Italia ad inizio settembre, invece ho pensato bene di innamorarmi di Myrthe, una ragazza, al dire il vero l’unica, che aveva partecipato alla Formula Student con me l’anno precedente. Dopo aver passato un mese molto piacevole insieme, è arrivato il momento della scelta: “E ora che cosa facciamo? Dopo un mese insieme lasciamo morire tutto così e andiamo ognuno per la sua strada o proviamo a continuare a vederci e con un po’ di impegno cerchiamo di rendere normale una relazione con 1.600 km di mezzo? Ne vale la pena?” La risposta era e sarà sempre “Assolutamente si”, perché, almeno dal mio punto di vista, chi non prova perde in partenza. Certamente, però, la consapevolezza di potersi muoversi così facilmente, che, nonostante le differenze superficiali, le nostre culture non erano poi così distanti e che in un secondo momento non mi sarei trovato in difficoltà a tornare a trasferirmi all’estero, mi ha certamente aiutato a decidere di provarci. Oggi, 7 mesi dopo, tutto ‘va alla grande’ sotto quel punto di vista. Sicuramente c’è voluto del nostro per far funzionare le cose ma senza tutte le possibilità e i privilegi che l’essere cittadini europei ci dà, senza dubbio non sarebbe stato così semplice.

Per concludere il mio breve racconto su questi due anni all’estero vi lascio con una breve considerazione personale. Penso di essere la persona che sono oggi per molti fattori: famiglia, amicizie, educazione, esperienze personali e tanto altro. L’Europa e l’essere cittadino Europeo hanno contribuito. E al pensiero che – per via di persone che non ne comprendono i vantaggi perché accecati da un nazionalismo anacronistico e che non hanno mai avuto il coraggio di esplorarli e trarne beneficio – un giorno i miei figli possano essere privati di tutte le esperienze e opportunità di crescita di cui io ho avuto la possibilità di godere, mi assale un senso di profonda amarezza.


Ieri sera sono stato a cena da una coppia di amici, Hélène e Guglielmo, che sono da poco tornati a Roma: si erano conosciuti e messi insieme a Roma qualche anno fa, poi si sono trasferiti a Parigi e da qualche mese hanno deciso di rientrare in Italia. Abbiamo passato una bella serata, finendo inevitabilmente a parlare della Francia, dell’Italia, delle nostre esperienze di vita tra Roma e Parigi.
Stamattina sono arrivato in ufficio e ho trovato alla sua scrivania, di fronte alla mia, Lena: è lituana ma, come dico sempre, è più italiana di noi. Quando è nata, le repubbliche baltiche facevano ancora parte dell’Unione sovietica. Quando è venuta a studiare alla Bocconi, il suo Paese era da poco entrato a far parte dell’Unione Europea. Quando si è trasferita a Stoccolma per il dottorato, fortunatamente era aumentata l’offerta di voli low cost, che hanno consentito a lei e al suo ragazzo di Milano di continuare a vedersi e stare insieme.

Quest’anno, ad aprile, ci saranno molti ponti: con pochi giorni di ferie ci si può prendere un bel po’ di vacanze. Tornato a casa, ho guardato i voli su internet e le prime destinazioni che mi sono venute in mente sono quelle dove sono i miei amici. Potrei andare a Oslo da Mario, ma chissà se in quei giorni sarà lì o a Parigi: la sua compagna vive nella capitale francese e anche lui alterna periodi di lavoro in Francia e Norvegia. Potrei andare in Inghilterra, dove la mia amica Francesca si trasferirà per qualche mese per un visiting nell’ambito del suo dottorato – servirà il passaporto? Brexit sarà diventata realtà? C’è poi sempre quell’idea di andare in Olanda: ora che Thomas e la sua moglie canadese Clara sono tornati in Europa dopo qualche anno di lavoro negli Stati Uniti; sarebbe una bella occasione per vedersi.
Questo weekend ci sarà a Roma Giovanni, il mio compagno del liceo che da qualche anno vive a Milano. Ogni volta che torna è una buona occasione per organizzare qualcosa con il gruppo di quegli anni di studio; fortunatamente nel corso del tempo siamo riusciti a frequentarci, perché anche lui ha vissuto a Parigi nel mio stesso periodo. Era stato molto piacevole un weekend a Bruxelles, quando sono andato a trovarlo mentre lavorava lì.
In questo weekend dovrò anche preparare il divano letto, perché domenica arriva Cécile, la mia compagna d’università di Parigi, insieme ad una sua amica, e sono molto contento di ospitarle nel loro breve soggiorno romano. Il suo matrimonio con Jean, cui mi aveva invitato qualche anno fa, è stato proprio una bella festa.

Molto spesso, chi critica l’Europa dice che questa è l’Europa delle banche, delle lobby, dei burocrati di Bruxelles e invoca l’Europa dei popoli. In realtà, l’esperienza personale di ciascuno di noi ci dice che il vero futuro (ma che è già anche nel suo presente) dell’Europa è l’Europa delle relazioni. Nel nostro continente c’è già una fitta rete di relazioni – personali, economiche, lavorative, culturali, politiche – che ne costituisce la ragion d’essere, una solida base su cui poggiare la costruzione europea dei prossimi anni. C’era, in fondo, un legame personale tra Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi quando, confinati a Ventotene, scrissero il loro manifesto per un’Europa libera e unita. Dalle relazioni tra i padri fondatori della Comunità europea (Adenauer, Schuman, De Gasperi, Jean Monnet), che traghettarono i loro paesi fuori dalla seconda guerra mondiale, si avviò il processo per la firma del Trattato di Roma nel 1957.

Quando, nel 1992, il Trattato di Maastricht ha introdotto la cittadinanza europea, l’idea era proprio quella di rendere ciascuno di noi protagonista del progetto europeo: tutti hanno in tasca un passaporto con la scritta “Unione Europea” e possono sentirsi parte di quest’unica entità. L’Europa dei popoli presuppone l’avvicinamento di popolazioni caratterizzate da un proprio sentimento nazionale, con il rischio di escludere chi di quelle nazioni non fa parte. Nell’Europa delle relazioni, sono europei anche coloro che sono arrivati qui e fanno parte della comunità in cui vivono o coloro che, in ragione, ad esempio, della nazionalità dei loro genitori, non sono cittadini del paese dove si trovano ma hanno tutta una serie di legami con le persone che frequentano i loro stessi luoghi di vita. È nell’Europa delle relazioni che ciascuno di noi trova la bellezza, e anche i vantaggi, di far parte di un unico spazio di circolazione.

Sono queste le ragioni per cui non posso non sentirmi europeo. Quando nel 2009, al terzo anno di giurisprudenza, decisi di andare a studiare in Francia, avevo l’idea di andare a vedere cosa di meglio avesse da offrirmi un posto diverso da quello in cui ero nato e cresciuto. Lo stesso sentimento che muove milioni di persone nel mondo a spostarsi. Molti mi avevano messo in guardia: Parigi non è una città facile per chi viene da fuori, i parigini sono antipatici, faranno finta di non capire il tuo francese… non ho mai vissuto niente di tutto questo. I miei compagni di università, alcuni dei quali sono diventati dei buoni amici, mi hanno sempre fatto sentire uno di loro. Alcune ragazze francesi, che avevo conosciuto a Roma e seguivano il mio stesso percorso di studi “all’inverso”, le ho ritrovate lì e negli anni siamo stati accomunati non solo da una laurea franco-italiana, ma anche da un’amicizia franco-italiana. È poi anche vero che, quando si è fuori, si cerca di ricostruire un contesto familiare, frequentando le persone che si conoscono da prima: per fortuna, da questo punto di vista, Parigi è stata un punto di passaggio – per alcuni, di arrivo – di tante persone che conoscevo da tantissimo tempo. Tutti eravamo accomunati dall’idea di sentire casa un posto che casa nostra non era e al tempo stesso di ricreare lì alcune situazioni che di casa ci mancavano – penso ancora a dell’ottimo agnello mangiato a casa di amici italiani in qualche pranzo di Pasqua trascorso fuori dall’Italia.

Per me studiare in Francia è stata l’occasione di conoscere da vicino quello che, per motivi di studio (e oggi di lavoro), mi interessava di più: il funzionamento dello Stato, la cura della cosa pubblica, le regole che disciplinano l’azione dei pubblici poteri e l’interazione di questi ultimi con i soggetti privati. Ma è stata questa la ragione stessa che, in fondo, mi ha convinto a tornare: anche se in un contesto europeo, chi vuole occuparsi della cosa pubblica tende naturalmente a farlo per il proprio paese.

Penso che il percorso che io ho seguito sia comune a molti miei coetanei. All’inizio la curiosità per qualcosa di diverso. Poi, le opportunità che un’esperienza all’estero può offrire: io ho imparato molto nei miei studi di diritto pubblico e nelle esperienze lavorative, in studi legali ed enti pubblici, che ho potuto fare in Francia. Insieme alle opportunità, l’eterno dilemma: tornare o restare? Si sta bene fuori, si sta bene a casa propria. Alla fine, molti tornano, molti restano. Io sono tornato, enormemente arricchito per un’esperienza che non considero conclusa, perché fa parte di quel sentirsi pienamente europeo che ci permette di essere, anche in un luogo diverso da quello dove siamo nati, a casa.

E’ avvenuto contro ogni previsione; è avvenuto in Europa; incredibilmente, è avvenuto che un intero popolo, appena uscito dalla fervida fioritura culturale di Weimar, seguisse un istrione la cui figura oggi muove al riso; eppure Adolf Hitler è stato obbedito ed osannato fino alla catastrofe. E’ avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire.

Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 2007, p. 157

 

Come non raccomandare molto vivamente, soprattutto ai giovani, la lettura dell’ultimo imponente libro di Antonio Scurati su Mussolini, M. Il figlio del secolo? Si tratta del primo volume di una trilogia già annunciata in cui l’autore accompagna l’ascesa al potere di Mussolini con appassionata neutralità (e tuttavia senza che tale distacco mostri in alcun modo la minima simpatia per il personaggio) nel periodo che prende avvio nel marzo del 1919 – data di fondazione del movimento fascista – e si conclude il 3 gennaio del 1925 con il celebre discorso parlamentare nel quale il futuro dittatore assume su di sé  “la responsabilità politica, morale e storica” dell’assassinio di Giacomo Matteotti. Di quegli anni turbolenti – tra i più conflittuali e violenti conosciuti dal nostro Paese dall’Unità d’Italia – Scurati ci propone una storia romanzata (o se si vuole una sorta di romanzo storico) capace di coinvolgere il lettore in una miriade di eventi ciascuno dei quali, come la tessera di un mosaico, concorre alla composizione di un quadro d’insieme di grande efficacia nella misura in cui riesce ad intrecciare la dimensione narrativa (si tratta  pur sempre di un “romanzo” nelle intenzione dell’autore – come enunciato in copertina) e quella storica. Bisogna sottolineare, a questo proposito, come il valore storico del romanzo Scurati sia sostanzialmente aderente alle ricostruzioni del periodo considerato proposte da una tradizione storica consolidata non meno che autorevole e ormai largamente condivisa (e qui è d’obbligo il riferimento al monumentale lavoro su Mussolini di Renzo De Felice). Vorrei notare per inciso che la solidità della ricostruzione contenuta nel libro di Scurati non è per nulla scalfita da alcune imprecisioni (pochissime e neppure troppo gravi) che non sono sfuggite alla penna piuttosto pedante di qualche commentatore (Galli Della Loggia in particolare – «M» di Antonio Scurati, il romanzo che ritocca la storia, “Il Corriere della sera”, 13 ottobre 2018 – alle cui osservazioni Scurati ha risposto con molta eleganza in una nota pubblicata dallo stesso quotidiano il 17 ottobre 2018 ammettendo gli errori che, sottolinea, in un lavoro di 839 pagine possono sfuggire, ma rivendicando la natura letteraria del suo lavoro e spiegando che “raccontare è un’arte e non una scienza esatta”).

Il racconto di Scurati si svolge seguendo uno sviluppo espositivo frammentato in brevi capitoli ciascuno dei quali ha come titolo il nome di un personaggio rilevante per le vicende narrate (spessissimo è Mussolini, ovviamente, ma ricorre anche il nome di D’Annunzio e di altre figure centrali di quegli anni) accompagnato, il più delle volte, da un luogo (e in molti casi addirittura anche la via di una città) e una data. Quasi tutti i capitoli sono accompagnati da brevi appendici che ripropongono documenti originali (articoli di giornali, resoconti di polizia, verbali di riunioni, scambi epistolari, ecc.) che hanno lo scopo di rafforzare la narrazione e di recuperare alla memoria tracce rilevanti delle vicende proposte all’attenzione del lettore. I nuclei principali della storia raccontata sono tre:

1) le origini del movimento fascista, nato nel clima dell’aspro conflitto sociale che caratterizza gli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale (protesta operaia e occupazione delle fabbriche, rivolta del mondo contadino contro lo strapotere degli agrari, crisi e radicalizzazione politica dei ceti medi, ecc.) con la sua ideologia “reducista” fortemente recriminatoria fondata sul mancato riconoscimento dei meriti dei combattenti, sulla retorica della “vittoria mutilata”, sull’opposizione (ricorrendo anche alla violenza organizzata e sistematica) al socialismo e al nascente bolscevismo italiano;

2) la marcia su Roma di fine ottobre del 1922 raccontata con i molti dettagli che hanno caratterizzato quelle giornate convulse – dai preparativi para-militari delle squadre armate di fascisti accampate nelle campagne e in alcuni centri urbani in prossimità della capitale, ai tentativi politici, in verità poco convinti, di arginare la resistibile ascesa dei rivoltosi, dal possibile intervento dei vertici militari pronti ad accogliere un ordine superiore volto a reprimere la marcia, alle oscillazioni del pavido Vittorio Emanuele III incerto sul da farsi fino al cedimento e alla sua definitiva capitolazione – culminate con la nomina a primo ministro di Mussolini che raggiunge Roma in vagone letto per ricevere l’incarico di formare un governo di coalizione (che raccoglie un consenso parlamentare sufficiente a risolvere la momentanea crisi, avendo come unica opposizione il frastagliato e frammentato ventaglio delle forze di sinistra);

3) l’insieme degli eventi che hanno preceduto, accompagnato e seguito il delitto Matteotti – riproposti con una forza narrativa coinvolgente e al tempo stesso con una precisione quasi notarile che mette in evidenza l’ondata di sdegno suscitata nel Paese dalla brutalità dell’assassinio del deputato socialista che per qualche settimana ha messo in seria difficoltà il governo che avrebbe potuto crollare se l’opposizione si fosse fatta trovare unita e pronta alla “spallata” finale – culminati con il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 che, assumendosi la piena responsabilità di quanto accaduto, ha segnato l’avvio di fatto della dittatura fascista durata fino al 1943.

Il romanzo di Scurati ci porta al centro della scena politica del tempo proiettandoci con un’immediatezza descrittiva asciutta e al tempo stesso densa di dettagli non solo nel clima politico, sociale e culturale generale dell’Italia negli anni del primo dopoguerra, ma anche in una varietà di episodi specifici (perfino riguardanti la vita privata ed intima di molti personaggi e di Mussolini innanzitutto – del quale sono ben delineati molti aspetti psicologici caratterizzanti) che stimolano il lettore ad una comprensione (anche emotiva) di vicende che, nonostante siano lontane dal tempo in cui viviamo, è bene continuare a ricordare. Perché la comprensione del presente non è possibile senza la conoscenza e la memoria del passato. Bisogna coltivare con cura la memoria del passato perché, come ammonisce Primo Levi, “La memoria umana è uno strumento meraviglioso, ma fallace. E’ questa una verità logora, nota non solo agli psicologi, ma anche a chiunque abbia posto attenzione al comportamento di chi lo circonda, o al suo stesso comportamento” (P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 2007, p. 13).

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