N° 17 / 2021 - Ventennale I – Apprendere nella società della conoscenza
L'APPRENDIMENTO - Contro la formazione (per l’apprendimento)
* In “Formazione & Cambiamento”, Nuova serie, n. 15, 2020
Chi parla male pensa male e vive male.
Bisogna trovare le parole giuste.
Le parole sono importanti.
(Nanni Moretti, Palombella Rossa, 1989)
Assumo come nucleo della mia riflessione l’ammonimento di Nanni Moretti contenuto nel celebre dialogo tra il protagonista di Palombella rossa e una giornalista che utilizza un linguaggio sciatto e fitto di luoghi comuni. In particolare, del messaggio di Moretti mi preme sottolineare come «parlare male», ossia usare le parole in modo impreciso, approssimativo – o, peggio, fuorviante – abbia conseguenze permanenti di corrosione e distorsione del pensiero, della realtà e dell’esperienza. Se poi è condivisibile l’idea secondo cui «fin dalla prima parola pronunciata dall’essere umano nella storia del linguaggio, l’atto di apporre dei significanti […] serve a far emergere dal caos il suo significato, il suo contenuto» (A. Marcolongo, Alla fonte delle parole, Milano, Mondadori, 2019, p. 17), allora appare chiaro come i significanti (ossia le parole, appunto) abbiano l’enorme responsabilità di generare i significati che attribuiscono contenuto e senso alla realtà e all’agire.
Partendo dunque dall’importanza della scelta e dell’uso delle parole, decisiva ai fini della costruzione sociale dei significati, intendo qui proporre un ragionamento finalizzato a demistificare e depotenziare il lemma formazione nell’uso che (ormai correntemente) se ne fa per riferirsi ad una varietà di pratiche riconducibili ad azioni che sono di fatto assimilate alla sfera dell’educazione. L’alternativa è l’assunzione integrale della nozione di apprendimento sia nel linguaggio degli addetti ai lavori, sia nello svolgimento delle loro pratiche professionali.
Comincio con l’esplorazione delle attribuzioni di significato acquisite e consolidate nel tempo dal termine formazione e dalle pratiche alle quali esso rinvia. Si tratta di un lemma che qui assumo nell’accezione convenzionale con cui è utilizzato nel gergo professionale e di senso comune che indica «il vasto campo delle attività educative extra/post-formali: 1) rivolte a soggetti adulti già impegnati nella (o da avviare alla) vita professionale; 2) legate (direttamente o indirettamente) al mondo del lavoro e delle organizzazioni; 3) orientate, nei concreti contesti in cui sono realizzate, da finalità di apprendimento che riguardano al tempo stesso le dimensioni cognitive, esperienziali e relazionali degli attori implicati» (D. Lipari, Progettazione e valutazione nei processi formativi, Roma, Edizioni Lavoro, 1995, p. 7). Riprendo questa mia definizione che risale a molti anni fa perché la ritengo sufficientemente ampia (ma al tempo stesso delimitata) per descrivere i processi ai quali si fa riferimento con il termine formazione. In ogni caso la sottolineatura riguarda: (i) il fatto che si allude ad interventi educativi extra/post-formali rivolti prevalentemente a soggetti adulti; (ii) il legame con il lavoro e il mondo delle organizzazioni; (iii) la centralità dell’apprendimento. Pur rifacendomi a questa formulazione non dimentico che le definizioni possibili sono tante e le differenze tra loro sono date dalla maggiore o minore enfasi attribuita alle dimensioni costitutive del concetto. In effetti assumere e proporre una definizione equivale ad una scelta di campo che corrisponde in un certo senso all’esplicitazione del punto di vista da cui si osserva il fenomeno da essa sintetizzato. Pertanto la mia formulazione altro non è che l’esplicitazione del mio punto di vista. Trovo interessante, a questo proposito, la rassegna delle definizioni di “formazione” ricorrenti nel dibattito italiano proposta da Quaglino allo scopo di mettere in evidenza come, proprio attraverso le definizioni del concetto si possa in larga misura risalire ad una varietà di orientamenti teorici, a volte distinti e a volte convergenti, che sono alla base di indirizzi metodologici e di pratiche professionali. Tale rassegna evidenzia chiaramente come le definizioni non siano affatto neutre, ma rappresentino precisi punti di vista ed opzioni teoriche e di metodo ad essi corrispondenti. Attraverso l’operazione di «raccolta di un certo numero di definizioni di formazione sufficientemente esplicite» da essere auto-evidenti, Quaglino descrive «… quella sorta di andirivieni tra piani temporali e riferimenti tematici che ha connotato lo sviluppo del dibattito sulla formazione e che in qualche misura ne ha segnato le fatiche ad avanzare verso una più solida identità tra differenti polarità e particolarismi, forzature e aperture, nonché verso una matura fondazione teorica» (G. P. Quaglino, «Postfazione» a Fare formazione, Milano, Cortina, 2005, p. 176).
Accettare – sia pure convenzionalmente – questa denominazione della quale si fa largo uso1 e il cui significato, proprio per questa ragione, è condiviso da quanti si riferiscono alle pratiche alle quali rinvia, non esclude la necessità di un ragionamento critico orientato a chiarire le ragioni per le quali ritengo che l’uso del termine “formazione” debba essere relativizzato e ciò perché le ragioni di precisione linguistica (di per sé più che sufficienti ad espungerlo dal nostro lessico) sono rafforzate dal fatto che, nelle condizioni attuali delle teorie e pratiche alle quali allude, è diventato del tutto inadeguato a descrivere le azioni, gli approcci e i metodi legati ai processi di apprendimento. Anche volendolo accettare per mera convenzione che garantisca la continuità del discorso (tanto in quello degli addetti ai lavori quanto in quello più comunemente diffuso) per designare l’insieme delle pratiche educative sviluppatesi con riferimento al mondo del lavoro e delle organizzazioni, non significa, tuttavia, dover rinunciare ad una riflessione critica sul suo significato letterale e sulle possibili valenze simboliche e di senso che, proprio modellandosi attorno a questo significato, si strutturano dando luogo ad interpretazioni fuorvianti che si riflettono sulle pratiche e sul loro concreto dispiegarsi. Il motivo per cui ritengo altamente problematico l’uso del termine formazione (e a maggior ragione la sua trasformazione in concetto teoricamente fondato) risiede proprio nella parola stessa: formare rinvia direttamente ad una pratica in base alla quale è possibile dar forma ad un oggetto secondo un disegno preordinato. Questa interpretazione sottende una relazione tra un soggetto/agente che si propone di plasmare qualcosa a suo piacimento da un lato, e dall’altro, quel qualcosa, appunto, disposto/pronto a farsi plasmare e ad assumere la forma che l’altro ha deciso debba avere. Nella prospettiva di questa metafora, formare presuppone l’esistenza di un oggetto modellabile che risponda passivamente (magari opponendo la resistenza tipica di alcuni materiali inerti, che tuttavia è destinata a cedere) all’azione, in ogni caso coercitiva, tesa a modificarne la configurazione. Presuppone inoltre una soggettività capace di governare il processo di tras-formazione imposto all’oggetto. Ora, è del tutto evidente come, nelle pratiche alle quali ci riferiamo quando parliamo di formazione, una simile riduzione sia fuori da ogni logica (e da ogni possibilità di successo) anche nei casi in cui l’azione formativa assuma come proprie teorie e metodi assai vicini al significato letterale del termine in esame. Il motivo è connesso al fatto che si ha a che fare con persone in carne ed ossa anziché con oggetti malleabili e plasmabili. È quasi ovvio sottolineare il fatto che la soggettività degli attori ha un ruolo decisivo. Coloro che decidono di partecipare ad un’attività formativa per un loro scopo specifico (ad esempio, per acquisire un determinato contenuto di sapere), lo fanno perché spinti da una qualche strategia rispondente ad una libera scelta che si misura inevitabilmente con una proposta data (un corso, ad esempio, o un seminario) rispetto alla quale non viene mai meno il loro esercizio critico e la loro capacità di negazione2. Al tempo stesso, l’agire al quale l’idea corrente di formazione allude è innanzitutto una pratica relazionale dove si incontrano (dovendo necessariamente trovare accettabili mediazioni ed accordi) soggetti portatori di interessi e di obiettivi non necessariamente convergenti. Tutto ciò porta a sottolineare come sia del tutto improponibile una logica formativa aderente al significato letterale del termine formare. Certo, è possibile una visione dell’azione formativa improntata alla logica del “plasmare oggetti” (e in letteratura ancora se ne trovano); una simile visione non solo corrisponde ad un’idea arcaica, ma soprattutto (proprio per le ragioni legate all’irriducibilità dei soggetti a meri oggetti pronti a farsi modellare), è illusoria e destinata all’insuccesso.
Con questo esercizio di evidente forzatura della metafora del formare non intendo tanto sostenere che, nelle esperienze diffuse di formazione da molti di noi conosciute e frequentate, le pratiche correnti siano degli interventi coercitivi e passivizzanti, quanto piuttosto segnalare i limiti di una tradizione di teorie e di culture nelle quali l’azione didattica è prevalentemente concepita come un intervento unidirezionale (di qualcuno che trasmette saperi o conoscenze pratiche a qualcun altro che ne è privo e che dall’assunzione di quelle informazioni debba necessariamente essere trasformato in base a precise strategie, appunto, formative) nel quale le dimensioni soggettive del destinatario (che si esprimono in desideri, premesse, aspirazioni, interessi, ecc.) sono messe tra parentesi o comunque nettamente ridimensionate, così come, per conseguenza, è elusa la dimensione dell’inter-soggettività che inevitabilmente caratterizza questo tipo specifico di pratica sociale. Tale prospettiva tende, tra l’altro, a mettere in evidenza come, per descrivere i processi ai quali ci riferiamo, tra i tanti termini disponibili nel lessico (comune, ma anche in quello tecnico), quello legato all’idea di “formare” sia il meno utile. È addirittura meno utile – proprio per il suo tratto riduzionista, reificante e coercitivo – di quelli che alludono all’”addestramento” (che pure trova in alcuni modelli di pratiche una precisa corrispondenza) o all’”indottrinamento” (che rinvia a significati di trasmissione/assunzione secondo modalità meccaniche il più delle volte mnemonicamente fondate di determinati contenuti ideologici), oppure all’”ammaestramento” (che corrisponde a specifiche tecniche di addomesticamento degli animali da ridurre a comportamenti docili e comunque adeguati alle aspettative degli umani con i quali sono destinati a convivere: si pensi ad esempio al dressage dei cavalli)3. Da questo punto di vista sarebbe perfino più utile il recupero del caro, vecchio concetto di “educazione”, se esso non fosse riferito a pratiche legate al mondo-scuola (e dunque rivolte a soggetti in età evolutiva): e-ducare infatti significa accompagnare, come suggerisce la sua forma originaria (deriva dal latino ē-dūcĕre = trar fuori, condurre da un luogo), e allude ad una modalità relazionale in base alla quale qualcuno che abbia un’esperienza riconosciuta, scorta qualcun altro lungo una via a lui ignota e che, grazie alla guida di cui dispone, può imparare a percorrere autonomamente. Pur rinviando alla presenza determinante di un’autorità talora indiscussa e dalla quale spesso si è dipendenti (si pensi ai bambini), l’idea di e-ducare introduce sfumature di significato che segnalano non solo la possibilità di scambi relazionali tra chi porta/guida e chi è portato/guidato, (dunque riconoscono una soggettività a chi è guidato/si fa guidare), ma anche un tratto di aleatorietà e di indeterminazione circa il punto di arrivo di un percorso che dipende evidentemente da tante variabili, non ultima quella legata alla qualità delle relazioni e degli scambi tra gli attori implicati. Interessante notare come un sinonimo di portare/guidare che coglie quest’ultima sfumatura di significato è quello di condurre (cum-dūcĕre) che sta ad indicare appunto il guidare insieme un processo indipendentemente ogni altra specificazione su chi è il protagonista principale dell’azione. Non mancano, poi, tra le tonalità semantiche che è possibile individuare, varie oscillazioni interpretative che, ad esempio, possono essere, tra le altre, quelle comprese tra i poli opposti del portare autoritariamente e dell’accompagnare discretamente (o amorevolmente). Si tratta di riconoscere – questo è il punto cruciale del mio discorso – la soggettività e l’autonomia dei soggetti impegnati in un percorso di questo tipo.
Si coglie agevolmente il senso della critica: essa intende mettere in guardia dai rischi reificanti e di coercizione derivanti da interpretazioni troppo letterali dell’idea di “ormare”, specie nelle pratiche in cui i protagonisti sono soggetti adulti impegnati nella (o da avviare alla) vita professionale. Per venir fuori dalle secche di una rappresentazione di questo tipo e per dare un senso effettivo e rispondente a ciò che realmente questi fenomeni racchiudono, è necessario mettere in gioco, secondo prospettive rinnovate e capaci di recuperare la necessaria centralità agli attori, le categorie della soggettività e dell’inter-soggettività in quanto tratti costitutivi di ciò che convenzionalmente chiamiamo “azione formativa”. E, da questo punto di vista, l’apprendere (letteralmente: afferrare e far proprio l’oggetto verso il quale si indirizza l’attenzione e l’interesse), diventa il concetto cruciale a partire dal quale non solo si rivaluta la dimensione soggettiva di chi partecipa ad un evento rendendosi protagonista di una dinamica relazionale in cui agiscono altri soggetti, ma anche (e proprio per questo) si mette in luce la rilevanza dell’inter-azione, dello scambio, del dialogo, dell’apprendere insieme.
Il punto di vista sull’apprendimento che intendo qui proporre, mette in evidenza la necessità di andare oltre le visioni classiche che descrivono il fenomeno come strettamente legato alla sfera individuale (oltre che associato a specifiche relazioni d’insegnamento del tutto separate dalla pratica) per delineare una prospettiva sociale e decentrata: gli attori sociali sono costantemente immersi in una realtà (le loro vite e gli innumerevoli mondi che abitano) preesistente rispetto a loro e che si pone davanti alla loro esperienza con tutte le sue oggettivazioni (il linguaggio, le regole, le norme, le istituzioni, le tradizioni, gli oggetti materiali, gli artefatti, ecc.). È la complessa realtà – intesa come costruzione sociale e storico-culturale preesistente – che funge da punto di riferimento orientativo per l’azione di tutti e che impegna l’esperienza dei soggetti conoscenti i quali, per diventare attori sociali, cioè attori capaci di stare nel mondo con pertinenza, sono chiamati a confrontarsi con essa per appropriarsene.
L’apprendimento, dunque, altro non è che il modo del tutto particolare con cui l’esperienza soggettiva degli attori entra in relazione con il mondo, caratterizzato non solo dalle oggettivazioni storicamente e culturalmente date, ma anche da altri attori che sono al mondo e del mondo fanno esperienza. Ma il modo di rapportarsi con il mondo preesistente e con gli altri non si configura nei termini di un rispecchiamento della realtà oggettivata nella coscienza del soggetto e nemmeno nei termini dell’impressione di segni su una tabula rasa passiva pronta a farsi incidere. Al contrario, il modo di rapportarsi al mondo preesistente si configura secondo una dinamica in cui la coscienza è attiva e riflessiva. Da questo punto di vista la riflessività della coscienza (F. Crespi, Azione sociale e potere, op. cit.), intesa come capacità di arrestare il flusso ordinario della condotta di routine, per interrogarsi su di essa ed orientarne il senso e come capacità di negazione (ivi), ossia come capacità di disconoscere le oggettivazioni, di opporsi ad esse e di cambiarle, diventa il tratto fondante del soggetto, della sua libertà, della sua capacità di implicarsi, anche con passione, nei processi in cui è impegnato; in una parola è il tratto costitutivo della sua capacità di apprendere.
L’apprendimento non è dunque riducibile alla dimensione mentalistica, ma è un fenomeno che investe simultaneamente la sfera esperienziale, quella emotivo-affettiva e quella cognitiva. Inoltre, non riguarda la dimensione strettamente individuale, perché, quale che sia la particolare modalità di apprendere esperita da ciascun soggetto, essa è sempre legata al campo delle relazioni intersoggettive e delle relazioni con oggetti/artefatti materiali.
La sfera intersoggettiva ha a che fare con l’insieme delle relazioni che ciascuno mette in atto nel momento in cui si rapporta con altri soggetti dotati delle stesse caratteristiche di soggettività (con rilevanti implicazioni sul versante delle dinamiche di partecipazione, di solidarietà, di cooperazione, di transazione, di potere e di conflitto). È importante a questo proposito sottolineare come la sfera intersoggettiva non sia riducibile solo alle relazioni di prossimità, ma riguardi anche quelle caratterizzate da una certa distanza sia spaziale che temporale: nel primo caso, esse sono garantite dalla mediazione della scrittura o della parola (scambi epistolari, telefonici, telematici, ecc.); nel secondo, dalla tradizione orale o scritta (racconti, documenti, letteratura, ecc.); e in entrambi i casi è sempre il linguaggio il medium che rende possibile l’intersoggettività.
La dimensione delle relazioni con oggetti/artefatti materiali (B. Latour, «Una sociologia senza oggetto? Note sull’interoggettività», in E. Landowski, G. Marrone, a cura di, La società degli oggetti. Note sull’interoggettività, Roma, Meltemi, 2002) rinvia ad un analogo (anche se apparentemente meno immediato) intreccio relazionale: nel momento stesso in cui entriamo in relazione con il mondo, non solo ci misuriamo con altri soggetti, ma anche con l’insieme degli oggetti prodotti dagli altri o con materiali che noi stessi trasformiamo in oggetti. Ora, questi artefatti, proprio per il fatto di entrare nella sfera della nostra esperienza, entrano direttamente nel gioco relazionale in cui siamo implicati influenzando in vari modi (cioè: sostenendo o, viceversa, vincolando) la nostra azione.
L’insieme di questi tratti costitutivi dell’apprendere, ne mette in evidenza tanto la dimensione sociale, quanto il carattere situato, esperienziale e pratico: l’esperienza che noi facciamo con il nostro agire si sedimenta nel bagaglio delle nostre conoscenze in parte come frutto di acquisizioni intuitive derivanti dal fare e dal veder fare che si trasformano in routine d’azione; in parte – nei casi in cui le conoscenze di routine non sono sufficienti o soddisfacenti – come esito della rielaborazione intellettuale ed emozionale e della conseguente assimilazione (J. Dewey, Come pensiamo, Firenze, La Nuova Italia, 1961) di un’azione di successo che ha modificato in modo più o meno rilevante una condotta pratica. Emerge, in sintesi, un’interpretazione in cui l’apprendimento si configura come un processo di partecipazione sociale fondato sull’esperienza nel quale entrano in gioco simultaneamente (i) l’acquisizione di competenze (tecniche e relazionali) situate, (ii) la costruzione dell’identità individuale e sociale, (iii) l’attribuzione di significato all’esperienza, (iv) il riconoscimento dell’essere parte di un insieme che condivide saperi, valori, linguaggi e identità.
1 Anche se solo in italiano e nelle lingue neolatine e non in inglese, ad esempio, e neppure in tedesco che usa il ben più efficace concetto di Bildung.
2 Sul concetto fenomenologico di “capacità di negazione” della coscienza, cfr. F. Crespi, Azione sociale e potere, Bologna, il Mulino, 1989.
3 A proposito di “ammaestramento” o, meglio, di educazione intesa come ammaestramento: è tipica delle visioni settecentesche dell’educazione (non del tutto fuori corso nel nostro tempo) prevalenti nelle culture gerarchiche delle scuole militari come testimoniato dall’iscrizione che campeggia sul portale dell’ingresso dell’accademia militare «Nunziatella» di Napoli (io l’ho letta una ventina di anni fa e l’ho trascritta perché mi ha davvero colpito): «Questa Accademia perché nell'arte della guerra e degli ornati costumi la militar gioventù ottimamente ammaestrata crescesse a gloria e sicurezza dello Stato Ferdinando IV PFI con regal magnificenza fondò nell'anno del suo regno XXIV».
L'APPRENDIMENTO - Apprendere è attraversare mondi
* In “Formazione & Cambiamento”, Nuova serie, n. 7, 2017
Che l’apprendimento sia concepibile secondo la chiave della betweenness, come suggeriscono Gianluca Cepollaro e Giuseppe Varchetta (2014), è un punto di vista che può essere fatto risalire già a Platone, il quale scriveva nel Teeteto: «E non ci capita questo, per tutte le cose in genere e per ognuna in particolare, che noi o conosciamo o non conosciamo? Perché l’apprendere e il dimenticare, che sono i due processi intermedi (metaxỳ), io li lascio da parte per il momento […]» (188a, trad. M. Valgimigli). Con il termine “betweenness” Cepollaro e Varchetta non fanno peraltro riferimento «ad alcuna ricerca del giusto mezzo tra due estremi», bensì «a quella tensione ad abitare l’intermedietà, a fare la spola e a tessere legami tra elementi e livelli spesso apparentemente in contrapposizione non risolvibile. È questa tensione che qualifica l’apprendere ad apprendere» (p. 59). È la stessa tensione che indusse Platone ad utilizzare il termine «metaxỳ» per indicare la singolare compresenza tra gli opposti della conoscenza e dell’ignoranza, che contraddistingue i processi del dimenticare e dell’apprendere: il composto delle preposizioni meta (in mezzo, tra) e syn (insieme, con), infatti, indica ciò che stando in mezzo separa e congiunge. Ciò vale negli ambiti più diversi: dal fuggevole istante presente, sospeso tra passato e futuro, fino ai complessi accoppiamenti intessuti da Eros nello spazio delle relazioni umane, quell’Eros che non a caso viene descritto nel Simposio come figlio di abbondanza e mancanza, filosofo per eccellenza in quanto intermedio tra l’essere sapiente e l’essere ignorante, ma proteso al sapere.
Grazie alla capacità di abitare l’intermedietà possiamo apprendere, in quanto non siamo mai né del tutto dentro, né del tutto fuori al già dato, a ciò che siamo stati. Riferendosi alla celebre illustrazione Mani che disegnano, di Escher, in cui due mani sembrano uscire dal foglio bidimensionale in cui sono inserite per disegnare se stesse, Varela vi riconosce un modello dei loop creativi e virtuosi in base ai quali soltanto possiamo tentare di «comprendere i sistemi naturali, i fenomeni cognitivi e il ricco mondo delle forme» (Varela 2008). Più specificamente, riferendo tali considerazioni ai processi di apprendimento, potremmo dire che ogni apprendimento comporta un circolo di auto-eso-referenza, di uscita e di ritorno, di attraversamento di cornici. Si apprende in quanto ci si può staccare dal mondo nel quale ci si trova, pur continuando a farvi riferimento, in una dimensione intermedia in cui autonomia e dipendenza sono correlate senza elidersi a vicenda: tra il già visto e ciò che resta da vedere, tra il già esperito e ciò che è altrimenti esperibile, tra il già concepito e ciò che ancora non è stato concepito. Poiché ogni apprendimento comporta il passaggio dal punto in cui si è, dal contorno di ciò che è stato già acquisito, ad un punto in cui non si è ancora, è significativo che l’idea dell’approssimarsi sporgendosi sia inscritta, con una suggestione motoria, nell’etimologia del verbo latino “ad-prehendere”, che indica un protendersi verso (ad) qualcosa di cui si è privi, per afferrarlo (prehendere). L’esito del tentativo dipenderà dal punto in cui ci si trova, dalla distanza del punto verso cui ci si protende e dal modo di sporgersi e incamminarsi nella betweenness, affrontando l’inevitabile condizione di mancanza di equilibrio; dipenderà inoltre dal modo in cui siamo accompagnati.
Nel quadro metaforico così delineato, emerge chiaramente l’importanza del creare connessioni: si tratta di quel relier (mettere in relazione, collegare) su cui si concentra la ricerca di Edgar Morin (1999, 2001). Apprendere può dunque significare: riuscire a vedere o a fare altrimenti le cose, a cogliere nuovi nessi, a scorgere una forma o una figura dove prima non se ne scorgeva nessuna. Così, un bambino che abbia imparato a leggere, vedrà diversamente da come gli accadeva in precedenza i seguenti segni:
M A N O
Probabilmente, dopo aver appreso a leggere, non riuscirà più a vederli come li vedeva prima, senza associarvi un suono e un significato.
MANO
Ma apprendere può anche significare: riuscire a scorgere lo sfondo caotico dietro la figura che ci appare stabile e ben definita, su uno sfondo uniforme: il che accade, ad esempio, quando si inizia a dubitare di una credenza precedentemente ben fissata o quando si inizia a cambiare idea su qualcosa.
Ogni nuova forma percepita, concepita o agita, una volta che sia appresa, porta con sé possibilità e vincoli nuovi. Tendiamo ad attenerci alle forme già note, perché cercarne e afferrarne altre può richiedere sforzo, fatica e frustrazione; raramente problematizziamo concetti e punti di vista che ci sembrano naturali, ovvi e scontati; analogamente, tendiamo a ripetere i nostri schemi motori divenuti abituali senza accorgercene, quasi per automatismo, finché un disagio o una sofferenza non ci costringano a ripensarli, o finché una nuova prospettiva di senso e un improvviso entusiasmo non ci costringano a rivederli. Come abbiamo un passo caratteristico, una postura, un modo di stare seduti, un modo di guardare e di impugnare gli oggetti, così abbiamo un modo caratteristico di affrontare i problemi e di impugnare le idee che ci sono consuete. La possibilità di apprendere è la possibilità che abbiamo di mantenere aperta una tensione tra la realtà che ci appare “data” e quella possibile; tra ciò che si è, si sa e si può fare in un dato momento e ciò che si può divenire.
Abbiamo fatto riferimento alla suggestione motoria evocata dal verbo latino “ad-prehendere”: riprendendola ed approfondendola, possiamo cogliere altre implicazioni di quanto esposto fin qui. Fornendo una delle versioni più radicali del rapporto tra pensiero e movimento, Rodolfo Llinás (2001) ha formulato l’ipotesi che il pensare sia concepibile come «motricità internalizzata (internalized motricity)»: assumendo come premessa il fatto che agiamo facendoci immagini senso-motorie non solo visive dei contesti da cui l’agire dipende, l’apprendimento è possibile in quanto non esistono «configurazioni fisse d’azione (fixed action patterns)», cosicché il sistema nervoso deve modificarsi per raccordarsi al cambiamento (ivi, p. 174).
Che il contesto sia decisivo lo si ricava dall’esempio del funambolo: «camminare sul bordo di un marciapiede e camminare su una corda o su un filo metallico – scrive Llinás – non sono cose molto differenti: nei due casi è richiesto un ciclo di passi orientato a seguire una linea retta. Il feedback sensoriale, però, è drasticamente differente nei due casi. Camminando sulla corda aumenta il bisogno di un aggiustamento compensativo dell’equilibrio, perché l’area d’appoggio per il piede è limitata e perché la corda si muove rispondendo ai movimenti del corpo, al contrario del bordo del marciapiede. La differenza più rilevante, comunque, è un altro aspetto del contesto, particolarmente serio. Nel caso della corda, se perdi l’equilibrio, puoi morire» (ibidem). Come si apprende, allora, a camminare su una corda? Trovando il modo di abitare una betweenness tra ciò che si sa fare e ciò che ancora non si sa fare. Può essere utile passare progressivamente dal bordo del marciapiede a supporti meno stabili e sospesi ad altezza maggiore. Il passaggio diretto dal marciapiede alla corda sospesa, infatti, avrebbe pesanti controindicazioni, in quanto il nostro sistema sensomotorio e cognitivo non avrebbe appreso a trovare l’equilibrio e gli accoppiamenti strutturali adeguati con l’insolita situazione. Ciò vale peraltro per ogni apprendimento: si impara a camminare o a pedalare su due ruote essendo sostenuti da mani che progressivamente ci lasciano andare; si impara a nuotare, cioè a trovare un accoppiamento strutturale adeguato tra il proprio corpo in movimento e un ambiente fluido in cui si potrebbe sprofondare, grazie all’uso e all’abbandono progressivo di supporti (il sostegno di qualcuno, i braccioli, il tubo utilizzato comunemente nelle piscine).
Tuttavia l’apprendimento non è soltanto questione di passaggi in questo senso: la pratica e la ripetizione sono necessarie affinché il sistema nervoso apprenda e, con la ripetizione, muta la “significanza interna” (internal significance, scrive Llinás) delle cose e degli ambienti con cui si interagisce; accade così un altro genere di passaggio, relativo alla significanza delle medesime cose che, attraverso una pratica ripetuta, appaiono mutare di senso.
C’è un rapporto tra le strade già percorse (da altri o da sé) e ciò che è possibile fare in condizioni di dipendenza dal sentiero battuto (path-dependence). Analogamente, c’è un rapporto tra il già concepito, ciò che è concepibile (ma non è ancora stato concepito) e ciò che diventa o appare possibile, cambiando il modo di concepire. Se ci rappresentiamo il dominio del concepibile come uno spazio ondulato e frastagliato, la parte più popolata sarà quella del già concepito, in ragione di una disposizione a conformarsi a ciò che già c’è, percorrendo il sentiero battuto, che deriva anche dal modo in cui si strutturano le relazioni di potere e di apprendimento nella loro dimensione mimetica. Eppure la contingenza permette, anche in queste condizioni, l’evoluzione: il passaggio dal già concepito al concepibile che ne resta fuori avviene per lente modificazioni e traslazioni, con l’affiorare di incongruenze, difficoltà ed enigmi che possono portare un sistema di idee, di valori e di pratiche operative anche molto consolidato a mutare di significato, ad essere visto altrimenti, ad essere riformulato o abbandonato. Le estensioni nel dominio del concepibile diventano poi, ogni volta, anche estensioni nel dominio degli usi possibili di sé: l’accesso a tali estensioni è l’attraversare mondi di cui l’apprendimento è al tempo stesso premessa e conseguenza.
Riferimenti bibliografici
Cepollaro G., Varchetta G. (2014), La formazione tra realtà e possibilità. I territori della betweenness, Guerini Next, Milano.
Llinás R. R. (2001), I of the Vortex. From Neurons to Self, The MIT Press, Cambridge (Mass.)-London.
Morin E. (1999), Rélier les connaissances, Seuil, Paris.
Morin E. (2001), I sette saperi dell’educazione del futuro, Cortina, Milano.
Varela F. J. (1981), “Il circolo creativo: abbozzo di una storia naturale della circolarità”, in P. Watzlawick (a cura di), La realtà inventata. Contributi al costruttivismo (1981), Feltrinelli, Milano 2008; pp. 259-272.
L'APPRENDIMENTO - Betweenness: la formazione tra il reale e il possibile
* In “Formazione & Cambiamento”, Nuova serie, n. 7, 2017
Oggi, più che mai, nella formazione si avverte la necessità di un definitivo transito da un pensiero e da una pratica “oggettivante” a una centrata sulle relazioni. La ricerca neuroscientifica, confermando molte intuizioni precedenti, fornisce attualmente evidenti prove sul fondamento naturale della relazionalità, su come l’intersoggettività costituisca la base della condizione umana e sulla reciprocità quale carattere distintivo di ogni esperienza. Soggetto e oggetto, interno ed esterno, affettività e cognizione, insegnamento e apprendimento sono solo descrizioni verbali di aspetti legati ad uno stesso costrutto di base: la relazione e l’apertura verso l’altro. Caratterizzati da una costitutiva “matrice relazionale” siamo chiamati ad elaborare strategie connettendo le risorse che abbiamo a disposizione, tessendo trame nella fitta rete di interdipendenze nella quale siamo immersi. La formazione deve oggi saper prendere le distanze da una visione dell’apprendimento basata sulla trasmissione ed affermare senza esitazione che anche alla base dell’apprendimento vi è la relazione.
Nella relazione non c’è certezza, sequenzialità, linearità ma il possibile e il progetto si propongono come poli attorno ai quali pensare l’esperienza formativa. Il possibile si contrappone al prevedibile, al già dato, a ciò che è determinato. Torna alla mente l’imperativo etico di Heinz von Foerster: “agisci sempre in modo di accrescere il numero totale delle possibilità di scelta”. Seguendo questa traccia, la formazione può orientarsi verso una strategia di continua creazione di possibilità percorrendo i territori della cura, dell’attenzione, della riflessività, della narrazione, della creatività e della responsabilità. Sono questi i “territori della betweenness”, dell’intermedietà, in cui considerare la persona-che-cambia al di là di ogni tentativo di controllo.
Sono territori che con Giuseppe Varchetta in questi ultimi anni abbiamo provato ad approfondire nel testo La formazione tra realtà e possibilità (Guerini Next, Milano, 2014, prefazione di Silvano Tagliagambe) tracciando un ipotetico viaggio tra quelle pratiche che, attraverso rotte incerte e strade faticose, si orientano ad assumere le relazioni come fondamento e scorgere nuovi connessioni nel tentativo di tracciare nessi, sottili fili rossi, che cercano di riconnettere saperi ed esperienze, di ibridare codici e linguaggi.
Il percorso comincia con la cura per il suo essere struttura dell’esistenza, per la sua dimensione radicata e originaria. La cura rimanda contemporaneamente sia ad aspetti di effettività, di “ciò che si è”, che ad aspetti di possibilità, quindi di “poter essere”, che connotano qualsiasi esperienza educativa. Aver cura, quindi, significa investire nell’apertura del possibile, rendendosi disponibili all’imprevisto e all’inatteso. Il transito verso l’attenzione e la riflessività, territori prossimi e contigui, ci consegnano alla possibilità di un continuo tornare su noi stessi, di una incessante attività di selezione, ma anche di un sospendere il pensiero e lasciarlo disponibile per progettare il futuro. Un processo di apprendimento “all’altezza dei tempi” riesce ad aprirsi all’interrogazione incessante, alla ricerca ossimorica della molteplicità nell’unità, a sopportare ciò che non è ancora definito. L’azione formativa deve essere in grado di sostenere l’attenzione, da ad-tendere ossia la capacità di tendere verso, e nello stesso tempo di alimentare la disposizione riflessiva che consiste nella continua interrogazione su se stessi. Attenzione e riflessività permettono di connettere in un territorio intermedio azione-pratica ed esperienza, sperimentando l’accesso ad una terra di frontiera e di scoperta soggetta alle variazioni dinamiche di un sé erratico, conteso da motivazioni profonde diverse. La narrazione è considerata come occasione per attribuire senso e significato alla realtà, come momento di ricostruzione dell’esperienza e di connessione tra conoscenza e azione, tra dimensioni individuali e collettive. La narrazione, atto del raccontare storie, rinvia sempre alla relazione e la formazione è sempre narrativa. Nella loro relazione gli attori si raccontano cercando di giungere a rappresentazioni della realtà culturalmente negoziabili attraverso la via faticosa e incessante della ricerca di significato. Ed è proprio nella rottura della continua ricerca di senso e significato che emerge la creatività, territorio nel quale sperimentare la provvisorietà degli equilibri raggiunti per generare ciò che è assente, per dare corpo al possibile. La riflessione attorno alle condizioni che facilitano la disposizione a “tendere all’oltre” deve comunque partire dalle relazioni e dalle prassi quotidiane per concepire le storie individuali e collettive non come un destino, ma come un progetto, una scoperta e un’invenzione. L’ultimo approdo è la responsabilità intesa come relazione tra persone che domandano e rispondono, come responsabilità verso noi stessi e verso gli altri. La responsabilità rinvia al fondamento relazionale dell’azione formativa e alla reciprocità degli impegni che gli attori si assumono. I fallimenti della formazione “depositaria” rendono necessaria una concezione aggiornata della responsabilità che riconosce la possibilità di costruire la propria identità nel rapporto con l’altro e dalle relazioni in cui si è coinvolti. La responsabilità è costitutivamente relazionale: è nello stesso tempo manifestazione dell’individualità ma anche segno della socialità, essa emerge dall’intreccio tra autonomia e interdipendenza, tra sé e altro da sé. Essa riguarda sempre la relazione con l’altro, con gli altri, ed anche con l’alterità dell’avvenire: la formazione si preoccupa infatti di pensare a un “ad-venire”, per il quale non è possibile darsi alcuna caratteristica di completezza o di esaustività. L’approdo alla responsabilità è anche allo stesso tempo un ritorno al territorio di partenza nel quale la cura dell’altro e del mondo può aversi solo se accompagnata dalla cura del sé.
Nell’intendere la formazione come una pratica dell’intermedietà abbiamo cercato di sottolineare il suo essere processo di continua e ricorsiva interazione, caratterizzato da un elevato grado di flessibilità e di apertura, tra diversi livelli: tra interno ed esterno, tra soggetto e oggetto, tra realtà e finzione. I ruoli degli attori implicati nel processo formativo si ribaltano di continuo, donandosi reciprocamente senso. Così anche il rapporto tra insegnamento e apprendimento non può essere definito dalla sequenzialità di un contenuto insegnato da qualcuno e appreso da qualcun altro, ma dall’interdipendenza e dal dover sempre assumere una posizione di dialogo. È una relazione che non si qualifica con un trattino (-) ma con uno slash (/), un between, che tiene insieme pur considerando la distanza e le reciproche asimmetrie degli attori coinvolti. Abitare i “territori della betweenness” richiede di pensare un’azione formativa capace di far fare spola tra l’interno e l’esterno, il soggettivo e l’oggettivo, il concreto e l’astratto, il singolare e il generale. Sono per loro natura territori della relazione e dell’alterità, e quindi dell’ambiguità, dell’incertezza e del conflitto. Lavorare in questi territori richiede l’abbandono dell’idea di completezza ed esaustività di qualsiasi azione formativa e l’allontanamento dalla ricerca di una finalità di ogni apprendimento. Richiede di privilegiare l’attesa e non la pretesa (“Attesa” è il titolo della fotografia di copertina di Varchetta che abbiamo scelto per questo numero), di sostenere una ricerca erratica ma non per questo senza valore, richiede la coscienza della propria fragilità e vulnerabilità mentre si riconosce la forza dell’essere aperti al possibile e per questo continuamente in fieri. Richiede di scoprirsi viaggiatori esposti alla contingenza, agli scarti, alla varianza, allo stupore e a una continua ristrutturazione del sapere. Richiede in altre parole di intraprendere il cammino verso una epistemologia dell’intermedio in cui considerare il valore della discontinuità, dei breakdown, degli inattesi mantenendo aperta una tensione tra l’esistente e il possibile, tra “ciò che si è” e “ciò che si può divenire”. Perché come ci ricorda Robert Musil in L’uomo senza qualità se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità”.
L'APPRENDIMENTO - Oggetti sfocati. Note sui filoni della ricerca sociale italiana sull’apprendimento nella società dell’apprendimento
LE COMPETENZE - Sulle competenze, Intervista a Piergiovanni Bresciani
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LE COMPETENZE - Visioni professionali, expertise e competenze: un approccio etnografico
APPRENDIMENTO E ORGANIZZAZIONI - Lifelong learning nella knowledge economy globale
Modello di apprendimento tradizionale | Lifelong learning |
L’insegnante è la fonte dell’apprendimento | Gli educatori sono guide alle fonti di conoscenza |
Gli allievi ricevono la conoscenza dall’insegnante | Le persone apprendono facendo (learning by doing) |
Gli allievi lavorano da soli | Le persone apprendono in gruppi e l’una dall’ altra |
I test sono utilizzati per impedire che gli studenti vadano avanti fino a che non abbiano completamente acquisito un set di skills e la possibilità di accedere ad ulteriori apprendimenti | La valutazione è utilizzata per guidare le strategie di apprendimento e per identificare i sentieri successivi dell’apprendimento |
Tutti gli allievi fanno la stessa cosa | L’educatore sviluppa piani di apprendimento individualizzato |
Gli insegnanti ricevono formazione iniziale e formazione addizionale ad hoc in servizio |
Gli educatori sono lifelong learners. La formazione iniziale ed in itinere è legata allo sviluppo professionale
|
I “buoni allievi” sono identificati ed a loro è garantita la possibilità di proseguire gli studi | Le persone hanno accesso ad opportunità di apprendimento durante tutto l’arco dell’esistenza |
APPRENDIMENTO E ORGANIZZAZIONI - Riflessioni sull'opportunità autoformativa, Intervista a Gian Piero Quaglino
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APPRENDIMENTO E ORGANIZZAZIONI - L’azione formativa nelle organizzazioni tra adattamento e apprendimento
APPRENDIMENTO E ORGANIZZAZIONI - HR al tempo della modernità liquida


APPRENDIMENTO E ORGANIZZAZIONI - Valorizzare le risorse umane attraverso percorsi innovativi di formazione
APPRENDIMENTO E ORGANIZZAZIONI - Il ruolo dell’università nella società della conoscenza
IL DIGITALE - Competenze e professionalità digitali nella Società della conoscenza e dell’innovazione
* In “Formazione & Cambiamento”, Nuova serie, n. 12, 2018
Un punto va chiarito fin dall’inizio: competenza digitale non è sinonimo di competenza informatica. Mentre l’ultima è principalmente riferita alla capacità di utilizzare uno strumento, una tecnologia come un PC o un qualsiasi altro device o un software, la prima è la capacità di essere, in modo consapevole e partecipe, attori nella Società della conoscenza e dell’innovazione che, per l'appunto, è da alcuni decenni una società digitale, una società 5.0 in piena economia 4.0.
In Europa, da più di un lustro si discute di competenze digitali, e dal 2013 sono stati elaborati tre documenti progressivi a proposito: Digcomp nel 2013, Digcomp 2.0 nel 2016 e Digcomp 2.1 nel 2017.
Di questi tre documenti tratteremo in seguito, non dopo aver introdotto un altro argomento sul quale per molti annisi è dibattuto per giungere, ancora prima, a elaborare una comune definizione di competenza, in assenza di un unico sistema di classificazione europeo.
Infatti, la competenza è uno dei concetti sul quale da tempo dibattono molti attori, tra questi gli educatori e i formatori, i decisori politici, gli imprenditori. Oggetto di attenzione da sempre degli studiosi umanisti, oggi si parla di competenza nei documenti europei e in quelli dei manager aziendali. E, ovviamente, nelle scuole. Così è su questo concetto che oggi convergono esperienze talvolta distanti, se non divergenti, quelle delle istituzioni formative, delle istituzioni politiche, delle imprese e delle organizzazioni.
In questo contributo per un numero sulla Scuola, il nostro interesse non va soltanto agli aspetti statici del concetto di competenza, ai problemi definitori o a quelli meramente teorici; il nostro interesse è piuttosto rivolto alla competenza come concetto dinamico, come indicatore di sviluppo personale e professionale e di innovazione sociale e organizzativa. E confrontare le visioni statiche o dinamiche del concetto di competenza ci conduce dentro una questione interessante, quella dei saperi necessari e indispensabili per i cittadini della società della conoscenza e dell’apprendimento, che la Scuola è chiamata a interpretare ed elaborare di continuo come sua missione precipua.
La Società della conoscenza è una definizione ormai diffusa, uscita dai documenti europei di Lisbona 2000 per giungere nei media e per entrare nel linguaggio comune. Ma proprio mentre si andava diffondendo questa cultura della centralità della conoscenza, l’Europa forniva nei suoi documenti e diffondeva con le sue politiche una nuova definizione più articolata di quella che alla fine viene oggi indicata come Società della conoscenza e dell’apprendimento.
Ad una prima lettura, distratta, le due definizioni potrebbero sembrare simili, se non intercambiabili, mentre sono l’integrazione l’una dell’altra. E se il dibattito sulla Società della conoscenza aveva portato ad una classificazione dei requisiti distintivi e dei criteri per essere dentro o fuori la società avanzata, i contributi sulla Società dell’apprendimento stanno spostando l’attenzione dall’oggi al domani, dall’avere la conoscenza all’essere competente.
Può risultare utile, a questo punto, soffermarci sul significato che viene attribuito al concetto di competenza e ai due indirizzi teorici che hanno fornito su questo il contributo più significativo, quello americano e quello inglese.
I due indirizzi si differenziano già dal termine che viene utilizzato: competence (al plurale competences) per gli inglesi, competency (al plurale competencies) per gli americani.
Ma la distinzione è più che nominale:
- competence per l’indirizzo inglese indica una capacità, una attitudine soggettiva, necessaria e indispensabile per svolgere una attività; le competenze sono così direttamente legate a un compito e alle skill del lavoratore
- competency identifica invece una prestazione eccellente del singolo nello svolgimento di una attività; la competenza la capacità dell’individuo di raggiungere una prestazione elevata, e viene utilizzata anche per selezionare e premiare le migliori prestazioni aziendali.
In Italia, è l’INAPP, Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubblichea fornire una definizione, una classificazione e un modello per le competenze, per agganciare il più possibile il nostro paese all’Europa. Per l’INAPP:
“competenza è l’insieme delle conoscenze teoriche e pratiche, delle abilità e delle capacità che consentono a un individuo un adeguato orientamento in uno specifico campo d’azione. La competenza si connota quindi come conoscenza in azione: in essa emerge la componente operativa della conoscenza, ossia la presenza di un costante orientamento a saldare sapere e saper fare, anche in situazioni contraddistinte da un elevato livello di complessità, che quindi esigono schemi altrettanto complessi di pensiero e di azione.”[1]
Basato su questa definizione, è il sistema di classificazione delle competenze, nel quale l’INAPP utilizza tre macro-categorie: competenze di base, competenze tecnico professionali, competenze trasversali.
Le competenze di base, ritenute indispensabili per lo svolgimento efficace ed efficiente di una attività lavorativa, sono le seguenti: Lingua inglese, Informatica di base, Organizzazione aziendale, Diritto sindacale e del lavoro, Tecniche di ricerca attiva del lavoro, Economia di base.
Le competenze tecnico professionali variano da un settore lavorativo ad un altro, e vanno mappate e classificate empiricamente con una attenta analisi dei processi lavorativi, del loro svolgimento e della loro innovazione tecnica.
Le competenze trasversali sono[2] "un insieme di abilità di ampio spessore che sono implicate in numerosi tipi di compiti, dai più elementari ai più complessi, e che si esplicano in situazioni tra loro diverse e quindi ampliamente generalizzabili. La loro individuazione può essere frutto dell'analisi e della scomposizione dell'attività del soggetto al lavoro posto di fonte al compito. Tale analisi consente di enucleare tre grandi tipi di operazioni che il soggetto compie, fondate su processi di diversa natura (cognitivi, emotivi, motori) e che:
- fanno "riferimento ad operazioni fondamentali proprie di qualunque soggetto posto di fronte ad un compito lavorativo (e non)"
- sono presenti in tutte le esperienze del soggetto non solo in quelle lavorative
- "non sono connesse specificamente ad una determinata attività o posizione lavorativa", ma "entrano in gioco nelle diverse situazioni" e condizionano "la possibilità degli individui di esprimere comportamenti professionali <<abili>> o <<esperti>> e di trasferire competenze da un ambito lavorativo ad un altro
- "consentono all'individuo di sviluppare la propria competenza in attività differenti (transfer)"
- si apprendono per via formale, informale, non formale
- possono sempre essere potenziate con appositi percorsi formativi
- la prima è la base delle altre due, la terza presuppone le altre due.
E ancora, le competenze trasversali sono:
- "diagnosticare le caratteristiche dell'ambiente e del compito", analizzare capire rappresentare la situazione, il problema, se stessi (le risorse che possono essere utilizzate o incrementate all'occorrenza) come condizione indispensabile "per la progettazione e la esecuzione di una prestazione efficace" (abilità cognitive)
- relazionarsi, "mettersi in relazione adeguata con l'ambiente", le persone e le cose di un certo contesto per rispondere alle richieste (abilità interpersonali o sociali: insieme di abilità emozionali, cognitive e stili di comportamento, ma anche abilità comunicative)
- affrontare, fronteggiare, "predisporsi ad affrontare l'ambiente e il compito, sia mentalmente che a livello affettivo e motorio", "intervenire su un problema (uno specifico evento, una criticità, una varianza e/o una anomalia) con migliori probabilità di risolverlo", costruire e implementare le "strategie di azione, finalizzate al raggiungimento degli scopi personali del soggetto e di quelli previsti dal compito".
La crescente attenzione alle competenze trasversali è indicata anche dall’ampio spazio riservato allo standard del CV Europass, che come sviluppo del CV Europeo, richiede di descrivere in dettaglio le competenze sociali (come la capacità di lavorare in gruppo, agire in contesti multiculturali, comunicare in modo efficace, ecc.), quelle organizzative (es. leadership, organizzazione del lavoro, gestione di gruppi e progetti), quelle artistiche (nella musica, nella scrittura, nel disegno, ecc.), oltre che quelle linguistiche, informatiche e tecniche.
Sempre riguardo le competenze è indispensabile ricordare che esistono in ambito nazionale e europeo diverse classificazioni sulle competenze chiave per l’apprendimento, non sovrapponibili.
Nel 2006 è stata pubblicata la raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa a otto “competenze chiave per l’apprendimento permanente”, che sono: la comunicazione nella madrelingua; la comunicazione nelle lingue straniere; la competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; la competenza digitale; l’imparare a imparare; le competenze sociali e civiche; lo spirito di iniziativa e l’imprenditorialità; la consapevolezza ed espressione culturale.
In Italia la raccomandazione è stata recepita nel 2007, ma con modifiche sostanziali per il vincolo generato da una divisione rigida tra le diverse discipline molto marcata nel nostro sistema scolastico. Sono stati così definiti da un lato gli Assi culturali (asse dei linguaggi, asse matematico, asse scientifico-tecnologico, asse storico e sociale) e dall’altro otto “competenze chiave per la cittadinanza”: imparare ad imparare; progettare; comunicare; collaborare e partecipare; agire in modo autonomo e responsabile; risolvere problemi; individuare collegamenti e relazioni; acquisire e interpretare l’informazione.
Ma torniamo alle competenze digitali, rispetto alle quali i dati in Europa non sono molto rassicuranti: benché il 95% dei cittadini tra il 16 e i 24 anni sia un regolare utilizzatore di Internet, meno della metà degli studenti usa strumenti digitali per l’apprendimento. Per qualcuno non potrà sembrare un problema, per altri forse potrebbe essere meglio così, ma nella realtà la mancanza di competenze digitali diventa poi una barriera nell’età lavorativa e un ostacolo per una cittadinanza piena per la popolazione, soprattutto la più anziana.
Analizziamo brevemente l’ultima versione del DigComp 2.1: The Digital Competence Framework for Citizens: with eightproficiency levels and examples of use del 2017[3], che ha aggiornato in modo significativo i precedenti documenti del 2016 e 2013.
Nella versione DigComp 2.1 viene posta, anche con l’uso di un’efficace infografica di sintesi (Imparare a nuotare nell’Oceano Digitale), una particolare attenzione a quelli che sono individuati come gli 8Livelli di padronanza, già proposti in altri documenti europei. Ma, in particolare, viene fatta proprio una integrazione dei diversi modelli utilizzati per la descrizione e analisi della professione, fino al recupero della ben consolidata Bloom’sTaxonomy (dalla quale è stata omesso il dominio cognitivo Analyzing): Remembering; Understanding; Applying; Evaluating; Creating.Che nella versione italiana dell’Agid, che qui utilizzeremo, diventano: Ricordo, Comprensione, Applicazione, Valutazione, Creazione.
Fonte:DigComp 2.1:Il Quadro dellecompetenzeeuropeedigitali periCittadini
Interessante è poi il richiamo ai documenti correlati al DigComp, nella versione Educatori, Organizzazioni e Consumatori: Digital competence frameworks for educators (DigCompEdu); Educational organisations (DigCompOrg); Consumers (DigCompConsumers).
Per un maggior dettaglio, il DigComp Framework ha cinque dimensioni:
- Dimensione 1: Aree di competenze individuate come facenti parte delle competenze digitali
- Dimensione 2: Descrittori delle competenze e titoli pertinenti a ciascuna area
- Dimensione 3: Livelli di padronanza per ciascuna competenza
- Dimensione 4: Conoscenze, abilità e attitudini applicabili a ciascuna competenza
- Dimensione 5: Esempi di utilizzo sull’applicabilità della competenza per diversi scopi
Nel DigComp si individuano 5 Aree di competenze (Dimensione 1), che raggruppano 21 Competenze (Dimensione 2):
- Area delle competenze 1: Alfabetizzazione su informazioni e dati
- Area delle competenze 2: Collaborazione e comunicazione
- Area delle competenze 3: Creazione di contenuti digitali
- Area delle competenze 4: Sicurezza
- Area delle competenze 5: Risolvere problemi
Nella tabella che segue riportiamo uno schema di sintesi del 2016, confermato nel 2017, delle 5 Aree di competenze (Dimensione 1) e del dettaglio delleCompetenze (Dimensione 2):
Aree di Competenza (Dimensione 1) |
Competenze (dimensione 2) |
1. Alfabetizzazione su informazioni e dati |
1.1 Navigare, ricercare e filtrare dati, informazioni e contenuti digitali 1.2 Valutare dati, informazioni e contenuti digitali 1.3 Gestire dati, informazioni e contenuti digitali |
2. Comunicazione e collaborazione |
2.1 Interagire attraverso le tecnologie digitali 2.2 Condividere informazioni attraverso le tecnologie digitali 2.3 Esercitare la cittadinanza attraverso le tecnologie digitali 2.4 Collaborare attraverso le tecnologie digitali 2.5 Netiquette 2.6 Gestire l’identità digitale |
3. Creazione di contenuti digitali
|
3.1 Sviluppare contenuti digitali 3.2 Integrare e rielaborare contenuti digitali 3.3 Copyright e licenze 3.4 Programmazione |
4. Sicurezza |
4.1 Proteggere i dispositivi 4.2 Proteggere i dati personali e la privacy 4.3 Proteggere la salute e il benessere 4.4 Proteggere l’ambiente |
5. Risolvere problemi
|
5.1 Risolvere problemi tecnici 5.2 Individuare fabbisogni e risposte 5.3 Utilizzare in modo creativo le tecnologie digitali 5.4 Individuare divari di competenze digitali |
A queste Dimensione 1 e Dimensione 2, come anticipato, il DigComp 2.1 del 2017 associa 8 Livelli di padronanza (Dimensione 3):
- 1 e 2 Base
- 3 e 4 Intermedio
- 5 e 6 Avanzato
- 7 e 8 Altamente specializzato.
Gli 8 Livelli di padronanza sono stati definiti attraverso i risultati dell'apprendimento (utilizzando i verbi di azione e i domini cognitivi della tassonomia di Bloom) e ispirati alla struttura e al vocabolario del Quadro Europeo delle Qualifiche (EQF). Inoltre, ogni descrizione di livello contiene conoscenze, abilità e atteggiamenti, espressi con un singolo descrittore per ogni livello di ogni competenza. Tutto questo porta alla individuazione di 168 descrittori (8 per 21 risultati di apprendimento).
Il DigComp 2.1 prosegue con la descrizione di tutte le cinque Dimensioni, con tabelle molto dettagliate, utili per la classificazione delle competenze nella formazione e nell’esercizio di una professione.
[1] La definizione è tratta dal sito INAPP, www.INAPP.it
[2] Questo ampio brano è tratto dal volume di Gabriella Di Francesco (a cura di), Unità capitalizzabili e crediti formativi. Metodologie e strumenti di lavoro eI repertori sperimentali, INAPP, Franco Angeli, Milano 1998
[3]Il documento è scaricabile nella sua versione originale all’indirizzo:
http://publications.jrc.ec.europa.eu/repository/bitstream/JRC106281/web-digcomp2.1pdf_(online).pdf
La versione italiana è consultabile e scaricabile all’indirizzo:
IL DIGITALE - La trasformazione digitale del lavoro
* In “Formazione & Cambiamento”, Nuova serie, n. 3, 2016
Premessa
Le tecnologie dell’informazione (Internet, il web 2.0 e la cosiddetta “terza piattaforma” (1) …) stanno modificando radicalmente la società, il modo di vivere, lavorare e fare azienda perché modificano il modo di produrre e gestire le informazioni e quindi intervengono altrettanto radicalmente su modi, costi, tempi e competenze necessari alla produzione, gestione e utilizzo delle risorse che sono basate su di essa.
Le risorse basate sull’informazione, note come risorse invisibili (o intangibili (2)) , sono fondamentali per il buon funzionamento (e quindi per il successo) di Aziende e Pubbliche Amministrazioni, tra esse: la fiducia degli utenti, l’immagine del brand, la capacità di gestire sia persone e processi interni che relazioni e processi verso clienti, fornitori e partner.
Le risorse invisibili più rilevanti come la reputazione aziendale, la conoscenza del mercato o le competenze interne, sono “incorporate” nelle persone che interagiscono con l’organizzazione (clienti, dipendenti, rete commerciale…), sfuggono alla gestione esplicita dell’organizzazione e vengono trasmesse sui canali formali e informali a disposizione degli individui: passaparola, social networks, posta elettronica, riunioni, incontri diretti con clienti, colleghi, fornitori e partner. Per questo motivo la gestione delle persone e dell’organizzazione del lavoro, proprio a causa della tecnologia, diventa un fattore sempre più critico per il successo delle organizzazioni.
Risorse invisibili e processi operativi: perché la trasformazione digitale del lavoro
La rilevanza delle risorse basate sull’informazione nelle economie avanzate è dimostrata dal fatto che più del 60% della forza lavoro e oltre il 70% del costo del lavoro in paesi come Stati Uniti, Germania, Inghilterra e Francia sono dedicati ad attività basate sull’informazione (3) .
Le risorse invisibili possono essere suddivise in tre tipologie: ambientali, interne e aziendali.
- Le risorse ambientali si originano nell’ambiente (4) e sono usate dall’organizzazione: le richieste dei consumatori, la percezione del prodotto/servizio da parte degli utenti, l’immagine dell’azienda,...
- Le risorse interne si originano e vengono usate all’interno dell’organizzazione: la conoscenza del mercato e dei concorrenti, le conoscenze operative e di processo,…
- Le risorse aziendali si originano nell’organizzazione e vengono da essa trasferite all’ambiente: le comunicazioni di marketing, il supporto ai clienti, le interazioni della front-line con i clienti,…
Le risorse ambientali sono l’input dell’ambiente verso l’organizzazione, la quale le elabora internamente integrandole con le informazioni che emergono dai processi (risorse interne) per generare le informazioni (i.e. risorse) aziendali da trasferire all’ambiente secondo gli obiettivi/compiti dell’organizzazione.
Così ad esempio, nel caso venga rilevato dagli utenti un problema in un prodotto/servizio (informazione ambientale), le informazioni relative vengono raccolte e analizzate alla luce delle informazioni interne, vengono apportate le modifiche necessarie al prodotto e/o ai processi interessati e le informazioni che ne derivano, i.e. la soluzione del problema, vengono comunicate agli utenti interessati (informazione aziendale), contribuendo a modificare soddisfazione degli utenti, immagine del brand, etc.. Questo tipo di interazione tra utenti e organizzazioni è cambiato radicalmente nella forma e nella sostanza con il diffondersi delle nuove tecnologie, ad esempio dei social networks.
In generale sono i processi interni a generare il contenuto da trasferire all’ambiente e quindi ad avere un ruolo chiave nel ciclo con cui l’organizzazione elabora l’input ambientale e reagisce (i.e. comunica) efficacemente verso l’ambiente; l’accelerazione di questo ciclo prodotta dalla tecnologia sta rapidamente trasformando i processi interni, e quindi il lavoro e la sua organizzazione, nell’anello debole della catena con cui le organizzazioni interagiscono con l’esterno; tempestività, qualità e accuratezza delle informazioni prodotte dai processi interni, devono necessariamente essere tali da generare informazioni (e quindi interazioni) aziendali verso l’ambiente coerenti nei tempi e nei modi con le aspettative di un contesto ormai abituato ai tempi e modi della nuova comunicazione interpersonale, come per esempio quella dei social network, pena la marginalizzazione (se non la scomparsa) dell’intera organizzazione.
La tecnologia è la risposta, ma qual è la domanda?
Se l’organizzazione vuole essere in grado di interagire adeguatamente con l’ambiente è abbastanza evidente che l’uso, anche internamente all’organizzazione, degli stessi paradigmi tecnologici utilizzati nell’ambiente può essere d’aiuto, a condizione che si tenga presente che l’obiettivo non è tanto l’utilizzo della tecnologia in quanto tale, quanto la capacità dell’organizzazione di reagire alle informazioni ambientali nei modi e nei tempi consentiti dalla tecnologia.
Non è quindi questione di uso di una tecnologia, ma di uso delle tecnologie disponibili in funzione degli obiettivi (di servizio) da raggiungere. La tecnologia è un fattore strategico di successo solo a condizione che l’organizzazione abbia la chiara percezione dell’esistenza, del ruolo e dell’importanza delle proprie risorse intangibili e un’altrettanto chiara strategia su come utilizzarle per il conseguimento dei propri fini.
È la gestione delle risorse invisibili, soprattutto interne per i motivi visti sopra, e non la tecnologia (anche se tramite la tecnologia) a essere un fattore chiave per l’affermazione dell’organizzazione nel proprio ambiente e nel nuovo contesto tecnologico: mercato per le aziende, società per le pubbliche amministrazioni.
Perché il lavoro non è più un posto?
La fabbriche nascono con la prima rivoluzione industriale come luogo dove poter disporre economicamente e simultaneamente dei fattori di produzione necessari alla produzione di beni e/o servizi: forza lavoro, macchinari, materie prime, competenze delle persone.
In origine lo stessa valeva per le informazioni (le risorse invisibili): prima dell’introduzione delle tecnologie informatiche la gestione dell’informazione coincideva con la gestione fisica dei suoi supporti. Così le informazioni venivano raccolte su carta, sintetizzate ed elaborate in documenti sempre cartacei e conservate negli uffici aziendali. Conseguentemente, anche le attività concettuali potevano essere svolte solo dove (i supporti de) le informazioni e le competenze dei colleghi erano disponibili: negli uffici.
Questo non è cambiato quando, in tempi più recenti, le informazioni, anche se in formato digitale, venivano (e in gran parte vengono ancor oggi) gestite utilizzando infrastrutture informatiche private accessibili per la maggior parte, per legittimi motivi di costi e di sicurezza, solo all’interno degli edifici aziendali. Tutti i processi produttivi, di beni e servizi, la loro organizzazione e la gestione delle relative informazioni sono stati progettati a partire da questi presupposti.
Con la trasformazione dell’economia (globalizzazione, delocalizzazione, terziarizzazione,…), risulta sempre più difficile concentrare l’intero ciclo produttivo di un bene o di un servizio in uno stesso luogo fisico e sotto il governo della stessa organizzazione: sempre più spesso un singolo processo coinvolge risorse tangibili e intangibili (e quindi anche persone) collocate in sedi diverse e appartenenti o meno alla stessa organizzazione (5).
In questo caso sedi e strutture tecnologiche private si trasformano in barriere, anche di costo, all’evoluzione dei processi e alla trasformazione in senso competitivo dell’organizzazione, trasformando il poter/dover disporre in uno stesso luogo fisico di tutte le informazioni necessarie allo svolgimento delle attività (comprese le competenze delle persone) da vantaggio economico a generatore di inefficienza se non di malfunzionamenti. Una buona misura di questo fenomeno è l’aumento esponenziale delle attività di comunicazione (riunioni, trasferte, e-mail, video conferenze, etc…) tra sedi, funzioni e unità organizzative della stessa azienda, di clienti, fornitori e/o partner, problematica che affligge la quasi totalità delle organizzazioni.
Le nuove tecnologie, essendo basate su standard pubblici (Internet) e garantendo livelli di sicurezza ormai adeguati all’uso aziendale, si propongono come una valida soluzione consentendo di affrontare e risolvere in maniera soddisfacente, anche dal punto di vista dei costi oltre che dell’efficienza, il problema della gestione e dell’utilizzo delle informazioni (e quindi delle risorse invisibili) quando i processi si svolgono tra luoghi e organizzazioni diverse. La loro adozione si rivela quindi necessaria nello svolgimento della maggior parte delle attività lavorative (i.e. quelle legate al trattamento delle informazioni) nel nuovo contesto economico; l’affermarsi di nuove forme di organizzazione del lavoro come lo smart working e il lavoro agile è tra i primi segni di questa trasformazione.
Perché la tecnologia è solo una (piccola) parte della risposta
Tuttavia, se le tecnologie possono essere uno strumento valido e necessario per gestire le informazioni legate anche ai processi interni, esse non sono sufficienti per garantire un’interazione adeguata alle aspettative dell’ambiente; esse incidono sui tempi e i modi di gestione e trasferimento delle informazioni, ma solo indirettamente sui tempi e la qualità dei processi nel loro insieme, fattori che sono invece fortemente connessi al modo in cui è organizzato il lavoro e gestita l’organizzazione, a cominciare dai processi decisionali.
Poter trasferire le informazioni in frazioni di secondo, quando livelli e tempi di decisione rimangono immutati, genera frustrazione nel personale, rende inutili i vantaggi resi possibili dalla tecnologia e uno spreco i relativi investimenti.
Adottare nuove tecnologie di comunicazione (e di gestione dell’informazione in genere) può infatti risultare controproducente dal punto di vista del risultato se non si mette mano ai processi e alla gestione delle persone nel loro insieme, riprogettandoli attorno ai nuovi modi di comunicare e gestire le informazioni, ovvero se processi e organizzazione non sono coerenti con i nuovi modi e strumenti del comunicare all’interno dell’organizzazione e tra le organizzazioni, se cioè non si passa dalla semplice adozione delle tecnologie digitali alla trasformazione digitale del lavoro.
(Conclusioni)
L’intera economia sta subendo una profonda trasformazione legata alla diffusione delle tecnologie digitali rese disponibili dalla rete. Questo processo tocca essenzialmente la gestione delle risorse intangibili che hanno nell’informazione la loro materia prima e che costituiscono una parte crescente del mix di prodotti e servizi erogati da Aziende e Pubbliche Amministrazioni
L’interazione delle organizzazioni con gli utenti muove dalle informazioni originate nell’ambiente e si chiude con le informazioni trasmesse dall’organizzazione all’ambiente frutto delle attività interne, del lavoro e della sua organizzazione.
Affinché questa interazione sia tempestiva e qualitativamente adeguata è necessario che il lavoro e la sua organizzazione subiscano una trasformazione analoga a quella intervenuta nell’interazione tra l’organizzazione e il mondo esterno. Questa trasformazione non può essere limitata alla sola adozione di tecnologie simili alle tecnologie utilizzate dagli utenti, ma deve prevedere necessariamente anche il ridisegno dei processi e dell’organizzazione attorno alle possibilità offerte dalle tecnologie; smart working e lavoro agile sono solo i primi segni di questa trasformazione.
(1) http://en.wikipedia.org/wiki/Third_platform
(2) Il ruolo delle risorse invisibili nella gestione aziendale è stato ben descritto alla fine degli anni ’80 da Y. Itami
(3) SI tratta della somma delle attività codificate di elaborazione di informazioni (attività di tipo transattivo: es. impiegati, cassieri di banca,…) e delle attività che richiedono che richiedono interazioni con altri, giudizio indipendente o comunque non standardizzabili (es. manager, professionisti, venditori,…).
(4) Per ambiente intendiamo il contesto in cui l’organizzazione si muove: utenti, partecipanti, fornitori, partner, istituzioni, parti sociali,…
(5) Da uno studio del CEB (http://www.cebglobal.com/) basato su circa 23.000 interviste di dipendenti di aziende dei paesi industrializzati risulta che, nel 2012, sono significativamente aumentati: le attività che richiedono collaborazione attiva (67%), il numero di persone coinvolte nei processi decisionali (50%), il numero di colleghi di altre sedi con cui collaborare (57%). Risulta inoltre che il 60% di essi collabora con più di 10 persone, mentre il 65% gestisce relazioni con persone esterne all’azienda nello svolgimento delle proprie attività