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Mar, Giu

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N° 17 / 2021 - Ventennale I – Apprendere nella società della conoscenza

 

 
 

Sono passati venti anni da quando, nel gennaio 2001, è apparso, nel sito istituzionale del Formez, il primo numero di “Formazione & Cambiamento”, la rivista che, come sanno i suoi più assidui (e meno giovani) lettori, ha continuato ad essere pubblicata regolarmente con frequenza bimestrale fino al 2014, anno in cui si è resa autonoma e, grazie all’impegno di un piccolo gruppo editoriale, ha ripreso le pubblicazioni nella forma (anche grafica) attuale confermando, consolidando e rilanciando una linea di approfondimento caratterizzata dalla centralità della riflessione sull’apprendimento degli adulti. Questa prospettiva, volutamente ampia ed aperta, si è tradotta in una linea editoriale costantemente orientata a cogliere nella misura del possibile una molteplicità di temi, di questioni e di riferimenti alle pratiche seguendo un approccio transdisciplinare quanto alle teorie di riferimento, fondato sul legame con le (e sulla valorizzazione delle) esperienze, aperto al confronto. È difficile dire quanto l’esperienza dei venti anni di “Formazione & Cambiamento” abbia contribuito allo sviluppo della cultura della formazione italiana – in un tempo di scarsa presenza non solo nel web di punti di riferimento specializzati e autorevoli. Certo è che la rivista ha potuto contare sul contributo di moltissimi esperti di riconosciuto valore che hanno risposto generosamente (con articoli, interventi, interviste) alle sollecitazioni a collaborare alla costruzione dei 100 numeri del webmagazine. Al tempo stesso, non si può non segnalare, almeno come indicatore di gradimento, la crescente attenzione degli addetti ai lavori testimoniata dalla notevole dimensione quantitativa degli abbonati alla rivista.
Il Leitmotiv dell’apprendimento che ha fin dalle origini caratterizzato la riflessione di “Formazione & Cambiamento” trova un punto di approdo per noi particolarmente rilevante nella pubblicazione del numero speciale (il 15 del 2020) dedicato all’enunciazione di “Quattordici tesi sull’apprendimento” che intendono avviare di una discussione di lungo respiro che coinvolga un vasto fronte di soggetti e gruppi in un disegno decisamente orientato verso il rinnovamento radicale delle pratiche professionali legate ai processi di apprendimento. 
Una simile discussione è tanto più necessaria e impegnativa quanto più dirompenti si stanno manifestando nel mondo intero le conseguenze della pandemia che da oltre un anno ci tiene in ostaggio bloccando o limitando fortemente l’agire individuale e collettivo. È certo che gli effetti della pandemia incideranno profondamente nella vita sociale, materiale e psicologica di noi tutti lasciando segni che al momento nessuno è in grado di prevedere. In un momento come questo, proprio quando bisogna raccogliere le energie sostando nell'incertezza e mettendo in gioco tutte le “capacità negative” di cui siamo dotati, l'apprendimento, inteso come abbiamo cercato di tratteggiarlo nelle nostre quattordici tesi, si profila come una risorsa cruciale per affrontare con consapevolezza le difficoltà economiche, sociali ed emotive nelle quali la pandemia ha precipitato tutti noi. In una simile congiuntura, che richiede capacità di modificare abitudini fortemente strutturate e al tempo stesso quadri cognitivi consolidati, la riflessione sull’apprendimento reclama una nuova attenzione e una nuova centralità: senza alcun dubbio, infatti, l’improvvisa e sorprendente esperienza in cui siamo immersi ci ha insegnato che non finiremo mai di apprendere e che, apprendendo, continueremo a cambiare. Ogni situazione problematica, per quanto acuta e dolorosa possa essere, induce sempre al suo superamento e ciò è possibile solo attraverso una dinamica permanente di confronto serrato con l’esperienza, la principale fonte della nostra inclinazione ontologica ad apprendere. 
Il riconoscimento di tale realtà e della sua potente concretezza ci induce ad intensificare l'impegno di “Formazione & cambiamento” sul terreno dell'iniziativa finalizzata al rilancio – radicalmente rinnovato – delle politiche, delle strategie e delle pratiche associate all’apprendimento. 
Ed è proprio in questa prospettiva che intendiamo recuperare e ripubblicare – senza nulla concedere a tentazioni meramente celebrative – l’essenza di quanto proposto dalla rivista nei suoi venti anni di attività. 
Da tale recupero – che consiste nella riproposizione di una varietà di contributi selezionati tra quelli proposti dalla rivista nei numeri della “vecchia” e della “nuova” serie – emerge un cospicuo patrimonio di articoli e interviste che configurano una netta continuità di elaborazione e di pensiero fondata sulla centralità dell’apprendimento in tutte le pratiche in vari modi riconducibili a ciò che comunemente viene etichettato come “formazione”.
Il criterio con cui riproponiamo in una sorta di antologia retrospettiva una rassegna di testi scelti tra quelli già pubblicati corrisponde all’idea di associare i contributi proposti ad alcuni raggruppamenti omogenei delle “Quattordici tesi sull’apprendimento” esposte nel n. 15 del 2020. In tal modo è possibile non solo organizzare e distribuire in modo ordinato una gran varietà di testi, ma anche testimoniare una coerente persistenza di orientamenti culturali e di contenuti spesso in largo anticipo rispetto al dibattito corrente. Questa scelta espositiva – che valorizza al tempo stesso le tesi e i contributi ad esse associati – ci permette di raccogliere in tre numeri speciali di “Formazione & Cambiamento” dedicati al ventennale della rivista una serie di articoli e di interviste di un certo interesse.
In questo numero, che è il primo dei tre speciali (1) e che ha come titolo “Apprendere nella società della conoscenza”, proponiamo una serie di contributi riconducibili agli  assunti di tre delle “Tesi sull’apprendimento”, la prima (“L'apprendimento è parte integrante dell'essere al mondo ed è essenziale per la sopravvivenza, l’adattamento e lo sviluppo”), la terza (“Apprendere è anche capacità di dis-apprendere per tornare ad apprendere e per questa via continuamente cambiare”) e la quinta (“Dubbi, ostacoli, conflitti, freni, complessità sono parte integrante di ogni processo di apprendimento”). Per agevolare la lettura dei testi, li abbiamo distribuiti in quattro raggruppamenti: L’apprendimento (contributi di Cepollaro, Landri, Lipari e Mori), Le competenze (contributi di Bresciani, Bruni e Serreri), Apprendimento e organizzazioni (contributi di Linden/Patrinos, Lipari, Miccoli, Quaglino e Valentini), Il digitale (contributi di Busetti e Cinti).
Gli articoli e le interviste che qui pubblichiamo, tutti legati all’idea della centralità dell’apprendimento, offrono una varietà di punti di vista e di riflessioni che affidiamo ai nostri lettori nella speranza di alimentare una discussione più ricca e più ampia di quella da noi qui proposta.
 
(1) Identico approccio seguiremo per la composizione dei due numeri successivi (“Dimensioni soggettive e sociali dell’apprendere” e “Metodi e pratiche”) che pubblicheremo nei prossimi mesi.

 

* In “Formazione & Cambiamento”, Nuova serie, n. 15, 2020

Chi parla male pensa male e vive male.
Bisogna trovare le parole giuste.
Le parole sono importanti.

(Nanni Moretti, Palombella Rossa, 1989)
 

 


Assumo come nucleo della mia riflessione l’ammonimento di Nanni Moretti contenuto nel celebre dialogo tra il protagonista di Palombella rossa e una giornalista che utilizza un linguaggio sciatto e fitto di luoghi comuni. In particolare, del messaggio di Moretti mi preme sottolineare come «parlare male», ossia usare le parole in modo impreciso, approssimativo – o, peggio, fuorviante – abbia conseguenze permanenti di corrosione e distorsione del pensiero, della realtà e dell’esperienza. Se poi è condivisibile l’idea secondo cui «fin dalla prima parola pronunciata dall’essere umano nella storia del linguaggio, l’atto di apporre dei significanti […] serve a far emergere dal caos il suo significato, il suo contenuto» (A. Marcolongo, Alla fonte delle parole, Milano, Mondadori, 2019, p. 17), allora appare chiaro come i significanti (ossia le parole, appunto) abbiano l’enorme responsabilità di generare i significati che attribuiscono contenuto e senso alla realtà e all’agire.
Partendo dunque dall’importanza della scelta e dell’uso delle parole, decisiva ai fini della costruzione sociale dei significati, intendo qui proporre un ragionamento finalizzato a demistificare e depotenziare il lemma formazione nell’uso che (ormai correntemente) se ne fa per riferirsi ad una varietà di pratiche riconducibili ad azioni che sono di fatto assimilate alla sfera dell’educazione. L’alternativa è l’assunzione integrale della nozione di apprendimento sia nel linguaggio degli addetti ai lavori, sia nello svolgimento delle loro pratiche professionali.  

Comincio con l’esplorazione delle attribuzioni di significato acquisite e consolidate nel tempo dal termine formazione e dalle pratiche alle quali esso rinvia. Si tratta di un lemma che qui assumo nell’accezione convenzionale con cui è utilizzato nel gergo professionale e di senso comune che indica «il vasto campo delle attività educative extra/post-formali: 1) rivolte a soggetti adulti già impegnati nella (o da avviare alla) vita professionale; 2) legate (direttamente o indirettamente) al mondo del lavoro e delle organizzazioni; 3) orientate, nei concreti contesti in cui sono realizzate, da finalità di apprendimento che riguardano al tempo stesso le dimensioni cognitive, esperienziali e relazionali degli attori implicati» (D. Lipari, Progettazione e valutazione nei processi formativi, Roma, Edizioni Lavoro, 1995, p. 7). Riprendo questa mia definizione che risale a molti anni fa perché la ritengo sufficientemente ampia (ma al tempo stesso delimitata) per descrivere i processi ai quali si fa riferimento con il termine formazione. In ogni caso la sottolineatura riguarda: (i) il fatto che si allude ad interventi educativi extra/post-formali rivolti prevalentemente a soggetti adulti; (ii) il legame con il lavoro e il mondo delle organizzazioni; (iii) la centralità dell’apprendimento. Pur rifacendomi a questa formulazione non dimentico che le definizioni possibili sono tante e le differenze tra loro sono date dalla maggiore o minore enfasi attribuita alle dimensioni costitutive del concetto. In effetti assumere e proporre una definizione equivale ad una scelta di campo che corrisponde in un certo senso all’esplicitazione del punto di vista da cui si osserva il fenomeno da essa sintetizzato. Pertanto la mia formulazione altro non è che l’esplicitazione del mio punto di vista. Trovo interessante, a questo proposito, la rassegna delle definizioni di “formazione” ricorrenti nel dibattito italiano proposta da Quaglino allo scopo di mettere in evidenza come, proprio attraverso le definizioni del concetto si possa in larga misura risalire ad una varietà di orientamenti teorici, a volte distinti e a volte convergenti, che sono alla base di indirizzi metodologici e di pratiche professionali. Tale rassegna evidenzia chiaramente come le definizioni non siano affatto neutre, ma rappresentino precisi punti di vista ed opzioni teoriche e di metodo ad essi corrispondenti. Attraverso l’operazione di «raccolta di un certo numero di definizioni di formazione sufficientemente esplicite» da essere auto-evidenti, Quaglino descrive «… quella sorta di andirivieni tra piani temporali e riferimenti tematici che ha connotato lo sviluppo del dibattito sulla formazione e che in qualche misura ne ha segnato le fatiche ad avanzare verso una più solida identità tra differenti polarità e particolarismi, forzature e aperture, nonché verso una matura fondazione teorica» (G. P. Quaglino, «Postfazione» a Fare formazione, Milano, Cortina,  2005, p. 176).
Accettare – sia pure convenzionalmente – questa denominazione della quale si fa largo uso1 e il cui significato, proprio per questa ragione, è condiviso da quanti si riferiscono alle pratiche alle quali rinvia, non esclude la necessità di un ragionamento critico orientato a chiarire le ragioni per le quali ritengo che l’uso del termine “formazione” debba essere relativizzato e ciò perché le ragioni di precisione linguistica (di per sé più che sufficienti ad espungerlo dal nostro lessico) sono rafforzate dal fatto che, nelle condizioni attuali delle teorie e pratiche alle quali allude, è diventato del tutto  inadeguato a descrivere le azioni, gli approcci e i metodi legati ai processi di apprendimento. Anche volendolo accettare per mera convenzione che garantisca la continuità del discorso (tanto in quello degli addetti ai lavori quanto in quello più comunemente diffuso) per designare l’insieme delle pratiche educative sviluppatesi con riferimento al mondo del lavoro e delle organizzazioni, non significa, tuttavia, dover rinunciare ad una riflessione critica sul suo significato letterale e sulle possibili valenze simboliche e di senso che, proprio modellandosi attorno a questo significato, si strutturano dando luogo ad interpretazioni fuorvianti che si riflettono sulle pratiche e sul loro concreto dispiegarsi. Il motivo per cui ritengo altamente problematico l’uso del termine formazione (e a maggior ragione la sua trasformazione in concetto teoricamente fondato) risiede proprio nella parola stessa: formare rinvia direttamente ad una pratica in base alla quale è possibile dar forma ad un oggetto secondo un disegno preordinato. Questa interpretazione sottende una relazione tra un soggetto/agente che si propone di plasmare qualcosa a suo piacimento da un lato, e dall’altro, quel qualcosa, appunto, disposto/pronto a farsi plasmare e ad assumere la forma che l’altro ha deciso debba avere. Nella prospettiva di questa metafora, formare presuppone l’esistenza di un oggetto modellabile che risponda passivamente (magari opponendo la resistenza tipica di alcuni materiali inerti, che tuttavia è destinata a cedere) all’azione, in ogni caso coercitiva, tesa a modificarne la configurazione. Presuppone inoltre una soggettività capace di governare il processo di tras-formazione imposto all’oggetto. Ora, è del tutto evidente come, nelle pratiche alle quali ci riferiamo quando parliamo di formazione, una simile riduzione sia fuori da ogni logica (e da ogni possibilità di successo) anche nei casi in cui l’azione formativa assuma come proprie teorie e metodi assai vicini al significato letterale del termine in esame. Il motivo è connesso al fatto che si ha a che fare con persone in carne ed ossa anziché con oggetti malleabili e plasmabili. È quasi ovvio sottolineare il fatto che la soggettività degli attori ha un ruolo decisivo. Coloro che decidono di partecipare ad un’attività formativa per un loro scopo specifico (ad esempio, per acquisire un determinato contenuto di sapere), lo fanno perché spinti da una qualche strategia rispondente ad una libera scelta che si misura inevitabilmente con una proposta data (un corso, ad esempio, o un seminario) rispetto alla quale non viene mai meno il loro esercizio critico e la loro capacità di negazione2. Al tempo stesso, l’agire al quale l’idea corrente di formazione allude è innanzitutto una pratica relazionale dove si incontrano (dovendo necessariamente trovare accettabili mediazioni ed accordi) soggetti portatori di interessi e di obiettivi non necessariamente convergenti. Tutto ciò porta a sottolineare come sia del tutto improponibile una logica formativa aderente al significato letterale del termine formare. Certo, è possibile una visione dell’azione formativa improntata alla logica del “plasmare oggetti” (e in letteratura ancora se ne trovano); una simile visione non solo corrisponde ad un’idea arcaica, ma soprattutto (proprio per le ragioni legate all’irriducibilità dei soggetti a meri oggetti pronti a farsi modellare), è illusoria e destinata all’insuccesso.
Con questo esercizio di evidente forzatura della metafora del formare non intendo tanto sostenere che, nelle esperienze diffuse di formazione da molti di noi conosciute e frequentate, le pratiche correnti siano degli interventi coercitivi e passivizzanti, quanto piuttosto segnalare i limiti di una tradizione di teorie e di culture nelle quali l’azione didattica è prevalentemente concepita come un intervento unidirezionale (di qualcuno che trasmette saperi o conoscenze pratiche a qualcun altro che ne è privo e che dall’assunzione di quelle informazioni debba necessariamente essere trasformato in base a precise strategie, appunto, formative) nel quale le dimensioni soggettive del destinatario (che si esprimono in desideri, premesse, aspirazioni, interessi, ecc.) sono messe tra parentesi o comunque nettamente ridimensionate, così come, per conseguenza, è elusa la dimensione dell’inter-soggettività che inevitabilmente caratterizza questo tipo specifico di pratica sociale. Tale prospettiva tende, tra l’altro, a mettere in evidenza come, per descrivere i processi ai quali ci riferiamo, tra i tanti termini disponibili nel lessico (comune, ma anche in quello tecnico), quello legato all’idea di “formare” sia il meno utile. È  addirittura meno utile – proprio per il suo tratto riduzionista, reificante e coercitivo – di quelli che alludono all’”addestramento” (che pure trova in alcuni modelli di pratiche una precisa corrispondenza) o all’”indottrinamento” (che rinvia a significati di trasmissione/assunzione secondo modalità meccaniche il più delle volte mnemonicamente fondate di determinati contenuti ideologici), oppure all’”ammaestramento” (che corrisponde a specifiche tecniche di addomesticamento degli animali da ridurre a comportamenti docili e comunque adeguati alle aspettative degli umani con i quali sono destinati a convivere: si pensi ad esempio al dressage dei cavalli)3. Da questo punto di vista sarebbe perfino più utile il recupero del caro, vecchio concetto di “educazione”, se esso non fosse riferito a pratiche legate al mondo-scuola (e dunque rivolte a soggetti in età evolutiva): e-ducare infatti significa accompagnare, come suggerisce la sua forma originaria (deriva dal latino ē-dūcĕre = trar fuori, condurre da un luogo), e allude ad una modalità relazionale in base alla quale qualcuno che abbia un’esperienza riconosciuta, scorta qualcun altro lungo una via a lui ignota e che, grazie alla guida di cui dispone, può imparare a percorrere autonomamente. Pur rinviando alla presenza determinante di un’autorità talora indiscussa e dalla quale spesso si è dipendenti (si pensi ai bambini), l’idea di e-ducare introduce sfumature di significato che segnalano non solo la possibilità di scambi relazionali tra chi porta/guida e chi è portato/guidato, (dunque riconoscono una soggettività a chi è guidato/si fa guidare), ma anche un tratto di aleatorietà e di indeterminazione circa il punto di arrivo di un percorso che dipende evidentemente da tante variabili, non ultima quella legata alla qualità delle relazioni e degli scambi tra gli attori implicati. Interessante notare come un sinonimo di portare/guidare che coglie quest’ultima sfumatura di significato è quello di condurre (cum-dūcĕre) che sta ad indicare appunto il guidare insieme un processo indipendentemente ogni altra specificazione su chi è il protagonista principale dell’azione. Non mancano, poi, tra le tonalità semantiche che è possibile individuare, varie oscillazioni interpretative che, ad esempio, possono essere, tra le altre, quelle comprese tra i poli opposti del portare autoritariamente e dell’accompagnare discretamente (o amorevolmente). Si tratta di riconoscere – questo è il punto cruciale del mio discorso – la soggettività e l’autonomia dei soggetti impegnati in un percorso di questo tipo.
Si coglie agevolmente il senso della critica: essa intende mettere in guardia dai rischi reificanti e di coercizione derivanti da interpretazioni troppo letterali dell’idea di “ormare”, specie nelle pratiche in cui i protagonisti sono soggetti adulti impegnati nella (o da avviare alla) vita professionale. Per venir fuori dalle secche di una rappresentazione di questo tipo e per dare un senso effettivo e rispondente a ciò che realmente questi fenomeni racchiudono, è necessario mettere in gioco, secondo prospettive rinnovate e capaci di recuperare la necessaria centralità agli attori, le categorie della soggettività e dell’inter-soggettività in quanto tratti costitutivi di ciò che convenzionalmente chiamiamo “azione formativa”. E, da questo punto di vista, l’apprendere (letteralmente: afferrare e far proprio l’oggetto verso il quale si indirizza l’attenzione e l’interesse), diventa il concetto cruciale a partire dal quale non solo si rivaluta la dimensione soggettiva di chi partecipa ad un evento rendendosi protagonista di una dinamica relazionale in cui agiscono altri soggetti, ma anche (e proprio per questo) si mette in luce la rilevanza dell’inter-azione, dello scambio, del dialogo, dell’apprendere insieme.
Il punto di vista sull’apprendimento che intendo qui proporre, mette in evidenza la necessità di andare oltre le visioni classiche che descrivono il fenomeno come strettamente legato alla sfera individuale (oltre che associato a specifiche relazioni d’insegnamento del tutto separate dalla pratica) per delineare una prospettiva sociale e decentrata: gli attori sociali sono costantemente immersi in una realtà (le  loro vite e gli innumerevoli mondi che abitano) preesistente rispetto a loro e che si pone davanti alla loro esperienza con tutte le sue oggettivazioni (il linguaggio, le regole, le norme, le istituzioni, le tradizioni, gli oggetti materiali, gli artefatti, ecc.). È la complessa realtà – intesa come costruzione sociale e storico-culturale preesistente – che funge da punto di riferimento orientativo per l’azione di tutti e che impegna l’esperienza dei soggetti conoscenti i quali, per diventare attori sociali, cioè attori capaci di stare nel mondo con pertinenza, sono chiamati a confrontarsi con essa per appropriarsene.  
L’apprendimento, dunque, altro non è che il modo del tutto particolare con cui l’esperienza soggettiva degli attori entra in relazione con il mondo, caratterizzato non solo dalle oggettivazioni storicamente e culturalmente date, ma anche da altri attori che sono al mondo e del mondo fanno esperienza. Ma il modo di rapportarsi con il mondo preesistente e con gli altri non si configura nei termini di un rispecchiamento della realtà oggettivata nella coscienza del soggetto e nemmeno nei termini dell’impressione di segni su una tabula rasa passiva pronta a farsi incidere. Al contrario, il modo di rapportarsi al mondo preesistente si configura secondo una dinamica in cui la coscienza è attiva e riflessiva. Da questo punto di vista la riflessività della coscienza (F. Crespi, Azione sociale e potere, op. cit.), intesa come capacità di arrestare il flusso ordinario della condotta di routine, per interrogarsi su di essa ed orientarne il senso e come capacità di negazione (ivi), ossia come capacità di disconoscere le oggettivazioni, di opporsi ad esse e di cambiarle, diventa il tratto fondante del soggetto, della sua libertà, della sua capacità di implicarsi, anche con passione, nei processi in cui è impegnato; in una parola è il tratto costitutivo della sua capacità di apprendere.
L’apprendimento non è dunque riducibile alla dimensione mentalistica, ma è un fenomeno che investe simultaneamente la sfera esperienziale, quella emotivo-affettiva e quella cognitiva. Inoltre, non riguarda la dimensione strettamente individuale, perché, quale che sia la particolare modalità di apprendere esperita da ciascun soggetto, essa è sempre legata al campo delle relazioni intersoggettive e delle relazioni con oggetti/artefatti materiali.
La sfera intersoggettiva ha a che fare con l’insieme delle relazioni che ciascuno mette in atto nel momento in cui si rapporta con altri soggetti dotati delle stesse caratteristiche di soggettività (con rilevanti implicazioni sul versante delle dinamiche di partecipazione, di solidarietà, di cooperazione, di transazione, di potere e di conflitto). È importante a questo proposito sottolineare come la sfera intersoggettiva non sia riducibile solo alle relazioni di prossimità, ma riguardi anche quelle caratterizzate da una certa distanza sia spaziale che temporale: nel primo caso, esse sono garantite dalla mediazione della scrittura o della parola (scambi epistolari, telefonici, telematici, ecc.); nel secondo, dalla tradizione orale o scritta (racconti, documenti, letteratura, ecc.); e in entrambi i casi è sempre il linguaggio il medium che rende possibile l’intersoggettività.
La dimensione delle relazioni con oggetti/artefatti materiali (B. Latour, «Una sociologia senza oggetto? Note sull’interoggettività», in E. Landowski, G. Marrone, a cura di, La società degli oggetti. Note sull’interoggettività, Roma, Meltemi, 2002) rinvia ad un analogo (anche se apparentemente meno immediato) intreccio relazionale: nel momento stesso in cui entriamo in relazione con il mondo, non solo ci misuriamo con altri soggetti, ma anche con l’insieme degli oggetti prodotti dagli altri o con materiali che noi stessi trasformiamo in oggetti. Ora, questi artefatti, proprio per il fatto di entrare nella sfera della nostra esperienza, entrano direttamente nel gioco relazionale in cui siamo implicati influenzando in vari modi (cioè: sostenendo o, viceversa, vincolando) la nostra azione.
L’insieme di questi tratti costitutivi dell’apprendere, ne mette in evidenza tanto la dimensione sociale, quanto il carattere situato, esperienziale e pratico: l’esperienza che noi facciamo con il nostro agire si sedimenta nel bagaglio delle nostre conoscenze in parte come frutto di acquisizioni intuitive derivanti dal fare e dal veder fare che si trasformano in routine d’azione; in parte – nei casi in cui le conoscenze di routine non sono sufficienti o soddisfacenti – come esito della rielaborazione intellettuale ed emozionale e della conseguente assimilazione (J. Dewey, Come pensiamo, Firenze, La Nuova Italia, 1961) di un’azione di successo che ha modificato in modo più o meno rilevante una condotta pratica. Emerge, in sintesi, un’interpretazione in cui l’apprendimento si configura come un processo di partecipazione sociale fondato sull’esperienza nel quale entrano in gioco simultaneamente (i) l’acquisizione di competenze (tecniche e relazionali) situate, (ii) la costruzione dell’identità individuale e sociale, (iii) l’attribuzione di significato all’esperienza, (iv) il riconoscimento dell’essere parte di un insieme che condivide saperi, valori, linguaggi e identità.

 

1 Anche se solo in italiano e nelle lingue neolatine e non in inglese, ad esempio, e neppure in tedesco che usa il ben più efficace concetto di Bildung.

2 Sul concetto fenomenologico di “capacità di negazione” della coscienza, cfr. F. Crespi, Azione sociale e potere, Bologna, il Mulino, 1989.

3 A proposito di “ammaestramento” o, meglio, di educazione intesa come ammaestramento: è tipica delle visioni settecentesche dell’educazione (non del tutto fuori corso nel nostro tempo) prevalenti nelle culture gerarchiche delle scuole militari come testimoniato dall’iscrizione che campeggia sul portale dell’ingresso dell’accademia militare «Nunziatella» di Napoli (io l’ho letta una ventina di anni fa e l’ho trascritta perché mi ha davvero colpito): «Questa Accademia perché nell'arte della guerra e degli ornati costumi la militar gioventù ottimamente ammaestrata crescesse a gloria e sicurezza dello Stato Ferdinando IV PFI con regal magnificenza fondò nell'anno del suo regno XXIV».
 



 

* In “Formazione & Cambiamento”, Nuova serie, n. 7, 2017

Che l’apprendimento sia concepibile secondo la chiave della betweenness, come suggeriscono Gianluca Cepollaro e Giuseppe Varchetta (2014), è un punto di vista che può essere fatto risalire già a Platone, il quale scriveva nel Teeteto: «E non ci capita questo, per tutte le cose in genere e per ognuna in particolare, che noi o conosciamo o non conosciamo? Perché l’apprendere e il dimenticare, che sono i due processi intermedi (metaxỳ), io li lascio da parte per il momento […]» (188a, trad. M. Valgimigli). Con il termine “betweenness” Cepollaro e Varchetta non fanno peraltro riferimento «ad alcuna ricerca del giusto mezzo tra due estremi», bensì «a quella tensione ad abitare l’intermedietà, a fare la spola e a tessere legami tra elementi e livelli spesso apparentemente in contrapposizione non risolvibile. È questa tensione che qualifica l’apprendere ad apprendere» (p. 59). È la stessa tensione che indusse Platone ad utilizzare il termine «metaxỳ» per indicare la singolare compresenza tra gli opposti della conoscenza e dell’ignoranza, che contraddistingue i processi del dimenticare e dell’apprendere: il composto delle preposizioni meta (in mezzo, tra) e syn (insieme, con), infatti, indica ciò che stando in mezzo separa e congiunge. Ciò vale negli ambiti più diversi: dal fuggevole istante presente, sospeso tra passato e futuro, fino ai complessi accoppiamenti intessuti da Eros nello spazio delle relazioni umane, quell’Eros che non a caso viene descritto nel Simposio come figlio di abbondanza e mancanza, filosofo per eccellenza in quanto intermedio tra l’essere sapiente e l’essere ignorante, ma proteso al sapere.

 

 

 

 

 

 

 

Grazie alla capacità di abitare l’intermedietà possiamo apprendere, in quanto non siamo mai né del tutto dentro, né del tutto fuori al già dato, a ciò che siamo stati. Riferendosi alla celebre illustrazione Mani che disegnano, di Escher, in cui due mani sembrano uscire dal foglio bidimensionale in cui sono inserite per disegnare se stesse, Varela vi riconosce un modello dei loop creativi e virtuosi in base ai quali soltanto possiamo tentare di «comprendere i sistemi naturali, i fenomeni cognitivi e il ricco mondo delle forme» (Varela 2008). Più specificamente, riferendo tali considerazioni ai processi di apprendimento, potremmo dire che ogni apprendimento comporta un circolo di auto-eso-referenza, di uscita e di ritorno, di attraversamento di cornici. Si apprende in quanto ci si può staccare dal mondo nel quale ci si trova, pur continuando a farvi riferimento, in una dimensione intermedia in cui autonomia e dipendenza sono correlate senza elidersi a vicenda: tra il già visto e ciò che resta da vedere, tra il già esperito e ciò che è altrimenti esperibile, tra il già concepito e ciò che ancora non è stato concepito. Poiché ogni apprendimento comporta il passaggio dal punto in cui si è, dal contorno di ciò che è stato già acquisito, ad un punto in cui non si è ancora, è significativo che l’idea dell’approssimarsi sporgendosi sia inscritta, con una suggestione motoria, nell’etimologia del verbo latino “ad-prehendere”, che indica un protendersi verso (ad) qualcosa di cui si è privi, per afferrarlo (prehendere). L’esito del tentativo dipenderà dal punto in cui ci si trova, dalla distanza del punto verso cui ci si protende e dal modo di sporgersi e incamminarsi nella betweenness, affrontando l’inevitabile condizione di mancanza di equilibrio; dipenderà inoltre dal modo in cui siamo accompagnati.
Nel quadro metaforico così delineato, emerge chiaramente l’importanza del creare connessioni: si tratta di quel relier (mettere in relazione, collegare) su cui si concentra la ricerca di Edgar Morin (1999, 2001). Apprendere può dunque significare: riuscire a vedere o a fare altrimenti le cose, a cogliere nuovi nessi, a scorgere una forma o una figura dove prima non se ne scorgeva nessuna. Così, un bambino che abbia imparato a leggere, vedrà diversamente da come gli accadeva in precedenza i seguenti segni:

M A N O

Probabilmente, dopo aver appreso a leggere, non riuscirà più a vederli come li vedeva prima, senza associarvi un suono e un significato.

MANO

Ma apprendere può anche significare: riuscire a scorgere lo sfondo caotico dietro la figura che ci appare stabile e ben definita, su uno sfondo uniforme: il che accade, ad esempio, quando si inizia a dubitare di una credenza precedentemente ben fissata o quando si inizia a cambiare idea su qualcosa.
Ogni nuova forma percepita, concepita o agita, una volta che sia appresa, porta con sé possibilità e vincoli nuovi. Tendiamo ad attenerci alle forme già note, perché cercarne e afferrarne altre può richiedere sforzo, fatica e frustrazione; raramente problematizziamo concetti e punti di vista che ci sembrano naturali, ovvi e scontati; analogamente, tendiamo a ripetere i nostri schemi motori divenuti abituali senza accorgercene, quasi per automatismo, finché un disagio o una sofferenza non ci costringano a ripensarli, o finché una nuova prospettiva di senso e un improvviso entusiasmo non ci costringano a rivederli. Come abbiamo un passo caratteristico, una postura, un modo di stare seduti, un modo di guardare e di impugnare gli oggetti, così abbiamo un modo caratteristico di affrontare i problemi e di impugnare le idee che ci sono consuete. La possibilità di apprendere è la possibilità che abbiamo di mantenere aperta una tensione tra la realtà che ci appare “data” e quella possibile; tra ciò che si è, si sa e si può fare in un dato momento e ciò che si può divenire.
Abbiamo fatto riferimento alla suggestione motoria evocata dal verbo latino “ad-prehendere”: riprendendola ed approfondendola, possiamo cogliere altre implicazioni di quanto esposto fin qui. Fornendo una delle versioni più radicali del rapporto tra pensiero e movimento, Rodolfo Llinás (2001) ha formulato l’ipotesi che il pensare sia concepibile come «motricità internalizzata (internalized motricity)»: assumendo come premessa il fatto che agiamo facendoci immagini senso-motorie non solo visive dei contesti da cui l’agire dipende, l’apprendimento è possibile in quanto non esistono «configurazioni fisse d’azione (fixed action patterns)», cosicché il sistema nervoso deve modificarsi per raccordarsi al cambiamento (ivi, p. 174).
Che il contesto sia decisivo lo si ricava dall’esempio del funambolo: «camminare sul bordo di un marciapiede e camminare su una corda o su un filo metallico – scrive Llinás – non sono cose molto differenti: nei due casi è richiesto un ciclo di passi orientato a seguire una linea retta. Il feedback sensoriale, però, è drasticamente differente nei due casi. Camminando sulla corda aumenta il bisogno di un aggiustamento compensativo dell’equilibrio, perché l’area d’appoggio per il piede è limitata e perché la corda si muove rispondendo ai movimenti del corpo, al contrario del bordo del marciapiede. La differenza più rilevante, comunque, è un altro aspetto del contesto, particolarmente serio. Nel caso della corda, se perdi l’equilibrio, puoi morire» (ibidem). Come si apprende, allora, a camminare su una corda? Trovando il modo di abitare una betweenness tra ciò che si sa fare e ciò che ancora non si sa fare. Può essere utile passare progressivamente dal bordo del marciapiede a supporti meno stabili e sospesi ad altezza maggiore. Il passaggio diretto dal marciapiede alla corda sospesa, infatti, avrebbe pesanti controindicazioni, in quanto il nostro sistema sensomotorio e cognitivo non avrebbe appreso a trovare l’equilibrio e gli accoppiamenti strutturali adeguati con l’insolita situazione. Ciò vale peraltro per ogni apprendimento: si impara a camminare o a pedalare su due ruote essendo sostenuti da mani che progressivamente ci lasciano andare; si impara a nuotare, cioè a trovare un accoppiamento strutturale adeguato tra il proprio corpo in movimento e un ambiente fluido in cui si potrebbe sprofondare, grazie all’uso e all’abbandono progressivo di supporti (il sostegno di qualcuno, i braccioli, il tubo utilizzato comunemente nelle piscine).
Tuttavia l’apprendimento non è soltanto questione di passaggi in questo senso: la pratica e la ripetizione sono necessarie affinché il sistema nervoso apprenda e, con la ripetizione, muta la “significanza interna” (internal significance, scrive Llinás) delle cose e degli ambienti con cui si interagisce; accade così un altro genere di passaggio, relativo alla significanza delle medesime cose che, attraverso una pratica ripetuta, appaiono mutare di senso.
C’è un rapporto tra le strade già percorse (da altri o da sé) e ciò che è possibile fare in condizioni di dipendenza dal sentiero battuto (path-dependence). Analogamente, c’è un rapporto tra il già concepito, ciò che è concepibile (ma non è ancora stato concepito) e ciò che diventa o appare possibile, cambiando il modo di concepire. Se ci rappresentiamo il dominio del concepibile come uno spazio ondulato e frastagliato, la parte più popolata sarà quella del già concepito, in ragione di una disposizione a conformarsi a ciò che già c’è, percorrendo il sentiero battuto, che deriva anche dal modo in cui si strutturano le relazioni di potere e di apprendimento nella loro dimensione mimetica. Eppure la contingenza permette, anche in queste condizioni, l’evoluzione: il passaggio dal già concepito al concepibile che ne resta fuori avviene per lente modificazioni e traslazioni, con l’affiorare di incongruenze, difficoltà ed enigmi che possono portare un sistema di idee, di valori e di pratiche operative anche molto consolidato a mutare di significato, ad essere visto altrimenti, ad essere riformulato o abbandonato. Le estensioni nel dominio del concepibile diventano poi, ogni volta, anche estensioni nel dominio degli usi possibili di sé: l’accesso a tali estensioni è l’attraversare mondi di cui l’apprendimento è al tempo stesso premessa e conseguenza.

Riferimenti bibliografici

Cepollaro G., Varchetta G. (2014), La formazione tra realtà e possibilità. I territori della betweenness, Guerini Next, Milano.
Llinás R. R. (2001), I of the Vortex. From Neurons to Self, The MIT Press, Cambridge (Mass.)-London.
Morin E. (1999), Rélier les connaissances, Seuil, Paris.
Morin E. (2001), I sette saperi dell’educazione del futuro, Cortina, Milano.
Varela F. J. (1981), “Il circolo creativo: abbozzo di una storia naturale della circolarità”, in P. Watzlawick (a cura di), La realtà inventata. Contributi al costruttivismo (1981), Feltrinelli, Milano 2008; pp. 259-272.

* In “Formazione & Cambiamento”, Nuova serie, n. 7, 2017

Oggi, più che mai, nella formazione si avverte la necessità di un definitivo transito da un pensiero e da una pratica “oggettivante” a una centrata sulle relazioni. La ricerca neuroscientifica, confermando molte intuizioni precedenti, fornisce attualmente evidenti prove sul fondamento naturale della relazionalità, su come l’intersoggettività costituisca la base della condizione umana e sulla reciprocità quale carattere distintivo di ogni esperienza. Soggetto e oggetto, interno ed esterno, affettività e cognizione, insegnamento e apprendimento sono solo descrizioni verbali di aspetti legati ad uno stesso costrutto di base: la relazione e l’apertura verso l’altro. Caratterizzati da una costitutiva “matrice relazionale” siamo chiamati ad elaborare strategie connettendo le risorse che abbiamo a disposizione, tessendo trame nella fitta rete di interdipendenze nella quale siamo immersi. La formazione deve oggi saper prendere le distanze da una visione dell’apprendimento basata sulla trasmissione ed affermare senza esitazione che anche alla base dell’apprendimento vi è la relazione.
Nella relazione non c’è certezza, sequenzialità, linearità ma il possibile e il progetto si propongono come poli attorno ai quali pensare l’esperienza formativa. Il possibile si contrappone al prevedibile, al già dato, a ciò che è determinato. Torna alla mente l’imperativo etico di Heinz von Foerster: “agisci sempre in modo di accrescere il numero totale delle possibilità di scelta”. Seguendo questa traccia, la formazione può orientarsi verso una strategia di continua creazione di possibilità percorrendo i territori della cura, dell’attenzione, della riflessività, della narrazione, della creatività e della responsabilità. Sono questi i “territori della betweenness”, dell’intermedietà, in cui considerare la persona-che-cambia al di là di ogni tentativo di controllo.
Sono territori che con Giuseppe Varchetta in questi ultimi anni abbiamo provato ad approfondire nel testo La formazione tra realtà e possibilità (Guerini Next, Milano, 2014, prefazione di Silvano Tagliagambe) tracciando un ipotetico viaggio tra quelle pratiche che, attraverso rotte incerte e strade faticose, si orientano ad assumere le relazioni come fondamento e scorgere nuovi connessioni nel tentativo di tracciare nessi, sottili fili rossi, che cercano di riconnettere saperi ed esperienze, di ibridare codici e linguaggi.
Il percorso comincia con la cura per il suo essere struttura dell’esistenza, per la sua dimensione radicata e originaria. La cura rimanda contemporaneamente sia ad aspetti di effettività, di “ciò che si è”, che ad aspetti di possibilità, quindi di “poter essere”, che connotano qualsiasi esperienza educativa. Aver cura, quindi, significa investire nell’apertura del possibile, rendendosi disponibili all’imprevisto e all’inatteso. Il transito verso l’attenzione e la riflessività, territori prossimi e contigui, ci consegnano alla possibilità di un continuo tornare su noi stessi, di una incessante attività di selezione, ma anche di un sospendere il pensiero e lasciarlo disponibile per progettare il futuro. Un processo di apprendimento “all’altezza dei tempi” riesce ad aprirsi all’interrogazione incessante, alla ricerca ossimorica della molteplicità nell’unità, a sopportare ciò che non è ancora definito. L’azione formativa deve essere in grado di sostenere l’attenzione, da ad-tendere ossia la capacità di tendere verso, e nello stesso tempo di alimentare la disposizione riflessiva che consiste nella continua interrogazione su se stessi. Attenzione e riflessività permettono di connettere in un territorio intermedio azione-pratica ed esperienza, sperimentando l’accesso ad una terra di frontiera e di scoperta soggetta alle variazioni dinamiche di un sé erratico, conteso da motivazioni profonde diverse. La narrazione è considerata come occasione per attribuire senso e significato alla realtà, come momento di ricostruzione dell’esperienza e di connessione tra conoscenza e azione, tra dimensioni individuali e collettive. La narrazione, atto del raccontare storie, rinvia sempre alla relazione e la formazione è sempre narrativa. Nella loro relazione gli attori si raccontano cercando di giungere a rappresentazioni della realtà culturalmente negoziabili attraverso la via faticosa e incessante della ricerca di significato. Ed è proprio nella rottura della continua ricerca di senso e significato che emerge la creatività, territorio nel quale sperimentare la provvisorietà degli equilibri raggiunti per generare ciò che è assente, per dare corpo al possibile. La riflessione attorno alle condizioni che facilitano la disposizione a “tendere all’oltre” deve comunque partire dalle relazioni e dalle prassi quotidiane per concepire le storie individuali e collettive non come un destino, ma come un progetto, una scoperta e un’invenzione. L’ultimo approdo è la responsabilità intesa come relazione tra persone che domandano e rispondono, come responsabilità verso noi stessi e verso gli altri. La responsabilità rinvia al fondamento relazionale dell’azione formativa e alla reciprocità degli impegni che gli attori si assumono. I fallimenti della formazione “depositaria” rendono necessaria una concezione aggiornata della responsabilità che riconosce la possibilità di costruire la propria identità nel rapporto con l’altro e dalle relazioni in cui si è coinvolti. La responsabilità è costitutivamente relazionale: è nello stesso tempo manifestazione dell’individualità ma anche segno della socialità, essa emerge dall’intreccio tra autonomia e interdipendenza, tra sé e altro da sé. Essa riguarda sempre la relazione con l’altro, con gli altri, ed anche con l’alterità dell’avvenire: la formazione si preoccupa infatti di pensare a un “ad-venire”, per il quale non è possibile darsi alcuna caratteristica di completezza o di esaustività. L’approdo alla responsabilità è anche allo stesso tempo un ritorno al territorio di partenza nel quale la cura dell’altro e del mondo può aversi solo se accompagnata dalla cura del sé.
Nell’intendere la formazione come una pratica dell’intermedietà abbiamo cercato di sottolineare il suo essere processo di continua e ricorsiva interazione, caratterizzato da un elevato grado di flessibilità e di apertura, tra diversi livelli: tra interno ed esterno, tra soggetto e oggetto, tra realtà e finzione. I ruoli degli attori implicati nel processo formativo si ribaltano di continuo, donandosi reciprocamente senso. Così anche il rapporto tra insegnamento e apprendimento non può essere definito dalla sequenzialità di un contenuto insegnato da qualcuno e appreso da qualcun altro, ma dall’interdipendenza e dal dover sempre assumere una posizione di dialogo. È una relazione che non si qualifica con un trattino (-) ma con uno slash (/), un between, che tiene insieme pur considerando la distanza e le reciproche asimmetrie degli attori coinvolti. Abitare i “territori della betweenness” richiede di pensare un’azione formativa capace di far fare spola tra l’interno e l’esterno, il soggettivo e l’oggettivo, il concreto e l’astratto, il singolare e il generale. Sono per loro natura territori della relazione e dell’alterità, e quindi dell’ambiguità, dell’incertezza e del conflitto. Lavorare in questi territori richiede l’abbandono dell’idea di completezza ed esaustività di qualsiasi azione formativa e l’allontanamento dalla ricerca di una finalità di ogni apprendimento. Richiede di privilegiare l’attesa e non la pretesa (“Attesa” è il titolo della fotografia di copertina di Varchetta che abbiamo scelto per questo numero), di sostenere una ricerca erratica ma non per questo senza valore, richiede la coscienza della propria fragilità e vulnerabilità mentre si riconosce la forza dell’essere aperti al possibile e per questo continuamente in fieri. Richiede di scoprirsi viaggiatori esposti alla contingenza, agli scarti, alla varianza, allo stupore e a una continua ristrutturazione del sapere. Richiede in altre parole di intraprendere il cammino verso una epistemologia dell’intermedio in cui considerare il valore della discontinuità, dei breakdown, degli inattesi mantenendo aperta una tensione tra l’esistente e il possibile, tra “ciò che si è” e “ciò che si può divenire”. Perché come ci ricorda Robert Musil in L’uomo senza qualità se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità”.

* In “Formazione & Cambiamento”, n. 20, 2003
 
Premessa
Il notevole spettro di immagini della società contemporanea è, in parte, l’effetto della pluralità dei riferimenti culturali e degli approcci di coloro che sono impegnati nell’attività di produzione di significati per la riflessione sui cambiamenti sociali in corso. In questo quadro di estrema varietà, peraltro, alcune rappresentazioni tendono a divenire dominanti nelle pratiche discorsive e manifestano più di altre una loro ricorrenza nei discorsi scientifici così come nelle conversazioni quotidiane. Ciò vale, in modo particolare, per la nozione di learning society che, secondo alcuni, sembra cogliere alcuni aspetti innovativi nei processi di apprendimento e di produzione della conoscenza nel tipo di società emergente con il superamento della società fordista e taylorista e che, secondo altri, denota alcune delle caratteristiche principali dell’economia contemporanea, orientata a riconoscere una notevole centralità agli aspetti “immateriali” della produzione (segni, simboli, testi), ovvero ai saperi, alle conoscenze e alle loro capacità di (ri)produrli e, quindi, ad enfatizzare correlativamente che il processo della loro costruzione non è del tutto disgiunto dal processo del loro apprendimento.
 
La diffusione di un termine in una pratica discorsiva, tuttavia, non è un prodotto automatico, ma è l’effetto di complessi processi di traduzione tra “comunità di parlanti” che convergono temporaneamente, e talvolta secondo “sciami” imitativi, nell’uso di una gamma di termini condivisi.  Nel caso della ricerca sociale italiana, sono pochi coloro che usano il termine “learning society” nella sua forma originale, oppure nella traduzione letterale (società dell’apprendimento); perloppiù, “learning society” viene riferito più frequentemente all’espressione “società della conoscenza”, attribuendo al concetto di “conoscenza” una valenza che induce ad ampliare i fenomeni dell’apprendimento, fino a prendere in considerazione temi che, più frequentemente, nel panorama italiano sono stati trattati da coloro che si sono occupati della “società dell’informazione” oppure ancora della “società dell’informazione e della comunicazione”. 
 
Il significato olistico del concetto “learning society” risulta, quindi, frammentato lungo diversi filoni discorsivi che attraversano diverse comunità disciplinari (pedagogisti, sociologi, economisti, studiosi dei media e delle tecnologie) e che alimentano diversi programmi di ricerca su diversi piani di riflessione. In queste note, ci si riferirà soprattutto a quei contributi del dibattito scientifico che più di altri si sono soffermati sulle questioni dell’apprendimento nella learning society, allo scopo di individuare quali filoni di ricerca ineriscono in maniera più o meno esplicita alle questioni sollevate dalla nozione di (e dalle policy della) società dell’apprendimento. 
 
In una sorta di “ricerca sulla ricerca” si è provato a classificare tali filoni di ricerca all’interno delle seguenti tematiche: la governance dell’apprendimento; l’ apprendimento di competenze, l’apprendimento all’interno e all’esterno delle organizzazioni, la prospettiva dell’apprendimento per tutta la vita; l’apprendimento mediante le TIC (tecnologie dell’informazione e della comunicazione). Nelle pagine successive ci si soffermerà su tale classificazione allo scopo di produrre una prima mappa dei modi di concettualizzazione dell’”apprendimento nella società dell’apprendimento” secondo le comunità scientifiche della ricerca sociale italiana.
 
1.L’apprendimento nella società dell’apprendimento
1.1. La governance dell’apprendimento
Gli obiettivi di realizzazione della società dell’apprendimento (e della conoscenza) sembrano produrre, come argomentato altrove (Benadusi e Landri, 2002), l’eclissi della burocrazia scolastica. Questo passaggio si sviluppa all’interno della più ampia ristrutturazione dello stato che, in alcuni casi, è stata presentata come “la managerializzazione dello stato”, ovvero l’allineamento dei discorsi organizzativi del settore pubblico all’interno del paradigma del “New Public Management”. In questo senso, l’efficace metafora dell’amministrazione imprenditoriale può rivelarsi utile per sottolineare la necessità di un nuovo modo di organizzare il settore pubblico attraverso l’imitazione delle aziende private (D’Albergo e Vaselli, 1997).
Questi cambiamenti possono essere considerati, da alcuni, come un arretramento dello Stato, e in particolare, come l’indizio di una privatizzazione dell’istruzione e, da altri, come un processo di societizzazione dello Stato (Berg, 1992), ovvero come il tentativo di attribuire più poteri agli attori sociali, sostenendo la partecipazione e la democratizzazione al livello dell’erogazione dei servizi pubblici e migliorando la capacità di risposta delle organizzazioni pubbliche rispetto ai bisogni dei cittadini (Benadusi, 1997; Ribolzi, 1987; 1999). 
Quale che sia l’interpretazione, le politiche dell’autonomia scolastica (e dell’autonomia universitaria) hanno ridisegnato in profondità l’architettura del sistema della formazione, attribuendo un ruolo di definizione degli obiettivi, di monitoraggio e di valutazione del sistema educativo alle agenzie centrali di regolazione (Ministero e sue articolazioni) e, decentrando una serie di competenze alle Province, ai Comuni e alle Regioni in una prospettiva di policy di integrazione tra i campi di attività del lavoro, dell’istruzione e della cittadinanza.
Tali cambiamenti hanno alimentato una letteratura sulle organizzazioni educative nella quale il management della scuola sembra delineare un’area di riflessione e di pratica quasi separata dalle pratiche ordinarie dei processi di insegnamento/appredimento (Benadusi, Landri e Viteritti, 1999; Benadusi e Serpieri, 2001; Serpieri, 2002).  Le politiche dell’organizzazione hanno dedicato, infatti, un’attenzione dominante ad una prospettiva normativa del management che ha fatto prevalere gli aspetti di similarità, piuttosto che le differenze di scuole ed università da altre organizzazioni (Romei, 1986; 1995; Vairetti, 1996; Strassoldo, 2001).  In questa letteratura, relativamente nuova per il panorama italiano, accanto ad un richiamo per una maggiore attenzione al “management dell’organizzazione” per le scuole e le università, è anche evidente una prospettiva di professionalizzazione che prelude alla costruzione di nuovi ruoli e competenze, quali quelli del “dirigente scolastico” e delle “funzioni obiettivo” pensati come dei “professionisti riflessivi”. Questi ruoli sono considerati di notevole rilevanza per aumentare la capacità delle scuole di agire come delle organizzazioni e per invertire il trend della deprofessionalizzazione degli attori scolastici (ed in particolare dei docenti) attraverso la loro ricollocazione all’interno della nuova classe sociale dei lavoratori della conoscenza (Butera, Coppola, Fasulo, Nunziata, 2002).
Una parte importante di tale filone di ricerca si concentra sulle tecnologie di valutazione (e di autovalutazione) della scuola e delle università con la finalità di delineare e contestualizzare i rituali di validazione e dell’accounting per tali organizzazioni (Castoldi, 1995; 1998; Strassoldo, 2001). Si tratta, in questo caso, infatti, di produrre nuovi saperi per l’amministrazione della scuola che supportino quel processo di ridefinizione dei confini dell’intervento pubblico nel campo dell’istruzione e che agevolino il posizionamento dello stato come agenzia che limita la sua sfera d’influenza, contribuisce alla “liberazione” degli attori scolastici dalle “vecchie” strutture di regolazione e che rinforza il suo ruolo di controllo a distanza (Landri, 2001b; Landri, 2002; Benadusi e Consoli, 2003; Lichtner, 1999).
 
1.2. Apprendimento di competenze
Un’altra importante area di ricerca riconducibile alla società dell’apprendimento riguarda il concetto di “competenza”. Il concetto di competenza va giocando un ruolo molto rilevante nel rapporto tra la scuola, le agenzie formative e la società (Benadusi e Consoli, 2000; Benadusi, 2002). Si può dire, infatti, che l’apprendimento nella società dell’apprendimento viene declinato soprattutto come apprendimento di competenze. In questo senso, è evidente un processo di isomorfismo dei discorsi pedagogici della scuola, delle imprese, del settore pubblico: vi è, infatti, un consenso condiviso sulla necessità di incrementare in modo significativo le competenze e nel considerarle il punto nodale delle organizzazioni contemporanee (sia sul piano competitivo che regolativo). Nondimeno, non vi è una definizione comune su ciò che si intenda per “competenza” e il concetto è diventato, non sorprendentemente, vista la posta in gioco, un campo di battaglia e anche un luogo di incontro tra le organizzazioni e le comunità scientifiche (Ricotta, 1998; Bresciani, 1993; Camuffo, 1993; Consoli, 1998; Levati e Saraò, 1993; Lundvall, 1996; Piccardo, 1995; Spencer e Spencer, 1995; Varchetta, 1993; Alessandrini, 2001; Pellerey, 2001; Viteritti, 1999)  
Un’importante questione, in particolare, riguarda il curriculum della società dell’apprendimento, che nel caso italiano viene declinato soprattutto in relazione alla questione dell’ impiegabilità (employability). In questo dibattito, una rilevante discussione è stata sviluppata intorno alle key e core skills che ha contribuito a rendere noto un interessante dibattito internazionale (Chiari, 2000, Fassari, 2002, Viteritti, 2002; Benadusi e Consoli, 2000). Nel nostro paese, tuttavia, a differenza di altrove (come nel caso francese ad esempio o nel caso inglese) non si è ancora sviluppato un sistema comune di certificazione delle competenze né vi è un consenso comune su quali siano le competenze da acquisire per conseguire gli obiettivi della società dell’apprendimento. Sotto profilo, al momento il maggior riferimento istituzionale è costituito dal modello elaborato dall’ ISFOL che identifica, in particolare, tre classi di competenze: diagnosticare (le proprie competenze ed attitudini, i problemi), il relazionarsi (comunicare, lavorare in gruppo, negoziare), l'affrontare (potenziare l'autoapprendimento, affrontare e risolvere problemi, sviluppare soluzioni creative), quale insieme di abilità complesse che permettono un elevato grado di generalizzabilità tra contesti lavorativi diversi (ISFOL, 1993; De Francesco, 1998).
Naturalmente, le riflessioni e i programmi di ricerca inerenti il discorso della competenza sono varii, e, dunque, diverse sono le posizioni anche all’interno del panorama italiano. Per quanto apprezzabile lo sforzo classificatorio delle key skills nella prospettive di offrire dei punti di riferimento comuni per la governance di un sistema nel quale finiscono per confluire più attori istituzionali, tali liste sono state criticate da parte di coloro che sottolineano il carattere situato dell’expertise e della competenza e che, quindi, esprimono dubbi sulla effettiva generalizzabilità ed utilità delle aree di abilità individuate, enfatizzando, viceversa la ricerca sulle strategie ed i metodi per sostenere i processi di costruzione delle competenze (Ajello, Meghnagi e Mastracci, 2000; Seely Brown e Duguid, 1991; Chiari, 2000; Gallino, 1998; Fassari, 2002; Viteritti, 2002). 
 
1.3. Apprendere all’interno e all’esterno delle organizzazioni
Un’altra dimensione importante della learning society riguarda la scoperta dell’apprendimento all’interno e all’esterno delle organizzazioni. Sotto questo profilo, si può notare nel nostro paese lo sviluppo di un’importante area di ricerca che ha seguito, in parte, alcune traiettorie interne agli studi organizzativi e, in parte, è stata alimentata dal processo di istituzionalizzazione della formazione come campo interorganizzativo. Gli studi organizzativi italiani, con alcune rilevanti eccezioni, nel corso degli anni ’70 sono stati dominati prevalentemente da un approccio unidisciplinare (potremmo dire aziendalista) e da una prospettiva razionalistica che ha finito per attribuire alla formazione e ai relativi ruoli professionali un ruolo marginale nei processi di sviluppo e di management delle aziende e delle organizzazioni. Tale situazione è andata modificandosi durante gli anni ’80 che hanno visto, intorno alla mobilitazione di interessi delle aziende, delle società di consulenza, dei professionisti delle organizzazioni e del mondo accademico, l’emergere ed il fiorire di approcci teorici e di metodologie che hanno fatto da sostegno alla professionalizzazione dei ruoli della formazione, accanto al consolidarsi di un associazionismo di settore e di un crescente consolidamento di prassi di ricerca e di lavoro (Lipari, 2002).
La letteratura ormai disponibile, al di là della varietà degli approcci e dei risultati di ricerca, ha contribuito ad ampliare gli studi sull’apprendimento e, in un certo senso, ha anticipato, almeno sul piano delle policy, il riferimento alla learning society, garantendo lo sviluppo di un canale di collegamento tra la letteratura internazionale sugli studi organizzativi e sulla management della conoscenza e il contesto italiano. Tale letteratura, in particolare, ha enfatizzato la pluralità dei luoghi dell’apprendimento e l’importanza delle pratiche d’apprendimento sui luoghi di lavoro, abbassando le barriere tradizionali barriere tra la sfera del lavoro e le tradizionali istituzioni di produzione e di trasferimento della conoscenza (le scuole e le università).
Questi contributi, anche se molto diversi sul piano degli approcci, enfatizzano la “dimensione dell’apprendimento” come livello costitutivo delle pratiche quotidiane delle organizzazioni: ciò è evidente nei lavori sull’apprendimento organizzativo (Gherardi, 1994; Gherardi e Nicolini, 1999; Tomassini, 1993), nelle ricerche che fanno uso della nozione di comunità di pratica (Tomassini, 1993; Pontecorvo, Ajello e Zucchermaglio, 1995; Zucchermaglio, 1998), nelle riflessioni sulla competenza (Lanzara, 1993) considerata in una prospettiva che si lega alla questione della conoscenza  e dei processi del conoscere nelle organizzazioni, ma anche in quella serie di approcci e di progetti di ricerca che guardano, invece, al problema dell’apprendimento istituzionale, quale dimensione che, stirando ulteriormente l’apprendimento quale fenomeno socio-culturale, indaga le relazioni e isitituisce legami tra le tematiche organizzative, l’analisi delle politiche e la teoria della democrazia (l’”intelligenza delle istituzioni”, Donolo, 2001; De Leonardis, 1998; Gualmini, 1995).
 
1.4.La prospettiva dell’apprendimento per tutta la vita
Vivere in una società dell’apprendimento sembra implicare la prospettiva del lifelong learning e, quindi, lo sviluppo di politiche di educazione permanente per poter assicurare sia l’impiegabilità che una durevole inclusione sociale. L’educazione per gli adulti, tuttavia, ha avuto in Italia un ruolo marginale nella agenda politica nazionale locale (Gallina e Lichtner, 1996; Demetrio, 1997). E ciò a dispetto dei risultati “poco lusinghieri” provenienti dalle survey e dalle rilevazioni internazionali sulla literacy che hanno indicato i bassi livelli di competenza degli occupati e dei disoccupati quarantenni e della popolazione giovane di età compresa tra 14 e 19 anni e la presenza di quasi 2 milioni di analfabeti e di una grande quantità di analfabeti funzionali (Gallina, 2000; Vertecchi, 2000). 
L’ Accordo del lavoro del ’96, quindi, può essere considerato un vero e proprio punto di svolta  in una “storia non europea”(Demetrio, 1997), poichè per la prima volta l’istruzione, l’apprendimento e la conoscenza vengono considerati elementi cruciali per le politiche di sviluppo e della cittadinanza in una prospettiva di lifelong learning. In tale prospettiva, si suggerisce di rafforzare, in questo campo, l’offerta formativa attraverso l’integrazione tra più soggetti istituzionali, un ruolo proattivo dei sindacati e dei lavoratori, il rafforzamento dei legami tra l’istruzione e le esperienze di lavoro, l’introduzione di “passerelle” e di crediti a tutti i livelli del sistema educativo e, in particolare, lo sviluppo di corsi di educazione superiore fortemente connessi con il mondo del lavoro.
Al di là dei pur rilevanti problemi di implementazione (Calise, 2001), tali passaggi segnalano sia il tentativo di individuare una “via italiana” alla società dell’apprendimento (Alberici, 1998) che l’indicazione di una parziale convergenza tra il policy-making e le riflessioni di variegate, ma rilevanti comunità di ricercatori, di taglio pedagogico e sociologico, da tempo impegnate sulla definizione di uno spazio di riflessione e di ricerca sull’adultità (che superi la tradizionale visione dell’adulto e dell’anziano come di un passaggio della vita “degenerativo”) e sulle questioni  dell’apprendimento durante tutto il corso di vita.
 
1.5. L’apprendimento mediante le TIC
La facile equivalenza tra la nozione di società dell’apprendimento e l’uso delle tecnologie della informazione e della comunicazione (TIC) sollecita, infine, un’attenzione crescente del dibattito pubblico per le nuove tecnologie nell’ambito dell’apprendimento. In modo parallelo ciò va riflettendosi anche nell’ambito scientifico (Calvani, 1995; Calvani e Rotta, 1999; Calvani, 1999; Cremascoli e Gualdoni, 2000; Talamo, 1998; Maragliano, 1998, Pian, 2000), laddove i notevoli investimenti pubblici e privati inducono a sviluppare applicazioni, tecnologie e software che possano veicolare e materializzare nuovi ambienti di apprendimento (la FAD, l’e-learning)  che sembrano destinati a mutare notevolmente i modi e le organizzazioni dell’insegnamento e dell’apprendimento.
Questa tematica viene concettualizzata, inoltre, in rapporto al problema della cittadinanza che andrebbe ridisegnata allo scopo delineare i nuovi diritti in rapporto alle strutture dell’informazione e della conoscenza della società. Secondo alcuni ciò chiama in causa la dimensione della cittadinanza digitale (Carboni, 2002), e induce, per certi versi, a ampliare la questione dell’apprendimento mediante le TIC fino ad includere la questione della “cyberdemocrazia”, ovvero le opportunità e i vincoli del partecipare in maniera interattiva al policy-making e alle decisioni collettive, favorendo l’estensione delle nuove tecnologie (Capecchi, 1994; Rodotà, 1997).
Tale argomento solleva evidentemente il problema dell’uso alternativo dei nuovi medi utilizzabili non solo esclusivamente per il business (il modello dominante nel contesto italiano, Capecchi, 1997 e Carboni 2002), ma per favorire habermasianamente, da un lato, l’istituzionalizzazione di una nuova opinione pubblica e per favorire lo sviluppo di uno spazio per l’apprendimento, in parte indipendente dallo stato e dal mercato, nel quale le TIC possano costituire una possibilità per la cittadinanza attiva (Balbo, 1995), ma anche per migliorare la vita quotidiana delle persone anziane e disabili (Capecchi e Pesce, 1993).
 
2. Note conclusive
Questa prima parziale classificazione dei contributi di ricerca sulle questioni dell’apprendimento nella società dell’apprendimento indica, dunque, che nel panorama italiano la nozione di “società dell’apprendimento” (learning society) (se si eccettua il lavoro analitico di Alberici, 2002) è percepita in modo sfocato da parte delle comunità scientifiche. Risulta preferito il concetto di “società della conoscenza” che presenta una maggiore capacità di attrazione rispetto ai gruppi disciplinari che si muovono all’interno delle scienze sociali ed umane. In questa veste, del resto, la learning society è presentata attraverso le versioni italiane dei documenti comunitari nella versione italiana che, accanto ad una notevole ridondanza concettuale, preferiscono optare laddove possibile per una maggiore enfasi sul concetto di “conoscenza” (Commissione Europea, 1996; 2000). Probabilmente, il concetto di “apprendimento” viene accantonato perchè sembra rinviare ad una specializzazione disciplinare (pedagogiche, psicologiche, sociologiche) e non offrire, almeno nel caso italiano, elevate capacità di interessamento tra programmi e gruppi di ricerca.
 
Si può aggiungere, come in parte si è già detto, che ai temi dell’istruzione e dell’apprendimento non viene dedicata una attenzione costante sul piano politico: tali questioni vengono affrontate ciclicamente in corrispondenza delle scadenze canoniche delle istituzioni che se ne occupano (inizio e/o fine dell’anno), oppure vengono discusse in modo ideologico, delineando terreni di scontro tra opposte “filosofie del mondo” che, talvolta, oscurano il merito “ordinario” delle questioni di cui si tratta. Si può considerare così eccezionale che a metà degli anni Novanta si siano disegnate delle policy che, in modo esplicito, si richiamavano alla società dell’apprendimento e della conoscenza, facendone l’obiettivo ed anche il perno intorno al quale avrebbero dovuto ristrutturare l’ambito delle politiche sociali e del lavoro del nostro paese.
 
In questo senso, pertanto, il concetto di società dell’apprendimento viene colto in modo frammentario e vi sono, almeno per il momento, poche occasioni di confronto tra gruppi disciplinari per poter sviluppare programmi di ricerca congiunti che colgano, in modo sintetico, gli aspetti più rilevanti di questa trasformazione. Si inizia, peraltro, a intravvedere anche attraverso questi filoni che lo sviluppo del processo di de-differenziazione delle questioni dell’apprendimento (la diffusività dell’apprendimento e il declino della tradizione chiusura delle istituzioni sociali come la scuola che sinora se ne erano occupate in maniera specialistica come aspetto rilevante dalla società dell’apprendimento) e l’inizio di processi di integrazione tra domini istituzionali (la scuola, il mercato del lavoro, l’impresa ecc.) separati (o almeno debolmente legati) nel corso di vita degli attori sociali, costituisce un’opportunità per la costruzione di nuove aree di ricerca al di fuori dei tradizionali confini disciplinari.
 
 
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* In “Formazione & Cambiamento”, n. 22, 2003
 
D. Lei è da tempo considerato, nel contesto italiano, tra i maggiori esperti sul tema delle “competenze”, e sui modelli di intervento che a queste si ispirano (nei sistemi di formazione, nella gestione delle risorse umane in impresa, nell’orientamento e nei servizi per l’impiego).
A questo proposito, osservando il dibattito di questi anni, non si può non notare come esso appaia permanentemente “in progress”, e lontano dalla conclusione sul concetto stesso di competenza: in questo senso, ci pare assai emblematico che il primo volume (fresco di stampa) della collana da lei diretta per l’editore Franco Angeli sia il testo di B. Rey “Ripensare le competenze trasversali” del quale “Formazione & Cambiamento” darà conto ai suoi lettori in uno dei prossimi numeri.
Questo significa dunque che occorre “ricominciare da capo”, rispetto al dibattito che c’è stato in questi anni nel nostro Paese?
 
R. In un mio recente contributo (che ho significativamente intitolato “La competenza. Appunti di viaggio”), ho risconosciuto che la sensazione che deriva da questa difficoltà a mettere la parola “fine” a questo dibattito (che cosa è una competenza; quali sono le competenze; come si possono analizzare e descrivere; come si possono valutare; etc.) è effettivamente a volte un poco frustrante; ma ho anche affermato che nello stesso tempo essa si mescola ad un’altra, di segno diverso. Ho parlato infatti di quanto sia piacevole la consapevolezza che esiste un “territorio” (quello in qualche modo “perimetrato” -se pure con confini sfumati ed incerti- dal termine “competenza”) nel quale c’è ancora spazio per il viaggio e la scoperta, nel quale tutto non è “già detto”, e molto può ancora essere trovato, o meglio ancora scoperto.
 
Penso davvero che il viaggio “intorno” o “dentro” alla competenza costituisca una avventura non ancora terminata, e che non è detto che finirà: e se questa consapevolezza può per un verso generare irritazione o depressione, per l’altro genera indubbiamente anche la serenità e la mobilitazione energetica (l’attivazione) che sempre sono associate alla sensazione che “ci siano ancora tante cose da fare, e da scoprire”, e che noi possiamo portare il nostro contributo a questo agire e a questa scoperta.
 
Ho anche osservato che per quanto si ami il viaggio “in sé” a tutti “serve” arrivare, prima o poi, almeno provvisoriamente; anche io, ad esempio, ho esigenze “pratiche” di intervento (nella mia attività di formazione, di consulenza individuale, di intervento nelle organizzazioni e nei sistemi istituzionali) la cui operatività riceverebbe un grande giovamento dall’avere identificato la “soluzione” (finale, magari; o almeno temporanea) per ciò che riguarda la competenza: ma cerco sempre di fare in modo che questo non faccia prevalere “a tutti i costi” in me l’esigenza di “essere arrivato” rispetto a quella di “viaggiare”.
 
E questo perché davvero penso che in questo viaggio (nel trovarsi a volte ritornare sui propri passi; nel riconoscersi in un luogo nel quale si capisce di essere già stati, ma nel quale si scopre anche ogni tanto un angolo nuovo, o un nuovo punto di osservazione che mostra il paesaggio come non lo avevamo mai visto; nel cercare di tracciare mappe sulla carta che restituiscano “tentativamente” ciò che si é visto) stia, neanche troppo nascosto, il senso della nostra vicenda professionale, e della nostra stessa esistenza.
 
Ciò non significa che io non condivida l’esigenza, a fini operativi, di mettere “provvisoriamente”, di volta in volta, dei “punti fermi”  che  possano costituire una “convenzione” condivisa per le “comunità di pratiche” che ai vari livelli si trovano a trattare con questo costrutto per trarne conseguenze in termini di intervento (nella formazione a livello di agenzia formativa; piuttosto che nel bilancio di competenze a livello di servizio per l’impiego o struttura specialistica di orientamento; piuttosto che nella selezione e nella valutazione del potenziale e delle prestazioni a livello di impresa; piuttosto che a livello di standardizzazione delle qualifiche a livello di Ministero del lavoro o di Regione; etc.).
 
Ma l’essenziale sta appunto nell’avverbio: quel “provvisoriamente”, che segnala il carattere di contingenza e di necessaria temporaneità delle acquisizioni cui di volta in volta si perviene, nell’ambito dei contesti in cui si opera e insieme a coloro con i quali si condividono linguaggi e pratiche di intervento.
 
D. Che cosa ha significato, secondo lei, il dibattito sulle “competenze trasversali” che ha avuto luogo in questi anni nel nostro Paese?
 
R. “Competenze trasversali” è la locuzione con la quale, nel dibattito italiano, sono state affrontate questioni non dissimili da quelle che negli altri Paesi europei hanno assunto denominazioni quali “core skills” e “key skills” nel Regno Unito, “procesuafhaengige kvalificationer” (ma anche “blode kvalificationer”) in Danimarca, “schlusselqualificationen” in Germania, “competences transversales” in Francia, “capacitas clau” in Catalogna.
 
In particolare nella seconda metà degli anni ’80 e negli anni ’90, in Europa, nei sistemi di formazione si sono sviluppate nuove categorie, nuovi linguaggi e nuove definizioni per affrontare problemi ed “oggetti” nuovi.
 
Ciascuna delle definizioni che ho indicato in precedenza, pur nella sua specificità, assume che esistano competenze che “entrano in gioco” nell’esercizio di tipi di professionalità anche molto diverse tra loro: intuitivamente, questo è appunto il “senso” attribuito alla nozione di trasversalità, che come ho osservato fa riferimento in realtà ad almeno due dimensioni, ben distinte tra loro. 
 
La prima dimensione l’ho definita “work based”: in questa accezione, sono competenze trasversali quelle correlate a compiti ed attività lavorative che risultano simili in differenti settori/contesti. 
 
Si afferma che è opportuno che l’individuo acquisisca tali competenze perché esse risultano “diffuse” e quindi saranno “probabilisticamente” utili nella prospettiva dell’inserimento o dello sviluppo professionale. 
 
Si afferma che queste competenze si possono identificare analizzando il lavoro ed i compiti-attività “in sé”, e che esse possono quindi consistere in conoscenze dichiarative o procedurali, e/o in tecniche e metodi di lavoro. 
 
Come è stato osservato, alcune tecniche di contabilità o alcune conoscenze informatiche (che costituiscono una delle “key-skills” nel Regno Unito) possono essere menzionate quali esempi di competenze trasversali “work based”. 
 
La seconda dimensione, invece, è quella che ho definito “worker based”: in questa prospettiva, si definiscono competenze trasversali quelle connesse alle “strategie operatorie” del soggetto, ed al suo “modo di essere” nel realizzare l’attività lavorativa (attività di diagnosi, di relazione, di fronteggiamento di situazioni; ma anche risorse personali quali attitudini, atteggiamenti, rappresentazioni del lavoro, senso di identità, etc.). 
 
Le competenze trasversali in questa seconda prospettiva si possono definire “personal requirements” (nel caso precedente, é più corretto parlare di “job requirements”), sono riferite al soggetto piuttosto che al lavoro, e si possono identificare analizzando il modo in cui le persone si attivano ed operano, e le risorse che “mettono in gioco” nell’affrontare un compito lavorativo. 
 
Ad esempio, ad un livello differente la “efficacia personale” (Irlanda) o l’abilità di “diagnosticare” (Italia), oppure di “lavorare con altri” (Regno Unito, ed anche Catalogna) possono essere identificate come esempi di competenze trasversali “worker based”.
 
Questo “cambiamento di sguardo” dal lavoro al soggetto-al-lavoro rappresenta il “movimento” che ha davvero cambiato la formazione professionale (la progettazione, l’erogazione) in questi anni, così come sta da qualche tempo cambiando la scuola, l’università, la gestione delle risorse umane in impresa.
 
Credo non sia esagerato affermare che grazie a tale elaborazione, ed alle pratiche che essa ha innescato, “nulla sarà più come prima” nella formazione.
 
E se anche a volte qualche interprete riduttivo ha banalizzato l’innovazione, oppure qualche operatore troppo “interessato” ne ha proposto una applicazione solo strumentale, questi limiti (che devono comunque essere riconosciuti e superati) non mi pare davvero possano oscurare il senso complessivo di quel “cambiamento di paradigma” dal training al learning che ha costituito la cifra essenziale del cambiamento.
 
Nei fatti, ciò che si può osservare è che i modelli e le pratiche in uso tendono significativamente a convergere sempre più su dimensioni simili, e che tra queste un peso relativo sempre maggiore viene attribuito alle caratteristiche e le qualità “personali” rispetto alla conoscenze dichiarative e procedurali: e  non credo che questo sarebbe potuto senza il contributo della riflessione stimolata dal “discorso sulle competenze trasversali”, e delle pratiche che essa ha generato.
 
D. Uno dei punti-chiave del dibattito sulle competenze di questi anni ha riguardato la questione della loro “trasferibilità” da un contesto ad un altro (che è un modo ulteriore di porre il tema della trasversalità): alcuni hanno sostenuto che le competenze sono sempre e comunque “contestuali” (“situate”, si afferma anche) e che quindi sarebbe improprio parlare di “trasversalità” e di “trasferibilità”. Lei cosa pensa al riguardo?
 
R. In effetti, uno dei punti più controversi della riflessione sulle competenze di questi ultimi anni é quello del rapporto tra competenza e contesto.
 
Ritroviamo qui il dilemma tra la “specificita’” di una competenza (e cioe’ il suo essere in qualche modo “connaturata” ad una situazione, ad un contesto, ad una comunita’, ad una strumentazione, ad una “materia”) e all’opposto la sua “trasversalita’”, la sua “aspecificita’”: di qui il problema della sua “trasferibilita’” a contesti diversi, e della sua impiegabilità in situazioni, ambiti organizzativi, ambienti tecnologici e settori diversi.
 
La riflessione di Rey nel testo che lei ha richiamato mostra con forza argomentativa proprio la “pervasivita’” del concetto di “contesto” come costitutivo della competenza; nella sua analisi, un qualche tipo di contesto sembra essere comunque operante (anche nella semplice forma di un supporto fisico; o di un oggetto che costituisca strumento di espressione della competenza): per questo motivo, nella sua forma “pura” ed astratta, la accezione di trasversalita’ intesa come aspecificita’ sembra incontrare un limite logico rilevante.
 
Ma astraiamoci un attimo dal dibattito tecnico-specialistico: non e’ forse “senso comune” ed esperienza quotidianadi ciascuno di noi, che alcuni “saperi e abilita’”, pur costruiti in un contesto determinato (formativo, lavorativo, extra-lavorativo) l’individuo e’ in grado di “portarli con se’” e di utilizzarli, e di esprimerli in un contesto differente, anche se non non qualsiasi tipo di sapere o abilita’ (ed in più, non sempre e non automaticamente)?
 
Come ho osservato, il comportamento “competente” (ma dovremmo dire qualsiasi comportamento)  e’ sempre il frutto della assimilazione di concetti, tecniche, procedure, regole d’uso, che ha luogo in una “cornice” determinata, nell’ambito di un insieme di assunti, di una “configurazione” della situazione.
 
Tale “cornice” e’ socialmente condivisa, ed è costituita dalla specifica materialita’, specificita’ e spazialita’ di oggetti, strumenti, relazioni.
 
Se riconosciamo questo, allora siamo in grado di riconoscere altre cose che normalmente ci sfuggono “sottotraccia”: “quanta competenza” ci sia anche nei piu’ semplici atti della nostra vita quotidiana, ad esempio; quanta “storia” occorra per costruire una risposta appropriata agli eventi della vita personale e professionale; quanta introiezione ed assimilazione di regole; quanta conoscenza dichiarativa e procedurale; quanta “tacita” condivisione del “sistema di senso” che e’ insieme la premessa ed il risultato inevitabile della vita sociale, e quindi anche di quella professionale.
 
Ma come ho osservato, riconoscere questo “miracolo” del funzionamento individuale e sociale, non significa ancora spiegare l’altro ed al limite ancora piu’ misterioso “miracolo” che avviene quando le persone, una volta acquisite determinate conoscenze e capacità nell’ambito di un contesto specifico, riescono comunque a “svincolarle”, da tale specificita’, a farne un patrimonio proprio, “spendibile” anche altrove, e a metterlo in valore al di fuori delle contingenze, extra-localmente.
 
E’ questo che si tratta di spiegare, quindi, ancora: e l’approccio che ha in questi anni nel nostro Paese assunto il nome di “modello delle competenze trasversali” ha cercato di rischiarare questa “zona d’ombra” della riflessione sulla competenza, e di capire come succede che un soggetto riesca a trasferire saperi e abilita’ da un contesto ad un altro, anche per capire come la formazione possa supportarlo in questa operazione cruciale.
 
Credo che il contributo di Rey ci aiuti fare un altro passo importante in questa direzione, anche perché (proprio come il modello delle “competenze trasversali”) parla in realta’ di competenza in generale, e cerca di rendere ragione di quello che ho prima definito il “miracolo della normalita’”.
 
 
D. A proposito di competenza “in generale”: nel dibattito italiano si è registrata anche una distinzione tra coloro che parlano di competenza “al singolare”, e coloro che invece parlano di competenze “al plurale”. Può richiamare i termini di questa distinzione, per renderla più comprensibile al di fuori del ristretto ambito degli “specialisti”?
 
R. In genere, si definisce competenza il risultato positivo “osservabile” (sempre riconosciuto da altri) della prestazione di un individuo: in tale accezione, la competenza è quindi quella “cosa” che alcuni “giudici” sono disposti a riconoscere come fonte di un comportamento efficace.
 
Osservando il comportamento “competente”, lo si ipotizza causato da una “qualità” (che si riconosce complessa) dell’individuo, qualità che viene definita molarmente “competenza”, per analogia con l’effetto che dovrebbe in realtà spiegare.
 
Succede così che si spieghi un effetto (il comportamento competente) dando alla causa lo stesso nome dell’effetto (competenza), al limite riconoscendo che questa “competenza” è composta di molti elementi diversi (sapere, ma anche esperienza; conoscenza, ma anche regole d’uso della stessa; etc.).
 
Come ho osservato, questa riduzione-semplificazione costituisce forse una metafora unificante della quale vi è necessità, ma di fatto si limita solo a rinviare nel tempo la soluzione del problema: se la competenza è “quel qualcosa” che fa sì che un soggetto esprima una prestazione che altri soggetti riconoscono come “competente”, in che cosa consiste allora questo “quel qualcosa”? 
 
Quando si tenta di dare un nome a questo “qualcosa”, gli elementi che vengono richiamati sono i saperi (le conoscenze “dichiarative”), le regole d’uso (le conoscenze “procedurali”), la memoria dell’esperienza pratica (la “casistica” appresa e sperimentata dal soggetto esperto), la “rappresentazione” della situazione-problema e la meta-conoscenza di “tipi” di situazioni e contesti d’uso delle conoscenze (la quale porta ad un determinato ed “idiosincratico” modo di operare “tra vincoli e risorse” esistenti, e a generarne di ulteriori); la consapevolezza relativa a quest’ultima dimensione come espressiva del proprio “stile” di lavoro.
 
Anche negli studi sulla expertise (che è ciò che lei definiva nella sua domanda “competenza al singolare”) per descrivere la competenza si fa comunque ricorso a “entità”  quali le conoscenze, l’esperienza, le regole d’uso, etc., e ad esse si attribuisce la capacità di “spiegare” la genesi del comportamento competente; ciò significa che anche negli studi sull’expertise tali “entità” costituiscono la “causa” del comportamento “esperto” (=competente).
 
Dal loro canto, coloro che (studiosi, ricercatori, consulenti) si sono in questi anni confrontati con l’esigenza di trattare “l’oggetto-competenza” al di fuori del campo degli studi sull’expertise hanno in genere adottato lo stesso tipo di approccio, definendo “competenze” tutti gli elementi ai quali fare risalire l’origine delle prestazioni competenti.
 
E sono sorti e si sono sviluppati (un po’ per naturale “localismo” dei linguaggi e delle esperienze, e delle “comunità” che li condividono; un po’ per la comprensibile “tensione competitiva” che si crea sul “mercato dei modelli”, e cioè sul mercato della consulenza, ma anche nell’arena dei soggetti istituzionali, socio-professionali e formativi, e nella stessa arena dei soggetti accademici, anch’essi sempre più coinvolti nelle dinamiche tipiche del mercato) modelli di classificazione e tipologie di competenze a volte alquanto diversi e a volte sostanzialmente simili, proposti ogni volta come “nuovi”, ogni volta come “risolutivi”, in grado di superare i limiti degli altri modelli “venuti prima”.
 
Ed è stata quindi la stagione degli “elenchi” (repertori) di competenze, costretti dalla loro stessa natura (una tipologia deve essere esaustiva dell’universo cui si riferisce) ad aumentare in quantità ed in qualità il dettaglio delle descrizioni, sia in “orizzontale” (i vari “tipi”, e cioè le varie “classi” di competenze e gli elementi che stanno dentro le “classi”), sia in “verticale” (le micro-competenze che possono essere individuate come sottostanti alle competenze individuate), in quella rincorsa del “catalogo universale di tutte le competenze” la cui natura mitologica è peraltro facilmente intuibile.
Ma ciò che si dimentica, in questa visione semplificata e riduttiva “per elenchi”, è che la competenza è sempre il risultato di una “alchimia”, e cioè di una composizione idiosincratica ed in parte “misteriosa”, che ha una essenziale dimensione storica, diacronica, ed ha cioè a che fare con il modo (del tutto particolare) in cui quel determinato soggetto ha “composto” (o meglio, per evitare deliri razionalistici, in quel soggetto si sono composti) una serie di elementi (fattori; competenze) dando, luogo a quell’effetto “molare”, d’insieme, il cui “sapore” non ritroveremo mai nella loro descrizione analitica (la check-list delle “competenze di successo”).
 
I descrittivi di competenze sono (e devono continuare ad essere) non già, come pure sarebbe più rassicurante credere (e più redditizio far credere) “specchi della realtà”, ovvero rappresentazioni esaustive della realtà dei fenomeni presi in esame, quanto piuttosto mappe e riduttive e provvisorie, “attrezzi di lavoro”.
 
Occorre avere consapevolezza dei limiti di questo tipo di mappe: la staticità (mentre i meccanismi di generazione e riproduzione delle competenze sono dinamici); la sincronicità (mentre i suoi percorsi evolutivi sono diacronici-storici); la astrattezza (mentre le competenze sono “embedded” nei diversi contesti/ambienti).
 
Come ho osservato, superare (nel lavoro sul campo, nella “clinica” dell’intervento) gli approcci alle competenze troppo statici, astratti, sincronici, schematici, nel lavoro di analisi e progettazione  formativa, nel bilancio di competenze e nella consulenza di carriera, nella valutazione e nello sviluppo del personale in azienda, nell’istruzione scolastica e universitaria ma anche nella consulenza alle organizzazioni e nel loro management (che sempre più spesso si propone come “management delle competenze” e come “management della conoscenza”) è un’impresa che richiede da un lato una intenzionalità forte (una “tensione”) e dall’altro una strumentazione culturale e metodologica specifica.
 
Credo che questo non possa essere normativamente imposto a nessuno, e possa invece essere soltanto il risultato “etico” di un lavoro costante di meta-riflessione sulle proprie pratiche, sulle loro aporie, e sulle ragioni dei “conti che non tornano”, mediante una analisi onesta e non semplicemente agiografica o volta a “vendere” rassicuranti ricette e soluzioni; anche se occorre risconoscere che la domanda che oggi esprime il “mercato” (quello privato e quello pubblico-istituzionale) non aiuta certo questo tipo di evoluzione, stante la richiesta di “certezze” che manifesta e che tende a premiare, salvo in realtà “non crederci”, secondo un paradosso che la psicanalisi conosce bene, e che l’esperienza non cessa di riproporci.
 
 

* In “Formazione & Cambiamento”, n. 21, 2003
 
D. Ormai possiamo dire che il Bilancio di Competenze sia uno strumento abbastanza conosciuto ed adottato anche in Italia (oltre che in Francia, dove è nato) negli ambiti della formazione continua, dell’orientamento degli adulti sul lavoro e dello sviluppo delle risorse umane. Anche da noi l’esperienza e il tempo cominciano a rendere giustizia a questo metodo, vittima, quanto pochi altri del suo stesso genere, del proprio successo: sin dalla metà degli anni novanta, molti ne parlavano, pochi ne conoscevano il significato e molti di meno lo sapevano applicare correttamente. Oggi, ci pare di poter dire che ci troviamo di fronte a diverse esperienze interessanti, tra cui qualcuna particolarmente significativa come, ad esempio, quella promossa dallo stesso Formez per i dirigenti delle Province e delle Regioni. Alla luce di questo nuovo quadro ci sembra utile fare qualche approfondimento - sia d’ordine teorico, sia d’ordine applicativo – “isolando”, per metterle a fuoco meglio, alcune questioni di fondo sollevate dagli usi dello strumento Bilancio.  A tale scopo, la prima domanda che le vorrei fare è relativa alla natura di questo strumento: si tratta di un ammortizzatore sociale? Si tratta di uno strumento di sostegno e accompagnamento nelle transizioni dei lavoratori oppure di sviluppo professionale per le professioni più alte? O, di che altro?
 
R. In effetti, si tratta di una questione di fondo. Dal modo come la si affronta dipende gran parte della validità ed efficacia di questo strumento, il quale, al pari di qualsiasi altro strumento, non è neutro. Diciamo subito che si tratta di uno strumento di accompagnamento, di sostegno e di orientamento dei lavoratori nelle diverse transizioni di fronte alle quali possono trovarsi nel corso della loro vita lavorativa (dalla disoccupazione, o dall’inoccupazione, al lavoro; da un lavoro ad un altro e, perfino, dal lavoro al “pensionamento attivo”, con ciò intendendo la possibilità di continuare a svolgere attività socialmente e professionalmente utili anche nella terza età). Inoltre, alcune importanti esperienze francesi, ma anche italiane (segnatamente, si veda quella da lei citata del Formez), ci dicono che si tratta di uno strumento efficace per lo sviluppo delle risorse umane nelle organizzazioni e, quindi, per la mobilità professionale, verticale (la carriera) e orizzontale (passare da un lavoro ad un altro dello stesso livello ma di diverso tipo e più soddisfacente). Ovviamente, neppure il Bilancio sfugge al pericolo dell’eterogenesi dei fini. Qualsiasi strumento può essere usato per fini opposti o diversi da quelli per i quali è stato costruito. Ma, in questi casi si tratta di usi impropri o distorti la cui responsabilità è da imputarsi a chi li adotta piuttosto che al metodo in quanto tale.
Siccome si tratta, come dicevo prima, di una questione di fondo, al fine di essere più chiaro vorrei fare, per un verso, un passo in dietro ricordando l’atto di nascita del Bilancio e, per un altro, una piccola apertura d’orizzonte evidenziando le coordinate - teoriche e sociali nello stesso tempo - da cui esso trae il proprio senso. Sia chiaro, parlando di strumenti di tipo proattivo, ad alta valenza progettuale e miranti a valorizzare la soggettività e l’autonomia della persona, sono consapevole di quanto possa essere rischioso fare riferimento alle origini sociali del Bilancio secondo una prospettiva  di rigido determinismo storico. Tuttavia, perfino Sartre, che si dichiarava figlio di sé stesso e delle proprie scelte, ammetteva che un bel gesto dei padri può lasciare un segno indelebile sui figli. Nel caso del Bilancio, come nel caso delle persone, l’atto di nascita conta. La sua prima sperimentazione in Francia risale alla metà degli anni ’80 nel vivo dei processi di ristrutturazione e/o di riconversione industriale ed ha l’obiettivo di accompagnare e sostenere i lavoratori nei processi di transizione da lavoro a lavoro. Per effetto di quei processi, in quegli anni, in Francia come in tutto l’occidente sviluppato, molte professioni venivano meno. Altre, spesso del tutto nuove, si affacciavano alla ribalta. Dal lato del lavoro e delle relative politiche, due erano le strade seguite fino a quel momento: una era la strada della “scrematura delle eccedenze”, ossia della messa in mobilità dei lavoratori con professionalità obsolete, giudicati dalle aziende non riconvertibili a causa dell’età avanzata, dei bassi livelli di d’istruzione e/o di qualificazione di base; l’altra era, appunto, quella di riconvertire, attraverso corsi di formazione professionale, quei lavoratori che, per età, per istruzione di base e livelli di qualificazione posseduti, venivano giudicati riconvertibili a costi ed in tempi accettabili. In entrambi i casi, però, essi erano oggetto di decisioni che altri (la Direzione del personale, l’Ufficio Risorse Umane, ecc.) prendevano dall’alto e senza alcuna forma di loro coinvolgimento dei soggetti interessati. Ed in entrambi i casi, a parte l’età, i termini di riferimento erano l’istruzione di base e la qualifica posseduta, ovvero due elementi della rappresentazione istituzionale e formale della professione, sovrapponibili e commisurabili con il posto di lavoro e con le sue caratteristiche; dunque, non le competenze effettivamente possedute ed agite da ciascun lavoratore. Con l’adozione del Bilancio, in via sperimentale per i primi cinque anni, si affacciano una logica ed un approccio nuovi: la logica e l’approccio per competenze, piuttosto che per qualifiche. Tale logica in Francia non era del tutto nuova (si era già affacciata, sia pure in modo incerto e contraddittorio, una decina d’anni prima con il contratto dei metallurgici che per la prima volta faceva riferimento ai concetti di autonomia e di responsabilità sul lavoro ed al loro riconoscimento in termini retributivi). Attorno alla metà degli anni ottanta, con la sperimentazione del Bilancio, tale logica viene ripresa, approfondita e specificata nelle seguenti dimensioni caratteristiche; tutte ruotanti attorno ai concetti di persona, individualità e soggettività ed orientate a: 
a) assumere ciascun lavoratore, col proprio patrimonio di competenze personali e tecnico-professionali, come termine di riferimento e come punto di partenza nell’impostazione della formazione continua e dei processi di riconversione;
b) coinvolgere nella decisione il lavoratore e renderlo compartecipe dell’analisi delle proprie competenze; 
c) aiutare la persona ad individuare i profili di trasferibilità di quelle stesse competenze, così individuate, in contesti ed in lavori nuovi; 
d) aiutare la persona a fare un proprio progetto professionale coerente  con il nuovo scenario occupazionale e lavorativo (nuove tecnologie, nuovi lavori, maggiore flessibilità, maggiore velocità nei processi di cambiamento e d’innovazione, ecc.). 
 
Per dirla in breve, nella seconda strada (la strada della riconversione e della transizione da un lavoro ad un altro) veniva introdotta una logica nuova - sarei tentato di dire rivoluzionaria -: quella, appunto, di coinvolgere il lavoratore come persona, con la sua storia individuale, singolare e irriducibile, come termine iniziale di riferimento  e come soggetto attivo di ogni processo di formazione, riconversione e transizione professionale. La stella polare di questi processi non è più solamente il lavoro; né, tanto meno, lo è più solo il posto. Infatti, secondo questa nuova prospettiva non si parte più dall’analisi del posto per risalire alle caratteristiche professionali del lavoratore, alle sue Skills e alle sue attitudini, ma si parte dal lavoratore assunto olisticamente nella sua interezza di esperienza, di vita e di professione. È chiaro che siamo fuori dal modello fordista-taylorista (tutti ricordiamo la lucida, ancorché inquietante, affermazione attribuita ad Henry Ford.: io cerco braccia e mi trovo continuamente davanti delle persone) ed abbiamo messo un piede nel territorio della “modernità radicale”, di cui parla Giddens. 
Per l’insieme di queste ragioni - tornando alla sua domanda e concludendo su questo punto - possiamo dire che il Bilancio è uno strumento individualizzato e personalizzato per l’accompagnamento e l’orientamento dei lavoratori in tutte le transizioni, verso il lavoro e sul lavoro in senso lato. Così inteso, esso è valido ed efficace per tutti i livelli di qualificazione, da quelli esecutivi a quelli dirigenziali e manageriali. Le uniche discriminanti sono tracciate dalla libera adesione dell’individuo interessato e dalla sua disponibilità a mettersi/rimettersi in gioco in un momento dato della sua vita personale e professionale; in un momento, cioè,  da esso avvertito come un passaggio importante e dall’esito non scontato in partenza, come potrebbe essere una promozione per anzianità. Per questo possiamo definirlo come uno metodo valido per tutti, ma non come uno strumento di massa. Del resto, a causa della sua modalità intrinseca di svolgimento, è anche costoso: il beneficiario è tenuto ad assumersi un impegno temporale piuttosto lungo (circa 24 ore distribuite in almeno un mese);  interviene un’équipe di professionisti, seppure quasi mai al completo (consigliere di Bilancio, psicologo del lavoro, esperti di mercato del lavoro, di organizzazione aziendale, ecc.). Anche se, ad onore del vero, il costo non ha impedito alla Francia di fare circa 300.000 bilanci in poco meno di 12 anni.
 
D. Può chiarire meglio questo rapporto tra Bilancio e processi di modernizzazione. Mi pare di ricordare che in altre occasioni, riferendosi agli scettici del Bilancio, lei vi abbia incluso i taluni critici dei processi di modernizzazione spinta. Tra questi due termini (modernità e Bilancio) quali rapporti intercorrono?
 
R. In effetti i critici del Bilancio, al pari dei critici dell’approccio per competenze, non mancano. Senza considerare coloro che lo criticano per quello che non è (quelli che ne criticano l’inefficacia come strumento di selezione del personale o di validazione delle competenze, non tenendo conto che non è fatto per questi scopi: costoro ricordano coloro che rimproverano i cavalli di non essere cammelli) troviamo due categorie di critici, o di scettici, che basano le loro argomentazioni su una puntuale conoscenza del metodo, e più in generale dell’approccio per competenze, visti, però, come funzionali o ai processi di modernizzazione disumanizzante (svuotamento del quotidiano, dissoluzione dell’io, impotenza dell’individuo, fine dell’etica, ecc.) o a logiche di controllo e di esclusione della forza lavoro (Bilancio di competenze come anticamera consensuale e morbida della mobilità e del licenziamento). Per esempio, uno studioso serio come J.P. Le Goff, filosofo della formazione e sociologo al Laboratorio Georges –Friedmann (Paris I-CNRS), ha scritto parole di fuoco contro “la modernizzazione cieca delle imprese e della scuola” – è il sottotitolo di un suo libro dal titolo altrettanto inequivocabile, La barbarie douce (La dolce barbarie)-; modernizzazione che secondo il nostro autore passa attraverso la manipolazione delle persone ed attraverso sofisticate azioni di management e/o di controllo delle competenze; tutte azioni che conducono alla disumanizzazione del lavoro con il consenso attivo delle vittime. Non solo. Egli intravede nell’approccio per competenze  (analisi, scomposizione, validazione, riconoscimento, certificazione dei crediti e delle competenze) un ritorno, sotto neppure tanto mentite spoglie, del vecchio taylorismo. Il Bilancio, è ovvio, resta sotto le macerie di questo bombardamento critico. Sia chiaro: molte delle argomentazioni e delle critiche mosse da Le Goff contro gli effetti perversi di un certo tipo di modernizzazione sono da prendere in seria considerazione e possono essere condivise a pieno. Così come sono condivisibili quelle di altri studiosi che, movendosi su altri piani, si sono soffermati ad esempio sui costi umani della globalizzazione (Bauman)  o della flessibilità (Sennet). Ma non è questa la sede giusta per seguire questi appassionanti ragionamenti. Anche se si sviluppano su terreni che sono tutt’altro che fuorvianti, dal momento che su di essi possiamo vedere l’orizzonte storico, sociale e di senso anche di temi, in sé non epocali, come le competenze e di strumenti del tutto specifici e circoscritti, come il Bilancio.
Io, semplificando molto e concedendo, con riluttanza, qualcosa all’apoditticità – che è nemica di ogni ragionamento che voglia essere minimamente rigoroso – mi limiterei ad osservare che i processi di modernizzazione in parte sono un dato di fatto, in parte sono una conquista storica da cui mi sembra difficile tornare in dietro. In ogni caso sono processi ad elevata complessità e non tollerano semplificazioni. Al pari di tutti quelli insiti nei passaggi storici decisivi, essi hanno molte facce, tra cui ne spiccano due in particolare: una che offre possibilità e opportunità  (migliore qualità della vita, più tempo libero, valorizzazione del lavoro intellettuale, affrancamento dai lavori pesanti e abbrutenti, ampliamento della sfera dei diritti, emersione e soddisfazione di bisogni post-materialistici, maggiori possibilità di crescita in termini economico-sociali ed umani, ecc.) e una che presenta limiti, rischi e costi anche elevatissimi (esclusione, precarizzazione del lavoro e della vita, impoverimento crescente di masse di popolazione, maggiori disparità sociali, predominio della dispersione, frammentazione dell’io, impotenza degli individui, ecc). A fronte di tutto ciò, diventa decisivo l’atteggiamento che si adotta. In estrema sintesi –  per rimanere in stretto contatto con il nostro tema e per completare la mia risposta alla sua domanda – io mi riconosco nella posizione di Schwartz quando afferma che occorre raccogliere la sfida di “modernizzare senza escludere”. Il Bilancio e l’approccio secondo la logica delle competenze sono veicoli di inclusione, di crescita e di sviluppo, nonostante siano prodotti della “modernità radicale”. Anzi, proprio perché di questa sono figli legittimi; figli di quella sua incarnazione che offre, come dicevamo prima, possibilità e opportunità. Il Bilancio, se lo confrontiamo con i grandi temi che abbiamo appena evocato, ci appare come uno strumento piccolo, dal raggio d’azione circoscritto (bisogna evitare di rendergli il pessimo servizio di farlo passare come una sorta di panacea o di vaso di Pandora) che nel proprio ambito di influenza e dal punto di vista dell’individuo: 
- lavora per rendere possibili i processi di inserimento attivo, di identità e di crescita sul lavoro; 
- contrasta i processi di dissoluzione dell’io e di percezione frammentata dell’esperienza;
- rafforzare l’endoscheletro dell’individuo, dotandolo anche di una bussola interna attraverso lo sviluppo della consapevolezza delle proprie competenze, delle proprie possibilità e della propria progettualità;
- mitridatizza la persona – se mi lascia passare questo termine -  che si trova in situazioni e contesti organizzativi caratterizzati da forme di flessibilità selvaggia: mentre aiuta a lavorare in contesti caratterizzati da forme di flessibilità sostenibile (la flessibilità organizzativa);
- aiuta le persone a governare la complessità, a partire da quella del lavoro.
 
D. Da quello che ha detto finora emerge chiaramente una “sotterranea” ma significativa funzione formativa del Bilancio. Non a caso la legge francese che lo regolamenta è inserita all’interno della Legge Quadro Nazionale sulla Formazione Continua. Può approfondire questo aspetto? 
 
R. Anche in questo caso l’intreccio teorico tra concetto di competenza e concetto di Bilancio si presenta a trama molto fitta, secondo un gioco di rinvii da un termine all’altro. Prima ancora di parlare di valenza formativa del Bilancio, alcuni studiosi si sono interrogati sulla “formabilità” delle competenze in quanto tali. Qualcuno di questi (v. Claude Levy Leboyer) ha suggerito di sostituire la parola formazione con la parola sviluppo. Si tratta di un suggerimento che potremmo condividere se per formazione intendessimo solo quella trasmissiva di contenuti di stampo tradizionale (conoscenze di base + conoscenze tecnico professionali). In realtà, quando si parla di formazione delle competenze o, meglio, di formazione nella logica delle competenze, ci si riferisce in primo luogo ai comportamenti delle persone, alle competenze trasversali e alle metacompetenze. Solo in seconda istanza si fa riferimento alle conoscenze acquisite nei percorsi di studio in contesti formali o non formali ed alle relative modalità di acquisizione. In questa accezione più ampia si può parlare di formazione delle competenze e di formazione nell’ottica delle competenze. La soluzione del problema relativo alla “formabilità” delle competenze nel senso anzidetto contiene anche la risposta alla domanda se il Bilancio sia un metodo dotato di una sua valenza formativa e di quale tipo. 
In linea di massima, direi che l’efficacia del Bilancio in termini di sviluppo dell’apprendimento irradia i suoi effetti su più piani: 
- Su un piano generale introduce l’idea di una “gestione ragionata” del percorso professionale degli individui; favorisce l’apprendimento da parte della persona dei modi e delle forme per analizzare, scomporre e ricomporre il proprio percorso di vita e di lavoro; aiuta il soggetto a riconoscere le proprie competenze personali, ad identificare le competenze trasferibili da un contesto lavorativo ad un altro, da un’esperienza di vita o di lavoro ad una di formazione e/o viceversa; ad identificare ed a capitalizzare ciò che si è acquisito attraverso la formazione per evitare di doverlo riacquisire in occasione di un eventuale rientro in formazione, ecc. 
- Su piano ancor più generale, potremmo dire che il Bilancio dà luogo un percorso di riflessione sul passato e, quindi, sull’esperienza dell’individuo in proiezione futura. Nel senso che sprigiona un’intrinseca valenza formativa che consente al soggetto la presa in carico del suo divenire. Sotto questo profilo esso si rivela in grado di incrociare e di raccogliere le tre grandi sfide della formazione di cui ha parlato Quaglino in un suo recente scritto: apprendere a cambiare, apprendere ad apprendere, apprendere da sé.
Ed è da questi due piani che possiamo far discendere anche la sua intrinseca valenza “pedagogica” consistente nel “risvegliare” (l’espressione è di Hirn, uno studioso francese che ha approfondito la pedagogia del Bilancio) nell’individuo la comprensione di se stesso e delle proprie competenze personali (consapevolezza di sé, padronanza di sé, motivazione); la comprensione del dispositivo formativo che si viene attuando (ovvero l’esplicitazione della valenza formativo e di sviluppo contenuta nella dinamica del Bilancio, dove per dinamica si deve intendere la metodologia interna al dispositivo); la comprensione di se stesso in rapporto al contesto organizzativo e socioeconomico e delle relative possibilità e alternative che si offrono al soggetto. Quest’ultima modalità della comprensione merita una sottolineatura perché fa luce su un aspetto della competenza di cruciale rilevanza, ossia il fatto di essere sapere in azione, sapere situato e sapere contestualizzato. 
Il Bilancio, inoltre, così come ha una sua “pedagogia” (in senso molto lato, s’intende) ha anche una sua “didattica” (in un senso ancora più lato) che dà corpo alla dimensione formativa attraverso varie modalità operative ed un ricco repertorio di strumenti come, ad esempio, i metodi biografici per favorire la conoscenza di sé; gli esercizi di autovalutazione assistita; gli esercizi d’incrocio della domanda/offerta di lavoro con le caratteristiche, i bisogni e le motivazioni del soggetto; la costruzione di profili personali (attitudini ed interessi); la messa a punto di un progetto personale e professionale (obiettivi, strategie, metodologie, strumenti, tempi e risorse); la condivisione e l’appropriazione- valorizzazione da parte del beneficiario del Bilancio dei risultati di test o di altre prove standardizzate.
Le ricadute in termini formativi e di autoapprendimento di un approccio così concepito sono molteplici: 
1) sviluppa e potenzia il pensiero riflessivo, inteso nel senso della riflessione nel corso dell’azione e della riflessione sull’azione compiuta e sull’esperienza: 
Per riflessione nel corso dell’azione si intende la riflessione da parte del beneficiario sullo “strumento” Bilancio e sul suo relativo percorso: non solo, infatti, costui viene informato sugli obiettivi che si perseguono, sul metodo che verrà adottato  e sugli impegni che esso dovrà assumersi, ma esso è corresponsabilizzato nella scelta e nell’uso degli strumenti che verranno impiegati – che non a caso cambiano molto da persona a persona e da un Bilancio ad un altro – e sulle relative modalità d’uso in corso d’opera;
Per riflessione sull’azione e sull’esperienza possiamo intendere sia la riflessione sulle soluzioni che si sono rivelate errate e sul perché dell’errore, sia una più ampia ristrutturazione della conoscenza delle esperienze personali e professionali passate più significative, anche lontane nel tempo;
2) sviluppa o potenzia la capacità di orientare la propria condotta attraverso il continuo confronto tra esperienze di lavoro ed eventi di apprendimento. In pratica favorisce la possibilità che si crei un circolo virtuoso tra esperienze di lavoro e formazione in grado di illuminare lo scenario della propria condotta futura e quindi della propria progettualità, anche grazie al fatto che attraverso questo modo di procedere si riesce a caricare le esperienze stesse di significati nuovi svelatori di possibilità nuove;
3) dà luogo ad un processo di autoapprendimento di tipo autonomizzante. Anche nei casi in cui il contributo degli esperti dell’équipe di Bilancio appare come insostituibile, o comunque determinante, l’autonomia di apprendimento ed operativa del soggetto beneficiario rimane in primo piano. Tutto ciò che egli apprende lo fa sotto la forma della scoperta personale, come frutto di una propria ricerca autonoma e autonomizzante, tendente, cioè, a rafforzare l’endoscheletro del soggetto, ovvero il suo assetto motivazionale intrinseco. Un’operazione, quest’ultima, fondamentale per persone che vivono e lavorano in un mondo sempre più caratterizzato da continui cambiamenti, da una marcata flessibilità e dalla riduzione dei punti di riferimento esterni;
4) integra più saperi di diversa origine e provenienza. La natura integrata e contestualizzata delle competenze spinge l’azione del Bilancio verso l’integrazione dei saperi, qualunque sia la loro provenienza: esperienze di vita, esperienze di lavoro, esperienze di formazione fatte in contesti formali, non formali o informali, ecc. Un’operazione, questa, di grande portata perché presuppone il superamento della segmentazione e della gerarchizzazione dei saperi che molto spesso rende difficile l’individuazione delle competenze e la loro trasferibilità in contesti nuovi secondo un’ottica proattiva;
favorisce, attraverso l’azione congiunta degli effetti indicati nei punti precedenti, l’apprendimento forse più rilevante, più complesso e di maggiore spessore. Mi riferisco alla strutturazione dell’assetto metacognitivo che raggruppa i saperi e le attività aventi  per oggetto la stessa cognizione e le regole del controllo del suo funzionamento. In generale, da Melot e Pitrat sappiamo che attraverso la memorizzazione intenzionale entrano in gioco due aspetti interdipendenti: il sapere metacognitivo e le esperienze metacognitive. Per “sapere metacognitivo”, o “metaconoscenze”, s’intende quell’insieme di conoscenze e di credenze conservate in memoria a lungo termine, che concernono le variabili  suscettibili di influenzare lo sviluppo e l’esito delle attività cognitive e che riguardano le persone, i compiti e le strategie. Per esperienze metacognitive si intendono le esperienze cognitive e affettive coscienti legate alla risoluzione di un determinato problema. Queste esperienze transitorie si producono, più in particolare, nel quadro di compiti cognitivi relativamente complessi la cui risoluzione necessita della messa in opera di processi di controllo quali la pianificazione, l’anticipazione, la valutazione delle strategie e/o dei risultati. Entrambi questi aspetti entrano in gioco con grande rilevanza nel Bilancio, liberando una significativa carica formativa.
 
E’ proprio sull’insieme delle conoscenze e dei processi metacognitivi che il Bilancio incide di più come strumento di sviluppo di competenze cruciali dotate di un’elevata valenza proattiva. Apprendere ad apprendere; apprendere ad individuare e correggere gli errori, intesi non già come handicap, scacco o fallimento ma come esperienze portatrici di insegnamenti; apprendere a progettare il proprio futuro; apprendere a capitalizzare e reinvestire in contesti nuovi le esperienze fatte in altri contesti; apprendere tutto ciò significa sviluppare le “competenze strategiche” come le chiama Alberici, vale a dire le competenze sovraordinate ad ogni saper fare specifico contestualizzato e ad ogni saper essere specifico in situazioni specifiche.
Il Bilancio - ovviamente, quanto siamo venuti dicendo fin qui vale a livello  di individuazione e di prospettazione di un modello “puro” (non è detto che esso trovi sempre un riscontro pratico) - richiama queste dimensione dell’apprendimento. E le richiama sotto la forma dell’autoapprendimento guidato; guidato in particolare dalla figura-risorsa che è Consigliere di Bilancio.
 

* In “Formazione & Cambiamento”, n, 66, 2011
 
1. La ricerca: studiare il lavoro (e la sicurezza) in sala operatoria
Le osservazioni che presento sono parte di una più ampia ricerca avente a oggetto la costruzione della sicurezza organizzativa negli ambienti ospedalieri, con particolare riferimento alla sala operatoria (Bruni, 2010). 
Il presupposto teorico che ha orientato l’intera ricerca è stato che lavoro quotidiano e sicurezza organizzativa rappresentino due elementi inscindibili: la sicurezza può infatti essere oggetto di norme, protocolli  e linee guida, ma è nelle pratiche di lavoro quotidiano che questa acquisisce concretezza e salienza. Sempre da un punto di vista teorico, quindi, abbiamo rivolto la nostra attenzione non solo alla letteratura specifica (sia sociologica, sia clinico-manageriale) sulla sicurezza organizzativa in sala operatoria, ma anche a tutti quegli studi sul lavoro e sull’organizzazione di matrice interazionista che oggi confluiscono nel paradigma dell’azione situata (Goffman, 1956, 1959; Suchman, 1987) e nei cosiddetti ‘studi basati sulla pratica’ (Practice-based Studies – Gherardi, 2000, 2006). Questi interpretano il lavoro alla stregua di una performance che necessita costantemente di essere messa a punto (Garfinkel, 1967) e che risente sempre di una serie di adattamenti locali. La logica che ispira il metodo di analisi del lavoro in situazione è quindi l’osservazione dell’ordine che emerge dalle interazioni tra attori e non l’analisi del lavoro decontestualizzato, espresso in una job description
A seguito di alcune interviste esplorative, il lavoro sul campo si è articolato seguendo ‘come un’ombra’ (shadowing - Bruni, 2003; Czarniawska, 2007; Cardano, 2011) i diversi operatori facenti parte di una equipe chirurgica . In particolare, si è fatto ‘da ombra’ a:
- 1 Operatore Socio-Sanitario (OSS);
- 1 infermiere di anestesia;
- 1 anestesista;
- 1 strumentista;
- 1 chirurgo.
A queste figure, si sono poi aggiunti uno strumentista ‘novizio’, la caposala degli strumentisti e la caposala del blocco operatorio.
La scelta di seguire le due caposala è stata motivata dal voler aprire una finestra anche sul lavoro che ha luogo al di fuori dello spazio fisico della sala operatoria, essendo plausibile ipotizzare che i processi e le pratiche che prendono forma in sala operatoria (come in qualunque altro spazio dell’organizzazione) siano interconnessi con processi e pratiche che hanno luogo in altri spazi e tempi (Czarniawska, 2004).
Il seguire per una settimana un ‘ultimo arrivato’ è stato invece dettato dal voler osservare le pratiche di trasmissione e apprendimento del lavoro e dei processi organizzativi quotidiani. Più in generale, l’affiancamento dei novizi offre solitamente agli etnografi la possibilità di venire a contatto con tutta quella gamma di questioni e dubbi solitamente propri di chi, non conoscendo a fondo un’attività, non ne condivide i dato-per-scontato e, dunque, necessita di continue indicazioni in merito al da farsi (Bruni, 2011). 
Indipendentemente dall’operatore seguito, l’attività di shadowing ha in ogni caso ‘localizzato’ per 8 settimane le osservazioni all’interno del medesimo spazio organizzativo (il blocco operatorio con le sue diverse sale), cosa che ha permesso di ottenere degli account etnografici che restituissero tanto le diverse pratiche di lavoro, quanto la specificità del clima e delle interazioni che si sviluppano nell’ambiente osservato.
La sala operatoria è infatti un ambiente che si caratterizza senza dubbio anche per via della compresenza di diverse professionalità e competenze e, come risaputo in letteratura (Catino, 2009), è proprio nel coordinamento di diverse visioni professionali che alcuni processi organizzativi vengono messi alla prova. Infatti:
è possibile che gli attori condividano diverse visioni, logiche e expertise professionali, che quindi li portano a dissentire in merito al da farsi; 
è possibile che vi siano asimmetrie, gerarchie e rivalità (inter e intraprofessionali) che ‘affaticano’ i processi di coordinamento organizzativo e di cooperazione nel corso del lavoro quotidiano.
Nel corso della prossima sezione vedremo esempi di tutti e tre i casi appena nominati e ciò permetterà di sottolineare come l’area delle competenze inter e intraprofessionali si riveli cruciale per la gestione del lavoro quotidiano, ma, al tempo stesso, di mettere in luce come in sala operatoria proprio l’agire dettato dalle competenze appaia particolarmente delicato da tratteggiare e si leghi ad altre due questioni (peraltro a loro volta strettamente connesse): a) l’apprendimento e la formazione delle competenze; b) la presenza di molteplici (e mutevoli) comunità di pratica.
 
 
2. Lavorare in sala operatoria: logiche e visioni professionali 
Le diverse logiche e visioni professionali presenti in sala operatoria, prendono corpo, solitamente, in riferimento a tre situazioni in particolare: 1) nella pianificazione dei tempi dell’intervento; 2) in riferimento al posizionamento del/la paziente sul lettino operatorio;  3) in tutti quei casi in cui vi sono operatori che non hanno mai lavorato assieme.
L’esempio tipico della prima situazione è dato da tutti quegli episodi in cui i chirurghi, avendo l’attenzione centrata su ‘l’intervento’ e non considerando i tempi necessari alla preparazione della sala, al lavaggio dei ferri ed alla predisposizione degli strumenti operatori, si inalberano nel caso in cui la sala non sia pronta nel (breve) tempo da loro stimato; cosa che porta altrettanto facilmente a scambi di battute poco cortesi con gli strumentisti. Per altrettanto, non sempre gli operatori della sala operatoria tengono conto dei tempi che saranno necessari (in reparto) per la preparazione del paziente successivo (cosa che può condurre alla situazione paradossale, ma non rara, in cui tutto e tutti sono pronti, a parte il paziente, che è assente).
Nel corso del lavoro sul campo, è stato possibile osservare come sullo sfondo di questi disallineamenti nelle tempistiche, vi siano spesso le diverse logiche e visioni professionali che gli attori sviluppano nel corso del lavorare quotidiano. Il concetto di ‘visione professionale’ (Goodwin, 1994), sta infatti ad indicare come buona parte delle competenze professionali siano il frutto di una conoscenza che poggia su una serie di nozioni teoriche, ma che si affina nel corso dell’esperienza lavorativa quotidiana (e dunque in relazione allo specifico setting organizzativo in cui si lavora), sino a divenire ‘incorporata’ (da cui, ad esempio, il famoso ‘occhio clinico’).
È quindi l’affinamento di una particolare visione professionale a permettere (ad esempio) agli strumentisti di lavorare d’anticipo e passare ai chirurghi i ferri senza che questi ultimi li debbano chiedere; ai chirurghi di riconoscere esteticamente la qualità di una sutura; agli anestesisti di intubare i pazienti senza incontrare difficoltà; agli OSS di muoversi all’interno della sala senza intralciare i movimenti di altri operatori. 
Si intuisce quindi come lo sviluppo di una visione professionale sia strettamente collegato all’ambiente in cui l’apprendimento ha luogo ed alle figure più esperte che all’interno di questo si incontrano e con cui si ha la possibilità di collaborare, come nel caso a seguire:
 
Alle 8.30 l’anestesista intuba la paziente e l'intervento può cominciare. I due chirurghi disinfettano il campo operatorio e posizionano i teli sterili sul corpo della donna. L’OSS, subito dopo, su indicazione della chirurgo, cambia la posizione del letto, mettendo la paziente seduta. A questo punto l’infermiera di anestesia dice alla collega (in fase di inserimento): “Occhio sempre quando si sistemano i pazienti, perché magari si stacca qualche filo o la flebo”.
 
Nell’estratto appena visto, un’infermiera (esperta) richiama l’attenzione di una collega (in fase di formazione) su una competenza ‘di dettaglio’, evidentemente derivante dall’esperienza (controllare che nel corso del posizionamento del/la paziente non si stacchi qualche filo). La comunicazione è sintetica (è tipico che gli scambi verbali in S.O. siano ridotti al minimo), ma probabilmente efficace, in quanto indirizzata esplicitamente alla collega e con un incipit prescrittivo (“Occhio sempre…”). 
L’estratto vuole quindi essere rappresentativo sia della rilevanza dell’esercizio di una visione professionale, sia delle modalità con cui tale visione viene tramandata ai novizi (ovvero, attraverso il coinvolgimento diretto nel lavoro e la sottolineatura di alcune fasi e processi), ma anche della difficoltà di separare le pratiche di lavoro dalla costruzione sicurezza (Gherardi e Nicolini, 2000, 2001): nel caso particolare, l’infermiere sta imparando a lavorare o sta imparando la sicurezza?
Tra operatori è piuttosto diffusa l’idea che (per citare le parole di un chirurgo): “Quando si impara a lavorare, si impara anche la sicurezza…”. Questa affermazione (che costituisce la sintesi estrema e di senso comune dei risultati di innumerevoli ricerche presenti in letteratura), potrebbe portare a dedurre che, dunque, la sicurezza organizzativa venga esplicitamente tematizzata nei percorsi di formazione e apprendimento (ad esempio) dei ‘novizi’, ma non sempre è così. Il percorso formativo di infermieri ormai comprende (già in sede universitaria) l’apprendimento di alcune competenze inerenti la sicurezza sul lavoro, ma lo stesso non si può dire nel caso del percorso di studi di chirurghi ed anestesisti. Nei confronti dei chirurghi, in particolare, sembra anzi che vi sia una socializzazione esplicita allo sprezzo del pericolo. Come dichiarato da una chirurgo: “Il mio Primario mi diceva: “Se hai paura di pungerti, cambia mestiere…vai a fare la segretaria!”” (a dimostrazione di come, nell’apprendere una professione, si impari anche qual è la propria posizione di genere all’interno dell’immaginario simbolico della comunità professionale in cui si sta entrando - Bruni e Gherardi, 2007).
Indipendentemente però dalla professionalità, ciò che talvolta davvero sorprende del lavoro quotidiano in sala operatoria è la competenza che tutti/e gli operatori esperti/e dimostrano nel ‘saper fare un po’ di tutto’ e, di rimando, nel seguire (spesso invisibilmente) l’attività reciproca. Vediamo alcuni brevi esempi:
 
L'OSS toglie il camice ad un chirurgo, mentre l'altro “chiude” il campo operatorio con l'aiuto della strumentista, la quale non si limita solamente a passare i ferri al medico, ma “chiude” anche lei.
 
In sala è rimasto un solo chirurgo. La strumentista si posiziona di fronte al chirurgo (dove prima c'era l'altro medico) e lo aiuta passandogli i ferri di cui ha bisogno, ma anche utilizzando il bisturi elettrico (su richiesta del chirurgo).
 
In attesa che la strumentista ultimi la preparazione dei ferri per l’intervento, Mario (infermiere di anestesia) prepara il paziente in presala, facendosi aiutare da Francesca (infermiera di anestesia in affiancamento). Dopo appena un paio di minuti però, Mario si accorge che in sala è tutto pronto e che il dottor Ponte (l’anestesista) è andato via dalla sala. A questo punto, Mario dice a Francesca: “Preparalo tu [il paziente] che io vedo se riesco a trovare il dottor Ponte” e va via dalla sala.
 
Negli estratti proposti, si può notare come, per quanto i compiti dei membri dell’èquipe chirurgica siano definiti, vi è un costante riassestamento dei ruoli e delle attività, sulla base di quelli che sono gli avvenimenti e le esigenze contingenti. Da questo punto di vista, si potrebbe anche affermare che la principale competenza degli operatori (indipendentemente dalla loro appartenenza professionale) risieda proprio in questa abilità di continua ri-articolazione dei compiti tra i partecipanti alla seduta operatoria. Nel caso di alcune figure professionali, non a caso, tale abilità è opportunamente stimolata nel corso del periodo formativo: l’inserimento degli strumentisti, prevede ad esempio che questi svolgano anche il servizio sala, poiché (come espresso da un neo-strumentista): “Fare servizio sala è comunque utile, perché impari dove si trovano i ferri, come si chiamano. Noi usciamo dalla scuola senza aver mai visto un ferro. È qui che impariamo tutto”.
Sono allora queste multiple competenze, questa conoscenza diffusa del lavoro, a permettere agli strumentisti non solo di lavorare d’anticipo, ma anche ad investire questi ultimi di un ruolo particolarmente delicato in tutte quelle situazioni in cui altri operatori siano assenti. Può infatti capitare (e nel corso delle osservazioni è accaduto abbastanza frequentemente) che uno degli operatori previsti non sia poi presente in sala. Le motivazioni possono essere le più disparate e, in parte, riflettono il carico e la complessità delle attività a cui gli operatori sono chiamati: un infermiere può essere occupato in terapia intensiva, un anestesista in rianimazione e un chirurgo può essere trattenuto in reparto. 
Talvolta (specie nel caso dei chirurghi), ciò può portare a rimandare o annullare l’intervento, ma più frequentemente la seduta ha comunque luogo:
 
Mentre tutta l’equipe è pronta per iniziare l’intervento (il paziente da operare è già stato anestetizzato e posizionato sul tavolo operatorio), l’anestesista Stella chiede al chirurgo Bianco se ha notizie del dottor Ponte, il secondo neurochirurgo atteso per la seduta. Il dottor Bianco risponde di no e raggiunge il telefono che si trova tra la sala operatoria e la presala. Passato qualche minuto, il dottor Bianco, dopo aver terminato la conversazione telefonica, torna in sala e dice che il dottor Ponte si trova ancora in reparto perché ci sono dei problemi con la prossima paziente da operare. 
Così, il dottor Bianco inizia l’intervento da solo, senza l’assistenza del secondo chirurgo, ma solo della strumentista che, anziché limitarsi a porgere gli strumenti necessari, assiste il chirurgo con l’elettrobisturi e tenendo il campo operatorio aperto.
 
A seguito di quest’ultimo estratto (e di tutti gli altri visti finora), dal punto di vista delle competenze, è dunque importante notare come nel lavorare quotidiano in S.O., gli operatori non solo affinino e si impadroniscano della pratica professionale, ma sviluppino una sorta di sapere ‘aggiuntivo’, difficilmente codificabile perché strettamente legato all’esperienza lavorativa quotidiana.
Se, tuttavia, nella maggior parte dei casi le diverse competenze e visioni professionali sono di reciproco supporto e si accompagnano vicendevolmente, nel caso del posizionamento del paziente queste divengono oggetto di esplicita discussione:
 
La strumentista chiede se la prossima paziente (che dovrà subire una mastectomia) deve essere posizionata seduta e il chirurgo risponde affermativamente. L'anestesista entra in sala e dice: “La facciamo sedere da sveglia, così vediamo come scivola e poi, se va bene, la facciamo stendere”. Tutti sono d'accordo.
 
Uno dei due chirurghi rasa i capelli della paziente, mentre l'altro posiziona il braccio sinistro della donna sotto il corpo della stessa. La donna però, pesa 118 chili, così dopo appena un paio di minuti, l'anestesista prova a posizionare il braccio in un altro modo, che risulti comodo tanto per la donna, quanto per i chirurghi.
 
Posizionato il paziente sul letto operatorio, la strumentista chiede all’anestesista: “Qual è l'orecchio da operare?”. L’anestesista risponde che è quello destro e la strumentista ribatte dicendo: “Allora il braccio sinistro va posizionato lungo il corpo, altrimenti la dottoressa sta troppo lontano”. L’anestesista, tuttavia, preferirebbe avere il braccio con la flebo distaccato dal corpo, in modo da poter controllare che l'ago sia in vena. Così, la flebo viene tolta e inserita nell'altro braccio. La strumentista conclude affermando: “Comunque è un compromesso, perché andrebbero tutt’e due le braccia lungo il corpo. A [nome di un altro ospedale della zona] fanno orecchie tutto il giorno e lavorano così… Anestesista, la invito a provare!” E poi...voi [riferendosi all’anestesista ed alla sua aiuto] state sedute tutto il giorno, sono io che sto sempre in piedi”.
 
Come mostrato dai diversi estratti, il posizionamento dei pazienti è il risultato di una serie di negoziazioni e compromessi. Questi possono essere più o meno espliciti, ma in ogni caso mostrano come le diverse visioni professionali concorrano nei processi di manipolazione e nel raggiungere un corretto posizionamento. La correttezza fa qui riferimento al fatto che il posizionamento di un paziente deve rispecchiare le esigenze dei diversi/e operatori, tenendo conto tanto del tipo di intervento, quanto della struttura del corpo del paziente e dell’esperienza situata (come dal riferimento della strumentista all’ospedale in cui “fanno orecchie tutto il giorno e lavorano così…”). In tal senso, non si può dire che il corpo dei pazienti sia sempre lo stesso corpo agli occhi dei diversi professionisti, così che diventa importante comprendere come nella pratica medica queste differenti ricostruzioni del corpo siano allineate e rese tra loro compatibili (Mol, 2002). 
Come mostrato sempre dai diversi estratti, solitamente l’approccio è di tipo collaborativo, ma può anche capitare (come nell’ultimo esempio presentato) che gli operatori discutano per stabilire chi ha maggiore competenza e/o legittimità nel decidere della posizione da far assumere al paziente. Per quanto in termini strettamente organizzativi il posizionamento dei pazienti sia responsabilità dell’anestesista, è qui esplicito come tutti gli attori presenti siano coinvolti da (e interessati a) tale processo, e come i criteri che orientano le decisioni debbano essere (almeno parzialmente) condivisi dall’intera equipe. Ciò fa sì che il posizionamento dei pazienti sia uno di quei processi che, nel loro essere contesi, attirano l’attenzione di tutti gli operatori presenti (cosa che ha evidenti risvolti positivi in termini di gestione del processo operatorio).
Ciò per sottolineare ancora una volta l’importanza che riveste l’esperienza pratica all’interno dei diversi processi che hanno luogo in sala operatoria, al punto da portare gli attori a dissentire in modo anche sostanziale circa il da farsi. 
La testimonianza più lampante di tale dinamica è stata offerta dall’osservazione dei primi giorni di lavoro di un nuovo anestesista:
 
Luca chiede a Anna: “Come funziona questo?” (indicando un macchinario), Anna risponde. Luca a quanto pare non apprezza né i macchinari, né il tipo di anestesia in uso a Trento: “Qui non si lidocaina neanche. È fuori legge…”, dice, ma Anna ribatte dicendo che non è vero. Luca, commenta: “Questo sembra un altro mondo…”.
Nel corso dell'intervento Luca fornisce a Anna le indicazioni circa i medicinali da iniettare alla paziente: “Fammi 42 cc di…” 
Anna: “42?!?”.
Luca: “Si, 42, perché la paziente pesa sessanta chili”. Tira fuori dalla tasca un taccuino sul quale ha annotato le formule e le tabelle per il dosaggio dei medicinali e lo mostra a Anna per darle la conferma che il dosaggio è corretto. Anna sembra perplessa, ma comunque segue le indicazioni.
Concluso l’intervento, la paziente viene estubata e, al momento del risveglio è Anna a tranquillizzarla accarezzandole il viso e dicendole che l'intervento è andato bene. Adesso la paziente può essere spostata sulla barella. La strumentista e Anna si trovano alla destra del letto operatorio, mentre Luca a sinistra. Nel tentativo di spostare la donna dal letto alla barella, tuttavia, Luca tira verso di sé (e dunque verso la barella) la paziente, prendendola per un braccio, ma subito Anna e la strumentista lo “fermano”: “No! Non così! Non si tira dal braccio, la rompe!”. Luca sorride imbarazzato.
[Anna ha un'espressione perplessa e durante la pausa caffé successiva commenta: “Chiedere di fare 42cc con una siringa da insulina non è normale. Io gli ho detto di sì, ma ne ho fatti 40, perché non puoi farne 42!”].
 
L’episodio permette di cogliere come, indipendentemente dal livello di expertise degli operatori, sia l’abitudine a lavorare in un certo modo (ad esempio, prestando attenzione a determinati parametri) a rendere particolarmente difficile l’incontro tra il nuovo anestesista e l’infermiera di anestesia. Ma l’episodio permette anche di notare come gli attori conservino (ed esercitino) sempre un margine di discrezionalità rispetto al da farsi. Nel caso appena visto, tale discrezionalità porta l’infermiera di anestesia a ‘disubbidire’ all’anestesista (somministrando al paziente una dose di 40cc, anziché di 42cc) ed a seguire con particolare attenzione le mosse del collega che, seppure con un status professionale più ‘alto’, risulta però avere un’esperienza professionale forse limitata (o comunque molto diversa) rispetto a quella dell’infermiera di anestesia.
Situazioni analoghe a quella appena presentata si sono verificate spesso nel corso delle osservazioni, specie in relazione a tutte quelle occasioni in cui vi fossero operatori che non avevano mai lavorato assieme, a sottolineare come l’expertise e la competenza non siano mai qualcosa di esclusivamente individuale, legato ad abilità soggettive, ma necessitino sempre di un riscontro, un riconoscimento da parte delle persone che prendono parte ad un determinato processo. 
E’ possibile, tuttavia, che vi siano asimmetrie, gerarchie e rivalità (inter e intraprofessionali) che affaticano i processi di coordinamento organizzativo e di cooperazione.
 
2.1. Autonomia, gerarchie e disarmonie professionali
Chirurghi ed anestesisti rappresentano le due figure professionali che, all’interno della sala operatoria, godono di maggior autonomia e di uno status di rilievo. In ottica etnografica, il perchè di tali privilegi rimanda tanto alla centralità che l’operato di tali figure riveste nel processo operatorio, quanto a forme di credenza culturale che nel mondo attuale portano a guardare ai medici in maniera non dissimile da come nelle società tradizionali si guardava a maghi e stregoni (Good, 1994), ma in ogni caso è doveroso notare come l’autonomia professionale di tali figure si traduca innanzitutto in un atteggiamento di superiorità nei confronti delle regole dell’organizzazione e dei protocolli aziendali sulla sicurezza:
 
Verso le 12, la Caposala ha l’abitudine di fare un giro per le diverse sale operatorie. Nel momento in cui entriamo in Cardio-chirurgia, l’anestesista esce dalla sala, senza mascherina, senza guanti e parlando al cellulare. Cerco di commentare il fatto con la Caposala, la quale prima reagisce nei termini di: “Bè, ma quello è l’anestesista…” [come dire che non è lui ad essere costantemente a diretto contatto con il paziente] e poi dicendo che “è già stato difficile insegnargli a non tenere lo stesso paio di guanti per tutta la giornata”.
 
Nell’episodio presentato, ciò che forse più colpisce non è neppure la non chalance con cui l’anestesista si relaziona a regole e linee guida sulla sicurezza organizzativa, ma l’impunità di cui egli gode. Ciò fa sì che diventi ‘normale’ per chirurghi e anestesisti adottare uno stile piuttosto disinvolto nei confronti delle prescrizioni in termini di sicurezza. Come dalla risposta data da un anestesista ad un chirurgo che gli faceva notare la sporcizia del camice e della mascherina: “Il giorno che dicono al Primario che in sala così non si può entrare, mi metto addirittura la cuffia!”. 
Bisogna poi tenere presente il fatto che un’equipe operatoria è formata per definizione da attori con diversi livelli di expertise: il primo e il secondo chirurgo hanno solitamente una diversa anzianità di lavoro, gli strumentisti possono avere maggiore o minore confidenza con le diverse tipologie di intervento, tra anestesista e infermiere di anestesia può esserci un’asimmetria non solo in termini di conoscenze esperte, ma anche di pratica professionale. Gli OSS, infine, contribuiscono all’intervento con un livello di coinvolgimento che varia inevitabilmente anche a seconda della loro conoscenza dei diversi processi clinici e di lavoro. Ciò per dire che è possibile che siano in azione allo stesso tempo gerarchie e rivalità che si sviluppano a livello inter e intraprofessionale, come ad esempio nei numerosi casi in cui vi è disaccordo tra chirurghi e strumentisti, oppure quando il primo chirurgo non è soddisfatto del lavoro del secondo. 
Dal punto di vista delle gerarchie, delle responsabilità e delle competenze, le distinzioni sono solitamente sufficientemente esplicite, ma vi è un certo grado di variabilità dato dalle relazioni tra gli attori organizzativi coinvolti (nonché dagli stili relazionali di questi ultimi). La composizione delle equipe è solitamente casuale, ma la questione rappresenta un interrogativo da un punto di vista organizzativo: è preferibile organizzare delle equipe ‘stabili’ (dove quindi le persone hanno modo di conoscersi e ‘crescere’ insieme) o fare in modo che vi sia una costante turnazione tra colleghi e operatori? Gli attori stessi non hanno una chiara idea in proposito, ma hanno comunque fornito tutti lo stesso tipo di opinione: lavorare sempre con le medesime persone aumenterebbe probabilmente i risultati in termini di esecuzione delle prestazioni, ma esporrebbe anche al rischio della ‘cronicizzazione’ di alcuni rapporti e relazioni (oltre a porre dei problemi non trascurabili dal punto di vista organizzativo: come si fa se un operatore è assente?). 
Sino a questo momento, la via intrapresa dalla Caposala è stata di incoraggiare e supportare la formazione di gruppi in qualche modo coesi al loro interno, anche se ciò ha portato alle volte al formarsi di vere e proprie ‘fazioni’. Nel corso di una conversazione informale, la Caposala ha raccontato di operatori che tra loro non si sopportano (“e questo, con 70 infermieri, è anche normale…”), il problema è che però iniziano a verificarsi dei ‘dispetti’. Pare ci siano operatori che controllano chi è di turno il giorno successivo prima di preparare la sala e che la preparazione avvenga di conseguenza, a seconda della ‘simpatia’ che li lega all’equipe. Altri, nel corso delle riunioni, dichiarano apertamente di (ad esempio) nascondere i ferri e/o di non preparare opportunamente la sala quando vi operano alcuni colleghi. La Caposala (che ha già avuto altre esperienze in tre differenti reparti) ha sottolineato come sia la prima volta che si trova a gestire un gruppo con livelli di conflitto così alti, e come lei stessa sia preoccupata dalla situazione, per quanto non abbia ancora trovato la soluzione.
Gerarchie e rivalità professionali si riversano più che altro nelle dinamiche comunicative e relazionali, come nel caso a seguire:
 
[la ricercatrice entra in sala]
Il chirurgo grida all'anestesista: “Dottoressa, [il paziente] si muove!”.
L’anestesista si alza dallo sgabello, prende una siringa con un farmaco e lo somministra alla paziente. Poi aggiunge: “Comunque lei a me non me ne frega un c***o non me lo dice!”.
C: “Sta scherzando?!?”.
A: “No! Lei poco fa mi ha risposto dicendo così”.
Il chirurgo per un attimo rimane immobile, smette di operare, ma poi, notando l'allontanamento dell'anestesista dalla sala, inizia a gridare: “Sta sanguinando! Sta sanguinando! Anestesista! Dov'è l'anestesista? Non la vedo!”.
L'anestesista, davanti la porta della sala, risponde: “Qui!”.
C: “Deve stare qui, dietro alla paziente! E non mi risponda! Ora non potrete nemmeno andare a pisciare senza il mio permesso!”.
L’anestesista non dice nulla, nessuno dice nulla. In sala è calato il gelo. L'intervento adesso è ad un punto critico: il chirurgo inserisce un sacchetto in uno dei tre fori praticati nell'addome, trasferisce (con l’ausilio di alcuni ferri) il tumore asportato nel sacchetto, lo chiude (con delle ‘grafette’) e quindi (con delle pinze) ne fa fuoriuscire un'estremità dal foro dal quale lo aveva inserito. Poi, con le mani, tira il sacchetto. La parte asportata ha però un diametro maggiore di quello del foro praticato, così il chirurgo deve tirare con forza per riuscire ad estrarlo. Quando, dopo alcuni tentativi, ci riesce, il chirurgo si punge con una delle ‘graffette’.
C: “Porca p*****a!
Strumentista: “Si tolga i guanti almeno ...”.
Il chirurgo toglie i guanti e ne mette un paio puliti, poi continua dicendo: “Si muove! Vogliamo fare qualcosa?”.
L'anestesista, senza dire nulla, somministra altri farmaci. Dopo la discussione tra i due, neanche l'infermiera si è allontanata dalla sala, ma è rimasta seduta vicino al ventilatore, in silenzio, per tutto il tempo.
C: “Adesso mettiamo su un'urgenza dottoressa, sa? Per lei va bene?”.
Sono le 13.20 e l'intervento deve ancora essere ultimato. Solitamente, a quest'ora si interrompe la seduta e si aspetta l'equipe del pomeriggio per gli interventi di emergenza, ma il chirurgo insiste affinché l'anestesista continui a lavorare ancora per un paio d'ore.
Alle 13.40 il primo e il secondo chirurgo “chiudono” il campo operatorio e vanno via senza dire nulla.
 
La ricercatrice non era presente in sala nel momento in cui l’anestesista sostiene che il chirurgo abbia pronunciato la fatidica frase, dunque non è dato sapere cosa sia successo esattamente negli istanti precedenti all’interazione riportata. Proprio per questo, tuttavia, l’episodio risulta interessante, tanto dal punto di vista organizzativo, quanto etnografico: come interpretare un evento, quando non se ne possono verificare i presupposti? 
Anselm Strauss era solito affermare che l’interpretazione delle interazioni sociali non dovrebbe guardare alle cause dell’interazione, ma concentrarsi sulle conseguenze. In tal senso, indipendentemente dalla causa scatenante, la situazione diviene allora indicativa del clima di stress che si respira talvolta in sala operatoria, di come l’innervosirsi di singoli operatori (nel caso specifico, il chirurgo) possa tradursi in pratiche poco sicure sia nei confronti del paziente, quanto degli operatori stessi, nonché di come in sala operatoria sembri assente una modalità di gestione dei conflitti alternativa a quella dell’esercizio (gratuito) dell’autorità e della gerarchia. 
Una certa dose di conflitto, peraltro, è connaturata a qualsiasi gruppo e organizzazione, così come l’identità professionale (ma non solo) si costruisce anche per opposizione ad altre identità e professioni. Con questo non si vuole giustificare lo sfoggio di status professionale che alcuni chirurghi e anestesisti hanno talvolta avuto nel corso delle osservazioni, ma sottolineare l’ordinarietà di alcuni conflitti e contrasti, professionali, o personali che siano. 
In conclusione, si ha qui modo di vedere come gli attori organizzativi costruiscano la propria professionalità anche attorno a forme particolari di esercizio del potere nei confronti dei colleghi, di altri operatori e/o nell’atteggiamento verso le regole organizzative. Ma nelle organizzazioni, il potere è un esercizio inconcluso e mai del tutto lineare, che apre le porte tanto all’autorità, quanto alla resistenza (Clegg, 2009). Le implicazioni in termini di processi di lavoro quotidiano sono abbastanza chiare: questi possono essere imposti attraverso le vie dell’autorità, ma ciò provocherà l’emergere di profonde resistenze. 
 
 
3. Aperture: l’etnografia come occasione di formazione ‘invisibile’
I primi destinatari di un’etnografia organizzativa sono gli attori coinvolti. Questa massima etnografica, nel caso della presente ricerca, si è rivelata particolarmente pressante. 
Non è qui possibile ricostruire in dettaglio l’intero processo di ricerca (per questo, si veda Bruni, 2010), ma sin dall’inizio questo prevedeva la conduzione di alcuni focus group, quale stimolo al confronto e all’apprendimento inter e intra professionale.
Concluso il lavoro sul campo, si è quindi deciso di utilizzare alcuni episodi esemplari, tratti da situazioni collezionate nel corso dell’etnografia e rappresentative del lavoro quotidiano e del clima organizzativo che si respira in sala operatoria. Per facilitare la discussione, il ruolo del conduttore è stato svolto dal ricercatore che ha preso attivamente parte alle osservazioni, coadiuvato da una ricercatrice, nel ruolo di osservatrice delle interazioni.
I focus group (a carattere interprofessionale e la cui composizione ricalcava quella di una equipe operatoria) hanno così permesso di approfondire ulteriormente la gamma di significati che i diversi operatori attribuiscono alle pratiche di lavoro quotidiano, di ‘testare’ alcune delle interpretazioni fornite a proposito dei processi osservati, ma soprattutto di offrire agli attori un momento ‘separato’ dal lavoro quotidiano per riflettere e confrontarsi circa le reciproche expertise, competenze e costruzioni di significato.
Allo stesso tempo, per me che avevo condotto la ricerca ed ero stato ‘sul campo’, era piuttosto evidente come i focus group rappresentassero delle situazioni comunque edulcorate, all’interno delle quali si riversava già un apprendimento di carattere più riflessivo e sotterraneo, legato all’aver aperto il lavoro quotidiano allo sguardo e alla presenza di due ‘estranei’ ed alle tante conversazioni e scambi di opinione informali che per otto settimane consecutive lo avevano accompagnato.
Se, come recita un’altra massima etnografica, è vero che: “l’etnografo sa più di quanto scrive” (a significare l’immersività dell’esperienza di ricerca etnografica e della conoscenza che essa produce), forse sarebbe il caso di iniziare a chiedersi anche se, nel corso di un’etnografia organizzativa, gli attori stessi non apprendano più di quello che, a posteriori, sono capaci di riconoscere quale apprendimento.
 
Note
1   Il lavoro sul campo ha visto la presenza di chi scrive e di Giusi Orabona, che ringrazio per il lavoro condotto e la condivisione delle osservazioni.
 
Riferimenti bibliografici
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Articolo di Toby Linden, Harry A.  Patrinos (traduzione di Domenico Lipari)
 
 
* In “Formazione & Cambiamento”, n. 20, 2003
 
1.La conoscenza nell’economia globalizzata
Un’economia basata sulla conoscenza si fonda in primo luogo sull’uso di idee piuttosto che su abilità fisiche e, in secondo luogo, su applicazioni della tecnologia piuttosto che sulla trasformazione di materie prime o sullo sfruttamento di lavoro a basso costo. La conoscenza tende ad essere sviluppata e applicata in modi nuovi. I cicli di prodotto sono più brevi e richiedono conoscenza per innovazioni ulteriori. Il commercio si va espandendo a livello mondiale accrescendo domande competitive sui produttori.
La knowledge economy  globale sta trasformando le domande del mercato del lavoro in economie a scala mondiale. Sta inoltre «scaricando» nuove domande sui cittadini, i quali hanno bisogno di nuovi skills e nuove conoscenze per svolgere le attività della loro vita quotidiana.
Attrezzare le persone ad affrontare queste domande richiede un nuovo modello di educazione e di formazione, un modello di lifelong learning. Una cornice di lifelong learning comprende l’apprendimento lungo l’intero ciclo della vita, dalla prima infanzia alla pensione. Comprende l’apprendimento formale (scuola, istituzioni formative, università), l’apprendimento non-formale (la formazione sul lavoro e quella a casa) e l’apprendimento informale (gli skills appresi attraverso i membri della famiglia o  della comunità). Ciò permette alle persone di accedere ad opportunità di apprendimento secondo le loro esigenze piuttosto che in ragione del fatto che hanno raggiunto una certa età.
Il lifelong learning è cruciale per preparare i lavoratori a competere nell’economia globale. In ogni caso,  è importante anche per altre ragioni. Attraverso il miglioramento dell’abilità delle persone nella funzione di membri delle loro comunità, l’educazione e la formazione accrescono la coesione sociale, riducono la criminalità e migliorano la distribuzione del reddito.
I paesi in via di sviluppo e le economie in transizione rischiano di essere ulteriormente marginalizzati in una knowledge economy globale perché i loro sistemi di educazione e di formazione non aiutano i learners ad acquisire gli skills di cui hanno bisogno. Per rispondere al problema, i decisori politici hanno bisogno di attivare cambiamenti cruciali.  Hanno bisogno di sostituire l’apprendimento basato sull’informazione, guidato dall’insegnante e fornito all’interno di un sistema formale di educazione governato da direttive con un nuovo tipo di apprendimento che enfatizzi creazione, applicazione, analisi e sintesi della conoscenza  e che impegni tutti in forme di apprendimento collaborativo per l’intero arco della vita. L’articolo descrive alcuni diversi modi in cui ciò si può fare.
 
2.Creare forze di lavoro capaci di competere nell’economia globale
Nell’industria tradizionale la maggior parte dei lavori richiede agli addetti di apprendere come svolgere i compiti di routine che, nella gran parte dei casi, rimangono costanti nel tempo. La maggior parte dell’apprendimento è acquisita quando il lavoratore inizia una nuova attività. Nella knowledge economy, il cambiamento è così rapido che i lavoratori hanno costantemente bisogno di acquisire nuovi skills. Le imprese non possono più basarsi soltanto su nuovi diplomati o su nuovi ingressi nel mercato del lavoro come fonte primaria di nuovi skills e di nuova conoscenza. Invece, hanno bisogno di lavoratori che siano volenterosi e capaci di aggiornare i loro skills durante l’intero arco della vita. I paesi devono rispondere a questi bisogni creando sistemi di educazione e di formazione che attrezzino le persone con skills appropriati.
 
3.Il settore privato sta giocando un ruolo crescente da un capo all’altro del mondo
Tradizionalmente, il settore pubblico eroga la gran parte dei servizi educativi. Oggi questa tendenza sta cambiando. In molti paesi a medio reddito, il settore dell’educazione privata è in crescita, favorito dalla scarsa qualità e dalla scarsa copertura dell’educazione pubblica oltre che dalla necessità di alleggerire i carichi fiscali e di promuovere l’innovazione. In Brasile, dal 1995 il numero degli studenti reclutati nell’educazione superiore è cresciuto di più del 70%, e la gran parte di questa crescita è avvenuta nelle università e nei college privati che ora pesano per il 71% del reclutamento dell’educazione superiore. In Cina, tra il 1995 e il 1999, sono state fondate 500 nuove istituzioni di apprendimento superiore.
Il settore dell’educazione privata sta crescendo rapidamente anche nelle economie in transizione. La sola Polonia ha 195 istituzioni private di educazione superiore, frequentate da più di 377.000 studenti. Le business schools private – trascurate nell’Europa orientale 10 anni fa –  ora sono fiorenti: nel 1998 c’erano 91 business schools in Polonia, 29 nella Repubblica Ceca, 18 in Romania e 4 in Bulgaria.
Al tempo stesso, nuovi soggetti – il settore privato della formazione,  università virtuali, providers internazionali, editori per l’educazione, brokers di contenuti e compagnie di media – si sono posti come complemento e sfida rispetto alle istituzioni tradizionali. Questa crescita del settore privato riflette la crescente domanda di maggiore e migliore educazione così come la disaffezione verso il sistema tradizionale di educazione e di formazione.
 
4.La spesa in formazione è cresciuta drammaticamente
Le imprese spendono sempre di più in formazione per diventare o rimanere competitive nella knowledge economy globale. A livello mondiale, la spesa in formazione delle imprese sarà aumentata di 28 miliardi di $ alla fine del 2002 rispetto ai 18 miliardi di $ del 1997.  Il mercato della formazione aziendale nella sola Cina è stimato in 1 miliardo di $ ed è prevista, per il 2004, una crescita a 5 miliardi di $.
 
5.Trasformare l’apprendimento per incontrare i bisogni di lifelong learning 
Per collocarsi con successo nella knowledge economy è necessario governare un nuovo set di conoscenze e di competenze. Queste includono skills scolastici di base, come leggere e scrivere, lingue straniere, abilità matematiche e scientifiche e capacità di uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. I lavoratori devono essere capaci di usare questi skills effettivamente, agire autonomamente e riflessivamente e devono essere in grado di connetterli e farli funzionare in gruppi socialmente eterogenei.
 
6.I paesi in via di sviluppo e le economie in transizione non hanno avuto successo nel fornire alle persone la conoscenza e le competenze di cui hanno bisogno
L’educazione è inadeguata nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo. La copertura è insufficiente, l’accesso è diseguale (specie nell’educazione terziaria e nella formazione per gli adulti e gli inseriti) e la qualità dell’educazione è scadente. I tassi di istruzione degli adulti sono bassi, e troppo pochi ragazzi completano l’educazione di base. Valutazioni internazionali degli studenti della scuola secondaria nelle discipline matematiche e scientifiche mostrano economie in via di sviluppo ed in transizione faticano molto specie quando gli studenti sono esaminati sulle loro abilità ad applicare ed usare la conoscenza. Nelle economie in transizione dell’Europa e dell’Asia Centrale, la qualità dell’educazione è inadeguata ed il sistema educativo è troppo rigido. Apprendimento meccanico, scolarizzazione guidata dagli esami e impennata dei costi dell’educazione privata sono stati a lungo i contenuti delle politiche in alcuni paesi dell’Asia.
 
7.I metodi tradizionali di educazione sono inadeguati a fornire alle persone gli skills di cui hanno bisogno per collocarsi con successo nella knowledge economy
 
Il modello tradizionale di apprendimento differisce dai metodi di lifelong learning in importanti aspetti come evidenzia lo schema che segue.
 
Modello di apprendimento tradizionale Lifelong learning
L’insegnante è la fonte dell’apprendimento Gli educatori sono guide alle fonti di conoscenza
Gli allievi ricevono la conoscenza dall’insegnante Le persone apprendono facendo (learning by doing)
Gli allievi lavorano da soli  Le persone apprendono in gruppi e l’una dall’ altra
I test sono utilizzati per impedire che gli studenti vadano avanti fino a che non abbiano completamente acquisito un set di skills e la possibilità di accedere ad ulteriori apprendimenti La valutazione è utilizzata per guidare le strategie di apprendimento e per identificare i sentieri successivi dell’apprendimento
Tutti gli allievi fanno la stessa cosa L’educatore sviluppa piani di apprendimento individualizzato
Gli insegnanti ricevono formazione iniziale e formazione addizionale ad hoc in servizio
Gli educatori sono lifelong learners. La formazione iniziale ed in itinere è legata allo sviluppo professionale
I “buoni allievi” sono identificati ed a loro è garantita la possibilità di proseguire gli studi Le persone hanno accesso ad opportunità di apprendimento durante tutto l’arco dell’esistenza
 
 
8.La formazione degli insegnanti ha bisogno di cambiare
Questo nuovo contesto di apprendimento implica un ruolo diverso per insegnanti e formatori. Gli insegnanti hanno bisogno di apprendere nuovi skills e di diventare essi stessi lifelong learners per tenere il passo con la nuova conoscenza, le idee pedagogiche e la tecnologia. Come l’apprendimento diventa più collaborativo, altrettanto deve fare lo sviluppo professionale dell’insegnante, che ha bisogno di promuovere reti professionali ed organizzazioni di apprendimento nelle scuole e nelle istituzioni.
 
9.Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) possono sostenere questi cambiamenti nella pedagogia 
Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione possono facilitare le forme di learning by doing (mediante simulazioni al computer, ad esempio). Possono accrescere le risorse informative utilizzabili dai learners, cambiando in tal modo la relazione tra insegnante e studente. Possono facilitare l’apprendimento collaborativo e garantire agli studenti rapidi feedback.
Tuttavia, questi risultati non si ottengono semplicemente mediante l’introduzione del computer nel setting didattico. C’è bisogno di un’appropriata cornice di politiche nella quale le ICT siano usate per affrontare i problemi educativi; è richiesto un rilevante investimento nella formazione di insegnanti e managers affinché cambino le loro conoscenze e i loro comportamenti; è necessaria la disponibilità di tecnici qualificati e di staff di supporto per garantire le attività di manutenzione, ricerca e promozione. Queste condizioni sono raramente soddisfatte, specie nei paesi in via di sviluppo.
 
10.Le istituzioni educative formali devono diventare più flessibili
Le istituzioni terziarie offrono sempre più corsi part-time (serali nel week-end o estivi) per rispondere ai bisogni di lavoratori adulti. In Finlandia il numero degli adulti impegnati in programmi di educazione continua di terzo livello è maggiore del numero dei giovani che frequentano i corsi per diplomi tradizionali.
L’educazione a distanza è uno dei modi in cui vari paesi offrono opportunità di apprendimento più flessibile. Alcuni paesi, nell’educazione di base, utilizzano istruzioni interattive via radio. Il Messico usa la televisione per educare circa il 15% degli studenti  della sua secondaria inferiore. Negli anni Novanta il National Taechers Institute della Nigeria ha diplomato più insegnanti mediante programmi di apprendimento a distanza che tutti gli altri programmi del paese messi insieme. Internet sta cominciando a trasformare l’educazione superiore e la formazione nelle imprese. Nel 1999, ad esempio, il 92% delle grandi imprese degli USA ha condotto programmi di formazione basati sul Web.
 
11.Governare i sistemi di lifelong learning
Per creare efficaci sistemi di lifelong learning, i paesi devono operare significativi cambiamenti sia nel governo, sia nel finanziamento dell’educazione e della formazione. In alcuni paesi OECD i governi che un tempo si basavano esclusivamente su finanziamenti e provvedimenti pubblici dell’educazione e della formazione, oggi stanno cercando di creare una politica flessibile e reti regolamentate che comprendano un più ampio ventaglio di attori istituzionali. Queste reti comprendono la legislazione e gli ordini esecutivi, le intese per assicurare il coordinamento tra ministeri ed altre istituzioni implicate nelle attività di educazione e di formazione, i meccanismi per la certificazione delle acquisizioni dei learners, il monitoraggio istituzionale e dei sistemi di performance, i dispositivi di promozione dell’apprendimento. All’interno di questa rete, il ruolo degli incentivi è critico.
 
12.Il settore pubblico non può essere più a lungo il fornitore esclusivo di servizi educativi
Lo stato dovrà cooperare di più con il settore privato e con la società civile. Il settore privato può fornire servizi educativi secondo modalità tradizionali (in  proprietà diretta, funzionando come scuola privata e come fornitore di in entrata di libri, materiali ed attrezzature) e secondo modalità più innovative (funzionando come scuole pubbliche a contratto). Le imprese inoltre possono fornire  servizi di formazione e aggiornamento e possono essere coinvolte in attività di sviluppo di standard occupazionali e di curricula. 
 
13.In ogni governo i ministeri devono coordinare le loro attività
Sono necessari accordi negoziati a livello nazionale e, nell’implementation, collaborazioni in itinere tra i governi centrale, regionali e locale. In alcuni paesi, incluse la Germania e la Repubblica della Corea, il coordinamento è stato promosso attraverso l’integrazione dei dipartimenti responsabili dell’educazione e della formazione. Al contrario, in alcuni paesi in via di sviluppo alcuni ministeri, tra cui quelli specificamente legati alle attività industriali, controllano, gestiscono e finanziano la formazione. In questi paesi la competizione su risorse scarse ostacola la collaborazione, la promozione di formazione di alta qualità e lo sviluppo di un continuum di opportunità di formazione.
 
14.La certificazione e i sistemi di «assicurazione-qualità» sono necessari per valutare i learners ed informarli sui loro fornitori
I risultati dell’apprendimento devono essere effettivamente monitorati. I sistemi di «assicurazione-qualità» devono riconoscere la gamma delle attività (formali ed informali) nelle quali è collocato l’apprendimento e devono dare ai learners l’opportunità di dimostrare le loro abilità e conoscenze di volta in volta acquisite. I sistemi di «assicurazione-qualità» devono inoltre fornire ai learners delle prospettive con informazioni sulle offerte e sulle prestazioni dei fornitori.
I sistemi di «assicurazione-qualità» possono anche aiutare i learners a muoversi più agevolmente tra differenti tipi, livelli e ambienti di apprendimento. La Namibia, la Nuova Zelanda, il Sud Africa ed il Regno Unito sono dotati di sistemi nazionali di qualificazione che mediante differenti istituzioni assegnano qualifiche per un set di livelli (e ciascun livello è legato a standard di competenza). Gli studenti dei college e delle università degli Stati Uniti possono trasferire crediti da un’istituzione ad un’altra. Inoltre è in atto un movimento verso un ampio accordo a livello europeo sui meccanismi di equivalenza e di «assicurazione-qualità».
 
15.I decisori politici devono ripensare l’accreditamento delle istituzioni 
L’OECD ed alcuni paesi in via di sviluppo stanno cominciando ad accreditare le istituzioni sulla base di misure di prodotto o di performance (stime di diplomi), piuttosto che sulla base  di misure di input (numero di facoltà o libri nelle biblioteche). Nel Bangladesh, ad esempio, le scuole secondarie private devono acquisire  quote sicure di passaggio sugli esami d’ingresso all’università per rimanere accreditate (anche se questa regolazione è raramente imposta). In Armenia le istituzioni educative superiori private (ma non quelle pubbliche) devono acquisire una sicura percentuale di promozioni agli esami finali (normalmente il 50 per cento). Il consolidamento delle istituzioni è sempre più basato sulla performance.
 
16.Il finanziamento del lifelong learning  
Maggiori opportunità (e di maggior qualità) di educazione e formazione durante l’arco della vita richiedono un accrescimento delle spese, e le risorse dovranno essere usate con maggiore efficienza e in modi diversi. Queste spese non possono essere sostenute soltanto da fonti  pubbliche, ma è necessario un menu di opzioni che sia sostenibile ed equo.
 
17.I settori pubblico e privato devono lavorare insieme per finanziare l’apprendimento che va oltre la soglia delle competenze di base
I governi devono finanziare il lifelong learning per  i rendimenti sociali che superano quelli privati (l’educazione di base ad esempio). Il settore privato deve giocare un ruolo nel finanziamento degli investimenti per i rendimenti privati alti (l’alta educazione e l’educazione continua, ad esempio). L’intervento del governo che va oltre la promozione degli skill e della conoscenza di base dovrebbe essere rivolto ai learners di basso reddito o ai gruppi socialmente esclusi e ad altri con elevate barriere di apprendimento.
 
18.Nessun sistema unico di finanziamento può soddisfare i bisogni di tutti i learners
I decisori politici devono considerare un ventaglio di opzioni di finanziamento che includa sussidi, prestiti di tipo obbligazionario, contratti sul capitale umano, imposte progressive, piani di rimborso, piani di «asset-building» e crediti di apprendimento individuale.  Quali che siano i dispositivi utilizzati, il finanziamento dell’apprendimento che va oltre la soglia delle competenze di base dovrebbe includere sia le quote di costi sia le componenti di sussidio. I sussidi dovrebbero essere la fonte principale di finanziamento per i learners di basso reddito. Per i gruppi di alto reddito, la maggior parte del finanziamento dovrebbe prendere la forma dei prestiti basati sul reddito con interessi a tasso di mercato.
 
19.Un’agenda per il futuro
Le domande di un sistema di lifelong learning sono enormi e la maggior parte dei paesi non è in grado di implementare subito tutti gli elementi del sistema. Pertanto, i paesi devono sviluppare una strategia su come andare avanti in modo sistematico e conseguente. Un passaggio importante è l’ identificazione della situazione di partenza di un paese considerata con particolare attenzione in  rapporto a paesi dello stesso livello.
 
20.I sistemi nazionali di lifelong learning hanno bisogno di essere comparati
In alcuni paesi, un modo per far avanzare le cose potrebbe essere quello di istituire confronti nazionali basati sulla misurazione dei risultati del lifelong learning.  Queste misure  sono poco sviluppate. Le misure tradizionali dei progressi educativi, come le quote lorde di reclutamento oppure la spesa pubblica come parte del PIL, non colgono importanti dimensioni del lifelong learning. Le quote lorde di reclutamento misurano gli inputs piuttosto che l’acquisizione delle competenze. La spesa globale in educazione comprende una quota più che giusta della spesa pubblica. Gli indicatori tradizionali inoltre non sono in grado di cogliere l’apprendimento nei settori non-formali ed in quelli informali che diventano sempre più importanti.
 
21.E’ necessario un diverso approccio alla riforma dell’educazione
Una riforma continua è necessaria non solo per accelerare l’andamento stesso della riforma, ma anche per ampliare l’estensione delle trasformazione fondamentali che man mano sono portate a compimento. Il modello tradizionale della riforma dell’educazione comunque non è sensibile al cambiamento continuo: un flusso di iniziative e di cambiamenti di politiche si rivela troppo pesante per gli stakeholders e allora prevale la stanchezza e, infine, la resistenza alla riforma. Le istituzioni devono quindi costruire riforma e cambiamento all’interno dei loro specifici processi. Inoltre, i cambiamenti di politiche richiedono un largo sostegno e dialogo per facilitare gli aggiustamenti in itinere necessari durante l’implementation.
 
22.La Banca Mondiale continuerà ad approfondire la sua riflessione e ad aiutare i paesi a sviluppare strategie concrete
C’è la necessità di impegnare i decisori politici nazionali e gli stakeholders a livello mondiale in un dialogo sul lifelong learning allo scopo di aiutare i governi a formulare strategie e piani di azione concreti  per mettere a punto cornici di lifelong learning e di innovazione appropriate ai contesti dei loro paesi. La Banca Mondiale può sostenere questi sforzi lavorando sia all’approfondimento della comprensione delle implicazioni della per i sistemi  di educazione e di formazione, sia alla diffusione di documenti analitici e programmatici sull’educazione per la knowledge economy.
 

* In “Formazione & Cambiamento”, n, 31, 2004

 
D: Nel corso del 2004 sono apparse due sue pubblicazioni; “La vita organizzativa” e “Autoformazione”. A quasi vent’anni da “Fare formazione”, qual è il significato di questi due libri e la loro relazione?
 
R: In certo qual modo essi rappresentano i confini del medesimo territorio analizzato da due punti di vista diversi, uno “esterno” e uno “interno”. Il centro è, infatti rappresentato dal soggetto, dalla sua esperienza e dall’insieme di risorse di cui egli è portatore. Una recente esplorazione della letteratura in tema di processi organizzativi, di formazione e di orientamento ha confermato la convergenza ormai univoca della ricerca e dell’applicazione su questo punto di partenza. Nella Vita organizzativa, la centralità del soggetto è evocata dalla scelta disciplinare del testo interessato a comprendere le risonanze soggettive del vivere organizzativo. Nella misura in cui, infatti, nel tempo è cresciuto il potenziale controindividuativo delle organizzazioni, ancora più importante diviene il procedere autoformativo individuale volto all’individuazione.
Questo, d’altro canto, è proprio il tema che accomuna i brani che compongono l’antologia dedicata all’autoformazione. Essi guardano a diversi aspetti dell’apprendimento autodiretto, in un cero senso dall’interno, in quanto esplorano i differenti processi che dalla motivazione vanno all’assunzione di responsabilità e che convergono a sostenere l’autoformazione o, almeno, una parte di essa. 
Questo, in grande sintesi il legame tra le due opere comparse nel 2004, le quali, con la critica del limite rappresentato da un certo modo di pensare l’organizzazione e la contemporanea focalizzazione sulla complessità del processo di formazione individuale, accompagnano la mia scelta di riflessione sempre più sui processi individuali di “messa in forma” di sé. In ultimo, quindi, il legame che unisce tutto ciò con Fare formazione è, a mio parere, rintracciabile in un deciso rafforzarsi del processo di ricerca verso quell’area che allora definii come Sé.
 
D: Cosa intende con “procedere” autoformativo”?
 
R: In effetti, ho utilizzato questa espressione in modo volutamente “non definito”, anche perché proprio l’ambito di ricerca e di pratica dell’autoformazione è spesso caratterizzato da elevata ambiguità. Il suo scenario è, infatti, composito e può essere semplificato polarizzando le molteplici tensioni intorno a due grandi istanze: quella istruttiva e quella educativa. Nel caso della prima etichetta, il procedere autoformativo si contraddistingue come processo di apprendimento di contenuti in larga parte autosomministrati attraverso soluzioni tecnologicamente avanzate. Questa forma di apprendimento autonomo, tuttavia, non mi sembra scevra di rischi: mi sembra, infatti, che la collusione con le spinte controindividuative dell’organizzazione sia più di una semplice possibilità. La prima obiezione che può emergere, infatti, e che d’altro canto è spesso emersa in letteratura, è che costruendo percorsi a sostegno dell’autonomia, si finisca con lo sgravare ulteriormente di responsabilità “individuative” le organizzazioni. 
Da un lato, infatti, l’apprendere da sé (in forma autodidattica o autistruttiva) soddisfa richieste di flessibilizzazione, professionalizzazione e risparmio di vario genere (tempi, risorse, ecc.). Dall’altro, però, comporta una frammentazione del processo di apprendimento, una sottovalutazione del valore della relazione e una svalutazione di una componente fondamentale dell’apprendere quale quella emotiva. La persona è, infatti, lasciata da sola nel gestire i propri sentimenti connessi alla fatica, al senso di inadeguatezza o, al contrario, all’entusiasmo. 
In una prospettiva di lettura psicologica della formazione non si può trascurare il valore della relazione. Ho trovato significativo (sebbene ancora in certa misura parziale) che nell’antologia dedicata all’autoformazione, ad esempio, muovendo da una prospettiva eminentemente costruttivista, proprio Mezirow abbia posto l’accento sul punto di vista dinamico di studio sui processi autoformativi e sul valore dei processi transferali. D’altro canto, sebbene a partire da modelli diversi che da quello cognitivista giungono a quello dinamico, il tema delle emozioni e dell’apprendimento è considerato di attualità.
 
D: Questa dimensione emotiva dell’autoformazione è, forse, un criterio caratterizzante quell’istanza educativa a cui accennava in precedenza?
 
R: In certa misura sì. Mi sembra, infatti, che ciò che più può differenziare una concezione istruttiva dell’apprendere da sé e una di tipo educativo sia l’origine della domanda in rapporto all’individuo adulto. Nel primo caso, infatti, mi sembra che si tenti di soddisfare a una domanda tendenzialmente esterna rispetto alla persona: mi immagino i casi di servizi nati, ad esempio, in Francia, con lo scopo di fornire conoscenze di base e che rientrano appieno all’interno del paradigma autoformativo. Essi mirano a soddisfare una richiesta di formazione che ha per scopo ultimo quello di permettere alle persona di collocarsi o ricollocarsi professionalmente potendo contare sulla preparazione di base richiesta dal mondo del lavoro.
Una prospettiva educativa e i percorsi già pensati e già esistenti per sostenerla, invece, mi sembra tentino di rispondere a una domanda “interna” della persona orientata soprattutto dal desiderio di conoscersi meglio e di realizzarsi nel rispetto della peculiarità delle proprie dinamiche interiori ed esterne.
Essendo due polarità, occorre tenere conto che stiamo operando una semplificazione. Ci sono, infatti, molte forme intermedie aventi diverse implicazioni e nessuna può escludersi. Molti percorsi in autoistruzione in presenza (mi sembra che quelli a distanza comportino risvolti di altro tipo), infatti, sono strutturati dai progettisti in base a una tensione educativa. In altre parole, attraverso questi dispositivi e per mezzo dell’acquisizione di saperi di base si mira a contribuire a un processo di progressiva emancipazione, in primo luogo, dall’esclusione sociale e, in secondo luogo, dall’imposizione sociale. Filosofie che sono certo note nella comunità degli esperti di apprendimento.
La consapevolezza o, meglio, la crescita della consapevolezza mi sembra, dunque, essere un elemento cruciale su cui si giocano le questioni autoformative, in quanto essa può essere fine di taluni percorsi di apprendimento in autoistruzione, mentre è “lo” scopo di soluzioni educative.
 
D: Ma questa proposta di un’autoformazione orientata alla crescita della conoscenza di sé e, quindi, all’apertura rispetto ai limiti autoimposti o proposti esternamente non rischia di essere un po’ velleitaria?
 
R: in effetti può essere così, se non si procede a un attento esame di realtà. Per fare ciò, quindi, dopo aver in certa misura delineato l’obiettivo del processo, credo sia importante formulare una serie di precisazioni. In primo luogo, occorre dire, e nel fare ciò mi approprio di un’affermazione che fu di Knowles, che forse non si può porre un apprendimento orientato all’autoformazione come obiettivo per tutti. Credo che questa affermazione debba rappresentare una sorta di conditio sine qua non per chi voglia occuparsi di autoformazione ai suoi molteplici livelli. Che si parli di apprendimento in autoistruzione o di percorso di formazione trasformativa del proprio sé (che è il mio modo di intendere l’incedere autoformativo), per il formatore dovrebbe essere chiaro che non tutti i partecipanti potranno beneficiare allo stesso modo di ciascuna proposta e, ancor prima, che esse non potranno essere fatte nella stessa forma a tutti. 
Se, infatti, favorire il processo formativo personale (almeno in un modello particolare) coincide con il sostenere il percorso realizzativo personale, allora, la proposta (auto)formativa dovrebbe, in primo luogo, comprendere le diverse “propensioni” individuali. Differente è il grado con cui ciascuno può affrontare la dipendenza o l’indipendenza nell’apprendere, con cui ognuno può “reggere” la maggiore o minore consapevolezza di sé e del proprio contesto, la misura della propria resistenza o della propria tendenza alla proiezione. 
Altra condizione molto importante nella progettazione di una soluzione autoformativa realistica, è la qualità della relazione di apprendimento. La figura del formatore/educatore non perde certo valore nella mia idea di autoformazione, anzi ne acquista sempre di più. Se mi limito, infatti, per un momento a considerare il processo autoformativo strutturato a sostenere l’individuazione, il ruolo delle figure di formazione e di educazione richiede una responsabilizzazione crescente e una maturazione professionale di entità non indifferente. Ciò è, infatti , necessario al fine di sostenere le persone in talune tappe del processo. Nella mia prima rappresentazione di questo percorso, infatti, la sua forma scaturisce dall’intreccio tra momenti di relazione e fasi gestite “in solitudine”. In entrambi i momenti, l’evoluzione del lavoro individuale è resa possibile dalla riflessione che assume un valore cruciale. Per me, infatti, solo attraverso la memoria e il racconto, intese come due particolari modi di realizzare concretamente la riflessione, si può sostenere il cammino individuativo. Tali “strumenti” sono per loro natura complessi ed è anche molto variabile l’abilità con cui ciascuno di noi vi può far ricorso. Per tale ragione, il compito del formatore è fondamentale. Esso, tuttavia, lo diviene ancora di più quando oltre alla forma di questi due processi citati, si pensi alla delicatezza dei contenuti che essi sono in grado di attivare: ricordi di successi, o di insuccessi, emozioni passate, comportamenti messi in atto, pensieri abbandonati, ecc. con tutte le loro risonanze nel presente. 
 
D: Questa riflessione sugli strumenti, in senso lato, dell’autoformazione intesa come processo trasformativo di sé e sulle ricadute a livello di figura del formatore, mi conduce inevitabilmente a chiedersi: come si può dare una forma concreta a tutto ciò nel campo della formazione. 
 
R: Innanzitutto, proprio in vista di questa direzione “applicativa”, mi sembra importante sottolineare come non tutta la formazione debba risolversi nella proposta autoformativa. Essa dovrebbe essere un’alternativa sceglibile quando si realizzino una serie di opportune condizioni: di tempo, di relazione, di maturità individuale, di tipo di contenuti, di contesto, ecc. L’opportunità autoformativa è certamente una meta difficile, se concepita nella sua forma più profonda di processo trasformativo del proprio sé, perciò il primo elemento per renderla raggiungibile è ripetersi che essa non è possibile sempre.
D’altro canto, le teorie più recenti sull’apprendimento adulto, vale a dire prospettiva postmoderna e teoria critica, ad esempio, hanno da tempo suggerito molte soluzioni che possono, a mio parere, sostenere percorsi di formazione trasformativa di sé: basti pensare agli strumenti di tipo narrativo, alle sessioni di lavoro in gruppo e di confronto tra pari, al ricorso alle logiche discorsive come momento di appropriazione dei processi di costruzione sociale della conoscenza, ecc. Nonostante ciò, ritengo che molto lavoro debba essere fatto nel campo della ricerca per sistematizzare e dare coerenza teorico-concettuale all’esistente, al fine di evitare abusi e mode nell’applicazione di strumenti e di procedere nella verifica, anche attraverso un’opportuna ricerca quali-quantitativa, della coerenza tra modelli teorici di apprendimento, modelli di sviluppo in età adulta, metodi formativi e strumenti finalizzati al sostegno al percorso individuativo. 
 
D: Come si concilia l’idea di un modello di autoformazione come quello a cui lei ha accennato e che è in corso di costruzione con la logica controindividuativa delle organizzazioni? Non si rischia di avere individui più “maturi” a fronte di organizzazioni “immature”?
 
R: Credo che una soluzione un po’ più strutturata a questo quesito possa essere lasciata anche per onestà intellettuale, proprio a quel processo di approfondimento e di ricerca cui accennavo prima. Per ora, forse, non posso che dare due tipi di risposte: la prima recupera una tesi o, meglio, una raccomandazione, presente nella letteratura in tema di autoformazione, mentre la seconda ha a che vedere con le mie convinzioni e con le mie dimensioni di valore.
La prima istanza fa riferimento al fatto che il formatore che abbracci l’opportunità autoformativa non deve cadere nell’errore di pensare che si tratti di un processo dai soli scopi individualistici. Il cammino verso una più profonda conoscenza di sé può dirsi in certo senso compiuto solo se ritorna generativamente ad alimentare il proprio sistema di relazioni e il proprio contesto verso un maggiore contatto con le dinamiche profonde.
La seconda idea che voglio esprimere in tema di autoformazione e processi organizzativi è, in realtà, più un auspicio che una vera e propria risposta alla domanda di partenza: è sperabile che sostenendo il processo individuativo personale e aiutando processi evolutivi di tipo soggettivo, si giunga a popolare le organizzazioni di individui più consapevoli, facilitando in tal modo un recupero della “salute” organizzativa. In coerenza con questa idea, penso che i primi che dovrebbero beneficiare di un processo autoformativo dovrebbero proprio essere i professionisti della formazione e chi svolge attività di consulenza (in quanto esperti nella trasformazione del sapere tout-court e del sapere su di sé): solo vivendo in prima persona il significato della conoscenza di sé essi potranno comprendere difficoltà e agi che questo comporta per gli altri e mettere al loro servizio un insieme di competenze ancora più strutturato. 
 
 

* In “Formazione & Cambiamento”, n.23, 2003
 
1.Organizzazioni e formazione
Le pagine che seguono cercheranno di esplorare in modo necessariamente sintetico (1) i nessi tra azione formativa e processi organizzativi così come essi emergono  alla luce delle più significative elaborazioni italiane degli ultimi 30 anni. In effetti, l’interesse per la relazione tra processi organizzativi e pratiche formative è da tempo al centro di molte riflessioni e discussioni  influenzate da interpretazioni ed orientamenti talora anche marcatamente diversi e comunque oscillanti tra i poli opposti di due punti di vista: da un lato, si punta a precisare l’utilità della formazione in rapporto alle (e in quanto «variabile dipendente» delle) scelte di politica organizzativa; dall’altro, si cerca di costruire in modo autonomo il senso tecnico e l’identità professionale di un insieme di pratiche la cui rilevanza nelle organizzazioni è ormai ampiamente riconosciuta. In ogni caso, è fuori discussione il fatto che in questa relazione trovi fondamento, sviluppo e progressivo consolidamento quel variegato campo di saperi, culture e pratiche professionali che convenzionalmente è denominato «formazione». Inoltre essa esibisce una sua dinamica che riflette i cambiamenti – talora impercettibili, talora discontinui e radicali – ai quali, sotto l’influenza di una molteplicità di fattori, sono interessati tanto il «mondo» (cioè le culture, gli stili e le pratiche) delle organizzazioni, quanto il «mondo» della formazione. Infine, pur essendo in questa relazione largamente reciproca l’influenza dei due «mondi», l’approdo ad una visione «integrata» è un processo non certo facile né scontato: si è infatti passati, nel tempo, da prospettive (teoriche e pratiche) nettamente separate, a configurazioni interpretative in cui emerge una crescente sensibilità sulla necessità di significative connessioni tra le due dimensioni, per giungere in tempi più recenti al progressivo consolidamento dell’idea secondo cui l’azione formativa è parte integrante delle pratiche organizzative delle quali talora anticipa rilevanti fenomeni innovativi.
Proveremo ad analizzare questa relazione proponendo una chiave di lettura che tende ad evidenziare come, proprio a partire da questa relazione costitutiva con i processi organizzativi, le principali categorie concettuali e di metodo legate all’azione formativa si vengano affermando sul campo (generando pratiche e lessici consolidati) in progressiva presa di distanza e deciso affrancamento rispetto alle culture, agli orientamenti e alle modalità operative tipiche dell’educazione stricto sensu dalle quali la formazione trae la sua origine. 
A ben vedere, è la stessa dinamica di questo processo di affrancamento, oltre che le culture tecniche che ne hanno ispirato i tratti fondamentali, ad accompagnare la trasformazione del suo intero apparato concettuale e di metodo. Da un lato, infatti, la cultura e le pratiche della formazione nascono e si sviluppano man mano che, distanziandosi sempre di più dagli ambiti originari delimitati dai confini dell’educazione tradizionale, si situano in contesti d’azione caratterizzati da un riferimento specifico e diretto al mondo del lavoro e delle organizzazioni: in questo senso, si dà formazione solo se e nella misura in cui essa è associata ad un’idea di accrescimento di competenze professionali (e da questo punto di vista si può effettivamente parlare di formazione pertinente). Dall’altro, la graduale affermazione ed il consolidamento di un bagaglio di teorie, tecniche e metodi segue un movimento di progressiva presa di distanza dai fondamenti pedagogici delle culture di origine basati, come è noto, sull’ipotesi dell’adattamento di chi (letteralmente) «deve essere formato», per accedere (sempre più decisamente) a visioni e pratiche in cui irrompe – pur rimanendo ancora entro lo schema dell’adattamento – anche la soggettività (dunque la disponibilità da acquisire e poi la partecipazione) di chi «deve essere formato».
Su questi due tratti di fondo si è sempre giocato – e presumibilmente si giocherà ancora – lo sviluppo di quel campo eterogeneo di pratiche che denominiamo «formazione».
Sarà utile, allo scopo di focalizzare meglio il senso del nostro ragionamento, una rapida descrizione dei passaggi di fondo che caratterizzano lo sviluppo della cultura e dei metodi della formazione partendo dalle visioni che, all’origine, ne caratterizzavano i tratti essenziali nei termini di veicolo dell’adattamento passivo degli individui all’organizzazione, per giungere agli orientamenti attuali che vedono il prevalere di approcci centrati sulla dimensione dell’apprendere. 
La ricostruzione qui schematicamente abbozzata si propone di esplorare  – facendo riferimento prevalente all’insieme delle esperienze e delle elaborazioni maturate in Italia tra gli anni ’60 e gli anni ’90 del Novecento – il processo di costruzione dei contenuti concettuali e di metodo che nel loro insieme definiscono e strutturano il campo d’azione delle pratiche formative nelle organizzazioni. L’idea di fondo è quella di ancorare la formazione ai contesti concreti nei quali (e per i quali) essa è attivata. E poiché, come si è cercato di argomentare, le organizzazioni sono il referente contestuale più rilevante delle azioni formative, gli sviluppi delle teorie e dei modelli organizzativi più significativi dal punto di vista della loro valenza applicativa diventano il punto di riferimento e lo sfondo a partire da cui si costituiscono le pratiche formative ed i loro orientamenti teorici e di metodo. Assumendo questo punto di vista, l’analisi intende proporre una lettura longitudinale che assume l’evoluzione delle teorie e delle pratiche organizzative articolandola in una successione di tre prospettive paradigmatiche: approccio taylor-fordista o modernista, approcci organicistico-sistemici o neo-modernisti, culture ed approcci organizzativi post-industriali e postmodernisti
A ciascuno di essi corrisponde quasi specularmente un orientamento conforme di pratica della formazione. In quest’ottica (2), è possibile mettere in evidenza non solo le corrispondenze – talora le coincidenze meccaniche – tra teorie/pratiche organizzative e schemi d’azione formativa, ma anche il passaggio delle culture formative dai modelli deterministici originari alle pratiche più recenti. E’ inoltre possibile ripercorrere, per questa via, il processo attraverso il quale l’azione formativa si costruisce e si definisce, nel tempo, come un ambito tecnicamente autoconsistente (quasi-disciplinare si potrebbe dire) di pratiche e di culture professionali.  Quest’ultimo tipo di ri-lettura è possibile considerando i modi diversi in cui, all’interno dei tre orientamenti presi in esame, sono concepite ed interpretate le tre dimensioni tecniche principali dell’azione formativa – analisi dei bisogni, progettazione e valutazione – che qui assumiamo come terreno costitutivo per eccellenza dell’elaborazione di teorie e di dispositivi di metodo (3) sempre più ricchi.
 
2.Il paradigma modernista
L’orientamento originario è caratterizzato dal prevalere di una cultura deterministica della formazione che corrisponde in modo del tutto speculare al modello organizzativo dominante, lo schema taylorista dell’organizzazione, che considera l’uomo al lavoro né più, né meno che una sorta di prolungamento delle macchine e, proprio per questo, le sue capacità lavorative (che saranno ricompensate monetariamente in misura corrispondente al contributo apportato all’insieme) non solo dovranno meccanicamente rispondere alle disposizioni del management, ma dovranno necessariamente essere piegate alle esigenze dell’organizzazione (anche queste, evidentemente, determinate dal management).
Il taylorismo (in quanto presunta «disciplina scientifica» ed in quanto autentica ideologia delle società industriali di un lungo periodo del Novecento), si basa, come è noto, su due principi essenziali. Il primo è quello della one-best-way, che postula la possibilità che per ogni attività ci sia un modo ottimale ed unico di svolgerla. Una volta attribuiti i compiti agli operatori, si tratterà di garantire  - e questo aspetto è cruciale dal punto di vista del nostro discorso – che ciascuno di loro sia in grado di svolgerli in modo del tutto corrispondente alle specificazioni definite in sede di pianificazione del lavoro e trasmesse per via formativa agli operatori. Il secondo principio (corollario del primo), è quello dell’homo oeconomicus: l’uomo al lavoro è spinto solo da motivazioni di massimizzazione del guadagno economico ai cui stimoli – e solo ad essi – egli risponde: quanto maggiore è il compenso ricevuto, tanto più alte saranno le probabilità che il suo impegno cresca in intensità e garantisca dunque che il suo compito sia svolto in modo più efficace e più rapido. 
In simili condizioni – che postulano la riducibilità dell’individuo alle macchine delle quali egli sarebbe un prolungamento e dunque parte integrante (nella misura in cui svolge compiti ripetitivi, prevedibili e perfettamente controllabili) – la formazione assume precisamente la funzione di snodo cruciale dei processi di riproduzione tecnica e di funzionamento dell’organizzazione: essa infatti garantisce le pre-condizioni affinché le capacità operative dell’individuo siano piegate alle esigenze dei compiti che l’organizzazione (ovvero la sua «tecnostruttura») ha predefinito e deciso che lui svolga. La formazione è un fondamentale presidio delle scelte tecniche dell’organizzazione sul versante dell’«addestramento» e dell’«indottrinamento»  degli uomini e del loro assoggettamento agli imperativi del sistema.
La cultura tecnica, lo status e l’ideologia stessa della formazione sono orientati dalla logica dell’adattamento meccanico dell’individuo all’organizzazione. La formazione assume cioè le caratteristiche di azione di addestramento (nel senso letterale del termine: render “destro”, cioè abile, qualcuno a qualcosa da eseguire) ad un compito semplice e ripetitivo ed ai principi gerarchici che dominano la vita dell’organizzazione.
 Le sue risorse tecniche, ancora largamente rudimentali, sono piuttosto indifferenziate rispetto alle modalità tradizionali del lavoro educativo (del quale assumono gli aspetti più arcaici ed autoritari) e si fondano:
1) su analisi dei bisogni del tutto appiattite alle esigenze dell’organizzazione: la risultante tecnica di questa «visione» è la celebre job/skill analysis che in una semplice matrice registra le caratteristiche delle posizioni lavorative (definite in termini di compiti), da un lato, e, dall’altro, le capacità/abilità necessarie, da acquisire per via formativa, allo svolgimento di tali compiti. La determinazione delle abilità necessarie (e da far corrispondere) a ciascun compito costituisce dunque l’essenza dell’analisi dei bisogni tayloristica; 
2) su stili di progettazione sostanzialmente ridotti a sequenze di programmi di addestramento/istruzione al compito in una prospettiva ultrarazionalistica che colloca gli obiettivi al centro dell’intero processo; ne deriva una visione ed una pratica dell’azione progettuale che riduce (e riconduce) gli obiettivi della formazione e dell’apprendimento ad una piatta registrazione dell’analisi del lavoro e dei bisogni di formazione declinati in chiave di traguardi di capacità operative legate ai compiti richiesti dall’organizzazione del lavoro; 
3) su una pratica della valutazione mirata alla verifica diretta dell’effettiva acquisizione di capacità operative elementari.    
Nella prospettiva della formazione tayloristica, i «formatori» (in questo caso gli «istruttori»), altro non sono che i depositari della capacità di esecuzione del compito la cui azione si limita ad un mero lavoro di trasferimento meccanico di semplici rudimenti di tecniche applicate.
I tratti generali della cultura formativa fin qui delineati, se da un lato riflettono prevalentemente le pratiche di formazione orientate all’addestramento al compito, dall’altro ispirano in modo del tutto analogo (seppure in condizioni radicalmente diverse non solo perché diversi sono i destinatari delle attività, ma anche perché diversi sono i contesti e le finalità dell’azione formativa) la formazione manageriale che è orientata essenzialmente a rinforzare i contenuti e l’ideologia del ruolo dirigenziale (la cultura della leadership) e, per questa via, a garantire la persistenza del fondamento gerarchico dell’organizzazione. 
 
3.Gli approcci neo-modernisti
Un deciso superamento delle modalità tayloristiche di intendere e praticare la formazione emerge parallelamente all’affermarsi di una diversa visione del mondo delle organizzazioni che in linea di massima coincide con una prospettiva nuova (che qui definiamo neo-modernista), in base alla quale la logica del determinismo della macchina e dell’organizzazione è messa in discussione anche sul terreno applicativo per fare spazio a concezioni più temperate ed al tentativo di una tendenziale ricomposizione della frattura tra uomo ed organizzazione. 
Il cambiamento avviene anche in presenza di fenomeni che mettono in evidenza i radicali limiti dell’economicismo che caratterizza il modello dominante facendo emergere la rilevanza delle dimensioni relazionali dei processi organizzativi e, in questo quadro, la non riducibilità degli attori nelle organizzazioni a mere funzioni meccaniche. E’ la crescita stessa delle soglie dimensionali delle imprese e l’intreccio delle relazioni (tra imprese stesse e tra imprese e società) che pone al centro la questione del loro funzionamento in condizioni di crescente complessità e di crescente instabilità degli ambienti di riferimento rispetto ai quali si pongono nuovi e più dinamici problemi di adattamento. Da qui la necessità di riconoscere la rilevanza sociale delle organizzazioni e la loro  caratteristica di sistemi sociali dotati di specificità difficilmente «governabili» secondo i principi dello scientific management.
Questa nuova logica – interpretata dapprima dalle correnti delle human relations, successivamente dalle letture delle organizzazioni come sistemi aperti e poi da varie altre prospettive di analisi sviluppatesi nel tempo – segna l’avvio del distacco radicale rispetto al modello meccanicistico dell’organizzazione attraverso il riconoscimento dell’importanza cruciale di alcuni fattori. Tra questi, almeno due risultano particolarmente rilevanti ai fini del nostro discorso:
1) la rivalutazione dell’importanza delle dimensioni affettive, umane e relazionali nella vita organizzativa: l’uomo al lavoro non è, come vuole la tradizione consolidata, solo il prolungamento della macchina, ma è anche un essere dotato di emozioni, di capacità affettive e di bisogni, tra i quali, non ultimo dal punto di vista della sua partecipazione alla vita organizzativa, quello di realizzarsi anche attraverso il lavoro e quello di esser parte di un’impresa alla quale dedicarsi insieme ad altri;
2) la «scoperta» della crucialità delle relazioni tra organizzazione ed ambiente ai fini della sopravvivenza e dello sviluppo delle imprese. Viene maturando dalla fine degli anni 50 del Novecento, una crescente consapevolezza circa il peso dei «fattori ambientali» nella determinazione dei diversi «fattori» costitutivi dell’equilibrio organizzativo. L’ambiente delle organizzazioni diventa un oggetto di attenzione privilegiato per gli studiosi ed un punto di riferimento centrale per i manager impegnati nella gestione dei processi organizzativi. Maturano in questo contesto gli approcci in base ai quali i «parametri» di progettazione e ri-progettazione dovrebbero mantenere un certo grado di elasticità per consentire alle strutture dell’organizzazione quella capacità di adattamento alle variazioni ambientali grazie alla quale è possibile, per esse, sopravvivere anche in condizioni di elevata turbolenza dell’ambiente. 
In opposizione speculare dunque rispetto alle visioni dell’organizzazione come «sistema meccanico» emerge e si consolida la prospettiva dell’organizzazione come «sistema organico» che, al pari degli organismi viventi, è fortemente sensibile agli «stati» dell’ambiente. Creare le condizioni che favoriscono l’adattamento del sistema al suo ambiente diventa dunque di vitale importanza. 
In questo clima di elaborazioni, riflessioni ed esperienze, si viene anche rafforzando e diffondendo l’uso dell’approccio sistemico considerato uno degli strumenti intellettuali di maggior potenza operativa per lo studio delle (e l’intervento nelle) organizzazioni. Il successo del ragionamento sistemico è dovuto in larga misura al contributo che gli studiosi inglesi del Tavistock Institute – sotto l’impulso di Emery e Trist – danno all’elaborazione dell’approccio socio-tecnico per l’analisi e la progettazione delle organizzazioni. Si tratta di una prospettiva che è simultaneamente di studio e di intervento, grazie alla quale è posto al centro dell’attenzione di studiosi e di operatori il problema del cambiamento organizzativo e sono indicate piste di soluzione che assumono la necessità di tenere insieme tutti i fattori organizzativi avendo cura di considerare congiuntamente le dimensioni tecniche (quelle legate alla tecnologia, alle strutture, ecc.) e quelle sociali (quelle cioè legate al «fattore umano», al capitale di capacità professionali di cui l’organizzazione dispone). 
L’enfasi sulla esposizione dell’organizzazione alle variazioni ambientali e sulla sua connotazione di sistema aperto nel quale le dimensioni relazionali e sociali assumono una nuova rilevanza, non solo rinnova in modo significativo il quadro delle interpretazioni e delle pratiche organizzative, ma costituisce anche l’humus fertilissimo ed il retroterra solidissimo per la «fondazione» di una cultura radicalmente rinnovata della formazione. Poiché le dimensioni legate ai fattori tecnici della produzione e dell’organizzazione non sono più un imperativo, ma bisogna tener conto del contributo, dei bisogni e delle esigenze degli individui oltre che del loro mutato ruolo di soggetti capaci di adattamento autonomo agli imprevisti ed alle variabilità interne così come a quelle esterne, la formazione, in quanto «strumento» par exellence delle politiche del «fattore umano», comincia a diventare non solo parte integrante della pratica organizzativa, ma anche un terreno fertile di elaborazioni culturali e di nuove tecniche d’azione che gradualmente assumono una loro consistenza propria man mano che prendono le distanza dalle rudimentali visioni consolidate. E’ in questo clima che l’azione formativa, nel corso di alcuni anni, si rafforza e amplia i suoi confini fino a prefigurare un campo quasi-disciplinare con un suo statuto metodologico (dotato di sue teorie, metodi e strumenti d’intervento) e con ruoli professionali (i formatori) che cominciano ad accreditarsi tanto nello spazio delle organizzazioni quanto nella società. Si profila una prospettiva d’intervento che, sul versante delle pratiche, comincia ad elaborare specifiche tecniche che si ispirano in larga misura ad approcci orientati ad incidere sugli aspetti motivazionali e dei comportamenti degli individui allo scopo di valorizzare il loro contributo all’organizzazione (non più dunque solo accrescimento delle conoscenze teoriche e dei saperi pratici) e, al tempo stesso, di favorire le loro capacità di adattamento consapevole alle mutevoli esigenze del sistema. 
Il consolidamento dello status organizzativo della formazione – cioè la sua graduale internalizzazione nell’ambito delle politiche organizzative orientate alla «gestione delle risorse umane» – favorisce il clima che porta ad elaborazioni sempre più sofisticate del suo apparato metodologico fino a giungere ad una configurazione di tipo processuale di ogni intervento di formazione. Ed è proprio con la visione dell’intervento come processo caratterizzato da azioni tecniche interconnesse da legami di flusso, che si delinea il punto di svolta grazie al quale le pratiche formative assumono una forma matura ed al tempo stesso una dimensione professionale di una certa consistenza. Il «processo di formazione», secondo le formulazioni più affermate, si articola in una sequenza di azioni concatenate che, per ogni intervento, partendo dall’analisi dei bisogni, prevede la progettazione, l’attuazione ed infine la valutazione dei risultati.
In questo quadro, le «determinanti» tecniche dell’azione formativa assumono un crescente livello di complessità e compattezza sia per quanto riguarda i contenuti operazionali, sia per quanto riguarda l’apertura a (e l’acquisizione di) contributi teorici e metodologici derivanti da un ampio spettro di saperi. E’ così che si consolidano, fino a divenire pratiche codificate, i «principi» di metodo legati all’analisi dei bisogni, alla progettazione ed alla valutazione. Vediamone i tratti essenziali.
L’analisi dei bisogni diventa un’attività specialistica rispetto alla quale è richiesto un bagaglio di strumenti del tutto nuovo rispetto alle tradizionali competenze degli operatori della formazione: emerge la necessità di chiarificare, in primo luogo, cosa debba intendersi per bisogno di formazione e, in secondo luogo, il problema di come procedere per individuarlo ed analizzarlo. 
La prima questione, mette in evidenza il fatto che i bisogni corrispondono, non già agli imperativi funzionali del sistema assunti unicamente dal punto di vista dell’organizzazione ed ai quali far corrispondere per adeguamento meccanico le prestazioni degli individui, ma all’esigenza di integrare le varie parti del sistema in modo tale da garantire il suo equilibrio e dunque il suo funzionamento appropriato. Nella sua configurazione più compiuta, l’analisi dei bisogni è quindi intesa come una sorta di lettura congiunta delle esigenze formative espresse dall’organizzazione e dagli individui in un’ottica capace di trovare mediazioni appropriate tra punti di vista non necessariamente omogenei (anzi talora conflittuali) in una prospettiva che pone il «formatore» al centro di una dinamica tripolare nella quale il suo ruolo è quello di comporre in un disegno equilibrato le indicazioni dei «committente»  e quelle dei «clienti/utenti». 
La seconda questione, riguarda, una volta chiarito il senso dell’operazione, le modalità con cui lavorare all’analisi dei bisogni di formazione. Su questo terreno, prescindendo qui dalla considerazione delle conseguenze pratiche (per non dire del grado effettivo) della sua applicazione, il «modello» che si afferma come lo schema metodologico di gran lunga dominante tra gli operatori della formazione in Italia, prevede un lavoro (a) di raccolta di informazioni sui «bisogni dell’organizzazione» (dati strutturali, sul personale, sulla formazione) e «sui bisogni degli individui» (dati sui compiti svolti, sul ruolo, sui problemi connessi alle attività, sul sistema delle aspettative); (b) di interpretazione prima e poi di sintesi delle conoscenze acquisite all’interno di un disegno che soddisfi tutti gli attori implicati. 
La progettazione delle attività di formazione diventa l’ambito metodologico di maggior interesse dal punto di vista dello sviluppo delle pratiche di intervento nella misura in cui, proprio sul terreno applicativo e in situazioni di confronto diretto con le conseguenze delle loro scelte, consente agli operatori ampi margini di verifica dei propri strumenti d’azione e, per questa via, la possibilità di accumulazione di un sapere empirico assolutamente originale. La progettazione degli interventi è tematizzata e concepita come l’operazione tecnica grazie alla quale sono prefigurate nei dettagli le azioni del processo di implementation dell’intervento. Si viene delineando e progressivamente consolidando una tendenza a concepire la progettazione come una pratica processuale inclusa nel processo formativo più generale in una prospettiva in cui le visioni prevalenti tendono a privilegiare un’idea deterministica di «processo» che è definito ed agito come un insieme concatenato di attività orientate al conseguimento di un risultato che in genere coincide con un obiettivo fissato in anticipo. Ciò che prevale nella cultura pratica della progettazione – ma anche in gran parte della letteratura metodologica circolante – è un’interpretazione di tipo ingegneristico della progettazione orientata da una visione iper-razionale e finalistica dell’azione e strutturata attorno alla centralità assoluta degli obiettivi che guidano – in modo rigorosamente sequenziale – ogni passaggio esecutivo del disegno prefigurato (4). 
 
Anche la valutazione è inclusa, essendo il suo punto di arrivo, nel ciclo del «processo di formazione». Si tratta, nella logica prevalente e nella gran parte dei dispositivi di metodo circolanti, di verificare in quale misura i risultati della formazione realizzata corrispondano agli obiettivi fissati in sede di progettazione (e in qualche modo veicolati dagli esiti dell’analisi dei bisogni).  E’ evidente la prevalenza del ragionamento obiettivi-risultati in una prospettiva che mentre da un lato rimane impigliata nel determinismo degli obiettivi, dall’altro tende a focalizzare l’attenzione sui risultati dell’intervento chiudendo del tutto l’orizzonte esplorativo ad ogni altra possibilità di scoperta derivante dall’inclusione, tra gli «oggetti» da valutare, dell’insieme dei fenomeni che caratterizzano il processo nel suo svolgersi. Così, essendo l’apprendimento dei contenuti su cui è costruito l’intervento di formazione il centro dell’attenzione, è su di esso che si concentra l’interesse prevalente della valutazione. E’ scarso l’interesse per gli effetti dell’azione formativa sui contesti di riferimento (cioè sulle organizzazioni), mentre si vengono affermando (e con un rilievo crescente – fino a diventare perfino sostitutive della valutazione degli apprendimenti) le valutazioni di gradimento realizzate attraverso l’immancabile «questionario di fine corso» al quale si attribuisce un valore sovradimensionato nella misura in cui non si tiene conto del fatto che le percezioni ed il giudizio dei partecipanti – pure necessari – sono del tutto parziali, soprattutto in assenza di altre e più articolate valutazioni. 
 
Considerando nel loro insieme gli orientamenti di metodo che caratterizzano l’approccio neo-modernista alla formazione, emerge una complessità nuova, una maturazione ed una ricerca inedite che portano alla stabilizzazione di fondo dei contenuti teorici e procedurali sui quali, nel tempo, si consolidano e si codificano pratiche professionali che fanno riferimento, nei tratti essenziali, a linguaggi e a stili di lavoro largamente condivisi. Ed è proprio attorno a questo nucleo centrale che si sviluppa una vasta comunità professionale che basa la propria identità proprio sulla denominazione di «formatore» la quale, tuttavia, ancorché efficace,  non risulta del tutto adeguata a descrivere i contenuti d’azione espressi in pratiche sempre più ricche: il ruolo del formatore, infatti, assume forme differenziate in ragione dei contesti di riferimento che oscillano, in linea di massima,  tra almeno quattro ambiti complementari di azione che corrispondono (i) all’intervento didattico in senso stretto (il docente), (ii) all’intervento psico-sociale o socio-analitico, (iii) all’attività di progettazione; (iv) all’organizzazione e al coordinamento.  
 
4.La frontiera post-industriale e post-modernista
Le tendenze più recenti della riflessione e della pratica organizzativa, muovono verso un radicale superamento delle visioni tradizionali e sono direttamente legate ai grandi fenomeni di cambiamento che in modo sempre più evidente, ed a partire almeno dagli ultimi 20/30 anni, hanno investito le società contemporanee maggiormente evolute trasformandole da società industriali in società post-industriali. De-industrializzazione progressiva e vertiginosa espansione delle attività terziarie; rapidità della generazione e della diffusione dei processi  di  innovazione tecnologica,  sociale  e culturale; complessificazione  del tessuto sociale  ed  economico; crescente decentramento della produzione  in  unità medio-piccole altamente flessibili;  crescente  importanza  delle  nuove  dimensioni  del coordinamento  tra  imprese  garantito  dall'attivazione  di reti relazionali multiple  di  organizzazioni:  questi sono alcuni dei segnali – ormai chiaramente percepibili – che tendono a definire le caratteristiche  delle  società  avanzate  e  che  permettono  di sostenere che le società industriali con le quali abbiamo  convissuto fino a poco  tempo fa  (e con le quali in gran parte ancora conviviamo), siano in via di deperimento. Il declino del vecchio mondo industriale avviene  sotto  la  spinta di rilevanti  fenomeni  economici e sociali che delineano alcune delle macro-tendenze  del grande  cambiamento in atto che possono essere così sintetizzate: radicale trasformazione della natura qualitativa e quantitativa dell'occupazione; centralità  del  ruolo  economico  dell'alta  tecnologia  e dei servizi divenuti  ormai  i  settori  trainanti  nell'economia dei paesi più avanzati; internazionalizzazione e dinamizzazione delle relazioni e degli scambi economici; crucialità dei processi di generazione, acquisizione, trasformazione e distribuzione delle informazioni; assoluta instabilità dei mercati che mette in discussione ogni ipotesi  di  pianificazione  rigida  e  di  lungo  periodo  della produzione e al tempo  stesso la stabilità delle  grandi imprese tradizionali. In simili  condizioni,  ciò  che  appare  decisivo  per qualsiasi attività  umana  organizzata  è  la  capacità  di  innovare  e di trasformare. E poiché l'innovazione è in larga misura legata alla possibilità di organizzare capacità riflessive sull'esperienza accumulata nelle pratiche lavorative consolidate, emerge con forza la priorità e la centralità della risorsa umana,  del «capitale intellettuale», dell'investimento in ricerca e in know-how innovativi.
Comincia a delinearsi in modo sempre più definito l'emergere di una «nuova logica» (M. Crozier, L’entreprise à l’écoute, InterEditions, Paris, 1989),  radicalmente opposta  a  quella classica  della  razionalizzazione,  basata  sull'intreccio  di quattro   dimensioni  fondamentali:   (i) capacità   di  innovazione; (ii) capovolgimento  del  rapporto  quantità-qualità; (iii) centralità della risorsa umana; (iv)  capacità di ascolto e di apprendimento. Le interconnessioni  tra le  categorie  di  innovazione, qualità, risorsa  umana  ed apprendimento,  sono in grado di rappresentare adeguatamente   le  dimensioni  che   caratterizzano  la  cultura produttiva delle nostre società e che in larga misura vincolano i loro  sviluppi  futuri. In un simile  contesto perdono tendenzialmente rilevanza strategica gli investimenti  tradizionali  legati   alla   produzione   di  beni materiali:  non perché questi scompaiano,  ma perché  tali produzioni sono basate su  know-how  piuttosto consolidati  e  stabili  e soprattutto perché, comunque, anche a questo livello, il cambiamento e l'innovazione dipendono da applicazioni della conoscenza e del sapere. Ben si comprende come, nelle mutate condizioni, le forme organizzative tradizionali (basate sulla burocrazia, sulla gerarchia, sulla specializzazione, sull’integrazione verticale/orizzontale, sulla standardizzazione, sul controllo) vengano man mano soppiantate da logiche rispondenti alle esigenze del nuovo contesto relazionale, culturale e produttivo della società. I tratti salienti dei modelli organizzativi emergenti tendono a privilegiare soluzioni che aiutino a fronteggiare l’instabilità dell’ambiente, la frammentazione dei mercati, la moltiplicazione dei soggetti e che al tempo stesso siano in grado di sfruttare i vantaggi connessi alle potenzialità delle nuove tecnologie di produzione (che garantiscono, attraverso l’automazione, processi altamente flessibili a tutti i livelli della struttura). Ecco allora prendere forma configurazioni organizzative basate sulla logica reticolare, sul parziale appiattimento delle gerarchie, sulla diffusione della comunicazione orizzontale, sul decentramento delle responsabilità, sul depotenziamento delle separazioni rigide tra settori della stessa organizzazione.  
Anche il campo degli studi organizzativi amplia i suoi orizzonti distogliendo parzialmente l’attenzione dagli aspetti strutturali per spingere la riflessione verso il confronto con ambiti di studio (e verso l’approfondimento di temi) tradizionalmente lontani dai suoi terreni privilegiati di analisi e di ricerca. L’apertura della riflessione organizzativa a nuovi temi e nuovi filoni d’indagine – che tende ad arricchire (e problematizzare) enormemente il bagaglio concettuale, interpretativo e delle soluzioni pratiche –  segue un movimento che da un lato tende a recuperare con sempre maggior decisione le dimensioni politiche e quelle simbolico-interpretative dell’organizing, dall’altro entra in sintonia con la sensibilità post-modernista e con le variegate suggestioni che essa esercita sull’interpretazione dei fenomeni organizzativi. 
Quanto alle letture che tendono ad evidenziare la dimensione politica degli insiemi organizzati, esse sottolineano la rilevanza delle relazioni infraorganizzative costituite dagli scambi negoziati che gli attori sviluppano concretamente nella vita organizzativa di tutti i giorni indipendentemente dai dispositivi formali che delimitano e vincolano il ruolo di ciascuno. Queste relazioni configurano una modalità di funzionamento dell’organizzazione che spesso è assai diversa da quella prevista dal disegno strutturale ufficiale. Inoltre esse, nella misura in cui si stabilizzano nel tempo, sedimentano interdipendenze durevoli e, dunque, consolidate «strutture» di potere. Quali che siano le soluzioni organizzative adottate, queste «strutture» di potere esistono sempre poiché nascono come conseguenza (a) di regolazioni locali indispensabili alla soluzione di problemi contingenti, non previsti e rispetto ai quali le risposte consolidate dalle routine dell’organizzazione non sono sufficienti; (b) della «necessaria» elusione di regole formali che, se osservate pedissequamente, impedirebbero il funzionamento dell’organizzazione. Le «strutture» di potere si riproducono (magari seguendo nuove logiche) anche dopo una ristrutturazione organizzativa.
Secondo la prospettiva simbolica ed interpretativa (che affonda le sue radici in una molteplicità di contributi teorici nella tradizione delle scienze sociali), l’organizzare (organizing), in quanto processo (ed esito) di negoziazioni intersoggettive e di accordi impliciti che gli attori stipulano incessantemente sul senso delle loro azioni tessendo in tal modo una rete di significati  condivisi, è un fenomeno di costruzione sociale della realtà. Un’organizzazione è «un reticolo di significati intersoggettivamente condivisi che sono mantenuti attraverso lo sviluppo e l’uso di un linguaggio comune e l’interazione sociale quotidiana» (Walsh e Ungson, cit. in K. Weick, Sensemaking in Organizations, Sage, Beverly Hills, 1995, tr. it., 38): gli attori dell’organizzazione, attraverso questi processi, non solo costruiscono l’ordine simbolico che consente loro la condivisione di interpretazioni circa le loro attività, i loro ruoli e la stessa «definizione» dell’insieme del quale fanno parte, ma attivano  anche i loro ambienti. Questa dimensione è certamente una tra le più «impalpabili» e al tempo stesso potenti tra quelle che costituiscono la vita organizzativa poichè riflette sul piano delle rappresentazioni simboliche, degli atteggiamenti soggettivi, delle percezioni diffuse, delle consuetudini, delle tradizioni, dei valori condivisi e dei linguaggi, l’identità collettiva dell’organizzazione: essa infatti, in quanto «impasto» di elementi peculiari e distintivi resi possibili proprio dal processo di costruzione di significati localmente determinati, si caratterizza come un insieme unico anche rispetto ad altri dello stesso genere. 
L’influenza postmodernista sulla riflessione organizzativa è riconducibile ad una varietà di interpretazioni tendenti da un lato a negare l’importanza delle grandi visioni teoriche orientate alla legittimazione dell’immagine consolidata di strutture centralizzate, fortemente burocratizzate, compatte e tenute insieme da un disegno coerente – contrapponendo ad esse l’evidenza di organizzazioni in grado di operare efficacemente in condizioni di  frammentazione e di incoerenza; dall’altro a mettere in evidenza l’ambiguità, le razionalità locali, il carattere aleatorio, contingente, multiforme e in continuo cambiamento delle forme e dei processi organizzativi nei quali la legittimazione si consegue attraverso il consenso locale in una prospettiva di accordo temporaneo da rinegoziare costantemente; ciò nega, evidentemente, ogni possibile cristallizzazione in forme durevoli e centralizzate ed implica, per contro, un dialogo continuo volto a ricostruire costantemente le basi del consenso di volta in volta conseguito. Da questo punto di vista, analizzare le organizzazioni, significa innanzitutto decostruire le rappresentazioni consolidate, accogliere la molteplicità dei fenomeni connessi alle pratiche organizzative ed accedere alle narrazioni ed ai significati, localmente dati, attorno ai quali gli attori costruiscono la loro esperienza ed i loro apprendimenti. 
 
In parziale sintonia con le nuove sensibilità interpretative sui fenomeni legati all’organizing  e con le tendenze delle organizzazioni postindustriali, anche la riflessione sulla formazione, così come la stessa pratica formativa, muove verso una significativa revisione del suo bagaglio di teorie, di tecniche e di metodi di intervento. 
In generale maturano nuove consapevolezze sulla necessità di sintonizzare l’azione formativa alle tendenze in atto nelle organizzazioni in una prospettiva che tende ad accogliere prioritariamente la logica dell’apprendimento che, reinterpretata secondo le visioni prevalenti anche sul terreno degli orientamenti manageriali emergenti, diventa una delle metafore più diffuse tra gli operatori ed al tempo stesso un approccio al management delle risorse umane. Il tema dell’apprendimento organizzativo – e, in questo contesto, i temi legati alle competenze, alle conoscenze tacite, al valore delle forme intuitive del sapere pratico – diventa così uno dei motivi dominanti del rinnovamento (e del rilancio) della cultura e delle pratiche di formazione. Cominciano a prendere consistenza orientamenti e logiche d’azione che muovono verso approcci centrati sull'esperienza concreta che gli attori realizzano nelle organizzazioni, sui problemi quotidiani generati dalla dimensione relazionale della vita organizzativa, sulle modalità di soluzione dei problemi che localmente gli attori inventano e sedimentano in forme specifiche di sapere. Si vengono profilando, affinando e consolidando nelle pratiche formative, interessi, sensibilità e capacità orientate all’ascolto, nella consapevolezza del fatto che gli attori organizzativi dispongono di gradi di autonomia soggettiva, di competenze, di risorse e di capacità di inventare soluzioni innovative a problemi rispetto ai quali è utile, per l’organizzazione, prestare il massimo di attenzione. Da qui la convinzione del fatto che il senso della formazione (oltre che la  sua legittimazione  pratica) non risieda (più soltanto) nella  mera  trasmissione  di  nozioni  di  savoir  faire o di comportamenti, ma anche (e soprattutto) nella capacità di stimolare  gli attori a ragionare sui problemi  che essi  affrontano quotidianamente.  Il  confronto  con  gli  aspetti problematici delle pratiche relazionali e professionali proprie  della vita  lavorativa/organizzativa diviene in tal modo il fondamento e la premessa di ogni intervento.
Ben si comprende come in un clima di questo genere maturino tendenze particolarmente attente a confrontarsi dinamicamente e criticamente con gli assunti di metodo che per tutta una fase hanno rappresentato il «fondamento» assoluto di ogni pratica. E, tra gli assunti fondamentali di metodo, il primo ad entrare in crisi è l’idea di «processo formativo» nella sua formulazione classica di sequenza procedurale astratta e (relativamente) indifferente al contesto d’azione. Il processo è infatti descritto come un fluire di eventi che si producono in virtù di azioni le quali di volta in volta (cioè in corso d’opera) ne orientano i tratti essenziali, gli svolgimenti e le direzioni. Non si tratta dunque di azioni rigidamente pre-figurate da mettere in opera secondo una scansione, anche questa determinata in anticipo, di azioni tra loro collegate che devono necessariamente accadere, ma, al contrario, di uno scorrere di eventi dei quali solo l’attenta osservazione del suo dispiegarsi momento per momento può cogliere il senso. 
L’affermarsi di questa tendenza ad una diversa interpretazione dell’idea di processo non è senza conseguenze: da un lato, infatti, in generale, si stemperano le visioni «forti» e scientistiche del metodo ed entrano in gioco non solo istanze di pluralismo metodologico, ma anche dimensioni più interpretative, legate alla soggettività, all’intersoggettività, alla creatività dell’azione formativa (5); dall’altro, in particolare, cambiano considerevolmente le pratiche ascrivibili alle dimensioni di metodo (analisi dei bisogni, progettazione e valutazione) qui assunte come punto di riferimento della lettura comparata proposta. Proviamo ad esaminarle in rapida successione.
Le nuove logiche tendono a sfumare il significato (e a ridurre l'utilità pratica) delle classiche analisi dei bisogni  di cui pure bisogna riconoscere il contribuito al rinnovamento di gran parte delle attività formative. Da questo punto di vista, si può ben dire che se la logica dell'analisi dei bisogni ha un significato innovativo negli anni Settanta e Ottanta perché essa conferisce una dignità tecnica alla formazione, oggi risulta sicuramente di minore utilità. E ciò principalmente perché l'evoluzione delle interpretazioni sulle organizzazioni, mettendo in evidenza da un lato le caratteristiche di particolare problematicità e complessità delle mutevoli relazioni con l'ambiente e con i processi di innovazione (tecnologica, sociale e culturale) e, dall'altro, il carattere non del tutto determinato (e determinabile) dell'azione e le valenze cognitive e culturali dei comportamenti lavorativi/organizzativi, tende ad indebolire il senso dell'analisi dei bisogni classica nel suo più importante punto di forza: essendo infatti caratterizzata come procedimento legato a concezioni secondo cui l'organizzazione è data da insiemi di ruoli (previamente definiti e dai contenuti relativamente stabili nel tempo) ai quali dovrebbero riferirsi adeguati e corrispondenti comportamenti, saperi ed abilità, rischia di ridursi alla mera registrazione di esigenze predeterminate dato che la sua capacità di cogliere le dimensioni qualitative dei tratti peculiari assunti dai ruoli professionali nelle organizzazioni viene meno con l'accentuarsi delle caratteristiche di variabilità dei contesti organizzativi; esse infatti rendono del tutto inutili le «registrazioni fotografiche» di ruoli, attori, azioni e contesti soggetti a rapido cambiamento. In assenza di capacità e sensibilità a comprendere le configurazioni dei contesti organizzativi nel loro evolversi, le pratiche di routine rischiano di cristallizzarsi o in operazioni che registrano (e fanno valere) le scelte a-priori del committente (cioè dei vertici dell’organizzazione). Ecco perché questo modo di praticare l’analisi dei bisogni è molto simile ad un «letto di Procuste» grazie al quale è possibile adattare dati analitici ed informazioni ad ogni sorta di decisione (per lo più assunta a-priori) sulle azioni formative da realizzare. Configurandosi come autentica forzatura imposta alla realtà, l’analisi dei bisogni assume caratteristiche marcatamente astratte e manipolatorie
In alternativa a questa visione si viene affermando e consolidando un’interpretazione dell’analisi dei bisogni orientata, nell’ambito delle tendenze volte a valorizzare le forme localmente date con cui si esprime e si manifesta l’apprendimento organizzativo e al recupero della nozione di competenza professionale
Emerge dunque una prospettiva in cui, l’attenzione alle dinamiche delle competenze professionali da un lato e, dall’altro, alle caratteristiche dell’apprendimento generativo, spinge la classica analisi dei bisogni a dissolversi nell’analisi organizzativa e nella ricerca-azione (anche nella sua variante di formazione-intervento) o in approcci orientati a scoprire le forme locali dell’apprendimento organizzativo, oppure ad essere utilizzata come supporto ad interventi di cambiamento organizzativo. 
Anche la progettazione si libera gradualmente dei limiti di determinismo che caratterizzano i principali schemi in uso per approdare a modalità più duttili, meno vincolate alla logica dell’obiettivo, più aperte a misurarsi con le incertezza del campo d’azione ed a considerare le emergenze e gli imprevisti non già come problemi, ma come risorse per l’apprendimento. Gli approcci emergenti tendono a sottolineare il carattere contingente delle azioni progettuali: pur essendo legate agli atti intenzionali che precedono, accompagnano e seguono gli eventi specifici ai quali esse si applicano, si assume consapevolezza del fatto che la fragile connessione tra intenzioni ed azioni riduce inevitabilmente la certezza che le azioni di volta in volta realizzate siano la traduzione automatica delle volizioni iniziali, poiché queste ultime, essendo legate alle preferenze mutevoli degli attori, alla variabilità dei contesti relazionali, alle caratteristiche contingenti dell'azione ed ai suoi effetti cumulativi, non sono date una volta per tutte; al contrario, non solo cambiano nel tempo, ma sono riformulate o addirittura «scoperte» in corso d'opera. Si va consolidando un’interpretazione secondo cui l'insieme delle dimensioni inglobate nell'idea e nella pratica di progettazione può essere rappresentato come una rete di interdipendenze multiple nella quale (a) il movimento verso mete pre-definite è assunto solo convenzionalmente; (b) gli elementi costituitivi sono riconducibili all'intreccio di eventi che vanno: dalla percezione di una situazione problematica che richiede un intervento; alla valutazione dei termini dei problemi percepiti ed alla loro rappresentazione; all'invenzione delle soluzioni possibili; alle decisioni circa le soluzioni da adottare; alla loro operazionalizzazione previa; all'attuazione; alla considerazione valutativa del corso d'azione nel suo insieme e dei suoi esiti parziali e finali. Appare quindi sempre più limitato lo spazio per la modellistica della progettazione intesa come insieme di formule rigide  da  applicare in qualsiasi  contesto d'azione: la progettazione è vista piuttosto come un processo d'azione aperto agli eventi. 
Analogamente, si riduce di molto lo spazio per la valutazione basata sul ragionamento obiettivi-risultato (e, per conseguenza, su tecniche di misurazione quantitativa tendenti a considerare la valutazione in termini di scarto tra risultati ed obiettivi): il determinismo dell'obiettivo rende fuorviante ed illusorio ogni accertamento valutativo, nella misura in  cui gli effetti  cumulativi delle azioni (e delle relazioni)  sociali generati da  un  intervento di formazione tendono a «produrre» risultati radicalmente irriducibili agli obiettivi predeterminati.  Una prospettiva più realistica ed efficace dell'azione valutativa, considera quest'ultima  come  un  processo  di  ricerca   sociale applicata tendente a ricostruire  induttivamente – a partire dagli effetti (o risultati anche parziali o intermedi)  dell'intervento – il sistema di relazioni  che gli attori implicati hanno generato: in quest'ottica è possibile comprendere i risultati (e la loro ricchezza) ben al di là del confronto asfittico ed inconcludente con obiettivi rigidi ed astrattamente determinati. Si rafforza in questa prospettiva l’idea secondo cui la valutazione efficace è più complessa di quanto non si ritenga da parte di molti operatori: essa richiede una capacità di lettura che sappia andare oltre la mera analisi dei «risultati» dell’azione formativa realizzata per includere prioritariamente tra i suoi «oggetti» i processi di azione che hanno generato i risultati e l’organizzazione che ha reso possibile l’intero processo. In tal modo la valutazione è accreditata della capacità di dire qualcosa circa i cambiamenti che l’azione formativa ha potuto generare nell’organizzazione. 
In sintesi, le tendenze più recenti vanno delineando un quadro molto variegato e ricco di visioni teoriche, di metodi e di esperienze che ha inevitabili riflessi tanto sulle pratiche correnti, quanto sui punti di riferimento necessari alla costruzione di uno «statuto professionale» che orienti gli operatori e le loro azioni. Quest’ultimo non può più contare su un fondamento stabile di riferimenti teorici e di metodo, ma si configura come un campo aperto di ricerca nel quale (a) i metodi sono il frutto di scelte locali di attori professionali competenti; (b) le soluzioni di volta in volta adottate (che costituiscono un rilevante oggetto di confronto nella comunità professionale), essendo legate alle esperienze che le hanno generate ed essendo legittimate dalla loro efficacia locale, non sono necessariamente vincolate a «canoni» di metodo codificati.
Tutto ciò rende mobili e cangianti i contenuti professionali su cui si basa il processo di costruzione delle competenze degli operatori e mette in evidenza come esse richiedano aggiornamenti costanti su tutto il fronte della conoscenza rilevante per l’azione formativa. Si profila inoltre, in questo quadro, un fenomeno (già latente nel modello professionale neomodernista) di crescente differenziazione e specializzazione dei contenuti professionali attribuiti classicamente al ruolo di «formatore»: le tendenze in atto delineano, anche al livello dei ruoli e delle competenze rilevanti per l’azione formativa una più ricca articolazione che richiede un’attenzione particolare ai processi di professionalizzazione dei «formatori» in una prospettiva di formazione dei formatori di terza generazione.
 
Note
1. Sono ripresi qui i temi sviluppati in un volume di recente pubblicazione (D. Lipari, Logiche di azione formativa nelle organizzazioni, Guerini e Associati, Milano, 2002) al quale si rinvia per argomentazioni e svolgimenti più ampi oltre che per i necessari riferimenti alla letteratura e al dibattito. 
2. Ma senza cadere in forme di semplificazione tendenti a ridurre la successione dei «modelli» a sequenze discrete in cui ciascuno di essi, in quanto frutto di elaborazioni ritenute storicamente più avanzate, costituirebbe il necessario superamento di quelli che lo precedono (è invece vero, in realtà, che i «modelli» considerati maturi resistono ancora, essendo fortemente presenti nella gran parte delle culture professionali della formazione, così come è vero che, nelle pratiche correnti, si possono riscontrare frequentemente intrecci ed ibridazioni tra modelli anche marcatamente diversi tra loro).
3. L’assunzione di queste tre dimensioni tecniche (che non vuole essere esclusiva di altre, pure rilevanti), è legata al fatto che proprio questo trinomio (analisi dei bisogni-progettazione-valutazione) è stato a lungo considerato l’asse del processo formativo da intere generazioni di formatori proprio perché su di esso si è basata una molteplicità di proposte ed ipotesi metodologiche largamente condivise dalla gran parte dei membri della comunità professionale. Solo in questo senso (di adesione ad un «gergo» tecnico consolidato non meno che diffuso) ha valore la scelta qui operata di distinguere dimensioni inscindibili che sono racchiuse nel medesimo processo, il progetto, appunto. 
4  Il paradosso costituito da questa interpretazione del progetto e delle modalità di progettare – in realtà più consona al clima culturale dell’organizzazione tayloristica che ad una visione organicistica secondo  la quale, come si è visto, per conseguire  processi organizzativi efficaci bisogna prevedere e promuovere, anche attraverso l’azione formativa, un certo grado di flessibilità – si può in parte  spiegare con l’ovvia considerazione della non necessaria specularità delle corrispondenze tra modelli organizzativi e pratiche formative, in parte, con la considerazione del fatto che le organizzazioni fondate sullo schema taylorista sopravvivono ancora a lungo (almeno in Italia) all’affermazione di nuove pratiche organizzative (con le quali peraltro in molti casi coesistono in forme particolari di ibridazione); bisogna infine tener conto delle condizioni della cultura formativa nella fase di affermazione di questi nuovi orientamenti: la sua totale dipendenza dai modelli scolasticistici di intervento, l’assenza di orizzonti teorici e metodologici rilevanti ai quali fare riferimento per costruire una propria identità, inducono ad assumere come modello un approccio «forte» il quale, nonostante i suoi limiti di rigidità e di scarsa coerenza con le pratiche organizzative emergenti, non solo è l’unico disponibile, ma è anche quello che, nelle condizioni date, e nella misura in cui esibisce un elevato livello di formalizzazione, garantisce alle pratiche formative uno «statuto» di tipo quasi-disciplinare ed un certo grado di legittimazione.
5  Tra queste istanze, uno spazio significativo comincia ad essere attribuito (1) agli approcci narrativi, in analogia con tendenze analoghe già affermate anche in campo organizzativo; (2) all’approccio biografico. Matura inoltre un certo interesse (anche qui in analogia con gli sviluppi della riflessione organizzativa) per le dimensioni estetiche  dell’azione formativa.

* In “Formazione & Cambiamento”, Nuova serie, n. 3 2016
 
1.Dalla gestione del personale allo sviluppo delle risorse umane
Da che cosa dipese la grande “rivoluzione” che portò la funzione del personale, a metà degli anni Settanta del secolo scorso, al centro dei processi organizzativi? Che cosa fece sì che si determinasse quel significativo mutamento di ruolo da un profilo eminentemente gestionale a uno marcatamente orientato allo sviluppo delle risorse umane? Molti fattori vi concorsero, non c’è dubbio. Ma uno in particolare a me pare decisivo e cioè l’assunzione, da parte della funzione, di uno specifico compito nel farsi interprete attento e autorevole dello scenario esterno. È questo spostamento di attenzione alla complessa realtà dei fenomeni sociali con cui ogni contesto organizzativo doveva fare i conti, non potendo più ritenere di vivere in una qualche sorta di “splendido isolamento” e pertanto di essere al riparo da ogni influenza dell’ambiente, che fu decisivo per il suo ingresso nel nucleo ristretto di coloro che, ai vertici dei sistemi organizzativi, erano impegnati a definire vision e mission. La funzione del personale, in qualche caso, seppe valorizzare talmente bene questo compito di “vigilanza dello scenario” da ottenere un significativo riconoscimento e ritrovarsi ad assumere un ruolo di primo piano nell’elaborazione delle strategie di sviluppo, non solo di quelle rivolte alle persone, ma di quelle più generali organizzative.
Detto in altri termini, la grande rivoluzione della funzione del personale dipese anzitutto, in questa ipotesi di lavoro, dalla capacità e dal coraggio di fare proprio il compito di lettura e interpretazione dell’ambiente esterno, di raccolta e decodificazione dei “segnali deboli”, come si diceva allora, e di conseguente ridefinizione dei processi organizzativi interni: riallineamento, aggiornamento, innovazione, trasformazione. Questo ovviamente rappresentò un profondo ripensamento di competenze e comportamenti, un ri-orientamento di strumenti e metodi, nuovi e diversi approcci alla lettura dei fenomeni del clima, della cultura, dei valori: come dire un vero e proprio passaggio epocale. Se c’è una parola d’ordine capace di riassumere in sé la discontinuità di scenario da un lato e dall’altro la chiave di lettura di cui la funzione del personale si fece portavoce mi pare possa essere ritrovata nell’espressione, peraltro ben nota, dell’ambiente turbolento. L’espressione voleva indicare ciò che era percepito come un cambio radicale da un tempo e da un mondo di relativa stabilità a uno di crescente instabilità.
Potremmo allora chiederci, sempre per ipotesi di lavoro: come sono andate poi le cose nei quaranta anni che ne sono seguiti? L’ambiente esterno ha mutato ancora una volta aspetto? Abbiamo assistito a un nuovo transito, a una nuova fase? Certamente i transiti, i passaggi di “stato”, le discontinuità sono state più d’una ma nessuna in realtà ha rappresentato un ritorno al passato in termini di indebolimento dell’instabilità. La turbolenza semmai è cresciuta: ha accelerato, talvolta ha assunto un’intensità parossistica, è diventata endemica. Da qui l’insistenza sul “cambiamento permanente”. E della funzione del personale, divenuta ormai per tutti HR, che ne è stato? È proceduta di pari passo su questa linea? Ha saputo affinare, perfezionare, sofisticare le sue letture dello scenario? Ha saputo cogliere, se non anticipare, i complessi risvolti della turbolenza dell’ambiente esterno, le ricadute sull’ambiente interno, gli effetti “indesiderati” sulla vita organizzativa? Purtroppo la risposta sembra qui più complessa, perché quello a cui si è assistito è stata sicuramente una significativa crescita, da parte della funzione del personale, di qualità “metodologica” della sua azione (basti pensare alle tematiche della valutazione e della formazione) ma in molti casi ciò ha finito per assorbire gran parte delle energie destinate alla lettura dello scenario esterno, determinando così un abbandono del compito di “vigilanza” dei fenomeni macro, e un ripiegamento nell’ambito micro, una concentrazione a governare il presente con l’unico obbiettivo di garantire anzitutto una gestione ottimale delle risorse umane di breve periodo, anziché di investire su un orizzonte di sviluppo di medio e lungo periodo. Ciò ha fatto sì che, almeno dalla fine degli anni Novanta, la funzione del personale abbia iniziato a perdere “presa” sulla comprensione approfondita dei fenomeni di scenario finendo per ritrovarsi sempre più confinata nel ruolo specialistico che ovviamente le è proprio. Se dunque fossimo alla ricerca di una nuova stagione per la funzione del personale, per la funzione HR, dal momento che, come è evidente, il prolungarsi della situazione attuale di confinamento del ruolo specialistico finirebbe per tramutarsi in un percorso più involutivo che evolutivo, dovremmo a mio avviso riprendere il senso e il contenuto di ciò che rappresentò la grande rivoluzione di metà anni Settanta. Cioè una riconquista del presidio interpretativo dello scenario e una conseguente riappropriazione di un pensiero di indirizzo dello sviluppo organizzativo con nuove parole d’ordine e nuove formule.
 
2. Le dimensioni critiche delle società contemporanee
La formula dell’ambiente turbolento ha fatto il suo tempo e già da un bel po’. Non è oggi che una tautologia. L’ambiente è per definizione turbolento. La turbolenza è il suo stato permanente, il suo carattere, il suo marchio. Quello che è accaduto (quello che abbiamo registrato negli ultimi trenta anni) è stato un progressivo affinamento di sguardo, da parte dei più attenti osservatori e studiosi, nel cogliere i molteplici volti e risvolti di questa turbolenza, i diversi aspetti che, di momento in momento, si imponevano all’attenzione, i segni particolare i che ne emergevano. Molti si sono dedicati a ciò, e disponiamo ormai di un quadro di lettura assai ricco e approfondito, sfaccettato e articolato. Se volessimo, sempre per ipotesi di lavoro, tentare di riassumere questo scenario in un’unica formula analoga a quella che è stata l’etichetta dell’ambiente turbolento, ci troveremmo certo in difficoltà. Ma in ogni caso, insistendo, potremmo ritrovarla a mio avviso nell’espressione, peraltro ben nota, della modernità liquida.
Diamo una rapida occhiata ai più significativi contributi a cui si può fare riferimento. Seguiamo il rincorrersi di etichette in ordine cronologico. Mi limito qui a una dozzina di contributi, quelli che mi paiono i principali, e li elenco semplicemente: 1986, La società del rischio (U. Beck); 1995, La vita in frantumi (Z. Bauman); 1996. L’intossicazione ermetica (J. Hilmann); 1999, La società dell’incertezza (Z. Bauman); 2000, La modernità liquida (Z. Bauman); 2002, La società eccitata (C. Türcke); 2004, Vite di scarto (Z. Bauman); 2006, L’epoca delle passioni tristi (M. Benasayag, G. Schmidt); 2007, Vite di corsa (Z. Bauman); 2010, La società della stanchezza (H. Byung-Chul); 2010, Guasto è il mondo (T. Judt); 2013, Eros in agonia (H. Byung-Chul).
Lo scenario che questi titoli illuminano è inequivocabile: la criticità del tempo presente è pervasiva, orientata in più direzioni, intricatissima. La domanda che allora si impone è una sola: si può sostenere a buon diritto che i contesti organizzativi siano stati e siano del tutto impermeabili alla “modernità liquida”? Si può sostenere che non ne abbiano subito l’influenza o l’interferenza, che i processi, così come la vita stessa delle persone, ne sia rimasta al riparo? O non si dovrebbe invece tentare di riflettere per comprendere se e come la modernità liquida abbia potuto contaminare dall’esterno l’ambiente interno dei più diversi sistemi organizzativi? Questi interrogativi sono ovviamente retorici: le organizzazioni vivono totalmente immerse nel tempo della modernità liquida. I segnali sono molteplici. Alcuni sono sintomi ben evidenti che hanno sollecitato già da tempo preoccupazione: indebolimento del legame tra individui e organizzazioni, demotivazione e disaffezione, navigazione a vista, accelerazione dei ritmi operativi e perdita di rapidità dei processi decisionali, addensamento degli interlocutori su ogni problema e incremento dei modi e dei tempi degli incontri e delle riunioni, indebolimento delle leadership e dei presidi di integrazione, e così via. Se volessimo riordinare i diversi aspetti di criticità della modernità liquida in alcune dimensioni principali con cui poi fare i conti per verificare se come e quanto essi possono rappresentare altrettanti punti di criticità all’interno dei contesti organizzativi potremmo tentare con il quadro nella figura 1.
 
                                   
                                    FIGURA 1. Dimensioni critiche principali della modernità liquida
 
Che cosa emerge da questo quadro? In grande sintesi emerge in primo luogo fragilità, debolezza e precarietà come sentimenti attivati da una turbolenza che genera frammentazione, dispersione e spreco di ogni tipo di risorse, in particolare per ciò che qui ci riguarda, certezze, convinzioni e conoscenze da un lato e propositi, intenzioni e volontà dall’altro. In secondo luogo mobilitazione, messa in scena e frenesia, come connotati emozionali di comportamenti e condotte “alterati” dallo stato di connessione permanente imposto dalla turbolenza, di continuo ingaggio, e di ossessiva chiamata al coinvolgimento totale su ogni problema e questione così come su ogni obbiettivo e compito. In terzo luogo sconforto, sovraffaticamento e apprensione, come vissuti profondi di danneggiamento e perdita del piacere di fare le cose, di spegnimento della passione a fare, di ritiro dell’investimento e di costante preoccupazione. Infine disorientamento, insicurezza e indecisione come stati d’animo indotti da una turbolenza sempre più confusiva, disordinata e caotica che rende nebbioso il procedere, opaco il futuro e oscuro il senso della meta.
Riformuliamo allora gli interrogativi: ci sono segnali deboli o forti, e quali, di emergenza nella vita organizzativa dell’una o l’altra di queste quattro dimensioni? Ci sono “sintomi” e quali? In che misura chi si occupa di HR dovrà in qualche modo farsene carico impegnandosi a ripensare, qualche volta anche da capo la sua azione e i suoi strumenti, oltreché ovviamente i comportamenti e le competenze attese dalle stesse persone a cui azioni e strumenti si rivolgono?
 
3. Come fronteggiare le dinamiche della modernità liquida?
Recuperare da parte della funzione HR una nuova padronanza di scenario è riaprire una nuova stagione, un next che restituisca quell’autorevolezza conquistata quarant’anni fa. Significa, a mio avviso, un cambio di passo del pensiero, una nuova prospettiva intellettuale e conoscitiva capace di fare i conti fino in fondo con la modernità liquida. Il che vuol dire abbandonare ogni semplificazione che si sarebbe tentati di adottare per resistere alla complessità problematica che dall’ambiente esterno precipita nei contesti organizzativi, pur restando quasi sempre in ombra, annidata nel tessuto della vita organizzativa, nella trama implicita degli eventi in cui sono coinvolti gli attori organizzativi.
Se si vuole essere capaci di un’analisi sufficientemente disincantata nel valutare ciò che è accaduto negli ultimi vent’anni, si potrebbe cominciare con il riconoscere, ne sono convinto, che molte delle “azioni positive” intraprese dalla funzione HR all’interno del perimetro della gestione e sviluppo delle risorse umane, non abbiano saputo ottenere tutti i risultati che si ottenevano: molte delle iniziative formative, ad esempio, indirizzate ad aggiornare e innovare competenze e capacità che tanto hanno insistito sulla parola d’ordine del benessere organizzativo hanno poi trovato debole radicamento per non aver approfondito adeguatamente e criticamente le ragioni del malessere. Occorre prima padroneggiare il malessere in tutti i suoi risvolti, altrimenti ogni azione ispirata dall’ “ottimismo della volontà” perde molta della sua efficacia: non bastano ricette che enfatizzino lo slancio del “cuore oltre l’ostacolo” siano esse, per fare esempi ben conosciuti, il potenziamento o l’autoefficacia o la resilienza o quant’altro, per far la differenza, per produrre un cambiamento, se non si è consolidato un quadro di analisi consapevolmente impegnato a sfidare il “pessimismo della ragione”.
Al tempo della modernità liquida le cose sono purtroppo assai complicate: nessuna rassicurazione basta a se stessa, se prima non sono state approfondite le buone ragioni che possono convincere del senso di applicare nuove ricette, se non si sono chiariti gli ostacoli del passare dal dire al fare, se non si sono prese le misure di ciò che, sottotraccia, perdura come ambivalenza, perplessità, resistenza. Non bastano cioè le buone parole a costruire buone pratiche, né è sufficiente enunciare un dover essere per ottenere, da parte degli individui, il poter e il voler essere. Al tempo della modernità liquida tutto appare sfuggente, fluido, quasi inafferrabile. Ciò che è indispensabile è, prima di ogni nuova ricetta, un solido ancoraggio di pensiero per ottenere una più alta determinazione nell’azione. Proviamo allora a formulare una prima proposta su ciò che potrebbe essere questo “solido ancoraggio di pensiero”, dicendo che si tratta anzitutto di fare i conti con competenze, capacità, ma soprattutto qualità personali che occorre padroneggiare al meglio al di là del quadro ampiamente noto delle cosiddette hard e soft skills che evidentemente non è più sufficiente a esaurire in sé il saper fare e il saper essere che è necessitato dai tempi. Proviamo a riprendere le dimensioni critiche della figura 1 ritrovando per ciascuna, nella figura 2, quelle “doti di pensiero” che possono consentire di fronteggiarle.
 
 
                            FIGURA 2. Doti di pensiero utili per fronteggiare la modernità liquida
 
Il tempo della modernità liquida è un tempo di forti discontinuità. Se i confini dei contesti organizzativi ne sono permeabili le risposte alle più differenti problematiche non potranno che essere trovate padroneggiando al meglio un pensiero della discontinuità. E se poi si ha in mente che tra le forze che accelerano la discontinuità vi è in primo luogo la tecnologia, saper pensare in profondità le ricadute sul terreno specifico dei comportamenti e delle competenze degli attori organizzativi così come su quello degli indirizzi e delle soluzioni di gestione e sviluppo delle risorse umane, non potrà che risultare decisivo.
Così, per stare a questo tema, il quadro di doti personali proposto nella figura 2 va visto anch’esso in discontinuità con l’assetto consolidato di quelle hard e soft skills che si rivelano una volta di più non sufficienti a rispondere alle questioni poste dalle nuove turbolenze. Al di là dei tradizionali saper fare e saper essere occorre dunque ribadire la necessità di un saper pensare capace di esprimere una nuova e diversa “dotazione” di qualità personali da padroneggiare al meglio. Occorre un pensiero sicuro di sé e determinato, capace di procedere con dinamismo e forza nei suoi propositi, di trasformare i vincoli in opportunità, di saper andare “fino in fondo”; occorre un pensiero capace di equilibrio non tanto come moderazione o misura, ma anzitutto come abilità a sfidare i limiti, dotato di un grande senso di realtà, di severità e rigore, nel prendere ogni volta veramente “le cose sul serio”; occorre un pensiero lucido e lungimirante, capace di districare le complessità sapendo andare all’essenziale dei problemi, sapendo cogliere “il cuore dei problemi e il nocciolo delle questioni”; occorre infine un pensiero vigile e al tempo stesso ingaggiato dal cambiamento, capace di inventiva, di escursioni in territori “non noti e non soliti”.
Se questa può essere una nuova dotazione di competenze imposta dallo scenario della modernità liquida, le ricadute saranno su ogni tema che coinvolga la gestione e lo sviluppo delle risorse umane: dalla formazione alla valutazione, dalla selezione al presidio del clima, e così via. Alla funzione HR spetta il compito di ripensare se stessa, il proprio ruolo, e la sua azione per una nuova stagione, per un next che la riveda al centro dei processi organizzativi, da protagonista nella definizione delle linee di indirizzo e da interprete autorevole dei mutamenti dell’ambiente esterno.
 
 
 
 

* In “Formazione & Cambiamento”, n. 57, 2009
 
1.Il patrimonio soft delle organizzazioni
Il mutamento del ruolo della conoscenza e dell’apprendimento nel contesto competitivo è stato analizzato da diversi studiosi, che distinguono tra economia dell’apprendimento (learning economy) e società dell’informazione (information society). L’apprendimento, infatti, non è un semplice trasferimento delle informazioni e non può essere ridotto ad un mero processo di scambio. Presuppone invece una trasmissione di conoscenza che va ad arricchire il patrimonio soft delle organizzazioni inducendole ad imparare dimensioni tacite non facilmente trasferibili.
Le dinamiche mondiali, dalla globalizzazione dei mercati alla globalizzazione della crisi, dalla terziarizzazione all’esternalizzazione, dai sistemi interorganizzativi (reti esterne ed interne) alle integrazioni aziendali (acquisizioni, fusioni, partecipazioni), dalla deregulation alla pervasività della tecnologia e del web 2.0, confermano e accentuano il passaggio dalla società dell’informazione all’economia dell’apprendimento. Infatti, queste dimensioni spingono le aziende ad aumentare la propria capacità competitiva anche tramite strategie basate sull’apprendimento. 
Oltre ad investire in nuovi business e in nuove tecnologie, le imprese puntano sulla capacità interna di sviluppare processi di apprendimento ricorrendo non semplicemente a strutture ad hoc, come gli uffici studi od i laboratori di ricerca e sviluppo, o a società di consulenza. Coinvolgono sempre di più le molteplici risorse professionali interne per determinare effetti positivi e  innovare processi e prodotti, valorizzando il patrimonio aziendale.
In questo processo di miglioramento e potenziamento delle competenze svolge una funzione fondamentale la formazione. Essa ha l’obiettivo di permettere l’accesso all’apprendimento durante l’intero ciclo di vita e offre il diritto alla qualificazione e all’arricchimento professionale. La formazione costituisce la palestra, attraverso la quale acquisire continuamente conoscenze, ma anche modi di pensare, modelli, capacità, motivazioni.
 
2.Mobilitare le competenze degli individui
Solitamente nella progettazione e nell’organizzazione di un’iniziativa di formazione è necessario definire se l’oggetto è il Sapere, il Saper fare o il Saper essere. Questa distinzione deve essere aggiornata al fine di prevedere anche il Saper agire e il Voler agire: Sapere, Saper fare e Saper essere sono fondamentali, ma è altrettanto rilevante essere in grado di agire in diversi contesti in base alle situazioni che si presentano. Saper agire e Voler agire implicano la capacità di attivazione delle competenze e la volontà di mobilitazione delle competenze stesse da parte degli individui. Le persone che lavorano nelle organizzazioni devono essere in grado di agire e devono voler agire, coerentemente con le situazioni e i processi lavorativi in cui sono inseriti, attivando nel migliore dei modi il kit di conoscenze, competenze e capacità di cui sono in possesso e ottenendo un comportamento lavorativo efficace.
In questo senso la valorizzazione dell’individuo non può basarsi solo su metodi didattici tradizionali o di tipo operativo e simulativo. Vanno messi a punto approcci e metodi che richiedono l’integrazione tra accademia e bottega, tra teoria e pratica, ma che spostano soprattutto il focus della formazione da un’impostazione top-down ad una bottom-up: nonostante la rilevanza del ruolo del formatore e del committente nella definizione e gestione del percorso formativo, è basilare il coinvolgimento e la partecipazione dei componenti di un’organizzazione per la crescita e lo sviluppo aziendale.
In questo ambito le metodologie partecipative possono essere un interessante punto di riferimento. Si tratta di strumenti che stimolano processi di interazione e confronto fra i partecipanti, utilizzando percorsi strutturati e tecniche di visualizzazione che aiutano a organizzare, razionalizzare e comunicare le idee. Queste metodologie possono essere utilizzate per guidare il lavoro di gruppo, le simulazioni e i gruppi di discussione. Inoltre, stimolano la creatività, la riflessione e la contestualizzazione di piani di intervento articolati in problemi, strategie, soluzioni.
Il punto di partenza di un processo formativo bottom-up è individuare progetti che le organizzazioni ritengono di dover elaborare ed implementare per individuare innovazioni significative nel prodotto, nel processo, nell’organizzazione e per poter migliorare la motivazione del personale. Il secondo passaggio è coinvolgere attivamente i dipendenti, in quanto “esperti” e portatori d’interessi sia rispetto ai problemi che alle possibili soluzioni, rivolgendo loro iniziative di formazione specifiche. L’esperienza diretta dei partecipanti consente di identificare le basi per elaborare e gestire, in maniera condivisa, soluzioni, idee e azioni. Infatti, questo tipo di esperienze ha evidenziato che è possibile raggiungere innovazioni particolarmente significative e sostenibili nel tempo tramite un approccio bottom-up che valorizza le conoscenze, le competenze e le capacità degli individui e coinvolge attivamente i dipendenti nella ricerca delle criticità e nell’individuazione delle possibili soluzioni. 
I partecipanti sono chiamati a partecipare attivamente al percorso formativo, mettendo in campo le loro competenze professionali e la specifica esperienza lavorativa e sviluppando nuove competenze e capacità legate all’oggetto dell’intervento formativo. 
Le imprese realizzano quindi percorsi di sviluppo del capitale umano che integrano approcci teorici e metodologie attive, ricorrendo contemporaneamente alla formazione d’aula e alla formazione attiva, all’accademia e alla bottega. 
La formazione sta reinterpretando il suo modo di essere, superando lo schematismo dell’impostazione classica, evitando l’approccio accademico ed eccessivamente teorico e andando oltre il puro aggiornamento di conoscenze. La formazione diventa sempre di più capacità di allenare le persone e sempre meno capacità di plasmare, perché gli individui sono in possesso di un patrimonio personale che va valorizzato e utilizzato.
 
3.L’utilizzo delle metodologie attive
Le metodologie partecipative sono utilizzate prevalentemente per la pianificazione urbana e lo sviluppo territoriale, per la progettazione e la gestione del cambiamento organizzativo, per l’elaborazione e la gestione di piani e programmi con ampie partnership. Sempre di più vengono adottate anche in progetti di sviluppo organizzativo e in esperienze di formazione, che hanno come obiettivo principale quello di trasferire ai partecipanti i modelli e gli strumenti per operare quotidianamente, dalla comunicazione all’organizzazione, dal marketing al commerciale, dalle strategie alla gestione del personale. 
L’intervento formativo prevede l’utilizzo di metodologie attive nei lavori di gruppo e nei gruppi di discussione: i partecipanti, guidati dal docente, realizzano analisi ragionate al fine di evidenziare le dimensioni specifiche del focus di intervento. In particolare, il lavoro di gruppo guidato utilizzando le metodologie partecipative valorizza gli apporti individuali facendo emergere le competenze professionali, sociali e relazionali. Inoltre, il lavoro di gruppo produce un risultato ed un lavoro comune, generando anche creatività, produttività, efficienza ed efficacia. Attraverso l’interazione e il coinvolgimento dei partecipanti vengono elaborati documenti con particolare riferimento ai problemi, agli obiettivi, agli strumenti. 
Nel dettaglio un formatore-facilitatore guida il lavoro di gruppo, in base ad una gerarchia di priorità, nella definizione e schematizzazione di un documento articolato in:
problemi generali e organizzativi riscontrati, legati naturalmente al focus di intervento scelto;
obiettivi futuri da perseguire per migliorare la situazione attuale e superare i problemi;
strumenti sviluppati dai singoli gruppi in quanto possibili soluzioni.
Il primo step consiste nell’identificare e analizzare i problemi nell'ambito rispetto al quale si sta intervenendo; il formatore in questo caso svolge il ruolo di facilitatore aiutando i partecipanti a far emergere i problemi (relativi ad aspetti organizzativi, strategici, comunicativi, progettuali, commerciali). L’obiettivo di questa fase è creare una mappa delle varie problematiche, definendo una scala di priorità o urgenza. 
Il secondo step consiste nel focalizzare gli obiettivi che possono portare a superare i problemi. La ricerca di soluzioni può, infatti, condurre al superamento dei problemi o ad un miglioramento della situazione analizzata. In questa fase è indispensabile che i partecipanti valorizzino la loro esperienza ed esprimano fantasia ed intelligenza proprio perché è necessario individuare soluzioni valide per il contesto di appartenenza.
Il terzo step è identificare quali strumenti devono essere sviluppati per raggiungere gli obiettivi individuati nel secondo step. I partecipanti, infatti. devono indicare quali azioni si possono intraprendere affinché vengano superati i problemi riscontrati e raggiunti gli obiettivi di miglioramento. In questo step è fondamentale il ruolo del formatore-facilitatore che deve illustrare preventivamente le specificità di possibili situazioni, presentandone i punti di forza e di debolezza, mentre i partecipanti devono a loro volta scegliere i possibili strumenti ed esplicitare i criteri di scelta.
Il facilitatore è un po’ come l’artigiano che operava nelle botteghe rinascimentali: segue i suoi allievi guidandoli nel loro percorso di crescita, consapevole che potranno andare incontro all’errore e che sarà necessario procedere per aggiustamenti progressivi. 
Questo tipo di processo consente di rafforzare il senso di appartenenza, il consenso, l’identità. Le esperienze formative realizzate, infatti, evidenziano come attraverso questa metodologia è possibile conoscere colleghi, in alcuni casi sconosciuti, ed impararne gli interessi e le competenze. In queste esperienze solitamente i partecipanti sviluppano una maggiore attenzione alle esigenze degli altri, una capacità di intervento collettiva ed un orientamento a lavorare in gruppo.
Il risultato di questo processo è un lavoro di gruppo che produce un documento composto di analisi dei problemi, individuazione degli obiettivi e sviluppo di una strategia d’azione. 
Attraverso questo approccio viene legittimata soprattutto la capacità di espressione degli individui in termini di creatività e innovazione. Anziché rivolgersi a società di consulenza o ad istituti di ricerca, le aziende valorizzano i contributi degli individui e dei gruppi e legittimano l’innovazione interna, puntando su un approccio bottom-up
 
4.Il ruolo composito del formatore: progettista, ricercatore, facilitatore 
L’analisi dei fabbisogni è l’attività preliminare per progettare un adeguato intervento formativo, che, infatti, deve essere elaborato e tarato analizzando la situazione delle specifiche organizzazioni in cui si interviene. È fondamentale analizzare il contesto aziendale, le strategie, l’assetto organizzativo, il sistema professionale, i punti di forza e di debolezza. L’analisi del fabbisogno va, inoltre, sviluppata definendo un patto formativo con il committente dell’iniziativa: oltre a rilevare gli obiettivi aziendali è indispensabile prospettare le ricadute e la necessità di un impegno concreto dell’organizzazione nel coinvolgimento dei suoi dipendenti. È altrettanto importante che il formatore sensibilizzi il committente sui possibili effetti attesi e non attesi. Infatti, realizzare un’iniziativa di formazione che ha un impatto organizzativo significa anche produrre effetti sulla motivazione dei dipendenti e sulle dinamiche interne.
In un intervento di questo tipo è, inoltre, necessario andare più a fondo, direttamente sul campo, vedere chi si ha di fronte e considerare le specificità individuali. I partecipanti sono sempre diversi ed ogni volta è necessario ritarare l’intervento, se si vuol garantire veramente un apprendimento efficace. L'orientamento alle persone e la capacità di ascolto sono indispensabili per cogliere le caratteristiche e i bisogni reali degli individui coinvolti nei processi di apprendimento. Il punto chiave è valorizzare il kit di conoscenze, competenze e capacità e facilitarne l’utilizzazione. Così come avveniva alcune centinaia di anni fa nelle botteghe il formatore-facilitatore supporta i suoi allievi, guidandoli in un percorso fatto di scelte e quindi anche di errori.. Questa è la metacompetenza fondamentale del trainer. 
L’obiettivo del formatore, dunque, deve essere quello di coniugare l’obiettivo istituzionale con un obiettivo di contestualizzazione e di efficacia: da un lato, gli obiettivi formativi classici, come il trasferimento di conoscenze e lo sviluppo di competenze e capacità, dall’altro, l’obiettivo di contestualizzazione dell’intervento, raccogliendo indicazioni che provengono dai partecipanti per mirare ancora di più l’iniziativa. Il patto d’aula, in questo senso, serve a capire quali sono le aspettative ma anche i contesti dai quali provengono gli individui, integrando l’obiettivo formativo definito con il committente con le indicazioni dei partecipanti. 
 
5.Integrare accademia e bottega per promuovere lo sviluppo del capitale umano 
La formazione si innova quanto più riesce a promuovere percorsi di sviluppo del capitale umano che integrano accademia e bottega: è necessario puntare sul trasferimento di conoscenze, così come sullo sviluppo di competenze professionali e relazionali, ma soprattutto sulla capacità dei lavoratori di saperle e volerle utilizzare.
Le esperienze di formazione realizzate attraverso le metodologie partecipative possono essere analizzate per comprendere quali aspetti utilizzare per avviare azioni di innovazione. L’obiettivo deve essere, infatti, di condividere le esperienze e sviluppare ipotesi di miglioramento, soprattutto se sono esempi di buone pratiche.
In particolare progetti simili possono avere, innanzi tutto, la caratteristica della riproducibilità: è possibile cioè replicare l’intervento formativo come risposta a problemi analoghi che si presentano nello stesso contesto di lavoro. Questi progetti possono essere, inoltre, trasferibili: è possibile cioè riprodurre l’intervento formativo in quanto risposta a problemi di diverso tipo ed in contesti differenti. Infine, è possibile che abbiano la caratteristica della sostenibilità: alla fine dell’intervento formativo i benefici dovrebbero permanere e sopravvivere nel tempo.
La formazione si innova tramite l’utilizzo di metodologie attive e partecipative. Allo stesso tempo capitalizza i risultati delle esperienze migliori, se queste sono caratterizzate da riproducibilità, trasferibilità, sostenibilità.
Questa è una sfida per le organizzazioni: il futuro dipenderà molto dalla capacità di migliorare i processi lavorativi, di individuare le soluzioni che supportano i cambiamenti di approccio al mercato e dei modelli formativi, di essere flessibili e motivati in contesti sempre diversi. Una sfida che può essere affrontata se si punta sulla costruzione di percorsi comuni di crescita che valorizzano esperienze fondate sul contributo delle persone e sulla partecipazione e co-progettazione.
L'ambiente economico e sociale in cui viviamo si modifica sempre più e quindi le aziende così come gli individui dovranno incrementare la capacità di ascolto, l’apertura mentale, la consapevolezza di sé e degli altri, promuovendo innovazione e creatività attraverso un approccio bottom-up, che integra accademia e bottega.
 
 
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* In “Formazione & Cambiamento”, n. 17, 2003
 
0.Premessa
Si è svolto a Roma, gli ultimi due giorni di gennaio, il convegno Antinomie dell’educazione nel XXI secolo con la promozione della Facoltà di Scienze della Formazione, Università degli Studi Roma Tre. All’interno della sezione Globale/Locale il sociologo Luciano Gallino, in un intervento intitolato Società in Rete e formazione universitaria (1), ha svolto una stimolante riflessione sul senso dell’università in un’epoca in cui sono profondamente mutati i modi di produzione della conoscenza. Richiamiamo qui tale riflessione riprendendone e sviluppandone alcuni spunti.
 
1.L’università corrosa dalla Rete
Per Gallino è la Rete, intesa sia come tecnologia che come metafora organizzativa, ad aver scosso più di ogni altra cosa i presupposti su cui si è fondata per secoli la formazione universitaria. La tecnologia della Rete secondo Gallino ha infatti accelerato mutamenti fondamentali a livello del sistema mondo, dei sistemi economici, culturali, tecnici e psichici che vanno ad inscriversi in una revisione globale dell’antropologia umana. Questa viene a essere oggettivamente modificata dalla Rete.
Per tramite del Web e di Internet, di queste tecnologie della cultura, la società intera è stata trasformata in una grande Rete operante in tempo reale. Quella della Rete come sostiene Gallino è dunque una metafora attraverso la quale restituire la complessità raggiunta dai processi che caratterizzano le odierne relazioni sociali e produttive. 
“Protagonista in ogni senso dei mutamenti in atto sono le reti, la società divenuta Rete. Si produce in Rete, si lavora in Rete, si fa ricerca in Rete, si studia in Rete. E lo strumento mediante il quale si intersecano e si sorreggono tutte le reti del pianeta sono ovviamente le tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni, tra loro ormai profondamente integrate”. Tuttavia, mette in guardia Gallino, non bisogna credere che le reti del mondo, le reti della società in Rete, “siano composte esclusivamente dalla infrastruttura tecnologica chiamata Internet, insieme con l’archivio planetario di documenti chiamato Web”. La Rete piuttosto, dice Gallino, è diventato il modello organizzativo predominante.
Gallino fa bene a evitare di concentrare troppo l’attenzione sulla pervasività globale della Rete. Non è questo il vero elemento di novità, quanto il processo di circolazione ed elaborazione della conoscenza che avviene al suo interno. Già la modernità infatti si distinse per il progetto di avvolgere tutto il mondo in reti (di comunicazione, di trasporti etc. cfr. Mattelart 2000), ma in queste reti l’informazione prodotta da un centro doveva giungere alle periferie immutata. Attraverso queste reti l’informazione irradiava dal centro alle periferie con somma equità e razionalità. O almeno questo era il progetto moderno. La Rete illuminista avrebbe distribuito universalmente gli oggetti prodotti da un centro razionale evitando mutazioni e distorsioni e inondando così l’imperfezione del mondo della perfezione della conoscenza razionale.
Questo stesso modello di comunicazione si viene ad affermare nel modello organizzativo taylorista caratterizzato da un accentramento delle funzioni di pianificazione e progettazione, da un sistema di trasmissione top-down, da una rigida divisione di progettazione ed esecuzione. Per Gallino il modello superato è appunto quello fordista e taylorista di organizzazione del lavoro in cui “ciascun operatore corrisponde ad un segmento del processo produttivo, il quale, collocato tra un segmento precedente ed un segmento successivo, fa avanzare in modo lineare il processo produttivo verso la sua conclusione”.
Nel modello di circolazione e elaborazione della conoscenza implicito nella Rete, le cose funzionano in modo molto diverso: “Ciascun operatore rappresenta un nodo nel quale affluiscono da diverse direzioni materiali ed informazione, e dal quale defluiscono in altre direzioni materiali ed informazione da esso trasformato in qualche modo e misura. Da diversi punti di vista si potrebbe dire che le reti non abbiano né principio né fine; ovvero non è dato sapere dove esattamente comincino e dove esattamente finiscano”.
A ben vedere ciò che cambia è il luogo dell’innovazione, un tempo accentrato e ora invece diffuso. La rielaborazione continua dell’informazione fa sì che la geografia e l’organigramma della Rete muti di continuo. Cosa è infatti la Rete se non la metafora della relazione che lega gli attori coinvolti nel processo di produzione di conoscenza? La Rete coinvolge tutti gli attori sociali, anche se con quote di potere diverse. La Rete si rimodula di continuo fluttuando insieme all’attività degli attori coinvolti in un costante e problematico processo di soggettivazione ed oggettivazione. In questo processo ciascun attore “riflette” sul suo percorso e sulla sua attività. Ciascun attore cartografa la nuova configurazione della Rete, almeno della porzione con cui ha a che fare, e progetta e performa la sua risposta, non la sua mera reazione ma la sua azione creativa e promotrice di ulteriori assetti della Rete. Dunque ciascun attore può avere collocazioni variabili e mai del tutto prevedibili all’interno della Rete.
 
L’università rimane spiazzata di fronte a questi mutamenti e fatica a ritrovare il senso sotteso al suo ruolo perché attraverso la Rete sono state scosse, o “corrose” come preferisce dire Gallino, le basi del sodalizio società-università.
“Tra i presupposti della formazione universitaria le cui stesse basi appaiono oggi minate troviamo anzitutto l’idea che il mondo fosse comprensibile o che fossero immediatamente disponibili i vari modelli del mondo che lo rendevano comprensibile”. La funzione primaria della formazione universitaria, dice Gallino, consisteva nella esplicazione di tali modelli e nella loro trasmissione, nella loro irradiazione, ai giovani. Oggi, tuttavia, “laddove la comprensibilità del mondo richiedeva l’individuazione di confini, l’idea stessa di questi viene nella Rete a svanire”. L’incomprensibilità del mondo coincide con l’incontrollabile geografia dell’innovazione della Rete.
Prima al centro della Rete illuminista, per molti versi vi era proprio lei, l’Università. Un tempo la conoscenza era conoscenza del Reale e l’Università era ad un tempo scopritrice e custode dell’universalità e dell’oggettività di questo sapere. Gli oggetti e i soggetti che uscivano dalla sua istituzione erano ammantati di questo valore di sacralità, indiscutibili al di fuori, al di là delle pareti della loro istituzione, dei laboratori-network in cui tale conoscenza veniva prodotta (al cui interno vigevano presumibilmente gli ancor più sacri dogmi della scientificità, gli alambicchi che distillavano i costrutti accademici). Dunque l’Università era portavoce del Reale, ciò con cui tutti gli altri soggetti non universitari, avrebbero dovuto fare i conti. Da qui scaturivano ruolo e status dei dotti accademici. All’interno della comunità scientifica venivano prodotti degli oggetti che poi avrebbero circolato nel mondo, dal centro verso la periferia, come e vere e proprie scatole nere (2), indiscutibili espressioni provenienti non da umani ma dalle viscere segrete della Natura (di cui i dotti e solo loro conoscevano il linguaggio). Il mondo parlava, si rendeva pensabile, comprensibile e quindi disponibile all’interazione con gli umani attraverso la mediazione del metodo degli universitari.
Quando, con il trionfo della modernità, della razionalità tecnica opposta alla fissità della tradizione, il mondo non è stato più pensato come immutabile ma come coinvolto in un processo di produzione, l’università si è collocata al piano più alto della funzione ricerca e sviluppo. Conoscendo il linguaggio del mondo, sia naturale che sociale, essa poteva avvistare e scoprire il senso intimo di nuovi fenomeni del mondo imbrigliandoli per tempo, comprendendoli e inventando i modi di metterli al servizio delle produzione, rendendoli produttivi, canalizzando in senso produttivo le forze potenzialmente dirompenti della natura e della società (3).
Ora dubita anche di questo. Sì perché è proprio questo processo di scoperta e invenzione che oggi si dà come molecolarizzato, diffuso e per certi versi del tutto autonomo nei tempi e nei modi di produzione (4).
 
Quale è dunque il ruolo dell’università in un mondo che conosce, innova, si comprende autonomamente (anche se in modo molto frammentato)?
Le tecnologie, i mezzi di comunicazione e di produzione inventati hanno sconvolto l’ordine delle relazioni tra gli attori. Questi sanno (e possono venire a conoscenza di) cose prima inaccessibili, e sempre attraverso nuove tecnologie possono organizzarsi tra loro e produrre effetti imprevedibili. Ciascun attore con le nuove tecnologie a disposizione (ma non è detto che l’accessibilità di queste possibilità tecnologiche sia così equamente distribuita) può fare quello che prima facevano solo i dotti: scoprire, inventare, reipotizzare relazioni tra cose diverse, far circolare le proprie invenzioni. Ciascun nodo raccoglie dalla Rete e rimette in Rete le sue rielaborazioni. Questo fa sì che la Rete sia in costante fluttuazione. Quanti e quali oggetti possono prodursi, e a quale velocità!
 
2.L’università che apprende ad interagire nella Rete
Quando Gallino dice che il presupposto fondamentale della comprensibilità del mondo viene meno allude alla ingovernabilità del ritmo delle innovazioni e soprattutto delle dinamiche sottese alla sua circolazione e traduzione (nel senso di trans-ducere) (5). 
L’università, scalzata dal suo ruolo di unica scopritrice e produttrice (specialmente in Italia dove scarseggiano i fondi necessari a questa funzione) deve rimettersi in gioco in un panorama del tutto mutato dove l’innovazione proviene, ed è gestita, da attori sempre imprevisti. Bisogna chiedersi se e in che misura in questi tentativi essa cerchi comunque di continuare a ritagliare per sé una posizione di distacco e di superiorità del suo sguardo. E quanto cerchi di salvare la sua alea di prestigio scientifico, ovvero di disinteresse, di oggettività con cui si guarda ai diversi fenomeni che si vanno producendo. 
Tale sguardo può consentire, se gli altri attori ne accettano la legittimità, un ruolo di certificazione delle conoscenze cumulate altrove. Con i propri modelli di riferimento l’università potrebbe così spendersi oggi nel valutare e correggere, dalla sua posizione sopraelevata, le imperfezioni di associazioni che si sono sì formate autonomamente ma in modo disordinato.
Su questo versante sembrerebbe attestarsi lo stesso Gallino, la cui proposta poggia anch’essa su una posizione sopraelevata dello sguardo universitario. Gallino propone per l’Università più o meno lo stesso ruolo di giudice. L’Università dall’alto, con la sua impermeabilità alle dinamiche esterne, può monitorare la genealogia di ciascun oggetto o categoria prodotto dagli umani fuori e dentro l’università. L’Università può cioè mettere in guardia dai rischi dell’utilizzo acritico di oggetti e categorie. Anche questa è infatti una funzione dei certificatori: consapevoli del percorso del prodotto, delle reti umane e non umane che hanno condotto alla sua creazione, consapevoli della composizione, l’Università può indicare date di scadenza, posologia, effetti collaterali, abbinamenti da evitare per ciascun oggetto circolante. L’Università può accedere di nuovo e solennemente al dibattito tra attori molteplici rivendicando questo suo esclusivo ruolo di giudice. Ma chi è il giudice se non chi padroneggia, solo lui, degli strumenti indiscutibili? Chi svolge le sue osservazioni in un laboratorio inaccessibile ai profani? E poi, quale tipo di legittimazione è prefigurabile per quel suo ruolo? E chi sarebbe, nel caso, il soggetto legittimante e secondo quali modalità avverrebbe la legittimazione?
Non è difficile immaginare le ipotesi di corruzione dei giudici, di collusioni con sponsors di diverso tipo che tale ruolo dell’università porterebbe inevitabilmente con sè. Di fatto il ruolo ufficiale di certificatore corrisponderebbe ad un ruolo reale di sponsor legittimatore, portavoce di una linea evolutrice del mondo, di specifiche reti.
 
Eppure, ci sembra, nessuna soluzione potrà essere trovata se non si prende atto definitivamente del venir meno di un altro presupposto dell’università, la sua impermeabilità. Essa non può essere vista come una cittadella assediata che deve ancora rendersi conto di cosa è cambiato al suo esterno. Essa invece è già immersa nei cambiamenti suddetti. L’Università è inverata dagli attori che la abitano, gli universitari,  i quali, come tutti gli altri, sono già coinvolti nelle dinamiche della Rete e non ne possono uscire magicamente qualora varchino la soglia dell’università. Al di là dei processi ufficiali di produzione e trasmissione del sapere dell’università vi è la circolazione e elaborazione del sapere tra gli universitari reali, gli attori che la abitano. Costoro sono nodi della Rete che rielaborano e producono sapere e relazioni (Lipari 2002), che dunque spendono i saperi che li attraversano in diverse direzioni.
Per i soggetti e gli oggetti che transitano l’università valgono infatti le stesse proprietà che abbiamo visto valere nelle reti. Tra gli attori il processo di circolazione e trasformazione dell’informazione non è lineare e ciascun nodo può assumere in momenti diversi ruoli e diversi in modo mai del tutto prevedibile; gli oggetti processati sono sempre riconfigurabili, e reinterpretabili dagli attori incontrati.
A venir meno è l’immagine del discente che attraversa periodi di apprendimento passivo prima di uscire dall’università e produrre. La formazione universitaria non è più staccata dal momento produttivo degli universitari. Non solo infatti perché già adesso gli universitari, anche unicamente nel ruolo di discenti passivi, si danno però come forma di vita con le proprie caratteristiche di aggregazione e di consumo che ne fanno un soggetto massimamente appetibile e reale per altri attori culturali ed economici al di fuori dall’università. Gli universitari, inoltre, sia discenti che collaboratori delle cattedre, entrano già, per sostenersi o per fare esperienze utili, come nodi produttivi e quindi possibili produttori di innovazione all’interno di reti socioeconomiche tra le più diverse, che a volte poco o nulla hanno a che fare con il percorso di studi, ma che invece spesso sono intrecciate in un modo o nell’altro al proprio campo di studio. 
Inoltre in un futuro, si spera non troppo lontano, che vedrà la costruzione di un sistema integrato della formazione permanente, la distinzione tra universitario discente e soggetto produttivo sarà sempre più labile ed insostenibile. Ancora di più l’impermeabilità della cittadella universitaria sarà una leggenda.
L’università può essere attraversata da soggetti diversi in diversi momenti della propria vita. Soggetti che attraverso l’Università possono incontrarsi con altri soggetti, oggetti e temi, su piani difficilmente accessibili altrove durante la normale attività professionale.
Già ora, nelle sperimentazioni e nelle esperienze che prefigurano contatti ricorrenti degli studenti/lavoratori (si metta davanti il termine che si preferisce) con l’università, spessissimo gli attori coinvolti sottolineano l’utilità e addirittura la necessità del momento di riflessività consentito dall’università a fronte delle esperienze professionali troppo appiattite sul qui ed ora. La formazione universitaria può restituire il senso, o meglio ancora un ventaglio di sensi, di pratiche professionali e dei discorsi che li sottendono, delle criticità che queste stanno vivendo, delle poste in gioco e delle possibili ipotesi di network che potrebbero affermarsi. Soggetti già immersi nei flussi produttivi possono ricorrere continuamente all’università per guadagnare visioni più ampie, ipotesi sul futuro, contatti con soggetti lontani che lavorano nella stessa direzione.
La formazione universitaria può non essere dunque incompatibile con il processo di conoscenza degli operatori-nodi della Rete in quanto può intervenire nella loro vita in tre attività che si danno oggi come molecolarizzate: 
- cartografare la trasformazione attorno a sé ovvero leggere e comprendere la mutazione continua della Rete e dunque essere aggiornati sulle sue diverse configurazioni; 
- rinvenire il proprio sé la propria interpretazioni all’interno di tale trasformazione, cioè non limitarsi ad adattarsi alla mutazione continua ma in essa saper ogni volta scorgere la propria posizione ed il senso che essa potrebbe assumere nel mutamento in corso;
- affermare tale interpretazione creando nuove relazioni ossia darsi le possibilità di operare nuove configurazioni della Rete e dei rapporti in cui si è coinvolti. In tal senso i soggetti possono porsi come vettori dell’innovazione.
I soggetti che operano e vivono nella Rete corrono oggi il rischio costante di svolgere tali attività in completa solitudine e angoscia, esposti al rischio di completa sconnessione da coloro che potrebbero riflettere sulle stesse questioni non conoscendo così né le innovazioni cui questi già potrebbero essere giunti e comunque perdendo l’opportunità di costruire insieme innovazione. L’esperienza di tali rischi, si traduce in costi pesanti per l’individuo e per le organizzazioni in cui esso si muove portando il suo cervello e le sue emozioni.
A maggior ragione l’università, allora, non può più pensare di educare i nodi trasmettendo tali competenze una volta per tutte. La formazione universitaria dovrebbe piuttosto sforzarsi di favorire e supportare continuamente il costituirsi di relazioni in cui il sapere degli attori si invera. In questo senso essa dovrebbe costituire ambienti di apprendimento, network e contesti attraverso cui tali competenze possano realizzarsi, in cui gli attori incontrandosi nel luogo dell’università (anche virtualmente) possano guadagnare insieme riflessività rispetto al qui ed ora, e quindi, specularmente alle tre attività viste sopra :
- esplicitare la conoscenza autonomamente acquisita; 
- ridiscuterla collettivamente valutandone le alternative; 
- avere a disposizioni strumenti ed informazioni che aumentino le opportunità di far cooperare produttivamente i soggetti che perseguono la stessa innovazione. 
La formazione universitaria potrebbe dunque fornire delle risposte ai rischi cui è esposto chi produce conoscenza nella Rete. Non trasmettendo unidirezionalmente e una volta per tutte un sapere ad un soggetto staccato dai flussi produttivi bensì continuando a far incontrare soggetti i quali, comunque immersi nei flussi produttivi, già valorizzano e rinnovano le loro conoscenze, e che connettendosi in diverse occasioni ai network d’apprendimento dell’università possono farle circolare collettivamente potenziandole. 
Mentre nel primo caso il compito della formazione universitaria rispetto al soggetto era quello di fornire conoscenza, di preparare ad un mondo di cui si custodiva la conoscenza (conosciamo il mondo in cui dovrai inserirti quindi devi apprendere ciò che ti diciamo), nel secondo la formazione universitaria deve tendere piuttosto a supportare la acquisizione e la produzione di conoscenza e di innovazione in un mondo in costante mutazione e del quale non si possiede il senso una volta per tutte. E forse, come insegna Gallino, per l’università la prova più difficile è proprio ammetterlo e trarne le dovute conseguenze.
 
Note
  1 L’intervento è scaricabile insieme alle altre relazioni del convegno presso il sito www.uniroma3.it/inevidenza/global_edu/relazioni_antinomie_educazione.pdf. Lo stesso intervento è comparso in una versione più snella nelle pagine culturali del quotidiano La Repubblica di giovedì 30 gennaio 2003 col titolo L’università corrosa dalla Rete.
  2 Col concetto di black box la Actor-Network theory di Bruno Latour allude a quegli oggetti trasmessi da un emittente che ha predisposto una serie di dispositivi tecnici e sociali allo scopo di renderli il più resistente possibile a tentativi di manomissione e ridiscussione concettuale. Tali oggetti possono essere accettati come black box, verità indiscutibili da accettare “a scatola chiusa” se ha funzionato il processo di costruzione della loro oggettività. Manomissione fisica e ridiscussione concettuale si fondono nel concetto di interpretazione operata dagli altri attori della Rete implicata nel passaggio, traduzione, dell’oggetto, in special modo il destinatario.
  3 La letteratura riguardante questo passaggio è, come noto, vastissima. Si veda almeno Giddens (1990), Berman (1982).
  4 Il riferimento, come è ovvio, è al passaggio al postmodernismo ed al postfordismo. Anche qui la letteratura è ormai vastissima ma rimandiamo almeno a Lyotard (1979) sul fronte filosofico, e a Romano-Rullani (1998) e Micelli (2000) su quello organizzativo.
  5 Il concetto di traduzione è centrale nella Actor-Network Theory di Latour e Callon. Ogni volta che l’innovazione passa attraverso nuovi attori questa può essere manomessa e ridiscussa, reinterpretata. Dunque la traduzione dell’innovazione è da intendersi qui in tutta la sua densità di significato. Cfr. nota 2.
 
Bibliografia
D. Archibugi, B.-A. Lundvall, The Globalising Learning Economy: Major Socio-economic trends and European Innovation policies, Oxford University Press, Oxford, 2001
M. Berman, All that is Solid Melts into Air. The Experience of Modernity, Simon and Schuster, New York, 1982, (trad. it. L’esperienza della modernità, Il Mulino, Bologna, 1985)
G. Capano, La politica universitaria, Il Mulino, Bologna, 1998
P. Conceicao, M. Heitor, Universities in the Learning Economy. Balancing Insitutional Integrity and Organizational Diversity, in D. Archibugi, B.-A. Lundvall (2001)
G. Delanty, Challenging Knowledge: The University in the Knowledge Society, Open University Press, Buckingham, 2001
A. Giddens, The Consequences of Modernity, Polity Press, Cambridge, 1990 (trad.it Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Il Mulino, Bologna, 1990
B. Latour, Science in Action. How to Follow Scientists and Engineers through Society,  trad it. La scienza in azione. Introduzione alla sociologia della scienza, Edizioni di Comunità, Torino,1998)
D. Lipari, Note su “formazione” e “processo formativo”, in Adultità n.16, ottobre 2002, pp.61-76
F. Lyotard, La condition postmoderne, Minuit, Paris, 1979 (trad. it. La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1994)
A. Mattelart, Histoire de la société de l’information, Editions La Découverte,Paris, 2001, (trad. it. Storia della società dell’informazione, Einaudi, Torino, 2002)
S. Micelli, Imprese, reti e comunità virtuali, Etas, Milano, 2000
L. Romano- E. Rullani (a cura di), Il postfordismo. Idee per il capitalismo prossimo venturo, Etas, Milano, 1998
E. Rullani, "Dai sistemi alle reti: economia e potere della conoscenza", in Reti. Scienza, cultura, economia, Transeuropa Edizioni, Bologna, 1993
D. Schiller, Digital Capitalism. Networking The Global Market System, Mit Press, Cambridge (Mass.), 2000
 

* In “Formazione & Cambiamento”, Nuova serie, n. 12, 2018

Un punto va chiarito fin dall’inizio: competenza digitale non è sinonimo di competenza informatica. Mentre l’ultima è principalmente riferita alla capacità di utilizzare uno strumento, una tecnologia come un PC o un qualsiasi altro device o un software, la prima è la capacità di essere, in modo consapevole e partecipe, attori nella Società della conoscenza e dell’innovazione che, per l'appunto, è da alcuni decenni una società digitale, una società 5.0 in piena economia 4.0.

In Europa, da più di un lustro si discute di competenze digitali, e dal 2013 sono stati elaborati tre documenti progressivi a proposito: Digcomp nel 2013, Digcomp 2.0 nel 2016 e Digcomp 2.1 nel 2017.

Di questi tre documenti tratteremo in seguito, non dopo aver introdotto un altro argomento sul quale per molti annisi è dibattuto per giungere, ancora prima, a elaborare una comune definizione di competenza, in assenza di un unico sistema di classificazione europeo.

Infatti, la competenza è uno dei concetti sul quale da tempo dibattono molti attori, tra questi gli educatori e i formatori, i decisori politici, gli imprenditori. Oggetto di attenzione da sempre degli studiosi umanisti, oggi si parla di competenza nei documenti europei e in quelli dei manager aziendali. E, ovviamente, nelle scuole. Così è su questo concetto che oggi convergono esperienze talvolta distanti, se non divergenti, quelle delle istituzioni formative, delle istituzioni politiche, delle imprese e delle organizzazioni.

In questo contributo per un numero sulla Scuola, il nostro interesse non va soltanto agli aspetti statici del concetto di competenza, ai problemi definitori o a quelli meramente teorici; il nostro interesse è piuttosto rivolto alla competenza come concetto dinamico, come indicatore di sviluppo personale e professionale e di innovazione sociale e organizzativa. E confrontare le visioni statiche o dinamiche del concetto di competenza ci conduce dentro una questione interessante, quella dei saperi necessari e indispensabili per i cittadini della società della conoscenza e dell’apprendimento, che la Scuola è chiamata a interpretare ed elaborare di continuo come sua missione precipua.

La Società della conoscenza è una definizione ormai diffusa, uscita dai documenti europei di Lisbona 2000 per giungere nei media e per entrare nel linguaggio comune. Ma proprio mentre si andava diffondendo questa cultura della centralità della conoscenza, l’Europa forniva nei suoi documenti e diffondeva con le sue politiche una nuova definizione più articolata di quella che alla fine viene oggi indicata come Società della conoscenza e dell’apprendimento.

Ad una prima lettura, distratta, le due definizioni potrebbero sembrare simili, se non intercambiabili, mentre sono l’integrazione l’una dell’altra. E se il dibattito sulla Società della conoscenza aveva portato ad una classificazione dei requisiti distintivi e dei criteri per essere dentro o fuori la società avanzata, i contributi sulla Società dell’apprendimento stanno spostando l’attenzione dall’oggi al domani, dall’avere la conoscenza all’essere competente.

Può risultare utile, a questo punto, soffermarci sul significato che viene attribuito al concetto di competenza e ai due indirizzi teorici che hanno fornito su questo il contributo più significativo, quello americano e quello inglese.

I due indirizzi si differenziano già dal termine che viene utilizzato: competence (al plurale competences) per gli inglesi, competency (al plurale competencies) per gli americani.

Ma la distinzione è più che nominale:

  • competence per l’indirizzo inglese indica una capacità, una attitudine soggettiva, necessaria e indispensabile per svolgere una attività; le competenze sono così direttamente legate a un compito e alle skill del lavoratore
  • competency identifica invece una prestazione eccellente del singolo nello svolgimento di una attività; la competenza la capacità dell’individuo di raggiungere una prestazione elevata, e viene utilizzata anche per selezionare e premiare le migliori prestazioni aziendali.

In Italia, è l’INAPP, Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubblichea fornire una definizione, una classificazione e un modello per le competenze, per agganciare il più possibile il nostro paese all’Europa. Per l’INAPP:

 “competenza è l’insieme delle conoscenze teoriche e pratiche, delle abilità e delle capacità che consentono a un individuo un adeguato orientamento in uno specifico campo d’azione. La competenza si connota quindi come conoscenza in azione: in essa emerge la componente operativa della conoscenza, ossia la presenza di un costante orientamento a saldare sapere e saper fare, anche in situazioni contraddistinte da un elevato livello di complessità, che quindi esigono schemi altrettanto complessi di pensiero e di azione.”[1]

Basato su questa definizione, è il sistema di classificazione delle competenze, nel quale l’INAPP utilizza tre macro-categorie: competenze di base, competenze tecnico professionali, competenze trasversali.

Le competenze di base, ritenute indispensabili per lo svolgimento efficace ed efficiente di una attività lavorativa, sono le seguenti: Lingua inglese, Informatica di base, Organizzazione aziendale, Diritto sindacale e del lavoro, Tecniche di ricerca attiva del lavoro, Economia di base.

Le competenze tecnico professionali variano da un settore lavorativo ad un altro, e vanno mappate e classificate empiricamente con una attenta analisi dei processi lavorativi, del loro svolgimento e della loro innovazione tecnica.

Le competenze trasversali sono[2] "un insieme di abilità di ampio spessore che sono implicate in numerosi tipi di compiti, dai più elementari ai più complessi, e che si esplicano in situazioni tra loro diverse e quindi ampliamente generalizzabili. La loro individuazione può essere frutto dell'analisi e della scomposizione dell'attività del soggetto al lavoro posto di fonte al compito. Tale analisi consente di enucleare tre grandi tipi di operazioni che il soggetto compie, fondate su processi di diversa natura (cognitivi, emotivi, motori) e che:

  • fanno "riferimento ad operazioni fondamentali proprie di qualunque soggetto posto di fronte ad un compito lavorativo (e non)"
  • sono presenti in tutte le esperienze del soggetto non solo in quelle lavorative
  • "non sono connesse specificamente ad una determinata attività o posizione lavorativa", ma "entrano in gioco nelle diverse situazioni" e condizionano "la possibilità degli individui di esprimere comportamenti professionali <<abili>> o <<esperti>> e di trasferire competenze da un ambito lavorativo ad un altro
  • "consentono all'individuo di sviluppare la propria competenza in attività differenti (transfer)"
  • si apprendono per via formale, informale, non formale
  • possono sempre essere potenziate con appositi percorsi formativi
  • la prima è la base delle altre due, la terza presuppone le altre due.

E ancora, le competenze trasversali sono:

  • "diagnosticare le caratteristiche dell'ambiente e del compito", analizzare capire rappresentare la situazione, il problema, se stessi (le risorse che possono essere utilizzate o incrementate all'occorrenza) come condizione indispensabile "per la progettazione e la esecuzione di una prestazione efficace" (abilità cognitive)
  • relazionarsi, "mettersi in relazione adeguata con l'ambiente", le persone e le cose di un certo contesto per rispondere alle richieste (abilità interpersonali o sociali: insieme di abilità emozionali, cognitive e stili di comportamento, ma anche abilità comunicative) 
  • affrontare, fronteggiare, "predisporsi ad affrontare l'ambiente e il compito, sia mentalmente che a livello affettivo e motorio", "intervenire su un problema (uno specifico evento, una criticità, una varianza e/o una anomalia) con migliori probabilità di risolverlo", costruire e implementare le "strategie di azione, finalizzate al raggiungimento degli scopi personali del soggetto e di quelli previsti dal compito".

La crescente attenzione alle competenze trasversali è indicata anche dall’ampio spazio riservato allo standard del CV Europass, che come sviluppo del CV Europeo, richiede di descrivere in dettaglio le competenze sociali (come la capacità di lavorare in gruppo, agire in contesti multiculturali, comunicare in modo efficace, ecc.), quelle organizzative (es. leadership, organizzazione del lavoro, gestione di gruppi e progetti), quelle artistiche (nella musica, nella scrittura, nel disegno, ecc.), oltre che quelle linguistiche, informatiche e tecniche.

Sempre riguardo le competenze è indispensabile ricordare che esistono in ambito nazionale e europeo diverse classificazioni sulle competenze chiave per l’apprendimento, non sovrapponibili.

Nel 2006 è stata pubblicata la raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa a otto “competenze chiave per l’apprendimento permanente”, che sono: la comunicazione nella madrelingua; la comunicazione nelle lingue straniere; la competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; la competenza digitale; l’imparare a imparare; le competenze sociali e civiche; lo spirito di iniziativa e l’imprenditorialità; la consapevolezza ed espressione culturale.

In Italia la raccomandazione è stata recepita nel 2007, ma con modifiche sostanziali per il vincolo generato da una divisione rigida tra le diverse discipline molto marcata nel nostro sistema scolastico. Sono stati così definiti da un lato gli Assi culturali (asse dei linguaggi, asse matematico, asse scientifico-tecnologico, asse storico e sociale) e dall’altro otto “competenze chiave per la cittadinanza”: imparare ad imparare; progettare; comunicare; collaborare e partecipare; agire in modo autonomo e responsabile; risolvere problemi; individuare collegamenti e relazioni; acquisire e interpretare l’informazione.

Ma torniamo alle competenze digitali, rispetto alle quali i dati in Europa non sono molto rassicuranti: benché il 95% dei cittadini tra il 16 e i 24 anni sia un regolare utilizzatore di Internet, meno della metà degli studenti usa strumenti digitali per l’apprendimento. Per qualcuno non potrà sembrare un problema, per altri forse potrebbe essere meglio così, ma nella realtà la mancanza di competenze digitali diventa poi una barriera nell’età lavorativa e un ostacolo per una cittadinanza piena per la popolazione, soprattutto la più anziana. competenze digitali.jpg

Analizziamo brevemente l’ultima versione del DigComp 2.1: The Digital Competence Framework for Citizens: with eightproficiency levels and examples of use del 2017[3], che ha aggiornato in modo significativo i precedenti documenti del 2016 e 2013.

Nella versione DigComp 2.1 viene posta, anche con l’uso di un’efficace infografica di sintesi (Imparare a nuotare nell’Oceano Digitale), una particolare attenzione a quelli che sono individuati come gli 8Livelli di padronanza, già proposti in altri documenti europei. Ma, in particolare, viene fatta proprio una integrazione dei diversi modelli utilizzati per la descrizione e analisi della professione, fino al recupero della ben consolidata Bloom’sTaxonomy (dalla quale è stata omesso il dominio cognitivo Analyzing): Remembering; Understanding; Applying; Evaluating; Creating.Che nella versione italiana dell’Agid, che qui utilizzeremo, diventano: Ricordo, Comprensione, Applicazione, Valutazione, Creazione.

digcomp2-1.png

Fonte:DigComp 2.1:Il Quadro dellecompetenzeeuropeedigitali periCittadini

Interessante è poi il richiamo ai documenti correlati al DigComp, nella versione Educatori, Organizzazioni e Consumatori: Digital competence frameworks for educators (DigCompEdu); Educational organisations (DigCompOrg); Consumers (DigCompConsumers).

Per un maggior dettaglio, il DigComp Framework ha cinque dimensioni:

  • Dimensione 1: Aree di competenze individuate come facenti parte delle competenze digitali
  • Dimensione 2: Descrittori delle competenze e titoli pertinenti a ciascuna area
  • Dimensione 3: Livelli di padronanza per ciascuna competenza
  • Dimensione 4: Conoscenze, abilità e attitudini applicabili a ciascuna competenza
  • Dimensione 5: Esempi di utilizzo sull’applicabilità della competenza per diversi scopi

Nel DigComp si individuano 5 Aree di competenze (Dimensione 1), che raggruppano 21 Competenze (Dimensione 2):

  • Area delle competenze 1: Alfabetizzazione su informazioni e dati
  • Area delle competenze 2: Collaborazione e comunicazione
  • Area delle competenze 3: Creazione di contenuti digitali
  • Area delle competenze 4: Sicurezza
  • Area delle competenze 5: Risolvere problemi

Nella tabella che segue riportiamo uno schema di sintesi del 2016, confermato nel 2017, delle 5 Aree di competenze (Dimensione 1) e del dettaglio delleCompetenze (Dimensione 2):

 

Aree di Competenza (Dimensione 1)

Competenze (dimensione 2)

   1. Alfabetizzazione su informazioni e dati

1.1 Navigare, ricercare e filtrare dati, informazioni e contenuti digitali

1.2 Valutare dati, informazioni e contenuti digitali

1.3 Gestire dati, informazioni e contenuti digitali

   2. Comunicazione e collaborazione

2.1 Interagire attraverso le tecnologie digitali

2.2 Condividere informazioni attraverso le tecnologie digitali

2.3 Esercitare la cittadinanza attraverso le tecnologie digitali

2.4 Collaborare attraverso le tecnologie digitali

2.5 Netiquette

2.6 Gestire l’identità digitale

  3. Creazione di contenuti digitali

 

3.1 Sviluppare contenuti digitali

3.2 Integrare e rielaborare contenuti digitali

3.3 Copyright e licenze

3.4 Programmazione

  4. Sicurezza

4.1 Proteggere i dispositivi

4.2 Proteggere i dati personali e la privacy

4.3 Proteggere la salute e il benessere

4.4 Proteggere l’ambiente

  5. Risolvere problemi

 

5.1 Risolvere problemi tecnici

5.2 Individuare fabbisogni e risposte

5.3 Utilizzare in modo creativo le tecnologie digitali

5.4 Individuare divari di competenze digitali

 

A queste Dimensione 1 e Dimensione 2, come anticipato, il DigComp 2.1 del 2017 associa 8 Livelli di padronanza (Dimensione 3):

  • 1 e 2 Base
  • 3 e 4 Intermedio
  • 5 e 6 Avanzato
  • 7 e 8 Altamente specializzato.

Gli 8 Livelli di padronanza sono stati definiti attraverso i risultati dell'apprendimento (utilizzando i verbi di azione e i domini cognitivi della tassonomia di Bloom) e ispirati alla struttura e al vocabolario del Quadro Europeo delle Qualifiche (EQF). Inoltre, ogni descrizione di livello contiene conoscenze, abilità e atteggiamenti, espressi con un singolo descrittore per ogni livello di ogni competenza. Tutto questo porta alla individuazione di 168 descrittori (8 per 21 risultati di apprendimento).

Il DigComp 2.1 prosegue con la descrizione di tutte le cinque Dimensioni, con tabelle molto dettagliate, utili per la classificazione delle competenze nella formazione e nell’esercizio di una professione.


[1] La definizione è tratta dal sito INAPP, www.INAPP.it

[2] Questo ampio brano è tratto dal volume di Gabriella Di Francesco (a cura di), Unità capitalizzabili e crediti formativi. Metodologie e strumenti di lavoro eI repertori sperimentali, INAPP, Franco Angeli, Milano 1998

* In “Formazione & Cambiamento”, Nuova serie, n. 3, 2016

Premessa
Le tecnologie dell’informazione (Internet, il web 2.0 e la cosiddetta “terza piattaforma” (1) …) stanno modificando radicalmente la società, il modo di vivere, lavorare e fare azienda perché modificano il modo di produrre e gestire le informazioni e quindi intervengono altrettanto radicalmente su modi, costi, tempi e competenze necessari alla produzione, gestione e utilizzo delle risorse che sono basate su di essa.
Le risorse basate sull’informazione, note come risorse invisibili (o intangibili (2)) , sono fondamentali per il buon funzionamento (e quindi per il successo) di Aziende e Pubbliche Amministrazioni, tra esse: la fiducia degli utenti, l’immagine del brand, la capacità di gestire sia persone e processi interni che relazioni e processi verso clienti, fornitori e partner.
Le risorse invisibili più rilevanti come la reputazione aziendale, la conoscenza del mercato o le competenze interne, sono “incorporate” nelle persone che interagiscono con l’organizzazione (clienti, dipendenti, rete commerciale…), sfuggono alla gestione esplicita dell’organizzazione e vengono trasmesse sui canali formali e informali a disposizione degli individui: passaparola, social networks, posta elettronica, riunioni, incontri diretti con clienti, colleghi, fornitori e partner. Per questo motivo la gestione delle persone e dell’organizzazione del lavoro, proprio a causa della tecnologia, diventa un fattore sempre più critico per il successo delle organizzazioni.

Risorse invisibili e processi operativi: perché la trasformazione digitale del lavoro
La rilevanza delle risorse basate sull’informazione nelle economie avanzate è dimostrata dal fatto che più del 60% della forza lavoro e oltre il 70% del costo del lavoro in paesi come Stati Uniti, Germania, Inghilterra e Francia sono dedicati ad attività basate sull’informazione (3) .
Le risorse invisibili possono essere suddivise in tre tipologie: ambientali, interne e aziendali.

  • Le risorse ambientali  si originano nell’ambiente (4) e sono usate dall’organizzazione: le richieste dei consumatori, la percezione del prodotto/servizio da parte degli utenti, l’immagine dell’azienda,...
  • Le risorse interne si originano e vengono usate all’interno dell’organizzazione: la conoscenza del mercato e dei concorrenti, le conoscenze operative e di processo,…
  • Le risorse aziendali si originano nell’organizzazione e vengono da essa trasferite all’ambiente: le comunicazioni di marketing, il supporto ai clienti, le interazioni della front-line con i clienti,…

Le risorse ambientali sono l’input dell’ambiente verso l’organizzazione, la quale le elabora internamente integrandole con le informazioni che emergono dai processi (risorse interne) per generare le informazioni (i.e. risorse) aziendali da trasferire all’ambiente secondo gli obiettivi/compiti dell’organizzazione.
Così ad esempio, nel caso venga rilevato dagli utenti un problema in un prodotto/servizio (informazione ambientale), le informazioni relative vengono raccolte e analizzate alla luce delle informazioni interne, vengono apportate le modifiche necessarie al prodotto e/o ai processi interessati e le informazioni che ne derivano, i.e. la soluzione del problema, vengono comunicate agli utenti interessati (informazione aziendale), contribuendo a modificare soddisfazione degli utenti, immagine del brand, etc.. Questo tipo di interazione tra utenti e organizzazioni è cambiato radicalmente nella forma e nella sostanza con il diffondersi delle nuove tecnologie, ad esempio dei social networks.
In generale sono i processi interni a generare il contenuto da trasferire all’ambiente e quindi ad avere un ruolo chiave nel ciclo con cui l’organizzazione elabora l’input ambientale e reagisce (i.e. comunica) efficacemente verso l’ambiente; l’accelerazione di questo ciclo prodotta dalla tecnologia sta rapidamente trasformando i processi interni, e quindi il lavoro e la sua organizzazione, nell’anello debole della catena con cui le organizzazioni interagiscono con l’esterno; tempestività, qualità e accuratezza delle informazioni prodotte dai processi interni, devono necessariamente essere tali da generare informazioni (e quindi interazioni) aziendali verso l’ambiente coerenti nei tempi e nei modi con le aspettative di un contesto ormai abituato ai tempi e modi della nuova comunicazione interpersonale, come per esempio quella dei social network, pena la marginalizzazione (se non la scomparsa) dell’intera organizzazione.

La tecnologia è la risposta, ma qual è la domanda?
Se l’organizzazione vuole essere in grado di interagire adeguatamente con l’ambiente è abbastanza evidente che l’uso, anche internamente all’organizzazione, degli stessi paradigmi tecnologici utilizzati nell’ambiente può essere d’aiuto, a condizione che si tenga presente che l’obiettivo non è tanto l’utilizzo della tecnologia in quanto tale, quanto la capacità dell’organizzazione di reagire alle informazioni ambientali nei modi e nei tempi consentiti dalla tecnologia.
Non è quindi questione di uso di una tecnologia, ma di uso delle tecnologie disponibili in funzione degli obiettivi (di servizio) da raggiungere. La tecnologia è un fattore strategico di successo solo a condizione che l’organizzazione abbia la chiara percezione dell’esistenza, del ruolo e dell’importanza delle proprie risorse intangibili e un’altrettanto chiara strategia su come utilizzarle per il conseguimento dei propri fini.
È la gestione delle risorse invisibili, soprattutto interne per i motivi visti sopra, e non la tecnologia (anche se tramite la tecnologia) a essere un fattore chiave per l’affermazione dell’organizzazione nel proprio ambiente e nel nuovo contesto tecnologico: mercato per le aziende, società per le pubbliche amministrazioni.

Perché il lavoro non è più un posto?
La fabbriche nascono con la prima rivoluzione industriale come luogo dove poter disporre economicamente e simultaneamente dei fattori di produzione necessari alla produzione di beni e/o servizi: forza lavoro, macchinari, materie prime, competenze delle persone.
In origine lo stessa valeva per le informazioni (le risorse invisibili): prima dell’introduzione delle tecnologie informatiche la gestione dell’informazione coincideva con la gestione fisica dei suoi supporti. Così le informazioni venivano raccolte su carta, sintetizzate ed elaborate in documenti sempre cartacei e conservate negli uffici aziendali. Conseguentemente, anche le attività concettuali potevano essere svolte solo dove (i supporti de) le informazioni e le competenze dei colleghi erano disponibili: negli uffici.
Questo non è cambiato quando, in tempi più recenti, le informazioni, anche se in formato digitale, venivano (e in gran parte vengono ancor oggi) gestite utilizzando infrastrutture informatiche private accessibili per la maggior parte, per legittimi motivi di costi e di sicurezza, solo all’interno degli edifici aziendali. Tutti i processi produttivi, di beni e servizi, la loro organizzazione e la gestione delle relative informazioni sono stati progettati a partire da questi presupposti.
Con la trasformazione dell’economia (globalizzazione, delocalizzazione, terziarizzazione,…), risulta sempre più difficile concentrare l’intero ciclo produttivo di un bene o di un servizio in uno stesso luogo fisico e sotto il governo della stessa organizzazione: sempre più spesso un singolo processo coinvolge risorse tangibili e intangibili (e quindi anche persone) collocate in sedi diverse e appartenenti o meno alla stessa organizzazione (5).
In questo caso sedi e strutture tecnologiche private si trasformano in barriere, anche di costo, all’evoluzione dei processi e alla trasformazione in senso competitivo dell’organizzazione, trasformando il poter/dover disporre in uno stesso luogo fisico di tutte le informazioni necessarie allo svolgimento delle attività (comprese le competenze delle persone) da vantaggio economico a generatore di inefficienza se non di malfunzionamenti. Una buona misura di questo fenomeno è l’aumento esponenziale delle attività di comunicazione (riunioni, trasferte, e-mail, video conferenze, etc…) tra sedi, funzioni e unità organizzative della stessa azienda, di clienti, fornitori e/o partner, problematica che affligge la quasi totalità delle organizzazioni.
Le nuove tecnologie, essendo basate su standard pubblici (Internet) e garantendo livelli di sicurezza ormai adeguati all’uso aziendale, si propongono come una valida soluzione consentendo di affrontare e risolvere in maniera soddisfacente, anche dal punto di vista dei costi oltre che dell’efficienza, il problema della gestione e dell’utilizzo delle informazioni (e quindi delle risorse invisibili) quando i processi si svolgono tra luoghi e organizzazioni diverse. La loro adozione si rivela quindi necessaria nello svolgimento della maggior parte delle attività lavorative (i.e. quelle legate al trattamento delle informazioni) nel nuovo contesto economico; l’affermarsi di nuove forme di organizzazione del lavoro come lo smart working e il lavoro agile è tra i primi segni di questa trasformazione.

Perché la tecnologia è solo una (piccola) parte della risposta
Tuttavia, se le tecnologie possono essere uno strumento valido e necessario per gestire le informazioni legate anche ai processi interni, esse non sono sufficienti per garantire un’interazione adeguata alle aspettative dell’ambiente; esse incidono sui tempi e i modi di gestione e trasferimento delle informazioni, ma solo indirettamente sui tempi e la qualità dei processi nel loro insieme, fattori che sono invece fortemente connessi al modo in cui è organizzato il lavoro e gestita l’organizzazione, a cominciare dai processi decisionali.
Poter trasferire le informazioni in frazioni di secondo, quando livelli e tempi di decisione rimangono immutati, genera frustrazione nel personale, rende inutili i vantaggi resi possibili dalla tecnologia e uno spreco i relativi investimenti.
Adottare nuove tecnologie di comunicazione (e di gestione dell’informazione in genere) può infatti risultare controproducente dal punto di vista del risultato se non si mette mano ai processi e alla gestione delle persone nel loro insieme, riprogettandoli attorno ai nuovi modi di comunicare e gestire le informazioni, ovvero se processi e organizzazione non sono coerenti con i nuovi modi e strumenti del comunicare all’interno dell’organizzazione e tra le organizzazioni, se cioè non si passa dalla semplice adozione delle tecnologie digitali alla trasformazione digitale del lavoro.

(Conclusioni)
L’intera economia sta subendo una profonda trasformazione legata alla diffusione delle tecnologie digitali rese disponibili dalla rete. Questo processo tocca essenzialmente la gestione delle risorse intangibili che hanno nell’informazione la loro materia prima e che costituiscono una parte crescente del mix di prodotti e servizi erogati da Aziende e Pubbliche Amministrazioni
L’interazione delle organizzazioni con gli utenti muove dalle informazioni originate nell’ambiente e si chiude con le informazioni trasmesse dall’organizzazione all’ambiente frutto delle attività interne, del lavoro e della sua organizzazione.
Affinché questa interazione sia tempestiva e qualitativamente adeguata è necessario che il lavoro e la sua organizzazione subiscano una trasformazione analoga a quella intervenuta nell’interazione tra l’organizzazione e il mondo esterno. Questa trasformazione non può essere limitata alla sola adozione di tecnologie simili alle tecnologie utilizzate dagli utenti, ma deve prevedere necessariamente anche il ridisegno dei processi e dell’organizzazione attorno alle possibilità offerte dalle tecnologie; smart working e lavoro agile sono solo i primi segni di questa trasformazione.

(1) http://en.wikipedia.org/wiki/Third_platform
(2) Il ruolo delle risorse invisibili nella gestione aziendale è stato ben descritto alla fine degli anni ’80 da Y. Itami
(3) SI tratta della somma delle attività codificate di elaborazione di informazioni (attività di tipo transattivo: es. impiegati, cassieri di banca,…) e delle attività che richiedono che richiedono interazioni con altri, giudizio indipendente o comunque non standardizzabili (es. manager, professionisti, venditori,…).
(4) Per ambiente intendiamo il contesto in cui l’organizzazione si muove: utenti, partecipanti, fornitori, partner, istituzioni, parti sociali,…
(5) Da uno studio del CEB (http://www.cebglobal.com/) basato su circa 23.000 interviste di dipendenti di aziende dei paesi industrializzati risulta che, nel 2012, sono significativamente aumentati: le attività che richiedono collaborazione attiva (67%), il numero di persone coinvolte nei processi decisionali (50%), il numero di colleghi di altre sedi con cui collaborare (57%). Risulta inoltre che il 60% di essi collabora con più di 10 persone, mentre il 65% gestisce relazioni con persone esterne all’azienda nello svolgimento delle proprie attività

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