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N° 18/ 2021 - Ventennale II – Dimensioni soggettive, sociali e pratiche dell'apprendere

 

 
 

* In “Formazione & Cambiamento”, n. 17, 2003
 
1. Metacompetenze e modelli di organizzazione postindustriale
L'affermarsi dei concetti di conoscenza e di competenza è evidentemente legato al processo di evoluzione che ha interessato i modelli organizzativi e formativi della società contemporanea. All'interno del generale processo di cambiamento che sta interessando oggi le organizzazioni, osservano Telmo Pievani e Giuseppe Varchetta (1), la continua creazione di conoscenza tende a configurarsi come un fattore competitivo di grande rilevanza. Questo processo di creazione della conoscenza come vantaggio competitivo all'interno delle sfide, aperte dall'economia della globalizzazione, emancipa definitivamente la risorsa umana da variabile dipendente a variabile indipendente e riporta in luce le economie della mente, vale a dire l'economia della creatività, dell'incertezza, della complessità, in ultima analisi l'economia dell'uomo. Con lo sviluppo delle tecnologie dell'informazione il lavoro è sempre meno descrivibile in termini di azioni fisicamente rappresentabili e sempre più in termini di processi cognitivi. "La globalizzazione ha scardinato i circuiti cognitivi chiusi ed ha aperto le soglie delle organizzazioni a una circolazione contaminante e contaminantesi di saperi originatisi in contesti lontani dove gli uomini e le donne pur compiendo gesti simili nutrono emozioni e pensieri diversi. È la transcontestualità, l'interazione tra contesti che alimenta la formazione delle competenze nei singoli luoghi dell'economia mondiale" (2) Le conoscenze e le competenze tendono a non stratificarsi in un solo punto ma a crescere trasferendosi da un punto ad un altro con un incessante interscambio di know-how e skill.
L'interpretazione dei fenomeni organizzativi tende dunque a spostare l'accento dai fattori realizzativi a quelli decisionali in misura tale che i momenti dell'informazione, della comunicazione e della decisione diventano prioritari. Le organizzazioni tendono a non avere luoghi fisici di riferimento ed a configurarsi come sistemi di informazione, vale a dire di interazione e di scambio tra tecnologie dell'informazione. La dimensione fondamentale della realtà organizzativa diventa la dimensione concettuale, cognitiva, legata alla creazione ed alla diffusione del sapere.
"E' evidente - come osserva Paolo Serreri (3) - che siamo di fronte a una rivoluzione che investe in primo luogo la sfera della mentalità e della filosofia che impronta la produzione, i consumi e gli stessi stili di vita. In un contesto caratterizzato dalla forza e dalla rilevanza dell'innovazione tecnologica, quindi dalla scomparsa di tutte le figure prevalentemente legate al rapporto diretto con determinati tipi di utensili o di macchinari e dall'emergenza di figure dotate di competenze più allargate, appare chiaro che le nuove professionalità destinate ad avere sempre più spazio vanno intese in senso relazionale-informativo-decisionale. Tutto ciò porta in primo piano i valori e gli elementi che stanno alla base della competenza, a partire dal quadrinomio sapere, saper-fare, sapere-essere, saper vivere insieme".
Dal punto di vista del management delle risorse umane, la gestione delle competenze tende a diventare un obbligo sempre più vincolante per le imprese. Tanto quanto quelle delle risorse tecnologiche e proprio questo fatto ha suggerito ad Aubret che "la gestione delle competenze si situa esattamente nell'interfaccia tra il management delle risorse umane e il management delle risorse tecnologiche" (4).
 
L'importanza e l'ampiezza del problema legato alla creazione ed alla crescita delle competenze è legata al fatto che questo problema interessa sia l'individuo che l'impresa, sia la scuola che la famiglia. A questo si aggiunge il fatto che le competenze costituiscono l'esito di un processo di apprendimento continuamente mutevole e che proprio per questo devono essere scoperte, stimolate, indirizzate, conservate e coltivate.
E' all'interno di questa prospettiva che Jacques Delors colloca la definizione di competenza all'interno di uno dei quattro pilastri dell'educazione per il XXI secolo: l'imparare a fare. Gli altri tre pilastri, cui il primo è fortemente legato, sono l'imparare a conoscere, l'imparare a vivere insieme e l'imparare ad essere. L'obiettivo di Delors è evidentemente quello di dare sostanza alle coordinate strategiche della società della conoscenza ed in tal senso la competenza è la materia prima dell'imparare a fare: di un imparare a fare che nel terzo millennio sarà molto diverso da come lo abbiamo inteso in passato in quanto legato, come si è già detto, alla supremazia dell'elemento cognitivo e informativo come fattore chiave dei sistemi di produzione. Con la fine della società industriale è destinata a tramontare definitivamente l'idea di abilità professionale, in relazione alla capacità astratta di eseguire un compito, per fare spazio a quella di competenza essenzialmente intesa sotto il segno della personalizzazione, della multilateralità e della poliedricità (5).
Il concetto di metacompetenza finisce per configurarsi nei termini della capacità, propria ad ogni individuo, di adattarsi e riadattarsi alle dinamiche evolutive del suo sistema ambientale e relazionale di riferimento, costruendo e trasformando continuamente i propri modelli di conoscenza e di azione.
Questa interpretazione del concetto di metacompetenza, di natura strettamente costruttivista, tende fortemente ad avvicinarsi a quel concetto di competenza strategica che Aureliana Alberici definisce in termini del saper apprendere lifelong. Competenza che, nelle sue molteplici dimensioni, si fonda sulla categoria concettuale dell’apprendere ad apprendere e sulle sue implicazioni formative (6).
La nozione di competenza strategica ha precise implicazioni sul piano operativo, nella misura in cui chiama in causa quelle abilità/dimensioni che sono, appunto, strategiche perché un individuo sia in grado di sapere apprendere in diversi contesti e lungo tutto l'arco della vita. Da ciò deriva la qualità strategica che si attribuisce a questo tipo di competenze-risorse. Da ciò emerge egualmente la possibilità di indicare come nuovi contenuti dell’apprendimento non solo i contenuti di conoscenze specifiche, non solo le procedure della “cognizione”, ma gli stessi saperi taciti, che consentono lo sviluppo della dimensione proattiva delle competenze, in specifico di quelle strategiche per il lifelong.
 
A partire dalla definizione della competenza nei termini di un mix e del modo in cui questo mix si mobilita e si ridefinisce nelle situazioni e nelle relazioni della vita sociale e del lavoro, anche Giampiero Quaglino specifica che la competenza è legata a quelle abilità di un individuo date dall'insieme delle sue conoscenze, capacità, doti personali e doti professionali di comportamento sociale e di attitudine al lavoro, di iniziativa e di disponibilità ad affrontare rischi, di capacità di affrontare e di risolvere conflitti.
La competenza strategica finisce dunque per evocare una pluralità di dimensioni: cognitive, emotive, sociali, linguistico-narrative. Essa riguarda in definitiva una disposizione fondamentale, flessibile e adattiva, legata a capacità individuali relazionali, affettive, di responsabilità, orientamento, progettazione e intervento sul reale. Si tratta di ciò che in altri termini si può definire la metafora degli “attrezzi del mestiere per comprendere e per poter essere attori sociali nella Knowledge Society"  (7).

2. Teorie della conoscenza e dell'apprendimento nella nascita della Knowledge Society
E' possibile cogliere un nodo essenziale di discussione dei temi relativi alla natura della conoscenza e dell'apprendimento in corrispondenza alla realizzazione delle prime macchine intelligenti, intorno agli anni '50. La ricchezza e la rilevanza dei temi trattati in questo momento, all'interno di questo nodo epistemologico, appare tanto più significativa se si pensa che tali temi vengono affrontati in relazione alla costruzione dei primi calcolatori e dunque, per molti aspetti, proprio in relazione alla nascita di quella che verrà definita la Società della Conoscenza.
E' all'inizio degli anni '50 che, negli Stati Uniti come in Europa, diversi rappresentati delle nascenti scienze cognitive prendono parte alla realizzazione di un importante progetto di ricerca. Il progetto è finalizzato alla costruzione delle prime macchine intelligenti e vede la collaborazione di studiosi quali W. Ross Ashby, Gregory Bateson, Warren McCulloch, Heinz von Foerster, Humberto Maturana, John von Neumann, Jean Piaget, Artur Rosemblaueth, Herbert Simon, Conrad Waddington e Norbert Wiener.
In questi anni si discute dunque approfonditamente della natura della conoscenza e di fatto tra i primi teorici di intelligenza artificiale, impegnati negli Stati Uniti, e gli studiosi europei, raccolti soprattutto intorno al centro Internazionale di Epistemologia Genetica di Ginevra, si instaura una stretta collaborazione: collaborazione volta non solo alla costruzione di alcuni tipi di macchine intelligenti, ma anche all'istituzione dei primi corsi di Intelligenza Artificiale nell'insegnamento accademico.
I paradigmi della ciberentica e dell'epistemologia costruttivista nascono e si sviluppano dunque all'interno di due universi molto distanti l'uno dall'altro: un universo sociale in rapido mutamento ed un universo teorico soprattutto legato all'antica tradizione filosofica europea. Il primo paradigma si configura, già dalla sua nascita, come un progetto pratico volto a potenziare le dimensioni dell'intelligenza umana e ad offrire delle applicazioni socialmente utili; il secondo trae la sua origine da riflessioni di natura essenzialmente teorica. Tuttavia pur avendo origini diverse questi due paradigmi si incontrano più volte, nel corso della loro evoluzione, in relazione a temi fondamentali per la nascita e lo sviluppo della società contemporanea.
Rispetto all'incontro di due paradigmi così diversi tra loro è significativo sottolineare come questo incontro sia legato nello stesso tempo al caso ed alla necessità. Così, da un lato, sembra una coincidenza significativa che negli anni '50, dall'una e dall'altra parte dell'Atlantico, si studino i meccanismi della conoscenza nell'uomo e nella macchina; d'altro canto, come osserva Guy Tiberghien (8), il fatto che arrivato ad un certo stadio della sua evoluzione l'uomo abbia preso la sua attività di conoscenza come oggetto di studio è soprattutto una necessità storica: il problema della conoscenza diventa ad un certo punto centrale per la vita dell'uomo, delle organizzazioni e delle istituzioni, della società intera.
I ricercatori impegnati per primi nel dominio dell'intelligenza artificiale hanno il comune obiettivo di approfondire lo studio dei meccanismi della conoscenza umana; tuttavia, sin dall’inizio, la loro collaborazione vede delinearsi una profonda frattura tra due diverse prospettive epistemologiche: se alcuni di essi interpretano infatti la conoscenza come un’attività di problem solving, gli altri la considerano essenzialmente come un’attività di learning (9).

Questa diversa concezione della conoscenza divide da subito i due padri fondatori della cibernetica, John von Neumann e Norbert Wiener, e suggerisce evidentemente due diversi modelli per la costruzione delle macchine intelligenti. Da una parte, c'è chi interpreta i computer come sistemi di computo delle informazioni, per l'elaborazione e la manipolazione di simboli, allo scopo di costruire una rappresentazione formale del mondo esterno. D'altra parte, c'è chi interpreta i computer come strumenti capaci di simulare il cervello ed il sistema flessibile delle interazioni esistenti tra i neuroni: secondo questa seconda prospettiva la cognizione è intesa soprattutto come un'azione autocreatrice e la macchina intelligente, ispirata ad un principio vitale e biologico, si pone come un'entità estremamente flessibile e adattiva.
La prospettiva di natura costruttivista assume quindi la natura biologica della conoscenza come metafora di riferimento, e si pone come obiettivo fondamentale quello di costruire dei modelli che simulino il funzionamento del cervello e dell'organizzazione del vivente. Nel momento in cui si considera la conoscenza come un prolungamento dei meccanismi biologici di adattamento essa diventa un processo iscritto nell'evoluzione naturale, una forma di vita in divenire i cui processi di sviluppo hanno ben poco di meccanico e di lineare, un'attività radicata in un corpo che vive, si muove, agisce e percepisce il mondo che lo circonda (10).
La lotta che oppone questi due diversi punti di vista sulla natura della conoscenza porterà alla sconfitta del secondo, già dalla metà degli anni '60, e bisognerà attendere gli anni '80, con l'emergere della teoria epistemologica della complessità e del connessionismo, perché la mente venga nuovamente concepita come una forma di vita capace di costruire attivamente il proprio rapporto con l'ambiente. Così, da un lato, le teorie sui sistemi complessi elaborate da studiosi quali Ilya Prigogine, Heinz von Foerster, Umberto Maturana e Francisco Varela affermano la natura attiva del rapporto che l'individuo costruisce con il proprio universo di riferimento; d'altro canto, osserva Domenico Parisi (11), il connessionismo emergente nel dibattito sulle scienze dell'artificiale riscopre la concezione biologica ed olistica della mente: l’intelligenza viene di nuovo concepita nei termini di un processo di adattamento la cui comprensione è affidata ai meccanismi della sua costruzione e della sua genesi. All'interno di questa prospettiva e grazie soprattutto all'utilizzo delle simulazioni, la vita artificiale studia il comportamento dell'organismo nel proprio ambiente ritenendo che l'organismo agisce sull'ambiente tanto quanto il secondo agisce sul primo.
Ne emerge una concezione dell'apprendimento nei termini di un processo biologico e dunque vitale, continuamente mutevole e continuamente rinnovantesi grazie alla sua capacità di confrontarsi con gli inputs del mondo esterno, di svilupparsi e di evolvere nella scelta delle risposte ritenute più adeguate a questi inputs e nell'esigenza di adattarsi alle mutevoli condizione del mondo circostante. D'altro canto, questo modello di apprendimento non si configura nei termini di un semplice e lineare processo cognitivo di elaborazione delle informazioni, ma chiama in causa l'identità del sistema nella sua interezza interessando, in tal modo, tutte quelle componenti cognitive, affettive, coscienti e incoscienti che costituiscono il fondamento del rapporto tra l'individuo e il mondo. L'immagine della conoscenza che ne deriva non corrisponde ad un modello cristallizzato bensì ad un modello dinamico che si definisce nel processo stesso della sua costruzione: costruzione legata nello stesso tempo ai poli del soggetto e dell'oggetto, dell'individuo e del mondo.

3. Le metacompetenze e la teoria costruttivista della conoscenza
Nella nostra prospettiva è estremamente significativo osservare la vicinanza dei concetti di conoscenza e di apprendimento, come si definiscono oggi nelle scienze della formazione anche in relazione al tema delle competenze strategiche, con il modo in cui questi concetti sono stati trattati da una parte degli studiosi partecipanti al dibattito sulle scienze artificiali. Nei progetti teorici e operativi di questi studiosi, come abbiamo visto, sono già presenti in nuce molti di quei temi che, con la piena affermazione della società e dei modelli di organizzazione postindustriali, diventeranno centrali nel discorso sulla conoscenza e sulla formazione. Si tratta evidentemente di temi relativi alla concezione dell'uomo come artefice del proprio sapere, alla convinzione che le dinamiche di interpenetrazione tra scienza fondamentale, scienza applicata e tecnologia hanno contribuito nella più ampia misura a disegnare il volto della società contemporanea; infine alla definizione di un modello attivo di apprendimento e di conoscenza definiti nei termini di processi vitali ed adattivi capaci, al pari delle competenze strategiche, di costruzione e di ridefinizione continua.
Nel più recente dibattito così come in quello passato si sottolinea la natura biologica, flessibile e adattiva dei concetti di conoscenza, apprendimento e competenza. Essi sono sempre descritti in termini di abilità continuamente rinnovantesi capaci di permettere all'individuo di evolvere, di apprendere sempre e lungo tutto l'arco della propria vita, di conoscere intervenendo ed agendo in modo attivo sul reale.
All'interno di questa ridefinizione della conoscenza riacquistano valore e significato molte teorie di impostazione non cognitivista quali la teoria di Dewey, la psicologia di Piaget e di Vygotskij, la psicologia ecologica di James Gibson, ma anche i modelli pedagogici di Freinet e Montessori.
Tra i filosofi, Dewey ha asserito chiaramente che le azioni non rappresentano solo reazioni agli stimoli ma azioni sugli stessi stimoli. Tra gli psicologi, scrive Parisi (12), Piaget ha sottolineato nel modo più chiaro il ruolo dell'esperienza e dell'attività nello sviluppo cognitivo. "Per Piaget non è l'individuo che risponde agli stimoli provenienti dalla realtà ma è la realtà che risponde agli 'stimoli' costituiti dalle azioni dell'individuo" (13). L'intelligenza e la conoscenza della realtà cominciano proprio dalle interazioni senso-motorie e lo stesso linguaggio trae significato da queste interazioni.
Si afferma quindi in primo luogo quel concetto di "learning by doing" cui Dewey aveva già fatto riferimento. Si tratta evidentemente di un modello attivo di apprendimento legato non alla ricezione passiva di stimoli e di informazioni dal mondo esterno, ma alla concezione del soggetto conoscente quale artefice dei propri sistemi di esperienza e di conoscenza. Dewey aveva sottolineato tra i primi il ruolo dell'esperienza nell'apprendimento e difatti, secondo molte teorie attuali sull'apprendimento e sulla formazione, l'esperienza si configura come lo strumento privilegiato di apprendimento già nella vita di tutti i giorni in cui si conosce la realtà guardandola direttamente, misurandola, agendo su di essa e osservando le conseguenze delle proprie azioni. In una prospettiva per molti aspetti analoga, Piaget interpreta il problema dell'apprendimento in stretta connessione con il discorso epistemologico sulla natura della conoscenza. Nella misura in cui si ammette che la conoscenza è una costruzione continua, essa appare strettamente legata all'agire dell'individuo sulla realtà: conoscere un oggetto significa agire su di esso e trasformarlo per afferrare i meccanismi della sua stessa trasformazione.
Il carattere di utizzabilità che ci lega originariamente alle cose, scrivono S Manca e L. Sarti (14) fa sì che il mondo sia un mondo agito prima che contemplato, dischiuso dal saper fare proprio di ogni pratica. Il nostro rapporto con il mondo è quindi un rapporto immediato e originario che ci lega alle cose tramite una comprensione più pratica che teorica. "All'origine del pensiero, del linguaggio e delle parole c'è… quella trama densa e complicata di pratiche intrecciate che consente la comprensione e l'interpretazione del mondo in modo intelligente …sono queste pratiche che scheggiano la pietra, incidono le rupi e le caverne, costruiscono armi e utensili, edificano le abitazioni, elaborano abiti linguistici, inventano sistemi di scrittura, in una parola l'insieme di ciò che noi chiamiamo civiltà o cultura, con le sue pratiche intelligenti e sensate" (15).
 
Riguardo la convergenza tra alcune teorie attuali sulla formazione e sulle competenze e l'epistemologia soprattutto di stampo non cognitivista, è importante ancora sottolineare come ambedue gli orientamenti offrano una definizione estremamente ampia del concetto di conoscenza e di competenza. Il concetto di competenza strategica, come osserva Aureliana Alberici, comprende allo stesso tempo saperi espliciti ed impliciti, esso fa riferimento ad un vasto repertorio di strumenti cognitivi, affettivi, relazionali grazie ai quali ogni individuo è capace di orientarsi nell'universo che lo circonda, di attribuire significati, scegliere, comunicare, progettare e soprattutto di ridefinire continuamente le proprie capacità a seconda delle diverse esigenze della sua realtà esistenziale e professionale.
"L'idea costruttivista secondo cui l'apprendimento è sempre frutto di un lavoro di costruzione avente l'obiettivo di elaborare azioni e concetti viabili, cioè appropriati ai contesti in cui vengono usati, e non di scoprire una realtà ontologica di cui produrre copie o immagini mentali - scrivono S. Manca e L. Sarti (16) - ha infatti progressivamente sostituito il modello tradizionale del trasferimento di conoscenza". Quest'idea costruttivista si trova oggi sempre più spesso legata a quella di apprendimento come processo dialogico, sociale e culturale, in cui ogni singolo individuo, quale membro di un gruppo, apprende soprattutto all'interno di un contesto interattivo, come del resto già sostenuto da Vygotskij, ricevendo cioè sostegno e motivazione dalla sua zona di sviluppo prossimale.
Nella complessità del suo sviluppo, la conoscenza non si configura dunque come un processo oggettivo, né appare legata soltanto alla realtà storico-sociale nella quale si costruisce. Essa chiama in causa diverse componenti, più o meno profonde, della personalità umana e del suo rapporto con il mondo. Ed è significativo ricordare, a tale proposito, come già nella prospettiva dell'epistemologia genetica la vita nella sua interezza si configura come un sistema, cognitivo e affettivo, in equilibrio con il proprio universo di riferimento; lo sviluppo dell'intelligenza e delle conoscenze può essere favorito o ostacolato da particolari condizioni di affettività. D'altro canto, il concetto fondamentale della teoria piagetiana, l'equilibrio, trae origine dai rapporti dell'autore con la psicoanalisi e compare, per la prima volta, in un romanzo autobiografico del giovane Piaget rimasto a lungo inedito: Recherche. Qui l'individuo viene definito come un "sistema di organizzazione tra il tutto e le parti" continuamente teso verso un delicato stato di equilibrio, nello stesso modo in cui "pur essendo malmenato dalla roccia che l’ingloba, un cristallo tende verso una forma ideale; oppure la traiettoria irregolare di un astro obbedisce ad una legge ispirata ad un moto regolare". (17)
E ancora significativo sottolineare relativamente a queste note piagetiane di psicologia dello spirito come, in Italia, la teoria di Piaget abbia toccato in primo luogo l'interesse dello psicoanalista Cesare Musatti. Già negli anni '50, Musatti percepisce infatti la teoria di Piaget "come uno sguardo profondo rivolto alla vita interiore dell'individuo" e vede nel concetto di equilibrio un modello filosofico "capace di dare spazio e respiro all'anima dell'individuo concepita nella sua interezza", in contrasto con le teorie comportamentiste allora estremamente diffuse (18).

4. Apprendimento e nuove tecnologie dell'informazione: il modello della simulazione
In questo processo di trasformazione dei modelli dell'organizzazione e della formazione, segnato dalla centralità e dalla crescita della conoscenza, un ruolo fondamentale è giocato dalle possibilità di diffusione e di trasmissione del sapere offerte dalle nuove tecnologie della comunicazione. Il computer, scrive al riguardo Parisi (19), rappresenta un elemento centrale nel discorso sulla modernità e sulla razionalità della società occidentale nella misura in cui esteriorizza nelle macchine quella razionalità che precedentemente aveva trovato posto solo nella mente umana e dentro le organizzazioni sociali degli esseri umani.
"Forse già tremila anni fa la cosiddetta arte del Paleolitico superiore… è stata una conseguenza ma anche una causa di un ampliamento delle nostre capacità cognitive di immaginare, prevedere, ricordare, sentire da soli e insieme agli altri. Certamente, l'adozione della scrittura alfabetica … ha avuto un ruolo importante nell'emergere della civiltà greca e quindi di quella occidentale. La permanenza e l'oggettività delle parole scritte, rispetto alla volatilità di quelle dette, ha accresciuto le possibilità della memoria e l'accumulazione della conoscenza ed ha … contribuito alla comparsa della filosofia, della scienza e della democrazia politica nella Grecia classica. Quasi un millennio dopo, l'avvento della stampa ha reso possibile il crearsi di comunità estese di ricercatori e scienziati, distanti nello spazio e anche nel tempo, con scambi facilitati e accelerati dalla riproducibilità meccanica dei libri" (20).
Il computer rappresenta una tecnologia cognitiva dalle potenzialità infinitamente più grandi e innovative rispetto ad altre tecnologie vecchie e nuove come l'arte, la scrittura e la stampa ma anche il telefono, la radio e la televisione. Il computer costituisce un fondamentale e innovativo strumento di conoscenza, nella misura in cui crea i primi artefatti cogniti e comunicativi con cui è possibile interagire. Se la realtà è ciò con cui interagiamo possiamo dire che il computer allarga e crea un più di realtà mentale e sociale, esso ci presenta delle informazioni e reagisce alle nostre azioni proprio come fanno la nostra mente e in buona misura le altre persone (21).
Le tecnologie cognitive pre-computer erano profondamente diverse: un libro si poteva leggere, si poteva scriverci sopra, metterci un segnalibro; al telefono si poteva ascoltare o parlare, al cinema si potevano vedere immagini in movimento, ma è con il computer che si sono moltiplicate le interazioni tra l'uomo e l'artefatto; interazioni che si sono amplificate all'infinito grazie ad internet dal momento che in ogni istante in questo universo si aggiungono nuove informazioni, nuove forme di socialità, nuovi modi di comunicare e di interagire.
Ma ciò che è più importante sottolineare oltre al potere di comunicazione che esso conferisce è il fatto che il computer può essere uno specifico ed importante strumento di apprendimento. Fino ad oggi si imparava leggendo un libro o interagendo con un insegnante, ascoltando le sue lezioni o dialogando con lui. Ma si può imparare anche interagendo con un computer ed è proprio in questo senso che si realizza l'apprendimento attraverso l'esperienza.
"Ci sono due modi di imparare, cioè di conoscere e capire la realtà: si impara attraverso il linguaggio, perché qualcuno ci racconta come è fatta la realtà e ce la spiega, e si impara attraverso l'esperienza, osservando la realtà e interagendo con essa. Conoscere e capire la realtà attraverso le parole è stata fino ad oggi la modalità di apprendimento dominante nelle società moderne. Oggi però gli sviluppi delle tecnologie informatiche stanno aprendo nuove possibilità all'altro apprendimento, quello che passa attraverso l'esperienza, e forse questi sviluppi consentiranno all'apprendimento attraverso l'esperienza di competere con quello attraverso il linguaggio nelle società del futuro" (22).
Lo scenario tipico dell'apprendimento attraverso il linguaggio è la lezione del docente o la lettura di un libro. Lo scenario tipico dell'apprendimento attraverso l'esperienza è invece la vita di tutti i giorni. Esistono importanti differenze tra il fatto di imparare attraverso il linguaggio ed il fatto di imparare attraverso l'esperienza. Attraverso il linguaggio si può apprendere su tutto, sul passato, su ciò che è lontano nello spazio e nel tempo, su ciò di cui non si può fare esperienza diretta perché è infinitamente piccolo o infinitamente grande. Qualunque aspetto della realtà può essere descritto e spiegato usando le parole. Imparare attraverso l'esperienza possiede invece un limite essenziale, dovuto all'impossibilità di fare esperienza diretta di quegli aspetti della realtà che non possiamo osservare con gli occhi o con gli altri sensi e sui quali non possiamo agire direttamente.
L'avvento del computer, osserva Parisi (23), ha reso comunque possibile un nuovo modo di conoscere la realtà, attraverso la creazione di una realtà virtuale, di una sua copia semplificata, vale a dire attraverso la sua riproduzione all'interno di una simulazione. Le simulazioni, quali strumenti attivi di conoscenza, rappresentano un'importante novità sia dal punto di vista epistemologico che dal punto di vista del concreto potere conoscitivo della scienza; non è un caso che esse vengano adottate in misura crescente in tutte le discipline scientifiche, dalle scienze fisiche e biologiche alle scienze cognitive a quelle sociali ed economiche.
In questa prospettiva, secondo Parisi, una differenza fondamentale tra l'apprendimento attraverso il linguaggio e l'apprendimento attraverso l'esperienza è legata al fatto che con le tecnologie cognitive e comunicative pre-computer tutto avviene nella nostra mente. "Naturalmente noi non siamo veramente passivi con gli artefatti cognitivi e comunicativi tradizionali, con i quadri, i libri, il cinema, la televisione… Leggendo un libro, guardando un quadro o un film o, più raramente, la televisione, la mente lavora e la nostra vita emotiva è in movimento. Ma il senso di avere a che fare con la realtà ce l'abbiamo quando ci accorgiamo che, agendo fuori di noi, quello che è fuori di noi cambia in risposta alle nostre azioni e ciò è possibile solo con il computer" (24).
E' proprio in questo senso che la simulazione è uno strumento di apprendimento (25), una volta che la simulazione è stata costruita uno studente può imparare a conoscere e capire quella parte della realtà interagendo con la simulazione; e questo come si è detto non solo e non tanto osservando passivamente quello che la simulazione presenta ma agendo sulla simulazione, cioè sui comandi del computer, e osservando come la simulazione reagisce alle nostre azioni.
La simulazione è dunque anche un laboratorio didattico virtuale; al suo interno si impara come è fatta la realtà agendo in condizioni controllate, vale a dire agendo sulla realtà e osservando le conseguenze delle proprie azioni. Il fatto che le simulazioni siano realtà costituisce una novità per la scienza. E questo assimila la scienza, che è un'impresa volta a conoscere e capire la realtà, alla tecnologia che è un'impresa volta a modificare la realtà e ad aggiungere ad essa dei nuovi elementi. In questa prospettiva le simulazioni sono importanti perché fanno penetrare più profondamente nella scienza e nel rapporto conoscitivo, che lega l'individuo al mondo, "la potente carica innovativa che il computer sta manifestando in ogni settore della vita sociale e individuale". (26)
Appare chiaro in definitiva come sia il linguaggio che la visualità siano potenti strumenti cognitivi degli esseri umani. Perciò il fatto che la visualità abbia avuto un ruolo così marginale nella conoscenza ha privato la conoscenza stessa di uno strumento cognitivo per cui gli esseri umani sembrano particolarmente dotati. Conoscere con la simulazione cambia questo stato di cose nella misura in cui il computer rende possibili le visualizzazioni. Una delle conseguenze più importanti del computer dal punto di vista della sua influenza sulle nostre capacità ed attività cognitive è che esso consente di visualizzare i processi e ci permette di interagire con le visualizzazioni, cioè di compiere azioni che modificano ed influenzano quello che vediamo.

5. Conoscenza, competenza e formazione
Grazie al loro ruolo centrale ed all'estensione delle loro funzioni le scienze e le tecnologie della conoscenza hanno saputo creare un nuovo legame tra uomo e natura, società e cultura, produzione e rappresentazione (27). Il potere di queste tecnologie va molto al di là dello stesso dominio tecnologico; i loro strumenti operativi sono infatti i mezzi dell'informatica, dell'elettronica e delle telecomunicazioni, ma le loro radici affondano nello sviluppo della conoscenza umana. In tal senso le nuove tecnologie appaiono legate contemporaneamente all'universo della produzione ed a quello della comunicazione; i loro mezzi di espressione sono la macchina, il linguaggio e il pensiero.
La società postindustriale è sempre meno caratterizzata dai processi di produzione e di distribuzione di oggetti materiali e sempre più dalla diffusione degli strumenti e delle tecnologie della conoscenza. Essa appare essenzialmente rivolta alla produzione di oggetti immateriali, simbolici capaci a loro volta di modificare l'universo dei bisogni, dei valori, degli orientamenti culturali che determinano l'azione umana. Ed è proprio all'interno di questa prospettiva che l'uomo ed il suo sapere si pongono al centro della società postindustriale.
Il sapere è oggi il principale fattore di creazione della ricchezza e questo costituisce un evento né inatteso né recente. Al contrario rappresenta l'ultimo anello di un lungo processo evolutivo. "In realtà - scrive Antonio Pilati (28) - …l'impiego intensivo della conoscenza come fattore produttivo non è una prerogativa esclusiva del novecento o del secondo dopoguerra: dall'esperienza pratica dei cacciatori preagricoli alle technai degli artigiani greci sino ai segreti tramandati nei mestieri medievali, il sapere - tecnico, organizzativo, previsionale - ha sempre svolto una funzione di primo piano nella trasformazione della natura".
Il problema è capire per quali ragioni in alcuni momenti il peso della conoscenza è più incisivo. L'idea di un sistema produttivo fondato sui due perni della potenza cognitiva e della rapidità di connessione è oggi messa in pratica con clamore dalla Net Economy, ma almeno da un terzo di secolo era delineata da sociologi ed esperti di organizzazione che ne intravedevano sintomi incipienti in alcuni segmenti delle economie avanzate. "È lungo l'elenco di autori che da un lato identificano quale cardine dell'assetto sociale o economico qualche elemento legato alla costellazione cognitiva e dall'altro assumono tale fatto come una novità eclatante, una cesura drastica tra il passato che non lo contiene ed il futuro che lo vedrà completamente sviluppato (il presente ha in genere uno statuto ambiguo, di annuncio o di indizio)" (29).
 
In una prospettiva generale ciò che appare sempre più vitale e decisivo è la possibilità di applicare le capacità intellettuali alla ricerca, alla scoperta, all'invenzione e alla diffusione di soluzioni. I modelli organizzativi emergenti tendono infatti a privilegiare soluzioni che, da un lato, aiutino a fronteggiare l'instabilità dell'ambiente, la frammentazione dei mercati, la moltiplicazione dei soggetti e, dall'altro, siano in grado di sfruttare le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie.
In questo contesto, scrive Lipari (30), matura anche l'esigenza di riorganizzare le attività ed i luoghi della formazione secondo una rinnovata logica dell'apprendimento. Si tenta di superare una nozione di adattamento meccanico dell'individuo all'organizzazione per approdare ad approcci centrati sull'esperienza concreta che gli attori contribuiscono a realizzare. In questo senso la conoscenza e la competenza tendono a configurarsi come situated knowledge, cioè come risultato delle occasioni di learning by doing che consentono l'affinamento e la messa in pratica di capacità intuitive.
La donna e l'uomo, scrive Varchetta, "ritornano" al centro degli eventi di coscienza, conoscenza e apprendimento, così come dentro il corso effettivo della loro vita …L'apprendimento lungo questa prospettiva diviene così motore e territorio della nostra identità, trasformandosi dall'apprendimento "in cui siamo", teatro di una soggettualità passiva e "esposta" all'ambiente, all'apprendimento "che noi siamo", con un soggetto "capace di condizionare e guidare la propria relazione con il mondo" (31).
I temi dell'apprendimento organizzativo e, più in particolare, quelli legati alle competenze, alle conoscenze tacite, alle comunità di pratiche, al valore delle forme intuitive del sapere diventano così motivi dominanti del rinnovamento della cultura e delle pratiche formative. L'apprendere (letteralmente afferrare e far proprio un oggetto in un contesto relazionale), come osserva Lipari, diventa il concetto cruciale a partire dal quale non solo si rivaluta la dimensione soggettiva di chi partecipa a un evento rendendosi protagonista di una dinamica in cui agiscono altri soggetti, ma mette anche in luce la rilevanza dell'interazione, dello scambio, del dialogo, dell'apprendere insieme.
Queste riflessioni sono connesse al fatto che non si può conoscere da soli. "Se conoscere …è imparare dalla realtà, si può imparare dalla realtà solo interrogandosi sul senso dei fatti e solo aprendosi a una dimensione intersoggettiva della conoscenza. In questo senso si collabora insieme ad altri e ad altre a costruire un significato comune, condiviso del significato del lavoro. Conoscere è necessariamente scambiare con gli altri. Coevoluzione è il processo con il quale specie interdipendenti tendono a evolvere generando nuove capacità" (32).
"Se infatti la competenza è riferita a un individuo, indipendentemente dal contesto in cui utilizzarla, essa non è altro che un attributo del soggetto che la possiede… Se invece la competenza è riferita agli individui e a ciò che fanno in contesti di azione organizzata, il problema della delimitazione del concetto assume altra rilevanza e complessità" (33). In questo caso l'intreccio tra dimensioni relazionali multiple che coinvolgono nello stesso tempo, gli individui, le regole e le procedure, i valori ed i linguaggi, "genera un campo cognitivo e di esperienze la cui specificità (e per molti versi unicità) da un lato …modifica e accresce le conoscenze e le esperienze degli individui, dall'altro alimenta il sapere collettivo dei gruppi e dello stesso ambiente organizzativo di contenuti il cui valore è vitale per la sopravvivenza e lo sviluppo dell'organizzazione" (34).

A partire da queste considerazioni, l'ottica delle competenze esercita importanti conseguenze sul versante di una prospettiva generale sul lavoro e sulla formazione. Si tratta come scrive Claudia Montedoro, di "dare corpo ad una prospettiva concreta e praticabile di apprendimento lungo tutto l'arco della vita (lifelong learning), che si pone con sempre maggior vigore come esigenza propria delle organizzazioni produttive, della vita economica e sociale, delle stesse istituzioni formative e degli individui. Dalla esigenza "semplice" di apprendere per lavorare con competenza, la visuale si amplia fino a ricomprendere in sé il rendere possibile, nella società della conoscenza disegnata dall'emergere della learning economy, il perseguimento di una realizzazione piena di sé da parte di chiunque, affermando il diritto all'apprendimento come esigenza centrale dei soggetti individuali e sociali, chiave di accesso ad una cittadinanza piena nel mondo contemporaneo" (35).
La centralità della conoscenza, secondo Giuseppe Varchetta, ha importato nell’esperienza organizzativa problematiche di stile, di modalità distintive, un particolare modo di sentire e agire l’organizzazione. "L’organizzazione attraverso il metodo delle competenze invita a costruire professionalità composite, lontane dalla grigia, perpetua, inossidabile prevedibilità della posizione di ruolo dell’organizzazione tayloristica". Non si tratta di vaghezza e di imprecisione quanto di una apertura concreta alla integrazione interfunzionale, alla trasversalità, alla possibilità di costruire reti di professionalità articolata.
"La vita delle donne e degli uomini è da sempre una “frase infinita”. L’esperienza di lavoro dell’organizzazione taylorista aveva per i più creato per così dire una frattura, due mondi: le ore del non lavoro collocate dentro una “frase infinita” e le ore del lavoro sovente immerse in cesure, in coazioni a ripetere, senza spazio per l’ascolto e l’inatteso di forme indefinite e, come tali, da narrare. Il metodo delle competenze … può ora rompere questo confine tra il tempo del non lavoro e quello del lavoro, superando quella distanza che probabilmente per la nostra quotidianità è stata la più grande tragedia della modernità. Noi veniamo così restituiti, lungo la traccia dell’enigma contenuto nelle competenze, ad una possibile sola pulsione, capace di con-fondere non lavoro e lavoro e restituirci alfine ad un nostro possibile infinito" (36).
 
Note
1   Pievani, T. e Varchetta, G. (1999), Il Management dell'Unicità, Guerini e Associati, Milano, pp. 46 - 49.
2   Ivi, p. 50.
3   Serreri, P. (2000), "Competenza". In C. Montedoro (a cura di), La formazione verso il terzo millennio, Seam, Roma, pp. 90 - 91.
4   Aubret, J. Gilbert, P. Pigeyre, F citato in P. Serreri (2000), "Competenza". In C. Montedoro (a cura di), op. cit. p. 91.
5   Delors, J. (1997), Nell'educazione un tesoro, Armando, Roma.
6   Alberici, A. (1999), Imparare sempre nella società conoscitiva, Paravia, Torino.
7   Alberici, A. (2002), "Per una pratica riflessiva integrata. La progettazione curricolare orientata alle competenze nella dimensione del Lifelong Learning". In C. Montedoro (a cura di), Le dimensioni metacurricolari dell'agire formativo. Angeli, Milano.
8   Tiberghien, G. (1988). "Psychologie cognitive, science de la cognition et technologie de la connaissace". In AAVV Informatique et société, Presses Universitaires de Grenoble, Grenoble, pp. 83 - 85.
9   Ceruti, M. (1989b), “Una possibile reinterpretazione del concetto di sistema: i progetti della natura e della storia”, in D. De Masi e D. Pepe (eds) I modelli organizzativi tra conoscenza e realtà, Angeli, Milano, p. 198.
10 Pievani, T. (2001) "Il soggetto contingente". In Rivista italiana di Gruppo Analisi, vol. XV, n. 2, p. 11.
11 Parisi, D. cit. in D. Pepe (1997), La psicologia di Piaget nella cultura e nella società italiane, Angeli, Milano., pp. 312 - 313.
12 Parisi, D. (2000), Scuola@.it, Mondadori, Milano, p. 88.
13 Ibidem.
14 Manca, S. & Sarti, L. (2001). "Il rapporto tra comunità virtuale e apprendimento". In D. Bolghini (a cura di) Comunità in rete Net learning. Etas, Milano, p. 10.
15 Ivi.p. 11.
16 S. Manca e L. Sarti (2002) "Comunità virtuali per l'apprendimento e nuove tecnologie". In TD, numero 25, p. 11.
17 Piaget, J. (1918), Recherche, La Concorde, Lausanne, pp. 97 - 98.
18 Musatti, C. (1946), “Anima”, Archivio di Psicologia, Neurologia e Psichiatria, vol. VII, n. I, pp. 8 - 20.
Musatti, C. (1955), Introduzione a J. Piaget La rappresentazione del mondo nel bambino (trad. dal francese), Einaudi, Torino, pp. VII - XIII.
19 Parisi, D.(2000), op.cit., p. 41
20 Ivi, p. 54.
21 Ivi, p. 59.
22 Ivi, p. 72.
23 Ivi, p. 49.
24 Ivi, pp. 59 - 60.
25 Parisi, D. (2001), Simulazioni, Il Mulino, Bologna, p. 277.
26 Ivi, p. 257.
27 Busino, G. (1991), “Du naturel et de l’artificiel dans les sciences sociales”, In Cahiers Vilfredo Pareto: Revue Européenne des sciences sociales, XXXI, n. 41, pp. 65 - 80.
28 Pilati, A. (2000). Prefazione a Th. Davenport e L. Prusak. Il sapere al lavoro. Etas, Milano pp. VII - XII.
29 Ivi, p. VIII.
30 Lipari, D. (2002). Logiche di azione formativa nelle organizzazioni, Guerini e associati, Milano, pp. 123 - 124.
31 Varchetta, G. (2001a). "Tracce per una formazione ri-unificata". In A. Fontana (a cura di). Lavorare con la conoscenza. Guerini e associati, Milano, pp. 134 -135.
32 Varchetta, G. (2001b). "Il metodo delle competenze". Postfazione a G. L. Cepollaro (a cura di), Sapere pratico, Guerini & Associati, Milano, p. 315.
33 Lipari, D. (2002). op. cit., p. 124.
34 Ibidem. 
 

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Anche questo secondo “speciale” dedicato ai venti anni di “Formazione & Cambiamento” ripropone testi ed interviste dedicati al tema generale dell’apprendimento avendo lo scopo – già anticipato nel numero 17/21 – quello di associare alle “Quattordici tesi sull’apprendimento” esposte nel n. 15 del 2020 alcuni contributi pubblicati nella “vecchia” e nella “nuova” serie della rivista.
 
La retrospettiva che presentiamo in questo numero, che ha come titolo “Dimensioni soggettive, sociali e pratiche dell’apprendere”, propone un insieme di contributi riconducibili agli assunti di sei delle “Tesi sull’apprendimento”: la quarta (“L'apprendimento è solo in parte legato alla dimensione cognitiva. Emozioni ed esperienze giocano un ruolo cruciale”), la sesta (“Si apprende solo se c’è motivazione e ciò che si apprende ha sempre un senso per chi apprende”), la decima (“L’apprendimento è facilitato quando si riflette sul cammino percorso”), l’undicesima (“Il gruppo favorisce l’apprendimento specie se tra i suoi membri ci sono coesione, condivisione, dinamiche e scambi utili alla costruzione comune delle conoscenze”), la dodicesima (“L’apprendimento è facilitato quando il contenuti è una specifica risposta a un problema legato ad un contesto”) e la tredicesima (“L’apprendimento è facilitato dall’azione concreta”).
 
Per agevolare la lettura dei testi, li abbiamo distribuiti in tre raggruppamenti: Individuo e costruzione del sapere (contributi di Pepe, Vogt/Brown/Isaacs e Ajello), Apprendimento in azione e nella pratica (contributi di Roma, Engestrom, Wenger, Grasseni/Ronzon, Amenduni, Varchetta e Arduini), Apprendimento e riflessività (contributi di Contesini e Ghaye).
 
Affidiamo ai nostri lettori la varietà dei punti di vista sulle particolari dimensioni dell’apprendere che emergono dai contributi proposti, nella speranza di favorire un arricchimento della riflessione e del dibattito su temi di crescente interesse per chi si occupa di apprendimento.
 

* In “Formazione & Cambiamento”, n. 40, 2006
 
Tutti noi apprendiamo non solo passando attraverso percorsi formativi appositamente progettati da specialisti. L’apprendimento che sviluppiamo quando siamo alle prese con le attività che hanno luogo nei contesti delle nostra vita quotidiana, in campo lavorativo o nel tempo libero, rimanda ad un ambito di formazione di competenze per certi versi “invisibile” (per citare il bel titolo del convegno AIF 2004) perché non coinvolge gli elementi che tradizionalmente associamo alle attività di apprendimento strutturato (un’aula, materiali e tecnologie didattiche, staff di formatori, docenti, certificazioni etc.).
Cerchiamo di capire insieme alla professoressa Anna Maria Ajello, quali siano le caratteristiche di questo tipo di apprendimento “informale” e quali suggerimenti e considerazioni ne possano scaturire per chi è interessato a sviluppare pratiche formative sempre più avanzate.
 
D. Professoressa, in che modo i soggetti apprendono continuamente nella propria vita e più specificamente nelle pratiche lavorative che hanno luogo nelle organizzazioni?
 
R. Alla luce della prospettiva socioculturale, sviluppata a partire dal lavoro svolto dello psicologo Vygotskij agli inizi del secolo scorso (2), l’apprendimento è visto come un processo coessenziale all’individuo umano in quanto si lega ad un modo di funzionare delle persone in qualsiasi tipo di situazione. Da questa prospettiva, infatti, i soggetti imparano tutte le volte che prendono parte attiva alle loro pratiche e danno senso ai loro comportamenti. Questo richiama la funzione di partecipazione consapevole alle attività della vita quotidiana, nel tempo libero come nel lavoro.
In questa cornice, lo psicologo sociale Engestrom (3) , più recentemente, rileva come gli individui apprendono trovando soluzioni a problemi pratici che hanno luogo nelle attività. In questo senso la discussione delle pratiche nasce da un disagio, un’impasse rispetto ad un funzionamento che non procede nel modo che riteniamo giusto. Quando qualcosa non ci funziona bene, non in linea di principio, ma per necessità pratiche, noi decidiamo di cambiarlo e cerchiamo di organizzarci in modo da rimediare al disagio incontrato.
Questo avviene anche nelle organizzazioni produttive. Quando si tratta di un’impasse di grandi dimensioni, questa diviene, spesso su spinta del vertice, oggetto di una discussione e di un’azione più ampia orientata al rinnovamento. Quando si tratta di problemi di dimensioni ridotte, spesso gli individui “aggiustano” le pratiche precedentemente definite in senso formale. Questo è un fatto corrente nelle organizzazioni ed è legato al fatto che il lavoro non può essere visto solo come ripetizione ma anche come improvvisazione e capacità di relazione con elementi imprevisti.
In particolare nelle organizzazioni che si rapportano ad ambienti turbolenti, soggetti a cambiamenti continui, questa produzione di “aggiustamenti” da parte dei soggetti può legarsi all’individuazione di problemi e soluzioni che possono condurre ad un miglioramento delle pratiche anche rispetto ai fini organizzativi.
 
D. Soprattutto per le organizzazioni soggette ad elevata concorrenza, o comunque interessate ad elevare la propria competitività, diviene dunque particolarmente importante riuscire a riconoscere, non disperdere, e curare la circolazione e lo sviluppo di queste nuove conoscenze. Quali implicazioni ha per la formazione il riconoscimento del processo per cui i soggetti rielaborano autonomamente le proprie pratiche e le modificano quando incontrano un’impasse?
 
R. Ovviamente, non è sufficiente affermare che le persone imparano solo perché fanno delle cose o comprendono il compito. Anche secondo questa concezione noi dobbiamo mettere le persone in una condizione di riflessione e di elaborazione su quello che normalmente fanno. Supportare la rielaborazione dei motivi alla base di questa operazione di “aggiustamento” nella pratica, del senso che ha, del perché produce risultati positivi, favorisce una formazione veramente efficace. L’individuo apprende continuamente e se noi vogliamo potenziare queste sue capacità, la rielaborazione deve essere parte della formazione. Non si tratta, è chiaro, di occasioni che invitano ad una riflessione individuale, solitaria. E’ molto più utile il confronto in gruppo perchè le pratiche coinvolgono sempre più soggetti. Le pratiche devono essere oggetto di una riflessione comune, proprio per essere cambiate ed arricchite. Questa rielaborazione deve essere supportata da specialisti che dunque non assumono la funzione tradizionale dal formatore come soggetto che trasmette conoscenze.
Si tratta di quanto prefigurato ad esempio da Schon (4) , nel suo lavoro sul “professionista riflessivo”. Il punto è come riuscire a sollecitare l’elaborazione delle pratiche professionali. Se abbiamo l’obbiettivo fornire occasioni di rielaborazione delle pratiche, dobbiamo decidere quando e come farlo perchè nella vita delle organizzazioni organizzazioni non esiste un’occasione specifica già data. Produrre questo tipo di eventi implica un coinvolgimento reale delle organizzazioni.
 
D. Le organizzazioni possono inibire le capacità di problem setting e problem solving dei soggetti?
 
R. In effetti se si può parlare di “blocchi” dell’apprendimento organizzativo, questi sono da collegare più all’esistenza di climi che possono facilitare o impedire l’apprendimento, più che a blocchi dovuti ai soggetti, e a loro carenze. I “blocchi” si producono quando le persone non sentono attorno a loro una situazione di fiducia, per cui non si sentono autorizzate ad avere idee diverse, a proporle e a proporsi. Per poter mettere in questione ciò che succede, per avere la possibilità di pensare in termini diversi, bisogna avere la sensazione che altri possono accettare il nostro parere, e che in ogni caso la proposta non ci comporti delle penalizzazioni.
Un altro fattore è quello della stereotipia, dell’accettazione della presunta “normalità” del fatto che alcune categorie siano meno dinamiche e più limitate nell’apprendimento. Un esempio di stereotipia che riguarda il genere è osservabile nel rapporto tra donne e tecnologia, un tema che sto studiando in questo momento. La ricerca mostra che anche le donne che lavorano nell’informatica, che non dovrebbero, dunque, manifestare particolari problemi nell’uso del computer, sono più portate a chiedere aiuto al computer o al collega esperto, lì dove gli uomini più facilmente “smanettano”, provano. Il problema non dipende dal fatto di essere donna ma dal fatto che le donne si guardano dal rischio di produrre danni, mentre gli uomini comunque tentano. La conseguenza è che le donne imparano meno e gli uomini imparano di più, perché quando si prova, è possibile produrre danni ma alcune volte si trovano soluzioni efficaci che vengono dunque apprese.
Gli uomini inoltre hanno tra loro molti più legami di dibattito e scambio su ciò che hanno appreso. E’ utile notare che chi prova e dibatte con altri, sviluppa un gergo che finisce con l’escludere chi non prova e che avrà difficoltà crescente a comprendere i termini del dibattito e a seguirne lo sviluppo.
Questo conduce a prestare attenzione a più piani che vengono a intrecciarsi. Oltre alla dimensione del sé, di come i soggetti si percepiscono e interiorizzano i limiti, rassegnandosi all’idea che alcune materie, e non altre, rimangano fuori dalla propria portata, dobbiamo tener conto anche della dimensione interattiva: le donne si rivolgono agli uomini aspettandosi che siano più competenti, anche quando non lo sono. Inoltre c’è l’aspetto culturale: le organizzazioni sono strutturate tenendo conto delle differenze di genere.
Il blocco può derivare dunque dalle aspettative dei soggetti su di sé e su gli altri. In un’organizzazione queste aspettative possono arrivare a sedimentarsi sia dal basso che dall’alto.

D. In alcune culture organizzative, la capacità autonoma dei soggetti di scorgere e analizzare problemi ed escogitare soluzioni, propria dell’apprendimento informale, può essere considerata più come una fonte di rischi eversivi piuttosto che una potenzialità da valorizzare ai fini del miglioramento delle pratiche.
 
R. Spesso l’immagine che si ha dell’organizzazione efficace ed efficiente somiglia a quella di meccanismo composto da routine che procedono automaticamente, che “funzionano come un orologio”: ogni comportamento è previsto e si coordina con quello degli altri attori al momento giusto e nel modo giusto, secondo programma. In questa concezione l’eccezione assume i contorni di una cosa non giusta, se non riprovevole, e chi incontra situazioni incidentali, in cui deve operare da sé perchè non ha a disposizione modalità di risposta chiare e già legittimate, finisce spesso per considerare le soluzioni sviluppate autonomamente come un fatto privato, un segreto da tenere nascosto, come se dovesse coprire un’irregolarità. Tuttavia anche l’impresa che tradizionalmente inibisce l’autonomia ha bisogno di apprendere per migliorare e se gli individui comunque apprendono, allora un’azione formativa più efficace è quella del coinvolgimento, della canalizzazione di questi apprendimenti in una forma che sia positiva anche per l’organizzazione. Bisogna considerare che, senza adeguato supporto, i modi elaborati autonomamente come un escamotage per affrontare le difficoltà incontrate, possono spesso svilupparsi in modo autoreferenziale e non tradursi in una maggior efficacia dal punto di vista dei fini organizzativi e spesso ancor meno in efficacia percepita dall’utente.
La rielaborazione operata da un gruppo omogeneo di soggetti può cambiare una pratica ma, anche attraverso un’azione formativa di supporto ad hoc, deve essere aiutata a negoziare i risultati del cambiamento della pratica stessa con il gruppo prossimale oltre che con le istanze del beneficiario finale del servizio e, ovviamente, del vertice. Quando l’organizzazione mette in questione una pratica è perché questa non funziona granché, presenta delle difficoltà, ma è chiaro che nel momento in cui la soluzione è elaborata all’interno occorre porsi il problema di come metterla in comunicazione con l’esterno.
 
D. Quando parliamo di formazione come supporto alla rielaborazione delle pratiche, i destinatari sono evidentemente dei soggetti già coinvolti nelle attività. La formazione richiesta dalle organizzazioni, invece, si configura spesso come un momento di addestramento e preparazione dei destinatari a pratiche future. Che rapporto c’è tra i due tipi di approccio?
 
R. Stiamo parlando di due situazioni di apprendimento: quella del novizio che apprende una serie di informazioni che è chiamato a trasformare in pratica, e quella del soggetto coinvolto in pratiche che è chiamato ad innovare da parte di aziende abbastanza attente a cogliere i segnali di funzionamento non ottimale o migliorabile.
Spesso sono le necessità organizzative di inserire rapidamente persone nel ciclo produttivo a spingere ad adottare interventi formativi orientati a trasmettere rapidamente delle informazioni da un soggetto che sa ad uno che non sa. Al destinatario è richiesto di incamerare nuove informazioni secondo un approccio che, ponendo attenzione alle rappresentazioni mentali delle persone, punta a determinare trasformazioni nelle pratica correggendo ciò che gli attori pensano, intervenendo sulle loro mappe cognitive e modificandole, appunto, attraverso nuove informazioni.
Al novizio che entra in un’organizzazione, o al novizio rispetto ai cambiamenti decisi dal vertice della sua organizzazione, ad esempio nuove tecnologie da implementare, è chiesto in questo modo di accettare una sorta di “cambiale in bianco” sull’ipotesi che quello che sta imparando servirà in futuro. Questa “cambiale in bianco” può essere ancora più rischiosa, anche sul piano economico, per l’organizzazione che decide di scommettere su quelle conoscenze aspettandosi da loro delle conseguenze di miglioramento reali sul piano della pratica. Dunque non stupisce che le organizzazioni siano particolarmente attente a porre la questione della reale efficacia della formazione.
Se la via della rielaborazione delle pratiche che hanno luogo nei contesti reali può comportare tempi più lunghi, bisogna tuttavia considerare che una formazione trasmissiva e indifferenziata, può presentare costi minori, ma non garantisce un’efficacia complessiva e dovrebbe dunque essere ripresa, completata. Le pratiche infatti costituiscono l’esperienza su cui si può lavorare mentalmente e se non c’è questa base il soggetto non impara. Si deve consentire al soggetto di riflettere sulle proprie attività lavorative concrete, riconoscendone il funzionamento, il senso, la modificabilità, partendo anche dalle tensioni verificate nelle proprie pratiche nei contesti reali. Spesso la formazione non valorizza sufficientemente i contesti per il valore formativo che potrebbero avere e conduce i soggetti in spazi neutri. L’intervento formativo che coinvolge il contesto concreto di esecuzione delle pratiche può favorire una rielaborazione sugli aspetti delle attività che possono essere corretti o modificati, migliorati.
Anche negli interventi trasmissivi, le conoscenze proposte devono essere saldate alle conoscenze sviluppate nelle pratiche concrete. Le informazioni devono essere calate su quella situazione specifica in cui acquistano davvero senso.
Agganciarsi a quello che i soggetti già sanno o credono di sapere su quel tema, è ancor più importante se i soggetti già lavorano nell’organizzazione e dunque il problema è piuttosto quello di ridurre l’effetto di estraneità del formatore.
I soggetti possono innovare e migliorare le pratiche quando sono portati a riflettere e rielaborare su quanto avviene concretamente nei contesti delle loro attività. E’ però comprensibile che questa possibilità sia ridotta nel caso dei soggetti in situazione di prima acquisizione. In questo caso il soggetto è posto in una situazione asimmetrica in cui non ha, o non gli viene attribuita, la capacità, né il ruolo, di rielaborare gli aspetti di ciò che gli viene trasmesso. Possiamo essere contrari a quest’atteggiamento, ma è esattamente quello che facciamo per esempio con i bambini piccoli. Prima gli insegniamo a fare delle cose e solo in seguito potranno eventualmente metterle in questione. Lavorare molto in fase di progettazione sulle caratteristiche dei destinatari, su cosa vogliamo da loro, cosa vogliamo implementare e promuovere, richiede più tempo ma è anche una garanzia che quello che faremo potrà avere maggiore successo.

D. Queste indicazioni implicano un forte coinvolgimento delle organizzazioni committenti nel sostegno e nella legittimazione delle azioni formative. In che modo questo può essere favorito?
 
R. Credo che il coinvolgimento della committenza costituisca un aspetto di grande importanza. Dato che l’interazione con la committenza è l’unica garanzia di agganciare la formazione alle risorse dell’organizzazione e di ottenere efficacia, occorre vincere la tentazione delle organizzazioni a delegare tutto, per motivi di tempo, agli specialisti incaricati della formazione. I manager, invece, dovrebbero essere coinvolti nel team di progettazione come “consulenti dei consulenti”, ossia come gli esperti del mondo del lavoro per il quale il consulente è chiamato a fare formazione, e dovrebbero essere particolarmente presenti nelle scelte riguardanti la valutazione dell’efficacia dell’intervento.
E’ importante, infatti, arrivare a individuare con loro gli indicatori che possono dare il senso dell’efficacia dell’intervento e consentono di verificare che l’intervento formativo ha ridotto effettivamente le difficoltà che hanno sollecitato l’intervento. La committenza deve essere aiutata perciò a riflettere inizialmente su quello che è a monte dell’esigenza formativa, sulle ragioni per cui si è deciso di fare formazione. Gli indizi del disagio e della difficoltà che si ricavano da questa analisi, possono rappresentare degli utili indicatori per verificare l’efficacia dell’intervento stesso. L’analisi dei fabbisogni deve essere insomma ben collegata all’individuazione degli indicatori di efficacia.
Il coinvolgimento della dirigenza nella progettazione dell’intervento, può avere inoltre un’importanza ulteriore perché può effettivamente avere valore formativo per i dirigenti stessi.
Il ruolo di “consulenti dei consulenti” richiede ai dirigenti una posizione di decentramento per assumere il punto di vista dell’altro cui devono destinare la formazione. I dirigenti sono spinti così a riflettere sul processo produttivo nel quale sono inseriti, sui comportamenti da migliorare, modificare, implementare. Pensare a cosa sia utile per i suoi dipendenti, induce il dirigente a riflettere su ciò che manca nell’organizzazione, su ciò che è importante e ciò che non lo è. E pensare a cosa un altro dovrebbe fare per me, inevitabilmente mi porta a riflettere su ciò che sto facendo io. “Formare alla formazione” i dirigenti, attraverso il loro coinvolgimento nel team di progettazione, potrebbe essere utile a far sì che, anche al termine dell’intervento formativo, rimanga nell’organizzazione un’attenzione alle dinamiche di apprendimento che hanno luogo nelle pratiche e una sensibilità a cogliere i segnali di difficoltà o di disagio, prima che questi arrivino a sedimentarsi in situazioni di difficile gestione.
In questo modo, si potrebbe contribuire a promuovere una più densa domanda di formazione continua da parte delle imprese. 
 
Note
1 Anna Maria Ajello è Professore di Psicologia dell’Educazione presso la Facoltà di Psicologia II dell’Università di Roma “La Sapienza”. I suoi ambiti di interesse riguardano i problemi di acquisizione di conoscenza in contesti scolastici e organizzativi. Tra le sue pubblicazioni: A.M. Ajello (a cura di), 2002, La competenza, Il Mulino, Bologna; C. Pontecorvo, A.M. Ajello, C. Zucchermaglio (a cura di), 1995, I contesti sociali dell’apprendimento. Acquisire conoscenze a scuola, nel lavoro, nella vita quotidiana, LED, Milano.
2  L. Vygotskij, 1992, Pensiero e linguaggio, Giunti, Firenze, (ed. or. 1932).
3 Y. Engestrom, 1987, Learning by Expanding: An Activity Theoretical Approach to Developmental Research, Orienta Konsultit, Helsinki.
4 D.A. Schön, 1993, Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Ed. Dedalo, Bari. 
 

In “Formazione & Cambiamento”, Nuova serie n. 8, 2017

trad. di Giulia Boschi

Se avessi solo un’ora per risolvere un problema dalla cui soluzione dipendesse la mia vita, passerei i primi 55 minuti a stabilire che domanda porre, perché, una volta individuata la domanda giusta, risolverei il problema in meno di cinque minuti”  (Albert Einstein)

Quando è stata l’ultima volta in cui, partecipando a un incontro, vi siete detti: “Questa è una totale perdita di tempo”? Ieri, o solo qualche ora fa? Perché l’incontro vi è parso così noioso? Forse la ragione sta nel fatto che gli intervenuti, all’inizio della sessione, hanno posto le domande sbagliate, o peggio ancora, non hanno posto alcuna domanda interessante e di conseguenza l’incontro si è risolto in un susseguirsi di tediosi rapporti - o di altre forme di comunicazioni a senso unico - che non sono riusciti a catturare né l’interesse né la curiosità dei partecipanti.
La qualità  delle domande determina infatti sia l’apprendimento di cose utili che l’avvio di azioni efficaci. Le domande schiudono la porta al dialogo e alla scoperta, sono un invito alla creatività e al pensiero innovativo; possono stimolare interventi su questioni chiave e, generando percezioni creative, dare il via al cambiamento.

Perché non ci poniamo buone  domande?

Se è fondamentale porsi una buona domanda, perché la maggior parte di noi non spende più tempo ed energie a scoprirla e a formularla? Forse una della ragioni risiede nel fatto che la cultura occidentale, e nordamericana in particolare, si concentra soprattutto nell’ottenere la “risposta giusta” invece di scoprire la “domanda giusta”.

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Il nostro sistema educativo si concentra più sull’apprendimento mnemonico che sull’arte di cercare nuove vie. Di rado ci viene chiesto di scoprire domande stuzzicanti, così come non ci viene insegnato il motivo per cui sarebbe importante porsele. Quiz, esami vari e test attitudinali contribuiscono a rafforzare il valore della risposta esatta. C’è quindi da stupirsi se quasi tutti ci sentiamo a disagio quando non sappiamo qualcosa?
Il fatto che la nostra cultura sia contraria a porre domande creative è legato  sia all’importanza data a trovare soluzioni rapide che a una spiccata preferenza per un modo di pensare in  termini alternativi, quali  bianco/nero - o/o. Inoltre il ritmo sempre più accelerato della nostra vita e del nostro lavoro non ci dà spesso l’occasione di partecipare a scambi di riflessione in cui, prima di arrivare a una decisione, vengano esaminate domande stimolanti e nuove potenzialità. Questi fattori, uniti all’idea oggi prevalente che il “vero lavoro” consiste soprattutto in analisi dettagliate, decisioni immediate e azioni rapide, contraddicono il modo di vedere secondo cui  un “lavoro intelligente”, per essere efficace, si articola sul porsi domande di spessore e intrattenere scambi ad ampio raggio su questioni sostanziali.

I sistemi meritori in uso nelle nostre organizzazioni non fanno che rafforzare tale visuale. I dirigenti ritengono infatti  di essere pagati per risolvere i problemi e non per stimolare il pensiero creativo. Tra il nostro smodato attaccamento a la risposta – qualunque essa sia – e la nostra ansia di non sapere a sufficienza, abbiamo senza volerlo soffocato la nostra capacità collettiva di  stimolare creatività e aprire nuove strade. Invece abbiamo più che mai bisogno di queste capacità, viste le sfide senza precedenti che siamo chiamati ad affrontare sia nelle nostre organizzazioni che come comunità globale. […]

Dato che stiamo entrando in un’era in cui spesso si riscontrano questioni sistemiche alla base di sfide epocali, sfide che si possono risolvere solo se esaminate da diverse prospettive e in cui i rapporti causa/effetto non sono immediatamente apparenti, la chiave destinata a creare un futuro positivo sta nella capacità di porre domande penetranti che consentano di mettere in discussione le assunzioni su cui operiamo oggi. Come ha affermato Einstein: “I problemi attuali non possono essere risolti al livello di pensiero che li ha creati”. E nel suo libro The Art of the Question (L’arte della domanda) Marilee Goldberg precisa: “Uno spostamento di paradigma si verifica solo se, all’interno del paradigma esistente, si pone una domanda cui si può rispondere unicamente dall’esterno di esso”. Spostamento di paradigma, fondato su domande costruttive, che si può rivelare necessario per creare situazioni davvero innovative ai problemi che più ci stanno a cuore.

Cosa rende costruttiva una domanda?

In una descrizione altamente evocativa, Fran Peavey, un pioniere nell’uso di domande strategiche, osserva: “Le domande sono come una leva usata per aprire il coperchio di un barattolo di vernice… Se la leva è corta si riesce appena a socchiudere il coperchio, ma, con una leva più lunga, o una domanda più stimolante, possiamo aprirlo completamente e smuovere qualcosa…. Ponendo la domanda giusta che riesce a scavare nel profondo siamo in grado di smuovere tutte le soluzioni creative”.

Anche se non si  conoscono tutte le caratteristiche di una domanda creativa, è abbastanza facile riconoscerla. Ad esempio, se foste un giudice di gara alle Olimpiadi  a cui viene richiesto di valutare le seguenti domande con un punteggio da uno a dieci (dieci essendo il massimo), che punto  gli assegnereste?

  1. Che ora è?
  2. Ha fatto la doccia?
  3. Esistono altre possibilità a cui non abbiamo pensato?
  4. Che significa avere una coscienza etica?

Abbiamo posto queste domande in vari contesti culturali e abbiamo così  scoperto che, malgrado le differenze di formazione, le persone di solito ritengono meno costruttive le domande uno e due. Chiaramente le domande costruttive trascendono molti limiti. […]

Pertanto una domanda costruttiva

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    fa sorgere curiosità nell’ascoltatore
  • stimola una conversazione di livello
  • fa riflettere
  • fa emergere gli assunti soggiacenti
  • incoraggia la creatività e la ricerca di nuove vie
  • suscita un flusso di energia e una spinta in avanti
  • canalizza l’attenzione e concentra la ricerca
  • rimane connessa ai partecipanti
  • raggiunge un livello profondo
  • provoca ulteriori domande.

Una domanda costruttiva ha anche la capacità di “circolare bene” , di oltrepassare cioè l’ambito in cui è nata per immettersi in una rete più vasta di scambi all’interno di un’organizzazione o di una comunità. Tali  domande sono spesso la chiave di vasti cambiamenti. Come diremo più oltre, il modo di porre tali domande incide enormemente sulla loro capacità di far progredire il sistema.

L’architettura delle domande costruttive

Come abbiamo affermato all’inizio, le domande costruttive riescono a migliorare in modo stupefacente la qualità di intuizioni, innovazioni e azioni sia nelle organizzazioni e comunità, che nella vita corrente. Pertanto, nell’economia cognitiva attuale, capire l’architettura basilare che consente di formulare domande costruttive è un talento fondamentale. Le domande costruttive constano di tre dimensioni: costruzione, ambito e assunti, e ognuna di esse contribuisce a determinare la qualità delle conoscenze che vengono prodotte  ogni volte che ci impegniamo in una ricerca insieme ad altre persone.

PRIMA DIMENSIONE: la costruzione di una domanda
La costruzione linguistica di una domanda può avere risultati contrapposti: aprire o restringere la nostra mente. Chiediamoci: è una domanda del genere sì/no? Oppure da o/o? Comincia con una particella interrogativa quale: chi, cosa,come?

CHI    COSA
QUANDO     DOVE        CHE
PERCHÉ        COME?

Tanto per divertirvi cercate di mettere queste parole in ordine crescente, dalle meno alle più importanti. Non riflettete troppo, lasciatevi guidare dall’intuizione. Di solito il risultato è il seguente:

Più importanti
PERCHÉ
COME
COSA
CHI, QUANDO, DOVE
CHE, DOMANDE SI/NO
Meno importanti

Se usiamo le parole che figurano in cima alla lista possiamo rendere le nostre domande più incisive. Consideriamo ad esempio la sequenza sottostante:

  • È soddisfatto dei suoi rapporti di lavoro?
  • Quando ha provato maggiore soddisfazione nei suoi rapporti di lavoro?
  • Cosa trova più soddisfacente nei suoi rapporti di lavoro?
  • Perché secondo lei i suoi rapporti di lavoro soffrono di alti e bassi?

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Passando dalla domanda più semplice, la “sì/no”, iniziale a quella finale impostata sul “perché” si nota che gli interrogativi diventano sempre più stimolanti, producendo maggiore riflessione e un livello più profondo di scambio. È quello che intendiamo con l’espressione “domanda” costruttiva, ossia quella domanda che invita a pensare prima di rispondere.
Attenzione tuttavia. Se una domanda del genere “perché” non è formulata adeguatamente può facilmente mettere l’interlocutore sulla difensiva, perché le persone tendono a giustificare le loro risposte piuttosto che ad approfondire la questione. Ad esempio domande quali “perché non mi dici mai esattamente quello che pensi?” o “perché ti sei comportato così?”, possono spingere la persona a difendere la propria posizione invece che a pensare a soluzioni alternative. Se però un “perché” nasce da una sana curiosità, come quando uno si esprime dicendo “mi chiedo perché sia successa la tal cosa”, allora la domanda è capace di creare riflessioni stimolanti.

Il fatto che una domanda si trovi all’apice della lista non significa automaticamente che sia più rilevante delle altre situate al fondo. Secondo gli scopi che ci prefiggiamo, una domanda “sì/no” può essere di somma importanza (specialmente se siete sul punto di concludere una vendita importante!). Così pure una domanda che riguarda fatti connessi al chi, quando, dove può spesso essere cruciale: pensate alle questioni legali. Tuttavia se volete dar spazio alla creatività e al pensiero innovativo, le domande costruite sui termini che figurano in cima alla lista saranno sempre le più efficaci.

LA SECONDA DIMENSIONE: l’ambito di una domanda

Oltre a tener conto di come le parole che scegliamo influenzino l’efficacia della ricerca, bisogna anche che l’ambito della domanda corrisponda a quanto stiamo cercando di ottenere. Esaminiamo le tre domande seguenti:

  • Come possiamo gestire al meglio il nostro gruppo di lavoro?
  • Come possiamo gestire al meglio la nostra società?
  • Come possiamo gestire al meglio la nostra catena di rifornimento?

Nell’esempio succitato le domande vanno man mano ampliando il campo della ricerca, in quanto prendono in considerazioni aspetti sempre più vasti del sistema. In una parola ampliano il proprio ambito. Nel cercare di rendere costruttive le vostre domande, precisate al massimo l’ambito in cui intendete muovervi, cosi da mantenervi nella sfera della situazione che state affrontando.

LA TERZA DIMENSIONE: gli assunti impliciti nelle domande

La natura stessa del linguaggio fa sì che in quasi tutte le domande si celino assunti, impliciti o espliciti, che il gruppo dei partecipanti può o non può condividere […]

Per formulare domande costruttive è importante rendersi conto degli assunti soggiacenti e usarli in modo adeguato. Mettiamo a confronto le due domande seguenti: “Dove abbiamo sbagliato e di chi è la responsabilità?” / “Cosa possiamo imparare da quanto è accaduto e che possibilità intravediamo?” La prima domanda mette in risalto l’errore e la colpa: si può facilmente presumere che chi risponderà starà sulla difensiva. La seconda invece incoraggia la riflessione e molto probabilmente riuscirà a stimolare collaborazione e approfondimento tra le persone coinvolte.

È spesso utile verificare se una domanda contenga inconsciamente dei preconcetti. Per fare ciò basta chiedere ai vostri collaboratori durante una riunione: “Quali assunti o preconcetti abbiamo in mente suscettibili di influire sullo scambio in corso?”  come pure “Come potremmo arrivare a questo punto partendo da uno schema mentale completamente differente?” Ambedue le domande incitano a esplorare i  nostri assunti consci e inconsci, aprendo al contempo la strada a nuove prospettive.[…]

Capire e considerare attentamente le tre dimensioni di una domanda costruttiva ci permette di renderla ancora più efficace, aumentando la nostra capacità di stimolare intuizioni in grado di plasmare il futuro. Come per ogni nuovo talento, il miglior maestro in questo campo è l’esperienza e il miglior allenatore è un ascoltatore attento. Provate a rendere più costruttive le vostre domande e vedete che impatto avranno.

Ad esempio, prima di un incontro importante, passate qualche minuto a elencare con un collega le domande rilevanti al soggetto in discussione, scrivendole poi per ordine di importanza. Tenendo presente le tre dimensioni  sopra descritte, cercate di capire perché alcune domande sono più stringenti. Provate poi a cambiarne la costruzione e l’ambito per percepire come viene così  a mutare la direzione della ricerca. Assicuratevi di esaminare gli assunti impliciti, cercando di capire se saranno o meno di ostacolo al vostro scopo. Basteranno pochi esercizi per migliorare la vostra capacità di avviare conversazioni produttive favorite da domande stimolanti.


 

* in “Formazione & Cambiamento”, n. 26, 2004
 
1. Le origini dell’Activity Theory
Le origini dell’Activity Theory (1) (A.T., d’ora in poi) risalgono a quel gruppo di studiosi (Vygotskij, Rubinstejn, Leontj’v, Lurija ed altri) che operarono nell’allora Unione Sovietica a partire dagli anni ’20 e ’30 e che formarono la cosiddetta scuola storico-culturale. Nello specifico, l’A.T. nacque proprio dalla frattura, occorsa all’interno della scuola storico-culturale, che nel 1931-32 portò alcuni allievi di Vygotskij a separarsi da lui e ad avviare un nuovo progetto di indagine sullo sviluppo dei processi psichici. Mecacci, tra gli altri, ha ben ripercorso la storia di questa frattura: “A Vygotskij” egli scrive “essi rimproveravano di aver inquadrato lo sviluppo delle funzioni psichiche superiori in una prospettiva eccessivamente ‘culturale’. Queste funzioni – nella lettura che essi fecero della teoria vygotskijana – si sarebbero sviluppate essenzialmente sotto l’influenza dei fattori culturali (nella famiglia, nella scuola, ecc.) attraverso la mediazione principale del linguaggio, prima orale e poi scritto, nelle popolazioni alfabetizzate. Vygotskij, insomma, non avrebbe tenuto conto che le funzioni psichiche, elementari o superiori che siano, si sviluppano nel rapporto concreto che il bambino ha con la realtà esterna. Infatti, il bambino è geneticamente programmato per interagire con l’ambiente esterno nel suo complesso e con gli altri individui, attraverso l’esplorazione motoria, la comunicazione non verbale e verbale, l’espressione delle emozioni, il progressivo inserimento in una dinamica di gruppo, ecc. Lungo questo processo di ‘attività pratica’ si sviluppano le funzioni psichiche” (Mecacci, 1992: 362-363).
La comune critica a Vygotskij non evitò l’insorgere di polemiche tra i suoi allievi. Emblematica, a questo proposito, fu la diatriba che sorse tra Leont’ev e Rubinstejn e che riguardò sia la paternità dell’A.T., sia alcuni suoi aspetti teorici. Per quanto riguarda la paternità dell’A.T., sembra che il dibattito non sia mai giunto definitivamente ad una soluzione. Tanto è vero che “sulla priorità di Rubinstejn nel proporre una teoria dell’attività è sorto negli anni ’80 un dibattito cui hanno partecipato i sostenitori di Rubinstejn da una parte (…) e quelli di Leont’ev dall’altra” (ivi: 365). Per quanto riguarda, invece, gli aspetti teorici, mi limiterò a dire, data la natura di questo scritto, che la versione dell’A.T. di Leont’ev fu tacciata di essere eccessivamente centrata sull’aspetto soggettivo dell’attività. “E’ noto” ha scritto a questo proposito Lektorsky “che la variante dell’activity theory proposta da Leont’ev venne duramente criticata dal famoso psicologo e filosofo S.L. Rubinstejn (…). Quest’ultimo sottolineava il fatto che l’attività non può essere compresa se la si considera un semplice processo di interiorizzazione di standard precostituiti. Rubinstejn scrisse sul carattere creativo dell’attività umana e sull’auto-realizzazione degli esseri umani implicita in questo processo” (Lektorsky, 1999: 66).
Le divergenze teoriche, per altro, non cessarono nemmeno in anni successivi, tanto che Cole ha potuto scrivere: “L’activity theory è tutto, tranne che un progetto monolitico. In Russia ci sono almeno due scuole di pensiero su come sia meglio formulare, in termini psicologici, le idee di Marx (…). C’è una lunga tradizione di ricerca sull’activity theory tedesca (…), una scandinavo/nordica (…), e ora, forse, una americana” (Cole, 1996: 139).
 
2. Principi generali dell’Activity Theory
La complessità dell’A.T. riguarda innanzitutto il concetto di attività formulato di volta in volta dai diversi autori: le diverse discipline, infatti, partono da “basi differenti per la classificazione dei tipi di attività. I sociologi, ad esempio, parlano di attività lavorativa, politica, artistica, scientifica e di altri tipi di attività. Gli scienziati dell’educazione scelgono quali proprie tipologie principali il gioco, l’apprendimento e l’attività lavorativa. In psicologia, l’attività può essere identificata con ogni processo psichico (…). E’ chiaro che, per esempio, l’attività lavorativa o quella politica includono i tipi di attività scelti dagli psicologi. Qual è, dunque, il tipo di classificazione principale e che cos’è il sistema generale dei diversi tipi di attività?” (Davydov, 1999: 46).
Per esigenze di sintesi, si eviterà di ripercorrere in dettaglio la storia del concetto di attività, che è oggetto d’interesse filosofico fin dall’antichità e che trova, anche in tempi a noi più vicini, approfondimenti teorici di una certa rilevanza (basti pensare, ad esempio, all’opera di Karl Marx). Una classificazione dei vari concetti di attività è inoltre resa difficile dal fatto che al termine sono stati attribuiti significati differenti a secondo dei paesi e delle lingue. Nella lingua inglese, ad esempio, “il termine russo per attività, dejatel’nost’, viene tradotto con activity e da ciò consegue che qualsiasi tipo di attività pratica o teoretica dell’uomo viene definita con questo termine. Eppure non tutte le esplicazioni della sua attività vitale possono essere riferite alla designazione russa di dejatel’nost, in quanto la resa più propria di questo termine implica sempre una trasformazione della realtà (…)” (Davydov, 1998: 107). Bedny e Meister, d’altra parte, osservano che il concetto di attività “è approssimativamente comparabile al termine inglese behavior, ma non è lo stesso e le differenze sono istruttive” (Bedny e Meister, 1997: 3). Questi stessi autori propongono una definizione che, nella sua generalità, sembra sufficientemente completa ed esaustiva e che è possibile adottare all’inizio di questo scritto: “nel suo significato più generale l’attività può essere definita un sistema coerente di processi mentali interni, comportamento esterno, e processi motivazionali combinati tra loro e diretti al raggiungimento di scopi consapevoli” (ivi: 3).
Nonostante l’eterogeneità che l’ha caratterizzata e la caratterizza, è tuttavia possibile identificare alcuni concetti basilari dell’A.T. comuni a tutte le sue versioni. Kaptelinin e Nardi hanno identificato i seguenti concetti basilari.
 
3. Struttura gerarchica dell’attività
Zucchermaglio spiega i tre livelli dell’attività umana elaborati da Leont’ev: “l’attività è l’unità molare, sociale per sua natura e svolta per motivi di cui spesso gli attori non sono completamente consapevoli. L’attività si manifesta attraverso azioni orientate ad uno scopo, di cui il soggetto è perfettamente consapevole. Le azioni a loro volta sono fatte di operazioni automatiche, indipendenti dalle caratteristiche dell’attività. Le operazioni quindi, che sono i modi attraverso cui si raggiungono gli scopi delle azioni all’interno di specifiche circostanze, non hanno alcun significato da sole: lo hanno solo all’interno di azioni significative a loro volta collegate da relazioni complesse con sistemi di attività socio-culturalmente definiti. Le azioni – mediate culturalmente – sono dunque le più piccole unità di analisi di studio all’interno della teoria dell’attività” (Zucchermaglio, 1996: 22).
 
4. Orientamento all’oggetto
In base a questo principio gli esseri umani vivono “in una realtà che è oggettiva in senso profondo: gli elementi che costituiscono la realtà, infatti, hanno sia caratteristiche che si possono definire oggettive per le scienze naturali, sia caratteristiche definite socialmente e culturalmente” (Kaptelinin e Nardi, 1997). Una qualche entità diventa un oggetto, nella terminologia dell’A.T., quando si fonde con un bisogno umano. L’oggetto, ad ogni modo, non deve essere confuso con gli scopi. Mentre questi ultimi, infatti, sono sempre collegati ad azioni specifiche, l’oggetto non viene mai definitivamente e completamente raggiunto e definito.
 
5. Interiorizzazione / Esteriorizzazione
L’A.T. enfatizza il fatto che le attività interne non possono essere del tutto comprese se analizzate separatamente da quelle esterne e che, di conseguenza, il meccanismo dell’interiorizzazione e quello dell’esteriorizzazione debbono essere studiati congiuntamente. “L’interiorizzazione” spiegano Kaptelinin e Nardi “è la trasformazione di attività esterne in attività interne. L’interiorizzazione è portatrice di significato per le persone che provano interazioni potenziali con la realtà senza manipolare oggetti reali (quindi attraverso simulazioni mentali, con l’immaginazione, e considerando piani alternativi, etc.). L’esteriorizzazione trasforma le attività interne in attività esterne. L’esteriorizzazione spesso è necessaria quando un’azione interiorizzata necessita di essere ‘riparata’ o pianificata. E’ inoltre importante quando la collaborazione tra più persone richiede che le loro singole attività vengano esteriorizzate per poter essere coordinate” (Kaptelini e Nardi, 1997) (2) .
 
6. Mediazione
Gli uomini” spiega Zucchermaglio “vivono in un ambiente trasformato dalla presenza di artefatti che mediano la nostra interazione con il mondo. (…) Non esistono pratiche ‘naturali’: ogni pratica a cui veniamo introdotti e a cui partecipiamo contiene elementi e strumenti che mediano culturalmente la nostra relazione con il mondo ” (Zucchermaglio, 1996: 16) (3). “Gli artefatti” ha ben osservato a questo proposito Wartofsky “stanno all’evoluzione culturale come il gene sta all’evoluzione biologica” (Wartofsky, 1979: 205).
Tra gli artefatti che svolgono funzioni di mediazione possono essere annoverati strumenti, segnali, modelli mentali, etc, e non è del resto troppo utile distinguere tra artefatti esterni o pratici e interni o cognitivi, giacché una rappresentazione esterna può diventare esterna attraverso, ad esempio, il dialogo, il gesto o la scrittura e, viceversa, i processi esterni possono venir interiorizzati.
 
7. Sviluppo
Per l’A.T., infine, lo sviluppo è sia un oggetto di studio, sia una metodologia di ricerca. “Il metodo di ricerca fondamentale dell’activity theory” infatti “non sono i tradizionali esperimenti di laboratorio, ma piuttosto l’esperimento formativo che unisce la partecipazione attiva all’azione di monitoraggio dei cambiamenti nello sviluppo dei partecipanti alla ricerca. Nei lavori più recenti sono diventati importanti anche i metodi etnografici che tratteggiano la storia e lo sviluppo di una determinata pratica” (Kaptelinin e Nardi, 1997).

8. Sviluppi recenti dell’A.T.
Come già in parte detto, nel corso degli anni Ottanta e Novanta, e soprattutto in seguito alla fine del Comunismo, i principi dell’A.T. sono andati sempre più diffondendosi in Europa e negli Stati Uniti. “Le idee dell’activity theory” scrive Engeström “stanno avendo un impatto crescente in alcuni specifici campi d’indagine, quali l’apprendimento e l’insegnamento (…) e l’interazione uomo-computer (…). L’ activity theory viene discussa in tutti quei testi che cercano di formulare teorie della pratica (…), della cognizione distribuita (…) e della psicologia sociale” (Engeström Y. e Miettinen R., 1999: 1). Alla fine degli anni ’80 è stata fondata una società per lo studio dell’A.T. (ISCRAT (4) ) e “questa società ha inoltre dato vita nel 1988 a un proprio periodico intitolato Multidisciplinary Newsletter for the Research on Activity Theory” (Mecacci, 1992: 372). Un’altra rivista, Mind, Culture and Activity, pubblica periodicamente articoli ispirati dall’A.T. Nel 1986, nel 1990 e nel 1995, infine, si sono tenuti rispettivamente il Primo (a Berlino), il Secondo (a Lahti, in Finlandia) e il Terzo (a Mosca) Congresso Internazionale sull’Activity Theory.

9. L’apporto di Yrjö Engeström all’Activity Theory
Tra gli sviluppi moderni dell’A.T., quello di Engeström sembra essere uno dei più interessanti, specialmente per chi si occupa del funzionamento delle organizzazioni e dello sviluppo dell’apprendimento e della conoscenza all’interno di esse.
Dei cinque principi basilari dell’A.T. presentati nel paragrafo due, Engeström prende in particolare considerazione il quarto: la mediazione. Egli scrive: “E’ per certi versi sorprendentente il fatto che molta poca attenzione venga data all’idea di mediazione nel più recente dibattito teorico sul concetto di attività. Eppure è questa l’idea che unisce i lavori di Vygotsky, Leont’ev, Luria, e gli altri importanti rappresentanti della scuola storico-culturale sovietica” (Engeström, 1999a: 29).
Engeström comincia la sua analisi del meccanismo della mediazione riproponendo il classico modello triadico disegnato da Vygotskij ed elaborato da Leont’ev: 
 

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Fonte: adattato da Engeström (1999a)
 
L’idea che sottostà a questo modello e, più in generale, al concetto di mediazione, è che “gli esseri umani sono in grado di controllare il loro comportamento non dall’interno, sulla base quindi dei bisogni biologici, ma ‘dall’esterno’, utilizzando e creando degli artefatti” (Engeström, 1999a: 29). Un qualche prodotto è il risultato dell’interazione, mediata da strumenti, tra un soggetto (un individuo o un gruppo) e un oggetto.
Alcune spiegazioni di Russell possono aiutare a comprendere i tre elementi del modello e la loro interazione: “Il soggetto è composto dall’agente (o sono dagli agenti) del quale (o dei quali) l’analista sta studiando il comportamento. L’identità degli individui o dei gruppi viene considerata, in termini sociali, il loro coinvolgimento in vari sistemi di attività. Sia gli individui che i gruppi, infatti, possono essere coinvolti in molteplici sistemi di attività. (…) Per strumenti ci si riferisce agli oggetti materiali che vengono utilizzati dagli individui o dai gruppi nella realizzazione di una qualche azione che porti ad un determinato prodotto. Lo stesso strumento può essere utilizzato diversamente nel corso del tempo o in azioni e in sistemi di attività diversi. (…) L’oggetto è la materia prima o lo spazio del problema sul quale il soggetto si impegna utilizzando i vari strumenti nel corso dell’interazione con un’altra o con delle altre persone” (Russell, 1997).
Per meglio esplicitare la natura sociale e collaborativa delle attività, Engeström ha proposto di ampliare il modello precedente, includendo in esso elementi quali la ‘divisione del lavoro’, le ‘regole’ e la ‘comunità’. La nuova versione del modello proposta da Engeström è la seguente:
 
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Fonte: adattato da Engeström (1999a)

In questo nuovo modello, spiega Zucchermaglio, “per soggetto si intende la comunità sociale il cui operare costituisce il punto di vista adottato nell’analisi e per oggetto si intende il materiale o lo spazio problematico nel quale l’attività si muove e che è trasformato in risultati con la mediazione di strumenti e artefatti fisici e simbolici. La comunità comprende numerosi individui o sottogruppi che condividono lo stesso oggetto. Per divisione del lavoro si intende sia la divisione orizzontale di compiti tra i membri di una comunità che quella verticale in base allo status e al potere. Infine con regole si intendono tutte quelle norme e convenzioni esplicite, ma anche spesso implicite, che guidano le azioni e le interazioni all’interno di un sistema di attività” (Zucchermaglio, 1996: 23-24).
E’ per altro molto importante sottolineare la dinamicità dell’attività, dinamicità che la rappresentazione grafica inevitabilmente rischia di non esplicitare a sufficienza. “La costruzione degli oggetti mediata dagli artefatti” spiega Engeström  “non avviene né in maniera solitaria, né all’unisono. Essa è un processo collaborativo e dialogico nel quale si incontrano, si scontrano e si toccano prospettive e voci differenti. Le diverse prospettive vengono sono radicate nelle diverse comunità e pratiche che continuano a coesistere all’interno dello stesso ed unico sistema d’attività collettivo” (Engeström, 1999b: 382) (5). Le conseguenze più generali di queste caratteristiche dell’attività sono le seguenti: per prima cosa “i sistemi di attività hanno un qualche impatto su un numero crescente di persone. In secondo luogo, tutto questo significa che i diversi sistemi di attività, e le persone che al loro interno, diventano sempre più interdipendenti, formando sempre più network complessi e gerarchie d’interazione. In terzo luogo, questa interdipendenza non è solo un’affiliazione formale. I sistemi d’attività vengono sempre più penetrati e saturati dalle leggi socio-economiche basilari e dalle corrispondenti contraddizioni della società. In altre parole, le attività vengono sempre meno lasciate in qualche relativo isolamento dalle turbolenze della società, quali rimanenze delle precedenti formazioni socio-economiche” (Engeström, 1987).

10. Activity Theory ed apprendimento: la proposta teorica di Engeström
La questione di come le persone apprendano è, naturalmente, una questione centrale nelle teorie di molti autori. Recentemente Engeström ha fornito un paradigma teorico basato sull’A.T. e sulla sua teoria dell’expansive learning che sembra affrontare la questione in maniera originale, attraverso la rielaborazione dei concetti classici dell’A.T. di cui si è detto.
Secondo Engeström l’A.T. è particolarmente adatta all’analisi dell’apprendimento che avviene nei contesti lavorativi. Per prima cosa, egli spiega, “l’activity theory è profondamente contestuale ed è orientata alla comprensione di pratiche locali storicamente specifiche, dei loro oggetti, degli artefatti con funzione di mediazione, e dell’organizzazione sociale (…). In secondo luogo, l’activity theory è basata su una teoria della conoscenza e del pensiero dialettica e centrata sul potenziale creativo della cognizione umana (…). In terzo luogo, l’activity theory è una teoria evolutiva che cerca di spiegare e di influenzare i cambiamenti qualitativi che accadono nelle pratiche umane nel corso del tempo” (Engeström, 1999b: 378). Lo sviluppo, del resto, è sia il quinto concetto basilare dell’A.T. (si veda paragrafo due), sia un elemento fondamentale di ogni processo di apprendimento: “l’acquisizione di nuova conoscenza e di skill” infatti “comporta certi prerequisiti in termini di abilità, motivazione, e strutture mnemoniche che, in un dato momento, solo parzialmente hanno raggiunto il necessario livello di sviluppo. Se questi prerequisiti fossero pienamente sviluppati, infatti, l’apprendimento non sarebbe necessario; se non lo fossero interamente, viceversa, l’apprendimento sarebbe impossibile” (Lompscher, 1999: 267).
Engeström cominciò a lavorare alla sua teoria dell’expansive learning nel corso degli anni Ottanta e pubblicò il suo testo Learning by Expanding: An Activity-Theoretical Approach to Developmental Research a Helsinki nel 1987. Dieci anni dopo riassunse le idee fondamentali del libro (e della teoria) nei seguenti cinque punti:
1) “per gli studi storico-culturali della condotta umana l’unità di analisi primaria è il sistema di attività collettivo orientato all’oggetto e mediato dagli artefatti;
2) nei sistemi di attività le principali fonti di cambiamento e di movimento sono le contraddizioni interne che si evolvono storicamente;
3) l’expansive learning è un nuovo tipo di apprendimento che emerge allorquando dei professionisti procedono lungo le trasformazioni evolutive nei loro rispettivi sistemi d’attività, attraversando le varie zone di sviluppo prossimale collettive;
4) il metodo dialettico, che consiste nell’ascendere dall’astratto al concreto, è uno strumento fondamentale per padroneggiare i vari cicli dell’expansive learning;
5) è necessaria una metodologia di ricerca interventista che aiuti ad proporre, mediare, registrare ed analizzare i cicli dell’expansive learning nei sistemi di attività locali” (Engeström, 1999d).
Più sinteticamente egli aveva già definito l’expansive learning nel 1994, in un testo pubblicato per conto del’I.L.O. (International Labour Office): “Parliamo di expansive learning o di apprendimento di terz’ordine” egli scrive “quando una comunità di pratica comincia ad analizzarsi e a trasformarsi. Questo tipo di expansive learning non è limitato a contenuti e a compiti predefiniti. Esso, piuttosto, è un processo di lungo termine di ridefinizione degli oggetti, degli strumenti e delle strutture sociali degli ambienti di lavoro” (Engeström, 1994: 43) (6). All’interno di un’organizzazione si può parlare di expansive learning allorquando essa identifica la propria zona di sviluppo prossimale collettiva (cioè il gap esistente tra le proprie performance attuali e quelle, possibili, future) e procede a realizzare quanto necessario per raggiungere il nuovo assetto prospettatosi, creando una nuova vision e trasformandola in azioni concrete.
Il modello teorico proposto da Engeström si sviluppa attraverso i seguenti setti passaggi.
1) La prima azione da compiere è quella di ragionare, criticare o rifiutare alcuni aspetti di una qualche pratica consolidata o di un qualche sapere esistente. Per esigenze di sintesi Engeström chiama questa prima azione il questioning.
2) La seconda azione consiste nell’analizzare la situazione. In particolare, spiega Engeström, “le analisi implicano una qualche trasformazione mentale, discorsiva o pratica della situazione in modo da far emergere le cause ed i principi esplicativi. L’analisi comporta domande e principi esplicativi del tipo ‘perché?’. Un primo tipo di analisi è storico-genetica e cerca di dar spiegazione di una data situazione ripercorrendo la sua origine e la sua evoluzione. Un altro tipo di analisi è reale-empirica e cerca di spiegare la situazione tratteggiando un quadro delle sue relazioni sistemiche interne principali”.
3) La terza azione da compiersi è quella di costruire un modello semplificato, ed esplicito, della nuova idea emersa che spieghi la situazione problematica e ne offra una soluzione. Questa è per Engeström la fase del modeling.
4) La quarta azione prevede di esaminare il modello operando e sperimentando su di esso per sviluppare pienamente le sue dinamiche, le sue potenzialità e, naturalmente, anche i suoi limiti.
5) “La quinta azione” spiega Engeström “consiste nel migliorare il modello, rendendolo più concreto per mezzo di applicazioni pratiche, arricchimenti ed estensioni concettuali”.
6) “La sesta e la settima azione previste dal modello sono quelle di “riflettere su e valutare il processo in questione e consolidarne i risultati in una nuova e stabile pratica” (Engeström, 1999b: 383-384).
La valenza metodologica del modello proposto da Engeström è stata riconosciuta anche da autori altrimenti critici nei confronti dell’A.T. Ha scritto, ad esempio, Bannon: “Se da una parte l’A.T. è in grado di fornire un quadro concettuale per comprendere ed analizzare l’attività umana, dall’altra parte essa non è in grado di fornire una metodologia abbastanza chiara per riconoscere, delineare e scrutinare queste stesse attività tanto quanto esse necessiterebbero. All’interno della tradizione dell’A.T., di conseguenza, è possibile rinvenire diversi tipi di studi riguardanti l’osservazione dell’attività, l’analisi delle interazioni, l’analisi storica degli artefatti, etc. Forse una delle ragioni per cui il lavoro di Engeström, un teorico dell’attività, è diventato famoso è perché esso mette a disposizione un quadro concettuale chiaro (anche se non necessariamente coerente), attraverso il suo famoso ‘triangolo’ e un corrispettivo quadro metodologico ben sviluppato, che Engeström chiama developmental work research” (Bannon, 2002).

11. Aspetti critici dell’Activity Theory
La chiusura ideale di questa breve storia dell’A.T. sembra essere il riferimento a due diversi scritti di Davydov. In entrambi l’autore indica alcune questioni che l’A.T. ha lasciato e lascia irrisolte e propone, quale possibile prospettiva futura, il ricongiungimento tra l’A.T. stessa e la teoria storico-culturale.
Una delle questioni più urgenti cui, secondo Davydov, l’A.T. deve far fronte, è quella di comprendere correttamente il processo della trasformazione. Troppo facilmente si confondono, infatti, trasformazione e cambiamento e si dimentica che la trasformazione è, in un certo senso, un cambiamento più profondo che va a modificare l’oggetto internamente e non solo esternamente. La conseguenza di questa errata comprensione del processo della trasformazione è un certo attivismo tecnicistico, troppo spesso palesato dall’A.T. “L’approccio della teoria dell’attività” scrive infatti Davydov “comporta un certo attivismo tecnicistico che non ha origini umanistiche. Piuttosto che sviluppare l’essenza della realtà secondo le sue leggi, esso la sfigura, la mutila e la muta senza prendere in considerazione gli interessi storici degli esseri umani e le realistiche possibilità della realtà stessa” (Davydov, 1999: 43).
Una seconda questione riguarda la non chiara distinzione tra attività collettiva ed individuale. “Se il soggetto collettivo” scrive l’autore “è esterno a certi particolari individui, può essere immaginato nella forma di una qualche totalità o di un gruppo di persone, e in che senso esatto esso esiste al di là degli individui particolari che formano il gruppo in questione? Inoltre, quali possono essere le caratteristiche essenziali di un gruppo di persone che compiono un attività collettiva in modo da poter definire questo stesso gruppo un soggetto collettivo? Quali caratteristiche possono aiutare a distinguere tra soggetti collettivi ed individuali? Quali sono le caratteristiche particolari di un soggetto individuale, e in che senso esso è diverso dalla personalità? Come può essere definito il livello di realizzazione individuale dell’attività? Tutte queste questioni non hanno ancora trovato risposta” (ivi: 44-45).
Una terza questione riguarda l’interazione tra attività e comunicazione. Non è infatti possibile “comprendere l’origine dell’attività del singolo uomo senza individuarne i legami originari con i processi della comunicazione e senza i nessi originari con i sistemi semiotici. Conseguentemente bisogna studiare contemporaneamente l’attività, la comunicazione, il dialogo, i sistemi semiotici” (Davydov, 1998: 112).
La quarta questione riguarda l’organizzazione interdisciplinare che l’A.T. solo parzialmente è riuscita a darsi. “Oggigiorno” spiega Davydov “le diverse discipline generalmente studiano l’attività indipendentemente. (…) Solo a livello teorico è possibile vedere gli psicologi utilizzare le conclusioni formulate da un filosofo o da un sociologo, o viceversa. Sono stati condotti ben pochi esperimenti nei quali partecipassero rappresentanti di discipline diverse- logici, sociologi, educatori, fisiologi, psicologi (…). Ma proprio questo tipo di ricerca sarebbe di grande importanza oggi” (Davydov, 1999: 49).
La quinta questione, infine, è strettamente collegata alla precedente. Un metodo multidisciplinare per lo studio dello sviluppo dell’attività può, infatti, comportare risultati positivi “solo se contemporaneamente si studia il suo sviluppo contestualmente alla storia della cultura. (…) Pertanto le prospettive future di una teoria polidisciplinare dell’attività sono connesse in misura notevole all’unificazione del metodo specificatamente pertinente all’attività con quello propriamente semiotico, ovvero all’unificazione della teoria più propriamente definita dell’attività e della teoria storico-culturale dello sviluppo umano” (Davydov, 1998: 112).
La separazione tra l’A.T. e la scuola storico-culturale che sta all’origine dell’A.T. stessa sembra dunque destinata a venir meno e, quel che è ancor più importante, l’A.T. sembra poter intraprendere un proficuo dialogo con teorie ad essa contigue, quali, ad esempio, quella dell’azione mediata (Wertsch, del Rio, Alvarez, etc…) e quella dell’apprendimento situato (Lave e Wenger). Engeström e Miettinen, a questo riguardo, si sono espressi in maniera molta chiara: “L’activity theory” hanno scritto “ha profonde radici storiche ed ha accumulato una quantità di teoria e di ricerca che è ancora solo parzialmente conosciuta in Occidente. I teorici dell’attività, di conseguenza, dovrebbero fare auto-critica e sfruttare questa storia, e dovrebbero inoltre accettare le nuove, eccitanti sfide e le opportunità di collaborazione” (Engeström e Miettinen, 1999: 12-13).
 
Note
1 Ho preferito lasciare in inglese il nome della teoria perché mi sembra che esso suggerisca meglio l’idea di un programma di ricerca multidisciplinare e transnazionale quale la teoria dell’attività ormai è.
2 Opportunamente, a questo riguardo, Engeström lamenta il fatto che troppo spesso il meccanismo dell’interiorizzazione venga considerato il meccanismo chiave scoperto dalla scuola storico-culturale e analizzato dall’activity theory, laddove, invece, gli studi di entrambe le teorie si concentrarono fin dall’inizio anche sul meccanismo dell’esteriorizzazione. Si veda: Engeström 1999a.
3 Alcuni autori hanno criticato l’ubiquità di ‘strumenti’ e ‘artefatti’ sovente indicata dai sostenitori dell’A.T. Bereiter, ad esempio, ha scritto: “Non ho mai capito perché i teorici dell’attività facciano tanto rumore per affermare l’ubiquità degli strumenti all’interno dell’attività umana: è come se, affermandola, essi riuscissero a far dileguare una nube densa. Mi sembra che, esattamente come molti altri contributi, anche questo finisca semplicemente per sottolineare qualcosa che già conosciamo, rendendola sì più facilmente utilizzabile, ma senza produrre nessun vero slittamento di paradigma” (Bereiter, 2002: 477-478).
4 L’acronimo sta per: “International Society for Cultural Research based and Activity Theory”.
5 “Un sistema di attività” osserva Russell “è ogni interazione umana in atto, diretta all’oggetto, condizionata storicamente, strutturata dialetticamente e mediata da un qualche strumento. Alcuni esempi di sistemi d’attività sono la famiglia, un’organizzazione religiosa, un gruppo di discussione, un movimento politico, un corso di studi, una scuola, una disciplina, un laboratorio di ricerca e una professione. Ciascuno di questi sistemi di attività viene viene storicamente (ri)costruito dai singoli partecipanti attraverso l’uso di certi strumenti e non di altri, compresi strumenti discorsivi come il discorso, i suoni o le inscrizioni. Il sistema d’attività è l’unità di analisi basilare sia per il comportamento degli individui che per quello dei gruppi, in quanto analizza e poi cambia il modo concreto in cui gli strumenti vengono usati per mediare il motivo (la direzione, la traiettoria) di un comportamento e il suo oggetto (il problema specifico o il focus)” (Russell, 1997).
6 Si noti la somiglianza tra questo concetto e quello di Bateson (Learning III). Per un confronto tra la teoria dell’apprendimento di Bateson e quella di Engeström si veda, tra gli altri: Wartofsky M. (1979). Models: Representation and scientific understanding. Dordrecht: Reidel. 
 
Bibliografia
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(http://www.public.iastate.edu/~drrussel/drresume.html)
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Wartofsky M (1979). Models: Representation and scientific understanding. Dordrecht: Reidel.
Zucchermaglio C. (1996). Vygotskij in azienda. Roma: Carocci.
 
 

* In “Formazione & Cambiamento”, n. 27, 2004 
 
Il testo qui proposto è la traduzione in italiano di una video-intervista al Prof. Yrjo Engestrom e condotta dal Prof. Chris Jones (1) il 16 gennaio 2002 presso il CSALT (Centre for Studies in Advanced Learning Technologies), Lancaster University, Gran Bretagna, http://csalt.lancs.ac.uk/alt/engestrom/.
L’intervista, con un piacevole tono informale, introduce in modo semplice alcuni concetti fondamentali del pensiero e dell’attività del professore finlandese. Chi ne conosce già la produzione potrà notare invece come altri concetti (es. il boundary-crossing) non vengono esplicitamente spiegati nell’intervista ma affiorano a più riprese dimostrando come essi costituiscano degli strumenti versatili, utilizzati in modo fluido da Engestrom nella sua attività.
Come emerge dall’intervista stessa, la riflessione di Engestrom procede a partire dal recupero e dallo sviluppo dell’opera di russo Vygotskij e della sua scuola, vedendo così il processo di apprendimento come legato alla partecipazione ad un sistema concreto di attività e coestensivo al processo storico, mai lineare e a-problematico, di trasformazione di reti di soggetti e di artefatti culturali, cognitivi e materiali, orientate a intervenire su specifici aspetti del reale (2).
L’importanza del contributo di Engestrom è riconducibile da un lato al crescente interesse per i temi dell’apprendimento situato (3); dall’altro al fatto che l’approccio suggerito fornisce strumenti utili alla riflessione e alla sperimentazione riguardanti i fenomeni di apprendimento e di innovazione che possono aver luogo nelle comunità di pratica.
Si ringrazia il Prof. Yrjo Engestrom per la gentile autorizzazione a tradurre e pubblicare il testo dell’intervista.

Chris Jones: Benvenuto al CSALT presso la Lancaster University. Ci piacerebbe che per prima cosa ci raccontassi qualcosa su di te e sulla fase attuale della tua ricerca e del tuo lavoro.
 
Yrjo Engestrom: Lavoro in due luoghi differenti: presso l’università di Helsinky dove dirigo un centro chiamato Center for Activity Theory and Developmental Work Research e a San Diego presso la University of California, Department of Communication e in particolare sono coinvolto nelle attività del Laboratory on Comparative Human Cognition. Si tratta di un movimento sia in senso geografico, tra due paesi molto differenti, sia di un movimento tra discipline diverse. A Helsinky, infatti, la mia homebase è l’Education e più specificamente la Adult Education, mentre a San Diego sono nel dipartimento di comunicazione e la mia cattedra è in comunicazione. Si tratta di una combinazione piuttosto strana e difficile. Tuttavia penso che entrambe le discipline, educazione e comunicazione, nella loro versione migliore, sono molto multidisciplinari. Mi trovo dunque ad un incrocio tra differenti scienze sociali, dove è possibile mettere insieme il micro ed il macro, la agency e la struttura, il processo e la struttura, per così dire, e farle parlare l’una con l’altra. Sento di trovarmi ad una sorta di linea di confine. E’ un luogo un po’ rischioso in cui situarsi perché, sai, potresti finire in una sorta di terra di nessuno, di solitudine; d’altra parte è un buon posto se puoi muoverti attraverso quei confini perché hai modo di incontrare un pubblico, di interlocutori e idee, in molteplici campi.
 
Chris Jones: Hai parlato della Activity Theory con cui sei stato strettamente identificato. Puoi spiegare come utilizzi tale approccio ed in che misura esso può essere utile nel comprendere l’apprendimento, in particolare per quanto riguarda le nuove tecnologie?
 
Yrjo Engestrom: Sì...La Activity Theory, o Cultural Historical Activity Theory come è il suo nome per intero, fu originata in Unione Sovietica negli anni ’20. Il suo padre iniziale fu Lev Vygotskij e i suoi stretti collaboratori Luria e Leont’ev. La loro agenda era di rivoluzionare la psicologia, di andare oltre il comportamentismo e oltre gli approcci ispirati dalla biologia, portare il concetto di cultura nella comprensione del modo di funzionare umano, e vedere l’uomo come mediato culturalmente, sempre preso attivamente in una particolare attività con i suoi specifici strumenti, il suo specifico linguaggio, le sue specifiche comunità. In questo senso, penso, per quanto mi riguarda, che l’Activity Theory nel suo stadio attuale è un approccio che prova a espandere radicalmente la nostra nozione di quella che è propriamente la specifica unità d’analisi di certi processi di apprendimento. Per esempio, l’apprendimento non è limitato a ciò che accade sotto la pelle, all’interno di in un singolo individuo. L’apprendimento dovrebbe essere compreso, e tutte le parti del processo dovrebbero essere comprese come qualcosa che è distribuito tra gli individui, tra i loro colleghi e collaboratori, tra i materiali, gli artefatti, gli attrezzi e le risorse semiotiche. In questo modo si espande l’unità d’analisi dell’apprendimento. Per esempio, inizi a guardare in modo diverso alla domanda “chi apprende?”. Ad apprendere non è soltanto l’individuo ma qualcosa come un preciso sistema d’attività funzionante, in moto.
 
Chris Jones: Tu usi il termine Expansive Learning. Potresti raccontarci qualcosa riguardo ciò che implica tale termine e quali differenze marca rispetto le tradizionali visioni dell’apprendimento?
 
Yrjo Engestrom: Sì. Ehm....E’ cruciale, io credo, che si veda l’apprendimento come un fenomeno che agisce su più livelli, non c’è una unica singola spiegazione dell’apprendimento. Molto utile per me è l’opera di Gregory Bateson. Bateson distingue tra apprendimento 1, apprendimento 2, apprendimento 3... L’apprendimento 1 riguarda il condizionamento: la gente impara ad agire in modo appropriato nell’ambiente attraverso le sue reazioni venendo rinforzata e altre volte punita. E’ un tipo fortuito, passivo, non cosciente, di apprendimento. Poi c’è una sorta di secondo strato che lui chiama apprendimento 2 che significa che noi apprendiamo anche le regole del gioco. Noi non apprendiamo soltanto attraverso i professori.... Chi apprende, apprende anche come diventare studente. Per esempio, noi apprendiamo a comportarci, apprendiamo ad acquisire un carattere, apprendiamo a essere socievoli e a stare con gli altri in quello specifico contesto, apprendiamo ad affermarci etc. Apprendiamo tutte queste cose che non sono nel curriculum esplicito, ufficiale. Così questo sarebbe l’apprendimento 2 in cui noi apprendiamo anche a sperimentare un po’ nel nostro ambiente, per vedere quanto possiamo piegare le regole, quanto possiamo deviare etc. Così questo tipo di apprendimento 2 è sempre implicato in tutto ciò che proviamo ad apprendere. Ma quello che è più rilevante per la mia personale ricerca è l’apprendimento 3, ed quello che chiamo expansive learning o learning by expanding. Questo si riferisce a processi in cui gli esseri umani a volte finiscono in situazioni altamente contraddittorie nei sistemi di attività, dove le richieste o i messaggi che sono loro diretti sono in conflitto in modo che in una certa misura ti senti preso in un “doppio vincolo”: qualsiasi cosa tu faccia è sbagliata, ah ah [ride] e non puoi farla giusta. In tali situazioni le persone qualche volta intraprendono quello che è chiamato apprendimento 3. Si allontanano dalla superficie e dal contesto per costruire una immagine più grande, un contesto più grande, per “espandere” il contesto. Ad esempio uno studente che è disturbato dalle tensioni prodotte dalla scuola, può essere capace di distanziarsi per vedere che “Oh, la scuola è in effetti solo una sorta di istituzione ma c’è di più...” Io credo che questo è, ad esempio, il modo in cui emerge il movimento radicale degli studenti, gli studenti vogliono andare “oltre” l’informazione data. Learning by expanding o apprendimento 3 è in gran misura andare oltre l’informazione data per costruire un nuovo set di criteri, una più vasta immagine, un più vasto oggetto di attività in cui liberarsi dai limiti del particolare setting in cui stai funzionando rendendoti in grado di creare nuovi criteri. Così l’apprendimento 3 o expansive learning riguarda molto l’apprendere qualcosa che non è ancora lì, dove apprendi mentre costruisci una nuova attività.

Chris Jones: Quelle tre forme di apprendimento… le vedi come incrementali, poggiandosi l’una sull’altra, o le vedi come combinate in una attività complessiva?
 
Yrjo Engestrom: Io credo che l’apprendimento 1 e l’apprendimento 2 avvengono sempre, in ogni momento, che noi lo vogliamo o no. L’apprendimento 3 è un’occasione rara. Vediamo nel tempo una sorta di piccoli inizi di apprendimento 3, che prendono forma di interrogativi e devianza. Rendere possibile o sopprimere una devianza individuale è il modo in cui la devianza si dà. Vediamo sostanzialmente marginalizzare, stigmatizzare, a volte mettere a silenzio questi fenomeni perché l’apprendimento 3 è pericoloso, le persone potrebbero impazzire, essere viste come strane, incapaci di funzionare normalmente... Così è essenziale che, per avere successo, l’expansive learning richieda che tu crei una alleanza o un network. L’espansione deve essere anche espansione sociale. Un processo individuale è infatti troppo rischioso. Sai, diventi pazzo nel senso che la maggioranza ti definirà pazzo perché la tua concezione di ciò che è rilevante e giusto è così radicalmente diversa dalle norme esistenti che.... E’ davvero essenziale qui che l’apprendimento 3, nella misura in cui diviene parte della vita normale, con effetti continui nel tempo, richiede un sostegno e una cura molto speciali perché come ho detto la cosa più comune cui si assiste è la soppressione.
 
Chris Jones: Tu usi il termine Network e noi usiamo il termine Network Learning .. Come vedi cambiare attività ed educazione in relazione all’introduzione di tecnologie in rete?
Yrjo Engestrom: Vedo un fenomeno a due facce. Da una parte vedi questa radicale immersione ed inclusione nel senso che puoi essere immerso ed incluso in una enorme varietà di interazioni e di link con altre persone, di attività e risorse culturali. E’ il lato ottimistico della cosa. Allo stesso tempo, sai, la logica del mercato, la logica di operazioni strettamente individualiste nei network è terribilmente forte al momento, anche nel campo dell’educazione. Così c’è molta pressione nel trasformare le tecnologie di rete in meri meccanismi di mercato, luoghi del mercato, in cui ognuno è lì solo per guadagnare qualcosa per se stesso. In cui ognuno è lì solo per avvicinarsi, vedere e forse comprare o vendere qualcosa ma non c’è comunità, nessun genuino, diciamo... “sforzo collaborativo” attorno al produrre qualcosa. Se si tratta solo di vendere e comprare, dov’è la produzione del nuovo? Così il rischio di questa potente tecnologia di rete è che tende a mercificare, o almeno permette la mercificazione della conoscenza in pacchetti che sono comprati e venduti individualmente. Per superare questo fenomeno, o almeno controbilanciarlo, si ha bisogno, credo, di fare particolare attenzione a questioni come la creazione di comunità, nei networks... così che i nodi e networks non sono solo individui ma anche formazione di comunità. In questo senso credo che sia davvero molto importante studiare non solo la versione di mercato del network ma anche il movimento opensource attorno a Linux. La creazione del sistema operativo Linux è un buon esempio di un fenomeno interessante dove c’è una genuina formazione di comunità. Sai, puoi parlare di comunità di interesse e di comunità di pratica che forse, in un certo senso, producono una sorta di activity system. Radicalmente disperse nel tempo e nello spazio ma continuando a condividere un oggetto attorno al quale producono qualcosa di nuovo e non solo consumo e scambio. Così penso che si ponga questa questione che suona un po’ “Come assicurarsi che le tecnologie di rete permettano la produzione di nuovi valori d’uso? Come assicuriamo che non siano orientate individualisticamente andando invece oltre il consumo, oltre il solo comprare e vendere e oltre nodi definiti solo come individui?” Queste sono le sfide e penso sia un campo decisamente molto eccitante.
 
Chris Jones: Se noi dessimo una cornice temporale a tutto questo, quali dovrebbero essere i temi principali che dovrebbero emergere nell’apprendimento in rete nei prossimi due o tre anni?

Yrjo Engestrom: Al momento credo che ecologicamente parlando, sai, quello che vediamo è certamente il radicale incremento della cosiddetta “mobile technology” che significa che l’estensione e le possibilità del network diventano molto più indipendenti da un luogo particolare. Venendo dalla Finlandia, vedendo quello che sta facendo la Nokia con i suoi sforzi per rendere internet accessibile da ognuno in ogni momento, da un lato credo ci sia molta propaganda di lancio, ovviamente, e forse molte aspettative irrealistiche, mentre per altri versi molto sta avvenendo realmente nella direzione di rendere le cose più mobili. Questa mobilità è molto importante e noi non siamo probabilmente ancora del tutto consapevoli delle sue implicazioni per l’educazione. Ad esempio, quando vedo mio figlio che è un abile skateboarder, ho un esempio di cultura della mobilità. Gli skateboarders non vanno più esclusivamente in un singolo posto come uno skatepark. Vanno per la città muovendosi come nomadi, mandandosi messaggi, sms... ( e nel futuro probabilmente si invieranno video)... mostrando che qui c’è un buon posto per fare skate, questa particolare rampa, questo particolare corrimano con cui è costruita questa scala di questo palazzo, ah ah (ride), è adatta per andarci con lo skate e tutto questo significa che c’è un riunirsi e disperdersi - riunirsi e disperdersi, una sorta di pulsazione sia dal punto di vista sociale che dell’informazione. Questo implica una nozione molto differente di network, non si tratta più solo di nodi stabili che sono connessi. I nodi stessi si muovono radicalmente. Credo sia un aspetto molto interessante cui dobbiamo fare molta attenzione nell’educazione. Noi nell’educazione pensiamo ancora in termini di “OK, qui ci sono i terminali così lasciate venire qui i ragazzi, ai terminali e iniziamo il network”. Ma se i terminali si muovono, qualcosa di importante cambia. “Che cosa” non è ancora del tutto chiaro ah ah
 
Chris Jones: Per finire, il pubblico di questa intervista sono networked learning practitioners che stanno sviluppando il loro lavoro per il dottorato. Quale potrebbe essere il tuo messaggio ai partecipanti se tu dovessi proporre loro una cosa in particolare su cui riflettere intensamente?
 
Yrjo Engestrom: Ok. Io direi, personalmente... è solo una mia osservazione personale e teorica... di essere consapevoli che l’apprendimento in network, i mondi virtuali e digitali, non dovrebbero essere concepiti come mondi chiusi e isolati. In altre parole ci sono aspettative enormi nel pensare questi network come completamente chiusi in se stessi, nel senso che...sai... ognuno può assumere qualsiasi identità, ognuno può recitare qualsiasi ruolo, ogni informazione è accessibile etc... Comunque esiste una connessione, una interfaccia con il mondo esterno, con la nostra esistenza fisica, in cui dobbiamo mangiare e camminare... e vivere con la gente reale. Tutto suona un po’ come sospeso o escluso,isolato, l’esperienza di un mondo chiuso. E’ una sfida… Penso che necessitiamo di mondi mischiati, mondi che attraversano quei confini e divengano ibridi. Così in un certo senso penso che un esempio può venire da un buon libro di narrativa fantastica come Harry Potter. Il mondo di Harry Potter è differente perché in effetti, nella vita quotidiana, nella loro scuola di maghi attraversano i confini. Non dovremmo costruire mondi isolati, dovremmo costruire scuole dei maghi in cui vi sono azioni problematiche che implicano riflessione affrontando problemi riguardanti la vita quotidiana, insieme e grazie a quei poteri e possibilità magiche offerte dal web. In questo senso ci sarebbe sempre un attraversamento dei confini. A volte penso ai MUD, multiusers dungeons, che “catturano” gli utenti per giorni e giorni, in un mondo isolato. Mi chiedo: Che cosa succede quando arriva l’ora di cena? Cose del tipo: Come ti relazioni al mangiare, come ti relazioni al tuo corpo? Come ci fai i conti? Oppure tutto scompare? Difficile...
Dovremmo prestare particolare attenzione a questo fenomeno di attraversamento dei confini. 
 
Note
1 (http://www.lancs.ac.uk/fss/edres/staff/jones/)
2 Tra la letteratura in italiano cfr. C. Pontecorvo, C. Zucchermaglio, A.M. Ajello (a cura di), I contesti sociali dell’apprendimento, Led, Milano, 1995;C. Zucchermaglio, Vygotskij in azienda. Apprendimento e comunicazione nei contesti organizzativi, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1996; A.M. Ajello (a cura di), La competenza, Il Mulino, Bologna, 2002; F. Roma,  Contesti lavorativi e apprendimento: il contributo dell’Activity Theory, in “Formazione e Cambiamento”, Anno IV , n. 26, marzo 2004 
3 Oltre ai testi già citati, Cfr. D.Nicolini, S.Gherardi, D. Yanow (a cura di), Knowing in Organizations: A Practice Based Approach, Armonk, NY, ME Shape, 2003.

* In “Formazione & Cambiamento”, n. 45, 2007 
 
D. Lipari - E’ noto a noi tutti come la traiettoria intellettuale di Etienne Wenger, muovendo dallo studio e dalla descrizione dei fenomeni dell’apprendimento situato che hanno dato luogo al costrutto “comunità di pratica” (e poi più in generale ad una teoria sociale dell’apprendimento) lo abbia condotto recentemente ad assumere la prospettiva dell’intervento finalizzato a sviluppare, nelle organizzazioni, delle comunità di pratica. Si tratta di quella modalità di intervento non direttivo per la quale Wenger utilizza la metafora della coltivazione. Vorrei chiedere ad Etienne se può riprendere e spiegare il percorso che lo ha portato dalla riflessione, alla sperimentazione e infine alla proposta di una prospettiva di intervento.
 
E. Wenger – E’ una traiettoria che ha sorpreso anche me, non è niente di organizzato, programmato. Questa traiettoria ha avuto l’istruzione come obiettivo principale; quando J. Lave ed io abbiamo iniziato a lavorare al primo libro, lavoravamo in un istituto che si chiamava “Istituto per la ricerca sull’Apprendimento”, e lo scopo che si prefiggeva questo istituto era fare ricerca sull’apprendimento per aiutare e assistere i processi di istruzione, scindere lo studio dell’apprendimento dallo studio dell’insegnamento per vedere se questo ci avrebbe dato nuovi spunti, nuovo materiale su cui riflettere riguardo all’istruzione .
È successo che quando stavamo formulando e definendo le teorie, sono state le comunità manageriali, le aziende, che di queste teorie si è appropriata e ha deciso di tradurle in pratica. Adesso le cose stanno cambiando nuovamente, nel settore dell’istruzione e dell’educazione si manifesta oggi un interesse verso questo nuovo approccio oggi, ma un tempo non erano pronti per questo. Il che è comprensibile, perché se vi occupate di istruzione, educazione e cambiate la teoria dell’apprendimento voi cambiate il vostro core-business, la parte centrale del vostro lavoro.
Mentre se voi producete macchine e cambiate la teoria sull’apprendimento questo non modifica il fatto che produciate macchine. E penso che ci fosse questo bisogno abbastanza impellente da parte delle organizzazioni di trovare nuovi modi di organizzare le conoscenze, i saperi, con la disponibilità ad investire risorse in questo. Ciò è avvenuto tra la metà e la fine degli anni Novanta, l’idea era passare da un approccio incentrato sulla tecnologia ad uno che era incentrato sull’aspetto umano.
Ma la gente mi fa questa domanda:- La comunità di pratica è un qualcosa di concreto, che esiste o è semplicemente una prospettiva analitica? In realtà penso che risponda a entrambe le definizioni perché per certi versi è una prospettiva analitica, un modo di guardare al mondo, ma al tempo stesso è qualcosa con cui la gente si identifica perché gli appare familiare rispetto alla loro esperienze e che quindi è passibile di una qualche forma di intervento, perché non è solo una prospettiva analitica.
Visto che è una commistione tra una prospettiva analitica e un modo di affrontare la realtà esterna, in un’ottica pratica la cosa principale da chiedersi è più se questa prospettiva si debba applicare o meno ad un gruppo, piuttosto che il discutere all’infinito se quel gruppo è effettivamente o non è una comunità di pratica. Con questo concetto di comunità di pratica c’è associato uno strumento evolutivo. Il punto centrale è stabilire se si voglia applicare o meno questa prospettiva che ha un potenziale evolutivo ad un gruppo, che poi questo gruppo si chiami team, task force, business unit non è importante. Il che non significa dire che un team, una task force siano una comunità di pratica, spesso non lo sono, ma vi dovete chiedere: volete che lo diventino? Mettiamo che c’è un team, un’equipe che si concentra su un compito, cosa ben diversa una comunità di pratica che si concentra su un campo tematico ovvero su un settore di conoscenze. In una squadra il rapporto tra i singoli componenti si può tradurre nei termini seguenti: ciascuno dice all’altro tu farai la parte che ti è stata assegnata nell’ambito di questo team. Nella comunità di pratica ciò che ognuno si chiede è : posso imparare qualcosa dall’interazione con gli altri? Sono strutture, assetti sociali completamente diverse ma alcuni team col passare del tempo possono diventare comunità di pratiche e quindi occuparsi della possibilità di apprendimento gli uni dagli altri, non semplicemente limitarsi ad assolvere un compito. Mentre altre si esauriscono con l’espletamento di un compito.
C’è stato sicuramente un’evoluzione da una prospettiva prettamente analitica ad una più interventista, più orientata all’aspetto pratico. Penso che questa evoluzione sia preziosa, che non è che si debba inventare un intervento. Quindi dovete fronteggiare dei processi che già esistono a monte, quindi io non so mai se agisco da consulente o da ricercatore, perché in un certo senso bisogna fare entrambe le cose. È difficile capire le cose a meno che non ci sia una partecipazione diretta. È difficile intervenire in un modo che sia significativo, utile a meno che non abbiamo una visione più ampia del contesto su cui volete effettuare i vostri interventi.
Ma a livello personale c’è se vogliamo una qualche conflittualità in una posizione del genere, perché se sei consulente devi stare al programma degli altri, mentre come ricercatore dovreste avere un vostro programma. Per concludere penso che nei prossimi anni della mia esistenza vorrei forse avere modo di fare un po’ più di ricerca.

D. Lipari - Nel tuo ultimo libro "Coltivare comunità di pratica" (Guerini e Associati, Milano, 2007) descrivi il ruolo del consulente che interviene sulle comunità come il ruolo di qualcuno che coltiva un’entità dotata di vita autonoma. Ora quest’entità, tradotta nel nostro linguaggio è la comunità di pratica, la quale dovrebbe sviluppare apprendimento individuale e organizzativo attraverso dinamiche proprie in cui ha un peso decisivo la vitalità. Vorrei chiederti quando e a quali condizioni una comunità può dirsi vitale, rigogliosa (per rimanere nella metafora della coltivazione) e viceversa quando e in quali condizioni inizia a dare segni di inaridimento?
 
E. Wenger- E’ un’ottima domanda; quindi chiederò a tutti voi di contribuire sulla base della vostra esperienza. Abbiamo tutti avuto esperienza di comunità che erano rigogliose e piene di vita, così come abbiamo avuto esperienza di altre che erano in fase di declino oppure non avevano niente di vitale. Erano praticamente morte. Nelle comunità che sono vitali c’è una tensione che si crea, c’è una costante irrequietezza ,c’è un’apertura a quelle che sono le linee di confine e c’è sempre un tentativo di fare i conti con quelle che sono la competenza e la pratica della comunità.
Venerdì scorso stavo descrivendo nell’ambito della teoria dell’apprendimento la definizione di apprendimento in un’ottica sociale e l’ho data in questi termini: una tensione tra la competenza così come definita dalla comunità e l’esperienza di quelle persone che si rapportano a quella comunità.
Quindi se voi siete un membro a pieno titolo di una comunità, la vostra esperienza rispecchia la competenza della comunità. Vi porto l’esempio di un mio amico che descriveva un bicchiere di vino e lo descriveva in termini eccezionali, descriveva qualcosa di cui io non ho percezione diretta, che non esiste per me, diceva che questo bicchiere di vino era “viola all’olfatto”. Quindi la sua esperienza di questo bicchiere di vino rispecchiava la competenza della comunità, che non era la mia, quindi per avere quella competenza dovevo consumare molto vino con i partecipanti della comunità e discutere delle caratteristiche del vino fin tanto da poter dire che il vino era viola all’olfatto. Quindi l’apprendimento è quella tensione che si crea tra la competenza di cui è portatrice la comunità e la mia esperienza. Quindi in questa tensione a volte è l’esperienza che cambia, a volte è la competenza che cambia. Anche per voi, voi partecipate a riunioni di questo tipo e vi fate delle idee nuove dell’apprendimento,nuove esperienze, nuove possibilità, poi tornate presso la vostra comunità e cercherete di influenzarla per immettere nella comunità l’esperienza che avete fatto voi.
E questo non sarà semplice, ci saranno dubbi, alcuni saranno scettici,altri non saranno disponibili, ma col tempo se ce la fate finirete col cambiare la pratica della comunità e anche quello che definisce la competenza della comunità. Fino a che la competenza della comunità non inglobi la vostra esperienza. Una comunità morta è una comunità in cui non ci sono più queste tensioni, le cui linee di confine sono chiuse, tanto i confini nei confronti degli altri quanto i confini verso nuove esperienze. Quindi è una situazione in cui si riproduce all’infinito la stessa esperienza. Quindi c’è un blocco tanto dell’esperienza quanto della competenza. E ci sono molti casi e molte modalità in cui questo si può verificare:può succedere quando la comunità pecca di arroganza e pensa che nessuno in nessuna parte del mondo possa contribuire in niente alla comunità; anche quando c’è atteggiamento di chiusura della comunità che non interagisce con persone nuove che possono immettere una visione nuova delle cose. Quindi è importante che uno si renda conto che alla fine può diventare anche controproducente. Non c’è niente che di per sé è buono nella comunità in quanto tale, cioè la comunità è valida quando da luogo a questo tipo di tensioni tra le varie esperienze, quindi una delle cosche può dare il colpo di grazia alla comunità è un eccesso di comunità, non una malattia che viene dall’esterno e la modifica, ma una chiusura eccessiva della comunità che è ripiegata su se stessa. E questa è una cosa che si percepisce quando fate parte di una comunità, vi rendete conto quando diventa un modo di non imparare, una qualcosa che vi porta a ripiegarvi, a chiudervi, rispetto invece ad essere uno stimolo ad esplorare e a creare queste tensioni di cui parlavo prima tra quello che sappiamo e quello che c’è di nuovo, di diverso.
È bene non equiparare la comunità all’omogeneità, l’essere omogeneo non è la precondizione per creare una comunità né è il frutto di aver fatto parte di una comunità sana, vitale, perché la comunità vitale comporta una costante ricontrattazione delle diversità che la compongono. Qual è la vostra esperienza di comunità che sono vive rispetto a quelle che non lo sono, che sono morte? Quante delle vostre sono vive e quante sono morte? È un interrogativo importante perché da un punto di vista analitico cercare di capire cosa rende vitale una comunità anche dal punto di vista dell’intervento pratico, cercare di enucleare delle azioni che si possono intraprendere per sostenere la vitalità della comunità, entrambi sono importanti. Quindi avete a che fare con delle comunità che sono morte?
Poi le comunità non è detto che debbano essere eterne, non è che a tutti i costi dobbiamo evitare che muoia una comunità di pratica – c’è un ciclo di vita naturale(Lipari)- però l’ossificazione, la paralisi è peggio ancora che non la morte.
Coi sono degli esempi che volete condividere?
Ve lo do io un esempio di comunità in stato pre-agonico, che si ricollega a quello che abbiamo detto stamane. Si trattava di una comunità dove la maggior parte delle attività erano mirate a organizzare dei colloqui, quindi chiedevano a qualcuno di venire a parlare e facevano queste riunioni con i panini ascoltando questa persona che parlava, quindi è chiaro che da questa comunità defluiva tutta l’energia che c’era prima, perché non c’era una costante rinegoziazione reciproca della propria esperienza tra i membri. Ma ci sono altri motivi che possono spiegare come mai si assiste alla morte della comunità. Per esempio c’era un’organizzazione in cui le comunità erano diventate la sede deputata per far avviare delle iniziative quando mancavano i fondi: ogni volta che mancavano i fondi le cose venivano scaricate sulla comunità. Anche questo significa privare di qualsiasi energia la comunità. Perché ogni volta che le persone si rivolgevano alla comunità significava per i componenti ritrovarsi con due o tre ore di lavoro extra che non avevano preventivato. Questo semplicemente per illustrarvi altri motivi che portano la comunità a morire. In questo caso era un morbo che proveniva dall’esterno. È un tema complesso comunque perché nella realtà non vivono mai isolate dal resto del mondo, sono sempre da collocarsi all’interno di un contesto e il modo in cui vive la comunità rispecchia ilo contesto che la circonda. Ma non in modo deterministico, parlavamo prima del cambiamento no? Uno dei motivi per cui molte delle nostre speranze di cambiamento risiedono proprio nelle comunità è che le comunità che sono vive riescono generare una loro cultura, possono veramente generare una loro pratica e questo in senso non solo deterministico come riflesso della realtà circostante.
 
D. Lipari - Un elemento importante può essere la fiducia…

E. Wenger - Si, ci sono molti elementi che possono creare queste tensioni, ma per esempio la fiducia può essere un contesto nel quale tu puoi rinegoziare le differenze, però anche un eccesso di fiducia può creare la situazione in cui io non ti disturbo tu non disturbare me, io non ti pongo un problema tu non ne porre una a me. E vedete che si tratta di sfumature qui, anche la fiducia non è un bene in assoluto anche la fiducia comporta i suoi limiti. Quello che sto cercando di dirvi è che una comunità che è viva è quasi essere costretti a vivere in un paradosso costantemente, una misura sufficiente di fiducia va bene per condividere in modo aperto ma non in modo eccessivo….ci vogliamo bene…

D. Lipari - A questo punto credo che valga la pena approfondire uno dei due termini del costrutto comunità di pratica. Vorrei fermarmi un po’ sul concetto di comunità, perché a me pare che, tra l’altro, uno dei motivi di successo, della nozione di comunità di pratica sia legato al bisogno di comunità (di cui parla per esempio Baumann), in un’epoca di frammentazione, di chiusura individualistica, di isolamento … Una prospettiva del genere enfatizzerebbe una interpretazione idealizzata, romantica della comunità; una prospettiva molto attraente perché evoca consonanza, armonia, protezione, sicurezza, ma che porta con sé una visione illusoria in base alla quale la comunità sarebbe una sosta di riparo dalla realtà ruvida della vita organizzativa (che nell’esperienza di tutti, come è noto, è intrisa di contrasti, di tensioni, di conflitti). Ora vorrei chiederti: possiamo tematizzare anche attraverso il ricorso a dei casi empirici una visione meno edulcorata, più realistica della comunità, essendo le dinamiche relazioni caratterizzate da negoziazioni, da scambi, più o meno impliciti, il più delle volte clandestini, di fatto configurano microsistemi fondati anche sul gioco del potere? Poi, la stessa dimensione del potere, inteso come capacità di azione degli attori, quale influenza ha nell’impedire o nel favorire lo sviluppo di comunità? Inoltre, dal punto di vista del “coltivatore” di comunità di pratica, quando una comunità giunge ad un livello di conflitto al punto che si prefigura una scissione del gruppo, bisogna spostare una di queste comunità in un altro “contesto” o bisogna cercare di mantenere tutto dentro una sola comunità cercando di moderare i conflitti?
 
E. Wenger – Prima questione. Se penso ai casi che ho visto io questa visione molto edulcorata è una visione che poi alla fine trovo raramente nei casi empirici. Non conosco comunità di pratica dove questa visione edulcorata trovi una pratica attuazione, dove tutto è dolce, tutto è bello.
Ci sono sempre delle tensioni, c’è sempre una differenza di opinioni tra i partecipanti, alcuni contribuiscono di più altri meno. Allora quelli che non contribuiscono ci si domanda dovrebbero continuare a far parte della comunità, ci si interroga se la comunità dovrebbe essere aperta o chiusa, i manager dovrebbero poter avere accesso ai colloqui all’interno della comunità? Dovremmo invitare i manager a partecipare alle discussioni in seno alle comunità? Dovremmo chiudere loro le porte? So di comunità che hanno completamente precluso l’accesso ai manager, non li volgiamo, porte chiuse! Perché questo finiva col deformare la discussione. E mi ricordo ne ho perlato con un dirigente donna che era molto dispiaciuta di essere stata esclusa, capiva che non poteva far parte della comunità, sapeva che il suo ruolo era semmai di essere uno sponsor della comunità. Quindi non si trattava di essere distinta e separata dalla comunità, però per il solo fatto che ricopriva un incarico dirigenziale lei si è resa conto che sarebbe stata solo uno sponsor e quindi avrebbe avuto una partecipazione solo marginale alla comunità. E per questa persona essere al servizio della comunità significava prendere le distanze . Lei aveva questo ideale di un’organizzazione appiattita, dove siamo tutti uguali e invece si è dovuta rendere conto che anche all’interno di un’organizzazione cosiddetta appiattita il fatto che lei ricoprisse un ruolo di management cambiava completamente il rapporto. Ma anche tra gli operatori non è che ci sono sempre convivenze pacifiche,le opinioni possono divergere e di parecchio, e anche lì, una comunità valida è una comunità in cui le opinioni divergono in tensione tra di loro, in cui abbiamo la negoziazione tra queste diverse prospettive che è il motore che spinge in avanti la comunità.
Ricordo un ingegnere alla Crhysler che mi ha raccontato di liti furibonde all’interno delle riunioni perché tra le altre cose la comunità si occupava di redigere dei brevi capitoli di una parte di conoscenze su diversi argomenti e c’erano dei disaccordi, non è che tutti erano d’accordo su cosa scrivere; il fatto che poi in realtà queste opinioni sarebbero state consacrate proprio per iscritto all’interno della una base di conoscenza rendeva tanto più esacerbati questi contrasti. La posta in gioco era ovviamente molto più alta per coloro che partecipavano a questo lavoro. Però quest’ingegnere mi diceva che era importante che tutto ciò ricadesse all’interno di una comunità in corso, perchè è una comunità che vive, va avanti, non un gruppo di lavoro con un inizio e una fine.
Alcune le perdi altre le vinci, quindi anche se tu perdi e devi cedere te per quella volta c’è un futuro in cui le cose possono essere poi rinegoziate. Perché appunto non so devi affrontare un altro argomento e a questo punto puoi farti valere. Comunque la parola comunità ha ragione è pericolosa come termine, tuttavia direi che la maggior parte delle comunità che ho visto che riescono a funzionare davvero bene mi hanno dato l’impressione di non seguire delle modalità di funzionamento classico, tradizionale. Quindi era un po’ una sede protetta, c’era un po’ questo senso di essere appartati rispetto alla follia che caratterizza la vita lavorativa quotidiana, era un luogo dove era consentito lo spazio di riflessione per esempio, non che ciò significhi pace per inteso però è un certo realismo, non tanti giochi politici per esempio. Le comunità che vanno per la tangente dietro ai giochi politici tendono a perdere energie, a scaricarsi. Quindi il termine comunità ha un suo valore e si ricollega al concetto di fiducia, perché c’è un po’ il senso della qualità del recipiente che noi dobbiamo costruire. Sempre che non si dia per scontato, che la comunità non significa assenza di potere, che non significa assenza di conflitto,che non significa omogeneità. Quindi io forse intendo dire per comunità un ricettacolo, un contenitore per l’apprendimento e non come una forma ideale di rapporti umani.
Seconda questione. pensiamo a pratica, campo tematico e comunità come tre elementi distinti. Quando c’è un conflitto sul campo tematico allora si la soluzione può essere la divisione, la scissione, perché manca l’identità per sostenere questo conflitto. Se c’è un conflitto a livello di comunità, tipo due persone non vanno proprio d’accordo e sono entrambi degli operatori importanti all’interno della comunità, (non prendete per oro colato quello che dico quello che ho sempre creduto è stato sempre almeno una volta smentito) io in quanto coltivatore della comunità cercherei di togliere questo conflitto dall’area pubblica della comunità. E cerco di affrontarlo separatamente, perché c’è una cosa che manca alle comunità : il tempo. C’è una scarsezza di tempo sempre che affligge le comunità e se noi il tempo lo consumiamo per risolvere i conflitti tra delle persone questo significa poter anche uccidere la comunità. Se il conflitto è a livello di comunità cerchiamo di allontanarlo dallo spazio della comunità, di tirarlo fuori e farlo passare in uno spazio diverso, quello interpersonale. Quindi c’è una distinzione tra quello che è lo spazio della comunità e quello che è lo spazio interpersonale, entrambi coesistono nella comunità ma è importante tener presente la distinzione, perché il coltivatore di comunità lavorerà soprattutto a livello dello spazio interpersonale.
Se il conflitto è a livello di pratica e le persone sono in disaccordo sui progetti, questo conflitto va risolto nello spazio pubblico della comunità per l’opportunità di una discussione proficua in merito alla pratica ed è un’esperienza di apprendimento. Quindi vedete che ci sono fonti diverse di conflitto all’interno di una comunità e a seconda della fonte del conflitto si proporrà una soluzione diversa. Sarebbe triste vedere la frattura di una comunità perché c’è un punto di disaccordo sulla pratica o perché due persone non vanno d’accordo, ma molto spesso ho visto dei casi di frattura, di separazione perché un gruppo voleva addentrarsi magari in un’area più specifica e va bene.
Allora si può pensare a una comunità con una struttura a più livelli. Tanta gente mi chiede qual è la dimensione massima di una comunità. Non c’è una risposta numerica, quando si ha una grande comunità bisogna interrogarsi su come strutturarle in sottoaree, dove le persone possano mettersi a lavorare nella pratica nonostante che la loro identità si collochi a livello di una comunità più ampia.
 
D. LipariVorrei riprendere il tema dell’identità appena evocato. E’ possibile spiegare come e a quali condizioni una comunità di pratica contribuisce alla costruzione di identità soggettive e collettive?
 
E. Wenger – Per me è impossibile pensare a comunità senza pensare a identità. Parlavamo del campo tematico, uno dei motivi per cui questo elemento è così importante sia in termini analitici, sia in termini di sviluppo è che il campo tematico è la fonte di identità sia per la comunità sia per i componenti.
Vedevano l’esempio stamane di questi redattori di materiale tecnico nella società farmaceutica, per loro formare una comunità e quindi affermare con vigore il valore della loro attività pratica ha rappresentato la trasformazione della propria identità. Perché hanno trovato la voce e hanno riflettuto sul valore della loro attività in maniera che ha avuto molto effetto. Vi ho presentato quel modello no e in un’altra occasione mi hanno chiesto: perché non hai messo l’identità in quel modello, perché manca se è così importante? Non saprei dove metterla, è stata la mia risposta, è un po’ dappertutto, nel campo tematico ma anche nella comunità, nei rapporti, nelle relazioni, nella pratica; costruisci l’identità anche perché ti fai un nome perché sei particolarmente versato in uno degli aspetti della pratica , o aiutando gli altri che possono aver incontrato un problema e questo comincia ad essere parte di quello che sei. Ed è per questo che è così importante il concetto stesso di comunità di pratiche, perchè le persone vogliono condividere le conoscenze, trasferire le conoscenze ma non riescono a capire quanto è implicito in questi processi il concetto di identità. dove ti vedi te? La conoscenza che per te è significativa dove la vedi? Tutti questi aspetti della tua identità hanno peso e alla fine determinano il modo in cui tu agisci all’interno di un’organizzazione. Così quando parlo di identità, parlo di qualche cosa che è costantemente in costruzione, non un nucleo fisso di quello che tu sei, sto parlando della relazione col mondo che ti rende quella persona che sei. Quindi qualcosa che voi state creandovi associandovi e identificandovi con diverse comunità e non identificandovi, prendendo le distanze da certe comunità . Parlavamo dell’adolescenza, per l’adolescente parte della sua identità sarà prendere le distanze dalla sua famiglia credo, anche questa è una costruzione di identità, quindi di segno positivo di segno negativo, non in senso morale ovviamente. L’identità è un po’ come la fiducia, è un’arma a doppio taglio, se c’è un eccesso di identità allora c’è una chiusura. Si è parlato del sistema sanitario prima, questo è un settore molto specifico e tipico di questo. Alcune delle comunità attuali sono troppo forti se vogliamo, perché medici non pensano di dover ascoltare gli infermieri perché non appartengono alla stessa comunità, sono un’altra comunità, quindi cosa volete che sappiano… mi sono recato ad Alberta in Canada dove presso un gruppo di questo tipo hanno fatto una cosa interessante. È una piccola clinica in una zone rurale, quindi hanno le varie comunità dei medici, poi e varie specializzazioni, ulteriori unità, poi il personale paramedico e infermieristico. Però hanno molte comunità di collegamento “transizionali” se volgiamo, che sono trasversali per affrontare problemi specifici. Come nel caso in cui bisogna affrontare dei problemi dei giovani dove c’è un’interazione tra assistente sociale medico, psicologo, varie figure professionali. E questo si ricollega alla domanda che mi ha fatto sulle comunità vitali. Quello che mantiene la vitalità di queste comunità è il fatto che ci siano questi confini mobili, che si spostano. Ci sono nuove formazioni che in qualche modo vanno a incidere sui confini esterni della comunità. In una organizzazione presso la quale io lavoro questo si chiama la cittadinanza doppia, l’appartenenza a l’uno e all’altro.
 
D. LipariIo parlerei di appartenenze professionali plurime..
 
E. Wenger - D’accordo, c’è un’appartenenza a più livelli. Quindi c’è un diritto di cittadinanza e n’identità che è legata alla vostra comunità però avete identità plurime nel senso che appartenete anche ad altri gruppi. E questo vi consente di avere un atteggiamento che spiazza gli altri. Ma sicuramente per dei gruppi le cui pratiche non vengono valorizzate, reputate positive e la cui identità quindi è emarginata, costruire una comunità di pratiche è fondamentale.
 
D. Lipari - La comunità di pratica nella formulazione degli studi classici di Wenger è basata tra l’altro sulla prossimità fisica dei suoi membri, ovvero sulla possibilità di interazioni e di scambi frequenti e diretti. Ora l’estensione e la riformulazione del concetto di comunità di pratica ha portato ad articolazioni e reinterpretazioni di vario tipo; una di queste postula la possibilità che una comunità di pratica ci sia in condizioni più o meno permanenti di distanza fisica, ma talvolta anche in condizioni di appartenenza ad organizzazioni diverse. Vorrei chiedere ad Etienne in quali casi ed eventualmente a quali condizioni un insieme di soggetti spazialmente ed organizzativamente distanti possa comunque interagire, scambiare conoscenze con modalità assimilabili a quelle tipiche della comunità di pratica classica?
 
E. Wenger - Semplicissimo! L’importante è che interagiscano in modo tale che si verifichi l’apprendimento, basta questo. Ho visto dei casi di videoconferenze dove le persne che vi partecipavano erano dislocate nei punti più distanti nel mondo. Ma c’era un apprendimento rilevante che avveniva in quel contesto, come se fossero stati nella stessa stanza. Però non è così scontato, bisogna lavorarci per creare la condizioni in cui questo avvenga. Dovete trovare il tipo di attività su cui poi la gente si impegnerà.
Ci vuole forse un po’ più di facilitazione, dovete garantirvi che le persone siano preparate ad interagire con queste modalità. Ho anche potuto vedere un ottimo scambio , dialogo in un contesto in cui ‘era un incontro con modalità asincrone, sul web, ma questo non significa che non ci siano problemi grossi per esempio abbiamo grossi problemi di linguaggio. Il linguaggio è un problema più grosso di quanto non sia la distanza fisica almeno secondo la mia esperienza. Quando la gente non parla la mia stessa lingua o se alcuni sono particolarmente versati nella lingua principale della comunità, altri non lo sono… Spesso la lingua usata è l’inglese e questo è un grosso ostacolo. Quindi quando parlo coi miei nipoti in svizzera gli dico sempre: il francese ti potrà piacere quanto vuoi ma impara l’inglese! Perché abbiamo bisogno di essere in grado di parlare gli uni con gli altri. Se non si può fare questo allora è difficile creare una comunità. E poi ci sono anche delle barriere di ordine culturale che è difficile abbattere. Ho visto delle comunità internazionali dove c’erano alcuni americani, alcuni di paesi asiatici e con grande sorpresa parlano solo gli americani! Quindi nella mia esperienza, una distanza fisica e di tipo organizzativo, di organizzazione non costituisce tanto un problema rispetto a quello rappresentato dall’ostacolo della lingua e anche dalla cultura. Comunque è sempre una buona cosa per una comunità potersi ritrovare faccia a faccia ad un certo punto. Io pensavo in passato che la comunità dovesse iniziare con questo tipo di contatto diretto faccia a faccia, non lo penso più adesso perché ho visto molte comunità che sono state avviate on-line hanno interagito on-line, hanno potuto imparare l’un l’altro on-line e poi ad un certo punto quando si incontrano questa occasione preziosa di trovarsi gli uni davanti agli altri viene ad essere ulteriormente valorizzata dalla precedente interazione on-line. È come se interagire on-line crei questo fortissimo desiderio di vedersi faccia a faccia. Ho visto anche comunità che funzionano piuttosto bene e senza mai avere un contatto diretto. Ma che sia ottimale come condizione di interagire senza mai vedersi faccia a faccia non lo so. Ci possono essere anche dei problemi di tipo generazionale di cui tener conto. Anche per noi stessi. Io sono cresciuto molto come mia crescita personale, ricordo la prima volta in cui ho preso parte ad un gruppo di discussione on-line, detestavo questa cosa, non mi è piaciuta per niente. L’ho definita la solitudine collettiva! Ho visto che funzionava così bene in determinati casi che devo accettare e ammettere che è una possibilità, non mi piace ancora oggi, mi piace molto di più avere un contatto diretto, tuttavia devo ammetterlo, ho visto persone timidissime quando si trovavano in contatto diretto che quando invece scelgono la modalità on-line tirano fuori tutto. Bisogna accettare che forse le migliori comunità si avvalgono di modalità multiple di interazione e questo per far si che tutti possano trovare il modo ottimale di esprimersi.

D. Lipari - C’è un ultimo tema sul quale vorrei sollecitare Etienne, che è legato un po’ a questa storia della prossimità e della distanza dei membri di una comunità. Riguarda la diffusione delle tecnologie digitali, che favoriscono in maniera sempre più intensa e in forme sempre più sofisticate le forme di interattività che sono ormai sempre più utilizzate per lo scambio e la circolazione di conoscenza tra gli attori di un’organizzazione e tra organizzazioni. Per rimanere al nostro tema, vorrei chiederti se, al di là delle visioni ingenue, secondo cui questi strumenti sarebbero di per sé portatori di apprendimento, è possibile descrivere casi esemplari in cui l’uso della tecnologie si inscrive in pratiche virtuose della comunità di pratica?
 
E. Wenger – Ce ne sono molti di esempi, tuttavia è ancora un punto interrogativo diciamo quanto ci si debba spingere nell’uso di questi strumenti.
Ora come ora sto lavorando con un’organizzazione che ha ventisei comunità, quasi tutte esclusivamente comunità che lavorano on-line. È una società di estrazione mineraria, quindi hanno miniere un po’ in tutto il mondo, dai diamanti in Sud Africa, rame negli USA, bauxite in Australia, diamanti nel nord del Canada dove la gente vive ancora in piccoli centri rurali e che si possono raggiungere solo in inverno perchè la terra si assetta, i laghi sono congelati e quindi i camion, i mezzi pesanti possono passare, possono percorrere le strade per consegnare le merci e portare via il prodotto dell’attività di estrazione. Nell’estate c’è solo fango, laghi dappertutto e l’unico modo per raggiungere questi centri è andarci in elicottero, quindi dei luoghi fortemente isolati. Questa società è arrivata al punto che ha una serie di splendidi esempi del lavori da queste comunità. Però quello che ci si chiede è qual è la fase successiva? Finanziare strumenti che consentano di incontrarsi faccia a faccia? Molto di quello che hanno fatto fino adesso è sostanzialmente darsi una mano gli uni con gli altri, qualcuno in una miniera X scrive una domanda sullo schermo, una domanda che ha a che vedere con la tecnologia, qualcuno da la risposta e c’è un coordinatore della comunità che guarda tutte le risposte che vengono date, le accorpa in un piccolo documento e mette il documento sul web. Hanno fatto un ottimo lavoro di condivisione delle conoscenze, perché sono saldamente radicati nella pratica da poter condividere molto con questa forma di comunicazione testuale.
D’altro canto è anche vero che questo non crea ancora un forte senso di coesione perché è asincrono. Quindi hanno svolto un ottimo lavoro di messa in comune di conoscenze, ma pensa che a questo punto sarebbe una buona cosa se la società investisse un po’ nel creare diverse forme di collegamenti tra le persone. Ma è più legato alla questione dell’identità questo che alla pura e semplice condivisione delle conoscenze. Voi comete le avete le comunità per lo più on-line o cosa?

D. Lipari - Mi sono reso conto del fatto che nella nostra conversazione è rimasto un po’ in ombra un concetto cruciale: quello di pratica. Puoi svolgere qualche considerazione sul concetto di pratica e sul suo significato per le dinamiche relazionali e dell’apprendimento?
 
E. Wenger – Certo la pratica in questo senso significa essere impegnati, muoversi, operare nel mondo secondo certe modalità. Quindi la pratica non fa una differenza tra le conoscenze, dal fatto di essere nel mondo come soggetto, quindi dev’essere una conoscenza che si può tradurre nella pratica… non significa solo conoscenza puramente strumentale. La conoscenza ti da un’identità che si può esprimere nel mondo? Quando facevo un lavoro in una società, la pratica era questo connubio complesso di sapere, come evadere certe richieste, come seguire le norme della società, qualche volta come aggirare alcune norme. Ma anche il fatto di conoscerci gli uni e gli altri, mantenere buoni rapporti con gli altri in modo che mi avrebbero dato delle risposte se gli facevo delle domande e voi stessi sareste stati disponibili rispondere alle loro domande. Ma anche come sostenere delle condizioni di attività che fossero vivibili in un contesto in cui si era un po’ emarginati rispetto all’organizzazione. Si trattava di gente sottopagata che si limitava molto spesso a riempire moduli per fare i calcoli delle prestazioni, su cose di cui non capiva niente, metteva i numeri giusti, il computer faceva i calcoli. Una persona aveva fatto una richiesta di $200, il computer diceva di dargliene 5 di dollari e loro non capivano perché il computer dicesse 5 $ e loro ne avevano chiesto 200. Quindi erano emarginati non solo sotto il profilo economico, ma anche sul piano cognitivo.
Parte della loro pratica era di dire come possiamo vivere con questo grado di ignoranza con delle modalità soddisfacenti al nostro livello locale. Quindi la pratica in quel caso era tutta una serie di elementi che entravano in gioco per poter sopravvivere in quel mondo se vuoi. Perché sostanzialmente nella pratica era molto difficile stabilire se fossero persone ignoranti o se invece avevano determinate conoscenze. Perché da intellettuale io sarei potuto andare da loro, guardare come facevano i loro calcoli, vedere che rimanevano sorpresi dai risultati e dire: ma questi non capiscono un accidente del loro lavoro! Non capiscono cosa stanno facendo. Vivono nell’ignoranza. Tuttavia, in un’altra ottica si poteva dire : no, lo capiscono benissimo! Capiscono che l’azienda li tratta come vuoti a perdere , che si possono sostituire, elementi non fondamentali diciamo e quindici dicono: tu come organizzazione non sei interessata alla mia persona? Io non sono interessato all’organizzazione! E se qualcuno veniva in quella comunità con un testo sulle società d’assicurazioni avrebbero in qualche modo violato qualcosa di fondamentale in quella pratica; quindi nella pratica la conoscenza ha sempre una connotazione politica perché significa un modo di essere nel mondo, quindi non si può scindere la pratica dalla conoscenza, dall’identità dal potere e dalla comunità. Sono parti integranti uno stesso progetto, di una conoscenza vissuta nel mondo. 
 
Note
1  Etienne Wenger è un libero ricercatore e consulente. E’ stato un pioniere della ricerca sulle “comunità di pratica” e sul tema è ora un autore di riferimento a livello mondiale. E’ coautore, insieme a Jean Lave, del libro L’apprendimento situato (tr. it. Erickson, Milano, 2006) in cui è stato usato per la prima volta il termine di “comunità di pratica”. Successivamente ha scritto Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità (tr. it. Cortina, Milano, 2006), un testo fondamentale per la teoria della comunità di pratica. Il suo lavoro più recente (al quale hanno collaborato R. McDermott e W. Snyder) è Coltivare comunità di pratica (tr. it. Guerini e Associati, Milano 2007), un contributo essenzialmente metodologico. Il suo lavoro infatti non è di natura esclusivamente teorica: come consulente, E. Wenger aiuta le organizzazioni a coltivare comunità di pratica e sviluppare sistemi di conoscenza in modo da potenziare la sinergia tra apprendimento e comunità.
2  La conversazione tra Etienne Wenger e Domenico Lipari si è svolta nell’ambito di un seminario presso il Formez di Roma il 3 ottobre 2005 

* In “Formazione & Cambiamento”, n. 37, 2005 
 
L’idea di intervistare Cristina Grasseni e Francesco Ronzon a proposito del libro Pratiche e cognizione (Meltemi, Roma, 2004) che li ha visti coautori, nasce nell’ambito di una ricerca realizzata dal Formez sulle comunità di pratica come fenomeno organizzativo e come luogo di produzione e rielaborazione delle conoscenze. Il volume infatti offre al pubblico italiano una introduzione sistematica alle indagini ecologiche sul nesso tra pratiche e cognizione, sviluppata all’interno dell’antropologia culturale. Seguendo un’analisi tematica, la mente, le abilità, il linguaggio e i processi di apprendimento e organizzazione sono indagati come esito di una serie di relazioni con il proprio ambiente naturale e sociale, continuamente aperte e in evoluzione. Ne emerge un originale e innovativo dialogo interdisciplinare radicato nell’analisi di casi etnografici tratti dal mondo dell’arte, della scienza e della vita quotidiana.
 
Mara: Il titolo del libro, “pratiche e cognizione”, rimanda ad un panorama di studi sulla cognizione come attività situata che trae alimento da formulazioni diverse, in antropologia, linguistica e psicologia culturale. Quali sono gli approcci teorici a cui libro dà principale rilevanza? E perché?
 
Francesco: La scelta delle teorie di riferimento è avvenuta “sul campo”. E cioè: prima ci siamo accorti che vi era di fatto una larga messe di lavori che ruotava attorno al tema e poi ci siamo mossi a cercare di offrirne una mappatura il più possibile esaustiva (dal punto di vista tematico). Gli autori che hanno influenzato questo filone di ricerca sono dunque molti ed eterogenei. Si può andare dalla teoria della prassi di Marx alla fenomenologia di Merleau-Ponty, dall’epistemologia genetica di Piaget all’ecologia della mente di Gregory Bateson. Ciò che ci è sembrato particolarmente interessante è stato notare come in questi ultimi dieci anni si sia sempre più spesso posta attenzione alle loro opere come esempi per un vero e proprio programma di ricerca centrato sul nesso tra corpo, mondo e azione. L’intento di questo programma di ricerca è ovviamente quello di superare la staticità, meccanicità e anti-biologismo dei vecchi modelli idealistico-ingegneristici della mente e dell’agire umano.
 
Cristina: Abbiamo preso le mosse da una definizione di ‘cognizione’ che faccia riferimento a una concezione ecologica della mente. In questo ci siamo prefissi di continuare in un’impresa che quasi implicitamente avevamo avviato, traducendo e curando in italiano per la prima volta alcuni saggi-chiave dell’antropologo Tim Ingold (Ecologia della cultura, Meltemi 2001). Ingold è stato il primo autore di cui ci siamo occupati insieme che cerchi esplicitamente una via di mezzo tra biologismo e culturalismo, in antropologia. Per mente e per cognizione non si intendono quindi solo processi intellettivi cerebrali, non ci si limita a processi in qualche modo rappresentativi della realtà, ma si chiama in causa l’individuo inteso come organismo-persona, un tutt’uno biologico e culturale che interagisce con la realtà ambientale e relazionale.
 
Mara: I riferimenti teorici del libro coprono un area di dibattito ancora poco presente all’interno dell’antropologia italiana. Come e perché avete iniziato a interessarvi a queste tematiche?
 
Cristina: Diciamo che ci siamo trovati entrambi interessati a cercare dei filoni teorici sufficientemente ricchi e fecondi da supportare un’analisi etnografica e una riflessione antropologica sui processi con cui costruiamo senso, aderiamo a un’identità e ci sottoponiamo a veri e propri apprendistati che ci plasmano come individui sociali e ‘intelligenti’. In questo sono stata influenzata dallo studio di Wittgenstein e della filosofia della scienza e dal dibattito, in filosofia come in storia e filosofia della scienza, sull’incommensurabilità tra forme di vita. Per quanto mi riguarda i primi tentativi di mettere in comune con altri antropologi queste perplessità ed esigenze, legate a una continua interrogazione sul metodo dell’investigazione antropologica, mi hanno portato a organizzare un primo incontro sul tema delle “Pratiche della Località” nell’aprile del 2000 presso l’Università di Milano-Bicocca, dove fruivo di un assegno di ricerca post-doc in epistemologia e antropologia visuale. La nostra impresa comincia da li’.
 
Francesco: Per quanto mi riguarda la questione si è posta in questi termini: ho iniziato con un interesse verso i temi del mentale e del cognitivo, abbinato però ad una marcata insoddisfazione verso la rigidità e astrattezza dei modelli offerti dal cognitivismo e dall’antropologia cognitiva “classica” (ad es. etnoscienza). In seguito a questi “cul de sac” teorici mi sono spostato dunque verso l’antropologia interpretativa (Geertz) e fenomenologica (Csordas) attratto dalla sua più ampia densità e profondità ermeneutica. Anche qui sono però rimasto deluso. La bassa analiticità e il permanere di una sensibilità fortemente idealistico-rappresentativa mi costringevano infatti a lasciar cadere ancora una volta ogni questione relativa a come gli individui operano nel mondo reale nel corso delle loro attività concrete. Alla fine, dopo varie ricerche e pellegrinaggi intellettuali, sono arrivato alla conclusione che le teorie esposte e presentate nel libro siano le più adatte a offrire una mediazione tra rigore analitico e densità interpretativa.
 
Mara: Il libro pone in forte evidenza la relazione ecologica tra azione e ambiente. Come si lega tutto ciò ai temi classici del dibattito etno-antropologico?
 
Cristina: Innanzitutto le posizioni esposte qui costituiscono dei buoni trampolini di lancio per superare la metafora testuale delle culture e per cominciare a pensare le culture non come testi ma come organizzazioni del senso e dell’identità che scaturiscono da una continua esposizione e interazione con artefatti, routine e gestioni spazio-temporali dell’azione. Questo consente di impostare l’analisi della vita sociale e culturale in termini pratici, situati e incorporati.
 
Francesco: Usando due parole chiave – tra le tante possibili – si potrebbe dire che abbiamo voluto scommettere sulla nozione di Umwelt come ipotesi etno-antropologica alternativa alla classica nozione di Weltanschaung. Ove quest’ultima enfatizza un rapporto col mondo di tipo ideale, distaccato e rappresentativo la prima rimanda invece ad una esperienza radicata in un corpo, posto in un certo ambiente e operante in base ad abilità sociali apprese e sviluppate tramite specifiche routine di addestramenti guidati.
 
Mara: Quello che nel testo viene definito come “primato del contesto” si pone come uno snodo concettuale fondamentale negli studi sull’apprendimento umano, che tipo di rapporto esiste tra la dimensione ecologico-culturale e quella della cognizione?
 
Francesco: Le varie teorie presentate nel libro sostengono che è un errore separare i due aspetti (interno/esterno) e poi cercare di incollarli insieme di nuovo. In un ottica ecologica non vi è mai un individuo senza un ambiente (di certo un ambiente senza individui sarebbe possibile ma, ovviamente, nessun individuo ne sarebbe a conoscenza). L’idea forte del libro è invece che interno ed esterno siano imbricati tra loro sin dall’origine e formino la coppia minima della vita biologica. Con ecologia non si intende dunque non solo l’ambiente fisco ma la relazione complessiva tra gli elementi componenti una certa a nicchia ambientale (animali, esseri umani ed oggetti tecnologici compresi).
 
Cristina: Questo consente tra l’altro di affrontare il problema dell’incommensurabilità del senso tra forme di vita diverse ancorando il dibattito, che finora è stato squisitamente filosofico-antropologico, a un ambito di investigazione pratica. Per esempio il tema dell’apprendimento si configura non come una trasmissione di rappresentazioni del mondo, ma come un continuo processo di socializzazione, anzi di apprendistato in una forma di vita, con tutti i suoi aspetti anche conflittuali, mimetici e relazionali.
 
Mara: A livello di micro-analisi un ruolo centrale è svolto dalla nozione di “affordance”. Volete offrirci alcune specificazioni a proposito?
 
Francesco: Si tratta di un neologismo coniato dallo psicologo J. Gibson e poi introdotto in ambito antropologico ad opera di Tim Ingold. E’ un calco dal tedesco aufforderungscharacter, cioè “carattere di invito” (ma, in modo estensivo anche di repulsione), usato da Kurt Lewin per indicare le valenze positive e negative che connotano gli oggetti dell’ambiente e guidano il comportamento. Con questa nozione si intende dunque indicare i vari tipi specifici di relazione pratico-operativa intrattenute dai vari organismi viventi con il loro ambiente. A seconda del tipo di attività e bisogni di un certo specifico animale ogni aspetto dell’ambiente rappresentante l’ “intorno” di quest’ultimo offre dunque un certo insieme di affodances. Una <via> dà a chi cammina un affordance di locomozione. Un <ostacolo> è un oggetto dell’ordine di grandezza dell’animale che dà affordances di collisione. Un <ciglio> di un burrone è un luogo di caduta che dà un affordance di lesione.
 
Cristina: Si tratta di una delle tante nozioni operative passate in rassegna nel libro – con quella di artefatto cognitivo, sguardo professionale, apprendistato, comunità di pratica - uno strumento di analisi che può tornare utile nell’investigazione etnografica della realtà, per esempio proprio dei processi di apprendimento. Infatti anche il cogliere le affordances è una pratica abile e addestrabile, rientra nella strumentazione ecologica che ci individua come esseri che vivono calati in un ambiente.
 
Mara: In quanto antropologi, quali potenzialità vedete nell’investigare attraverso metodologie di tipo etnografico contesti di “pratica esperta”, come li definite nel libro, non solo quelli scientifici?
 
Francesco: In quanto apprese e praticate a livello sociale tutte le attività umane sono passibili di indagine ecologica: una bottega d’arte, una setta religiosa, un laboratorio scientifico, un ufficio di impiegati comunali…In modo analogo, anche l’uso di un approccio etnografico risulta un passaggio direttamente conseguente alle premesse teoriche. Se la relazione individuo-ambiente non solo è necessaria ma anche inevitabile è ovvio che la sua analisi non possa prescindere dall’analizzare le modalità con cui questa interazione ha luogo in concreto: in un certo luogo ed in un certo tempo. Ciò a sua volta comporta essere sul posto mentre tutto questo avviene. Non trattandosi di un processo rigido e meccanico solo essendo presenti al suo svolgimento si possono cogliere e rilevare i fattori pertinenti alla comprensione del processo e dei suoi risultati finali.
 
Cristina: Questo significa, per gli antropologi, affinare la sensibilità al modo in cui si organizza l’azione nell’ambiente, cioè quali qualità relazionali, ma anche ideologiche ed egemoniche, emergono e si sviluppano proprio grazie a determinate gestioni locali delle pratiche – che siano pratiche professionali o ludiche, informali o formalizzate, conoscitive o quotidiane. Tra l’altro ciò getta una luce molto diversa sul concetto di sapere esperto, di cultura materiale e di tecnologia. Queste non costituiscono saperi di nicchia, patrimonio di folkloristi col pallino per il tecnico, ma costituiscono l’ordito su cui si intessono i discorsi identitari, di senso, dominanti o sub-culturali, di cui si occupano gli antropologi nelle loro analisi della complessità e della contemporaneità.
 
Mara: Il concetto di “comunità di pratica” ha avuto negli ultimi anni un periodo di intensa fioritura; anche voi dedicate ad esso uno spazio di riflessione nel libro. Come le comunità di pratica contribuiscono alla costruzione di identità individuali e collettive? E in che modo incidono sui processi di apprendimento?

Cristina: Il concetto, anche se evocativo di per sè, consente in realtà un ventaglio di approcci analitici proprio alla costruzione di identità individuali e collettive e ai processi di apprendimento. Un sotto-concetto chiave è quello di partecipazione periferica legittimata, che l’antropologa Jean Lave ha messo appunto con Etienne Wenger per analizzare i processi di apprendimento in termini di socializzazione progressiva. Si impara, cioè, per progressiva ammissione in ruoli determinati all’interno di comunità di pratica, assumento successivamente posizioni da periferiche a sempre piu’ organicamente integrate. L’apprendimento si configura quindi come un apprendistato che prevede l’apprendimento continuo e il coinvolgimento di tutta la persona, con le sue qualità relazionali, la sua storia precedente, le proprie abilità pratiche, e il posizionamento all’interno di reti di relazioni e di gerarchie di potere interne ed esterne.
 
Francesco: La nozione di comunità di pratiche è un termine oggi molto usato ma anche molto abusato. Molto spessi si limita ad essere uno slogan astratto per meeting aziendali o per dibattiti teoretico-filosofici. I livelli di analisi toccati dagli autori presentati nel corso del libro (da micro a macro), invece, vogliono proprio offrire una “cassetta di strumenti” intellettuali per sviluppare delle reali ricerche empiriche. In questo senso, sia per quanto concerne i temi dell’identità e dell’apprendimento, il libro non offre dunque un unico modello interpretativo buono per tutte le stagioni, ma un repertorio di risorse teoriche per anatomizzare in modo dettagliato i vari contesti e le varie situazioni socio-culturali dell’agire nella loro specificità locale. Analizzare l’educazione di un bimbo in Italia o in Siberia vuol dire prestare attenzione non solo ai valori e ai significati in generale, ma anche e soprattutto ai tipi specifici di training al quale viene sottoposto: insegnamento scolastico formale, tutoraggio informale di villaggio, e così via. In egual modo l’identità collettiva di una tribù indiana, degli operai della Fiat e degli integralisti cattolici U.S.A. differiscono tra loro non solo per i contenuti ma anche per le modalità pratiche che le generano: i riti e le cerimonie a sfondo cosmologico, il gossip sulla figura di Gianni Agnelli o le letture sulla storia delle lotte operaie nel ‘900, il rigido controllo delle piccole comunità rurali e le prediche catodiche dei tele-evangelisti. 

*In “Formazione & Cambiamento”- Nuova serie, n. 5, 2017

Sami Paavola, ricercatore e docente presso il CRADLE (Center for Research on Activity, Development and Learning) mi riceve nel suo ufficio in modo cordiale. Sono davanti a uno dei ricercatori che ha ispirato il mio lavoro di tesi magistrale e, finalmente, posso abbinare un volto e una voce a un nome letto e scritto molte volte…


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Qual è il suo status attuale?
Sono un docente associato presso l'Università di Helsinki, i miei insegnamenti spaziano dalla metodologia all'expertise, ma sono anche coinvolto in molti progetti di ricerca. In particolare riguardo l'uso delle tecnologie nell'istruzione superiore e, di recente, in progetti di implementazione del Building Information Model (BIM) nell'industria edile.

Quali saranno gli sviluppi del "Technology Enhanced Learning" in Finlandia nei prossimi due anni?
La domanda è complessa, perché stanno avvenendo moltissimi cambiamenti in diverse aree di ricerca tra loro confinanti. Posso parlare dalla mia personale prospettiva e alcune di queste idee sono più che altro speranze… In questo momento, almeno in Finlandia, le tecnologie digitali sono garantite negli ambienti educativi e sono parte della didattica ormai ovunque.

Che cosa vedo nel futuro? Il nostro gruppo di ricerca si è focalizzato sugli usi della tecnologia e su come organizzare il processo di apprendimento in modo più ragionevole. Il problema è che spesso le tecnologie sono utilizzate, ma con pratiche pedagogiche antiquate, come un'insegnante che dice qualcosa e un alunno che tenta di ripetere la risposta giusta nei compiti in classe. È importante considerare come le tecnologie possono supportare gli studenti nell'acquisizione di pratiche tipiche degli ambienti professionali, andando oltre la mera riproduzione di pedagogie superate, modificando le pratiche di apprendimento, rendendole più "ingaggianti" e in linea con ciò che accade al di fuori della scuola.
Oggi ci sono tante tecnologie: non è un problema iniziare a utilizzarle. Ma abbiamo bisogno di riflettere su quali sono i nostri scopi in materia di educazione. I social media, come Facebook, saranno sempre più utilizzati negli ambienti educativi. Possono supportare la partecipazione degli studenti tramite commenti, condivisione di notizie e opinioni, ma non sono gli strumenti più adatti per sviluppare collaborativamente qualcosa di nuovo. Penso che, in questo momento, non ci siano molti sistemi a supporto di tale "creazione di conoscenza". Anche a livello tecnologico è necessario sviluppare strumenti a supporto del lavoro collaborativo attorno a "oggetti" condivisi.
Inoltre dovremmo riflettere anche sui "learning analytics", che stanno diventando sempre più popolari nell'educazione. Costituiscono ancora un campo nebuloso e talvolta sono considerati semplicemente un mezzo per osservare e controllare gli studenti. Tuttavia potrebbero essere usati a supporto della didattica. Allo stato attuale, i learning analytics sono utilizzati soprattutto dai ricercatori e una sfida futura sarà comprendere come possano supportare i docenti nel proprio lavoro.

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Cosa sta facendo e come ha intenzione di supportare lo sviluppo del "technology-enhanced learning" nel suo lavoro?
Nelle nostre ultime ricerche, abbiamo lavorato nell'industria edile in cui soprattutto architetti e ingegneri utilizzano il BIM per realizzare i progetti degli edifici. Non in tutte le organizzazioni, ma specialmente nelle grandi aziende edili la tecnologia è una parte naturale del processo di collaborazione e per questo è davvero difficile immaginare quel mondo senza tecnologie. Nell'apprendimento organizzativo, la ricerca adotta un approccio orientato alla pratica e credo che lo stesso approccio dovrebbe essere usato anche nei contesti scolastici.
Nell'esperienza del KP-Lab (un grande progetto che abbiamo svolto sul technology enhanced learning), ho partecipato allo sviluppo di "design principles" per l'approccio trialogico all'apprendimento. Ma, durante il nostro progetto, avremmo dovuto coinvolgere gli insegnati in una riflessione sulle proprie pratiche professionali e non semplicemente fornire loro un modello pedagogico "preconfezionato". I design principles possono essere usati dagli insegnati per riflettere sulle proprie pratiche e trasformarle in una prospettiva collaborativa supportata da tecnologie adeguate. Vorrei essere coinvolto in questo tipo di collaborazione con i docenti sia dal punto di vista del mio personale insegnamento sia all'interno di progetti di ricerca.
Oggi il problema è che, spesso, le tecnologie per la collaborazione sono pensate indipendentemente dalle pratiche d'uso. In futuro dovremo fronteggiare una sfida comune nella formazione professionale e scolastica: pensare in maniera più ragionevole a come utilizziamo le tecnologie e a come organizzare tali usi.

A conclusione dell'intervista, il professor Paavola mi invita con i suoi colleghi a bere caffè e assaggiare uno speciale torta al cioccolato… Una torta italiana!

Infografia
Hannele Kerosuo e altri, 2015, "Challenges of the expansive use of Building Information Modelling (BIM) in construction projects".
KP-Lab project.
Rejo Miettinen, Sami Paavola, 2014, "Beyond the BIM utopia: Approaches to the development and implementation of building information modeling", Automation in construction, 43.
Sami Paavola, Kay Hakkarainen, 2005, "The knowledge creation metaphor–An emergent epistemological approach to learning", Science & Education, 14(6).
Sami Paavola, Kay Hakkarainen, 2009, "From meaning making to joint construction of knowledge practices and artefacts: A trialogical approach to CSCL", Proceedings of the 9th international conference on Computer supported collaborative learning-Volume 1, International Society of the Learning Sciences.
Trialogical Learning Approach.

*In “Formazione & Cambiamento”- Nuova serie, n. 1, 2016

  1. La problematica dei metodi per la formazione è stata e tutt’ora è una delle aree più dibattute sia a livello di ricerca e teorizzazione sia nella pratica operativa quotidiana. (Lipari 2002,  AA.VV. 2004, Quaglino  2014)
    Si può addirittura affermare che per molti aspetti la ricerca e il dibattito e la sperimentazione nell’area dei metodi per la formazione sia una delle note più differenzianti l’universo di ricerca e esperienziale della formazione organizzativa e manageriale rispetto alla formazione accademico universitaria che per lo più, anche tutt’ora, resta ancorata a una accezione tradizionale dei metodi, che ha nella lezione frontale con pubblici di utenti spesso numerosi la sua fattispecie più diffusa.
     
  2. Metodo è un sostantivo che deriva dal greco antico: méthodos, via (hodós) che conduce oltre (metà); indica l’iter  transversum, la via più dritta, percorrendo la quale si può più facilmente raggiungere un luogo in cui si desidera arrivare. Vi è così un primo rimando topologico per le problematiche del metodo; un territorio da attraversare e una strada da seguire: un aiuto per orientarsi nell’ignoto, per arrivare alla meta nel modo più efficace ed efficiente.
    Viviamo tempi di complessità e occorre ricordare che un legame connettente le diverse nozioni della complessità è il suo contenuto sostanzialmente negativo. La ricerca guidata dal paradigma della complessità nei vari campi del sapere ci fa confrontare con l’assenza di conoscenza positiva e alla crisi della prevedibilità (Archibugi 2004).
    Tutto questo rimanda il pratictioner della formazione organizzativa a una esperienza obbligata relativa alla continua ricerca da parte sua di un metodo formativo da adottare, di una via da percorrere, di un criterio da scegliere: l’esperienza non evitabile è quella della scelta rispetto ad un ampio spettro di possibilità, è quella della solitudine, è quella dell’obbligata necessità di assumere di volta in volta, secondo una propria visione, il metodo più opportuno.
     
  3. La formazione oggi, più della formazione di ieri, di fronte alla crisi generalizzata della domanda ha nella questione del metodo un transito inevitabile e la possibilità di farne un’occasione di innovativo recupero.
    La ricerca nelle aree dell’educazione degli adulti che operano nelle organizzazioni complesse ha portato nutrito in questi ultimi anni una radicata convinzione: la prospettiva è quella di ri-dare al lavoro quel ruolo centrale come occasione di apprendimento e di educazione che assista il soggetto nel portare avanti tutte le sue potenzialità e divenire così un essere umano più completo. La domanda centrale di tale prospettiva è rivolta all’analisi delle linee attraverso le quali si declina il rapporto lavoro-soggetto-apprendimento e con quali modalità “si insegna e si apprende durante la vita lavorativa”. Siamo invitati ad attraversare così quel grande spazio che è il work-based learning, territorio caratterizzato con una serie di prospettive e filoni di ricerca:
    • le note di ambiguità caratterizzanti l’intersezione lavoro e apprendimento;
    • la convinzione che si possa apprendere in modo efficace anche in contesti lontani e diversi da quelli consueti;
    • l’esperienza si genera quando l’azione è “sottoposta” ad una analisi riflessiva nel tentativo di attribuire un senso all’agire quotidiano: su questa base l’azione di chi apprende occupa un ruolo centrale a livello di insegnamento e apprendimento”;
    • il lavoro e l’organizzazione sono un’occasione per poter apprendere non solo le variabili hard delle mansioni (conoscenze e capacità, regole e procedure) ma anche per donare senso e motivazione al tempo del lavoro.
       
  4. Se tali prospettive hanno fondamento il metodo dell’action learning (imparare facendo) può essere una risposta tanto naturale quanto felice, capace di offrire occasioni diverse per aggregare insieme un’occasione di conseguimento e sviluppo delle esigenze sopraindicate. “Essa combina ‘infatti’ diverse modalità di apprendimento e di lavoro:  l’apprendimento formalizzato di contenuti gestionali, di metodi di analisi e di lavoro, di gestione di processi, la definizione e negoziazione con un committente interno di obiettivi analitici e realistico per un progetto di effettivo interesse aziendale, l’utilizzo del metodo di problem solving per la definizione del problema e la ricerca di soluzioni possibili, la progettazione di ulteriori approfondimenti”[1]
    L’elaborazione teorica originale e le prime sperimentazioni operative dell’action learning sono da attribuire totalmente a Reg W. Revans che elabora e scrive i principi fondamentali dell’action learning. nel 1971 e definisce le istituzioni del metodo dell’action learning nel 1980 (Revans 1971, 1980).
    Erano anni quelli nei quali il grande transito dall’insegnamento all’apprendimento si era solo avviato e nei quali un certo fondazionalismo, un misconoscere la natura sociale del sé, una visione della realtà organizzativa dominata da un’alta prevedibilità e una rappresentazione unitaria dei processi organizzativi, dominavano e ispiravano ancora per lo più i principi e le pratiche della formazione degli adulti operanti nelle organizzazioni.
    Revans in quegli anni lancia la sua sfida attraverso la metodica dell’action learning ispirata da una forte attenzione al contesto, da una densa attenzione alle condizioni di esperienza del soggetto, ad un primato, in altre parole, della pratica. Action learning è una ipotesi metodologica nuova che rompe quell’insieme radicato di convinzioni educative che Dewey aveva identificato come “paradigma giudiziario” del pensiero, “che si esprime in una concezione legalistica delle idee come regole rigide che l’uomo applicherebbe ai fatti in modo esteriore. Il pensiero è visto come l’atto esterno che consiste nel mettere in relazione fatti e idee che esso trova come già dati e che quindi sono indipendenti dalla sua attività. … All’interno di questo paradigma il pensiero ha una funzione meramente esteriore e classificatoria. … Al contrario, quando il pensiero è concepito sul “modello del laboratorio”, l’esercizio critico della facoltà di dubitare si rivolge contro le condizioni stesse che nel modello giudiziario vengono date per acquisite, ovvero le idee e i fatti”[2].
    Pensare ed esperire l’organizzazione secondo Revans non può essere ancorato a pre-concezioni non collegate a contesti specifici e a milieu operazionali, ma deve essere calato nelle pratiche quotidiane e nutrito da uno spaccato creaturale, segnato dall’agire quotidiano delle donne e degli uomini che lavorano pensando.
    A tali approdi Revans, solitario e incompreso, perveniva all’avvio degli anni ’80 e la considerazione attenta del suo metodo di formazione centrato su “un’idea di pensiero [organizzativo] come atto trasformativo situato[3], non può non considerare come centrali per tale approdo e come sue radici quei fattori biografici che, da prospettive diverse ma ugualmente influenti, avevano segnato lo strutturarsi della sua concezione della vita e pensare umani.
     
  5. Action learning può essere così definito: un metodo di formazione per adulti operanti in organizzazioni, attraverso un approccio al lavoro e allo sviluppo/apprendimento attraverso l’affrontare un progetto o un problema reale proposto da un committente e affrontato in setting educativi diversi, sempre caratterizzati dalla presenza di un gruppo di lavoro operante e nel suo insieme e in alcuni più ridotti gruppi di lavoro (set di action learning), con l’assistenza costante di uno specialista di formazione degli adulti, all’interno di un predefinito patrimonio di risorse temporali da investire da parte dei partecipanti per la partecipazione ad action learning e budgetarie per eventuali richieste di assistenza e onsulenza specialistica.

    L’analisi della definizione proposta consente di individuare al suo interno una “cascata” interconnessa di riferimenti specifici/peculiari di action learning:

    L’essere in sé una “organizzazione a tempo” rappresenta per i partecipanti una rilevante opportunità  di sperimentazione e confronto con la realtà operativa “lavoro per progetti”, pratica oggi estremamente diffusa nell’organizzazione contemporanea, che contiene simultaneamente del tempo organizzativo contemporaneo i dati di flessibilità e insieme di precaria imprevedibilità.

    • action learning ha un riferimento  centrale nell’orientamento all’agire, al lavoro dell’essere umano, come dato antropologico primo e riferimento peculiare: “gli uomini compiono azioni, non nel senso ovvio e banale che sono esseri che agiscono, ma in quello per cui l’azione costituisce la modalità primaria e fondamentale del loro essere al mondo”[4].
    • action learningsi fonda sulla convinzione – un credo pedagogico – che non vi possano essere apprendimento e invenzione avulsi dal lavoro, dalla pratica quotidiana delle donne e degli uomini: “tutto proviene dal lavoro, ivi compreso il dono gratuito dell’idea che sopraggiunge”[5].
    • action learningindica contemporaneamente come dal semplice fare non nasca, non possa nascere l’apprendimento. Per uncinare l’apprendimento, in altre parole per transitare dall’azione-lavoro all’esperienza-apprendimento, il lavoro, la pratica vanno problematizzati attraverso lo sviluppo di una coscienza critica di interrogarsi e di interrogare il mondo. Tale transito, sviluppato dalla riflessività nei setting della formazione, rompe le routines – abiti mentali, culturali che inducono ad accettare ogni fatto, qualunque ne sia la spiegazione, come ineluttabile, a non cogliere le contraddizioni – e può conseguire l’approdo dell’esperienza, dell’apprendimento.
    • action learningsottolinea come l’identità umana sia relazionale; essa si origina e termina in uno stato intrapsichico soggettivo, ma si sviluppa, è consentita e si radica in un processo intersoggettivo di riconoscimento mutuo e di definizione reciproca. Solo partecipando all’azione collettiva condivisa con altri esseri umani, il soggetto singolo si costituisce e si articola come un sé, struttura peculiare “dipendente” dal riconoscimento di altri esseri umani e capace di porgere a sua volta riconoscimento all’altro.
    • action learningconcretizza in sé una organizzazione nell’organizzazione; la metodica formativa A.L. fa dei partecipanti i membri di “una organizzazione a tempo”, con limiti temporali di durata predefiniti dall’istituzione che decide la partecipazione ad action learning, concordati con l’istituzione committente e comunicati ai partecipanti.
  6. Componenti e dispositivi di action learning
    L’opportunità per i partecipanti di action learning di confrontarsi con quanto “promesso” dalla definizione stessa di action learning e con i riferimenti specifici sopra rubricati, può essere sinteticamente precisata nelle seguenti caratteristiche operative (Cecchinato, Nicolini 2005):
    • il processo di apprendimento è favorito dalla ricerca di soluzioni operative proposte dai partecipanti a problemi reali e sentiti come rilevanti dall’organizzazione committente;
    • la problematica del brief proposto ai partecipanti è reale, complessa, capace di generare nei partecipanti un investimento intenzionale di investigazione e proposizione;
    • l’analisi del problema e la ricerca delle soluzioni alternative sono svolte all’interno di un piccolo gruppo, in una dimensione costantemente relazionale;
    • la ricerca operativa della soluzione del problema proposto e lo sviluppo dell’apprendimento sono processi paralleli, contemporanei e strettamente correlati in un rapporto sistemico-ricorsivo.

Questo insieme di problemi-obiettivi sono conseguibili attraverso la presenza combinatoria di alcuni dispositivi-strutture indicati come i pilastri della struttura di action learning:

  • la natura del problema proposto dal committente e affrontato dal gruppo di action learning;
  • il set di action learning;
  • il processo di lavoro “binoculare” volto e alla ricerca della soluzione e al processo di apprendimento;
  • il ruolo del facilitatore/trainer;
  • il ruolo dello sponsor del progetto di action learning.

La metodica dell’action learning è oggi declinante e nella cultura manageriale e organizzativa italiana poco utilizzata. Metodo in sé collettivo action learning è stata travolta dallo tsunami delle pratiche formative one to one, dal coaching, dal counseling, dal mentoring. Tutto questo  (pur senza alcuna intenzione di contrapporre metodi in sé diversi e in sé utili per bisogni formativi e contesti organizzativi diversi)  marginalizzando la realtà più pregnanti dell’essere l’esperienza organizzativa, ancora oggi, un’esperienza soprattutto collettiva. 

Nota Bibliografica

Archibugi F. (2004), Per un governo politico della complessità, Lettera internazionale, 79
Bellamio D. (2004), Assunti metodologici di base e pratiche della formazione, in AAVV, “Metodi per la formazione”, Adultità, 20
Frega R. (2008), “Introduzione. Una logica per il giudizio di pratica”, in Dewey J., Logica sperimentale. Teoria naturalistica della conoscenza del pensiero, Quod Libet, Macerata
Gargani A.G. (2000), La grammatica del tempo, Teoria, 20, 1
Lipari D. (2002), Logiche di azione formativa nelle organizzazioni, Guerini e Associati, Milano
Quaglino G.P. (2014), a cura di, Formazione, metodi, Cortina, Milano
Revans W. (1971), Developing Effective Manager, Praegers Publishers, London
Revans W. (1980), Action Learning. New Techniques for Manager , Blonde & Bridgets, London
Serres M. (1991), Il mantello di Arlecchino, Marsiglio, Venezia


[1] Bellamio in AA.VV. 2004, pag. 25

[2]Frega 2008, pagg. XVIII-XIX.

[3]Ibidem., pag. XXXIII.

[4]Gargani 2000, pag. 11.

[5]Serres 1991; trad. it. 1992, pag. 128.

*In “Formazione & Cambiamento”- Nuova serie, n. 12, 2018

eTwinning-Logo_CMYK.jpg

eTwinning significa “gemellaggio elettronico”. L’azione, nata nel 2005 per permettere a classi di scuole europee di entrare in contatto, con semplici scambi di materiale e corrispondenza, si è sviluppata molto rapidamente, diventando la più importante comunità per l’apprendimento in Europa. Dal 2007 al 2013 ha fatto parte del Programma per l’Apprendimento Permanente (LLP-Lifelong Learning Programme) come azione speciale di Comenius. Oggi è parte integrante del Programma Erasmus+.

eTwinningè una comunità di scuole, docenti e dirigenti che ha coinvolto, nei suoi 13 anni di vita, più di 600.000 insegnanti e quasi 200.000 scuole, distribuite nei 44 paesi partecipanti (36 europei e 8 extraeuropei). Più di 2 milioni di studenti hanno lavorato in questi anni a progetti di collaborazione e scambio con partner di altri paesi, producendo prodotti comuni, cooperando e confrontandosi, costruendo insieme percorsi didattici tramite la piattaforma digitale www.etwinning.net, disponibile in 29 lingue1[1]. Navigando nel portale eTwinning si può accedere a tutte le risorse pubbliche della comunità, capire come si può partecipare, leggere dettagli dei progetti sviluppati nelle scuole, scoprire i programmi di sviluppo professionale per gli insegnanti.

I docentiregistrati (gli eTwinners) hanno accesso a una piattaforma dedicata chiamata eTwinning live che rappresenta lo spazio social di ogni iscritto, attraverso il quale si può interagire con tutti gli altri eTwinners, partecipare a iniziative di formazione on line e in presenza, trovare partner per sviluppare progetti.

I progetti di collaborazione sono l’elemento costitutivo di eTwinning, la parte più impegnativa e challenging, il lavoro che occupa ore e ore del tempo di docenti e studenti. Ma è il lavoro sui progetti e per progetti che fa diventare la partecipazione a eTwinning un vero punto di svolta nella pratica didattica quotidiana e, ancora di più, nell’ impostazione pedagogica di ogni singolo docente, di ogni classe e anche delle scuole. eTwinning è apprendimento basato sui progetti, non un’attività secondaria rispetto al curriculum ma una pratica didattica fortemente innovativa, nella quale gli studenti sono protagonisti attivi: lavorano perché motivati, sviluppano competenze e imparano a usare le tecnologie in contesti reali. Lavoro cooperativo in classe.jpgOgni progetto in eTwinning ha a disposizione uno speciale spazio on line, il Twinspace, a cui possono accedere tutti i docenti e gli studenti partecipanti al progetto. Nel Twinspace si possono pubblicare pagine per scrivere in maniera collaborativa, si inseriscono materiali, si discute e si scambiano opinioni nei forum, si comunica in chat o in videoconferenza.

Un altro elemento importante per i docenti in eTwinning è costituito dalla possibilità di partecipare a un gruppo.I gruppi eTwinning sono una sorta di sale insegnanti, spazi virtuali dove i docenti, senza alunni, possono condividere idee, scambiare ed elaborare materiali comuni. Ci sono gruppi dedicati a varie materie o discipline, altri che lavorano su apprendimenti trasversali o strumenti digitali, altri che riuniscono eTwinners di una specifica area geografica o di una singola scuola. L’elemento che li accomuna è la partecipazione attiva degli utenti, che condividono buone pratiche e opportunità di sviluppo professionale, rimanendo connessi all’ampia comunità degli eTwinners. Nel gruppo italiano eTwinning e la realtà, ad esempio, molti insegnanti hanno collaborato e condiviso buone pratiche, pubblicando poi una decina di ebook su vari argomenti.

Entrare nel magico mondo di eTwinning

Il primo approccio ad una realtà di collaborazione on line così complessa e variegata può lasciare frastornati, ma l’esperienza diretta dei docenti e delle classi che lavorano in eTwinning racconta invece l’entusiasmo che viene dall’innovazione resa possibile.

Anche io ho iniziato a lavorare nei progetti europei nel 2000, quando il Programma Socrates permetteva di iniziare degli scambi tra docenti e semplici collaborazioni tra scuola. I moduli, compilati a mano e spediti per fax (!) erano complicati; lo scambio tra le classi poteva avvenire per lettere e disegni spediti per posta normale. Era l’inizio, ma era possibile aprire la scuola all’Europa.

Dopo aver coordinato alcuni progetti Comenius nella scuola IqbalMasih di Roma (istituto comprensivo ora orgogliosamente intitolato a Simonetta Salacone, la nostra amata direttrice didattica che incoraggiava sempre l’apertura della scuola al mondo) sono entrata nel magico mondo di eTwinning. Nella piattaforma ho preso i primi contatti con una maestra di Londra che insegnava italiano e, guarda un po’, sapeva anche chi fosseIqbalMasih: “Per una scuola come la mia- mi scriveva - con tanti bambini di origine pachistana, è bellissimo lavorare con una scuola intitolata al loro eroe”. Ci siamo capite al volo e aperto il progetto Friendship-Amicizia. Primi scambi di lettere tra i nostri alunni, foto, videoconferenze. Dopo un anno di bel lavoro comune, abbiamo deciso di allargare il progetto di scambio e collaborazione ad altre scuole e il progetto è diventato un Comenius, basato sul lavoro cooperativo a distanza, lo scambio tra classi gemellate e anche la visita reciproca di classi. Gli scambi di lettere, pacchi, disegni, materiale digitale (presentazioni, video, foto, quiz), le videoconferenze ci hanno accompagnato per tre anni fino a pianificare quella che sembrava una follia: il viaggio a Londra della classe quinta[2]. Il progetto è stato premiato con il Quality Label Europeo, il riconoscimento che viene assegnato a progetti che emergono per innovazione e qualità della collaborazione.

Progetti

Quel primo piccolo gemellaggio è stato l’avvio di una rivoluzione copernicana nella didattica delle classi dove insegnavo e anche di altre classi della scuola. Il progetto eTwinning di classe o di scuola è stato per molti anni l’asse intorno al quale far ruotare tutte le attività e le discipline. I bambini lavoravano in maniera sistematica per realizzare il proprio percorso di apprendimento, focalizzandosi su prodotti concreti, su comunicazioni con interlocutori reali, sull’imparare insieme. Per più anni tutta la scuola IqbalMasih ha collaborato a progetti eTwinning e Comenius articolati intorno al tema della città. Lavorando nei progetti i bambini e gli insegnanti si sono trovati coinvolti in una grande community for learning; esplorando, interagendo, lavorando insieme si è costruita una comunità per l’apprendimentoche ha man mano coinvolto classi, docenti, genitori e stakeholders (il municipio, il comune, il comitato genitori, le associazioni di quartiere, professori universitari).[3]

In tutto questo lavoro le tecnologie digitali sono state, come sempre in eTwinning, lo strumento principale per la creazione di contenuti, la comunicazione e la condivisione. I docenti della scuola IqbalMasih condividevano alcune posizioni di rifiuto verso “il computer”. Ma l’uso della piattaforma e di alcune applicazioni, apprese via via learning by doinginsieme agli alunni, hanno spazzato via alcune rigidità e permesso di sviluppare competenze immediatamente utilizzate nello sviluppo del lavoro. Si è creata naturalmente, intorno al lavoro per progetti, una pratica di formazione in servizio molto efficace, soprattutto non erogata; con un paio di colleghi un po’ più smart  abbiamo organizzato incontri di supporto (i caffè con eTwinning, con dolcetti e bevande calde  davanti ai pc del laboratorio, per imparare insieme a gestire gli strumenti digitali) e anche interventi, molto frequenti, di pronto soccorso informatico per risolvere i tanti problemi di password dimenticate, accessi non riusciti, spine staccate, stampanti in panne, Google che scompare, eccetera eccetera. Viaggio a Londra.jpg

Ambasciatrice eTwinning

 

Il modello del docente che supporta l’innovazione  dall’interno e crea la comunità si è delineato, a livello europeo, con la creazione della rete degli ambasciatorieTwinning. Dal 2009, in Italia, un centinaio di docenti esperti nei gemellaggi elettronici, selezionati a livello nazionale e formati con specifici corsi on line e in presenza, lavorano volontariamente per supportare l’Unità nazionale, in accordo con gli Uffici Scolastici Regionali, in attività di formazione e promozione dell’azione a livello locale. Dal 2010 sono anche io ambasciatrice eTwinning per la regione Lazio e mi occupo  di formazione on line, soprattutto da quando, nel 2016, sono stata assegnata alla scuola primaria italiana di Madrid e quindi posso lavorare poco in presenza con la rete degli eTwinners. Coordino anche, insieme ad altre due ambasciatrici, un gruppo promosso dal Servizio Centrale eTwinning di Bruxelles, chiamato “ Virgilio - youreTwinning guide” che serve per guidare, tramite attività, giochi, quiz, i primi passi nel bosco oscuro di una piattaforma ricca e complessa, che ha le sue difficoltà di approccio. Quasi 10.000 eTwinners sono membri di questo grande gruppo, tra i più attivi e conosciuti, anche se non semplice da gestire, proprio per l’inesperienza dei partecipanti. Quindi, se qualche insegnante (o dirigente, o bibliotecario) volesse iniziare a muovere i primi passi in eTwinning, la più grande e innovativa comunità di scuole europee, può trovare un aiuto nella guida del gruppo Virgilio.

Un’unica avvertenza: eTwinning dà dipendenza: una volta iniziato a lavorare in maniera innovativa con i  progetti europei non potrete tornare più indietro, l’entusiasmo è contagioso[4] Videoconferenza Madrid - Pontevedra - Steeton.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sitografia

Il portale pubblicoeTwinning, www.etwinning.net

Il sito eTwinning Italia, http://etwinning.indire.it/

La pagina di INDIRE dedicata alle pubblicazioni “ eTwinning e la realtà” http://etwinning.indire.it/arriva-un-nuovo-numero-di-etwinning-e-la-realta-tornano-gli-ebook-per-etwinners-realizzati-dagli-esperti



[1]Video in inglesesulla piattaforma etwinning https://youtu.be/xAK66ArJPiQ

[3]Margine Operativo,Documentario sul progetto Urban Kids Tribes https://youtu.be/Z3xrvP51His

[4]Paola Arduini, Cosa è eTwinning https://www.youtube.com/watch?v=G56Kf0qDhzs

 

*In “Formazione & Cambiamento”- Nuova serie, n. 4, 2016
 
La riflessività: una categoria della contemporaneità
La riflessività è da tempo considerata uno degli elementi costitutivi della nostra contemporaneità. Essa si è imposta in seguito alle trasformazioni che hanno profondamente modificato la società e assegnato alla conoscenza un importante ruolo nella costituzione dei processi sociali, professionali e personali, come mostrano, tra le altre, le analisi di Giddens, Beck, Lasch. La società diventa riflessiva per far fronte al venir meno di punti di riferimento sociali, normativi, valoriali, messi ulteriormente in crisi da un’accelerazione senza precedenti dell’innovazione tecnologica. Per l’individuo, liberato dai vincoli tradizionali, non è più il tempo di delegare ad altri scelte personali e professionali ma si tratta di assumere su di sé il compito di dirigere la propria vita. Si è passati, come scrive Bauman, dall’epoca della “predestinazione” a quella del “progetto di vita”. Lo sforzo riflessivo è necessario perché l’aumento delle conoscenze insieme alla pervasività e alla moltiplicazione degli intrecci fa sì che connessioni e significati non siano più evidenti e diventi urgente costruire quadri di rifermento per orientarsi. Accanto a saperi specialistici l’individuo deve possedere un sapere di tipo generico in grado di connettere conoscenze settoriali e pratiche sociali, costruire significati inserendoli in un disegno collettivo e dare un senso unitario al proprio percorso individuale e professionale. Prassi che diventa quanto mai necessaria per quei mondi professionali e ruoli gestionali per i quali scelte e responsabilità hanno ricadute non solo in ambito economico, ma anche sociale, relazionale, etico, il tutto in una dimensione di sempre maggiore incertezza e velocità di cambiamento.
A livello organizzativo il primato della riflessività è da tempo oggetto di studi e ricerche che hanno caratterizzato tutto il filone dell’apprendimento organizzativo e dato origine a concetti quali learning organization, sensemaking, knoweledge management, reflective management. Allo stesso modo, nell’ambito della formazione e della consulenza individuale e ai gruppi, il tema della riflessività ha dato origine a un variegato universo di pratiche: action learning, narrazione autobiografica, formazione alle metacompetenze, formazione esperienziale, interventi legati alle comunità di pratica e di apprendimento, coaching, career counseling. In primo piano è il valore attribuito all’esperienza la quale rappresenta il luogo privilegiato da cui partire per costruire nuovi saperi e nuovi scenari di cambiamento per il sé e il contesto in cui opera.
 
Le finalità dell’esercizio riflessivo 
L’immagine dello specchio e dello specchiarsi ci guida nella comprensione del concetto di riflessività. Possiamo infatti considerare la riflessione come il tornare a sé del pensiero dopo che si è posato su cose, azioni e discorsi. Speculare e riflettere “definiscono la stessa attività del pensare, il processo mentale del rinviare per riconsiderare” (1). Ma in cosa consiste questo processo, in quale direzione muove? 
Riflettere non produce un mero aumento di conoscenze,  non soddisfa un bisogno informativo bensì un bisogno di comprensione su come agiamo, sul significato che attribuiamo a questo agire e al sentire che ci suscita. 
Riflettere significa posare lo sguardo su ciò che già sappiamo, ma che, proprio perché ci riguarda direttamente, non è così chiaro e noto come talvolta possiamo immaginare. E ancora, riflettere consiste, in primo luogo, nel ricostruire, descrivere, nominare e ordinare l’esperienza, così da offrire, un ancoraggio concreto alle idee che utilizziamo per giustificare le nostre scelte e i nostri impegni. Un ancoraggio che costituisce un prezioso argine nei confronti di ricostruzioni troppo generiche, infarcite di luoghi comuni e di razionalizzazioni spesso auto assolutorie.
Dare valore alla riflessione sull’esperienza significa superare la tradizionale separazione tra teoria e pratica che vede l’esperienza unicamente come il luogo in cui si applicano saperi e schemi d’azione appresi altrove. Significa favorire la partecipazione in prima persona al processo di indagine, interrogazione e formulazione di risposte che il nostro agire solleva.
Riflettere permette agli habitus che abbiamo introiettato e che si sono trasformati in disposizioni durature di non determinarci completamente. Solo attraverso questa pratica è possibile infatti realizzare il passaggio dal know how al know that, da un sapere incorporato e spesso tacito a un sapere dichiarativo. Operazione quanto mai preziosa dal momento che osservare, analizzare, valutare e trasformare in modo intenzionale una pratica significa arrivare a‘fare sapendo che cosa si fa e perché lo si fa’. Lo sguardo riflessivo infatti non è rivolto solo all’indietro, al passato, ma è uno sguardo trasformativo che apre al futuro per inaugurare nuovi comportamenti, nuovi pensieri, nuove pratiche professionali. 
Non si tratta però di uno specchiarsi narcisistico che serve a confermare se stessi. Riflettere consiste piuttosto nel vedere se stessi in una prospettiva più ampia, nel far proprio un punto di vista più generale, nell’incorporare lo sguardo dell’altro, grazie al quale valutare, valorizzare e, se serve, trasformare ciò che facciamo e diciamo e il modo in cui lo facciamo. 
 
I paradigmi della riflessività
Se l’obiettivo della pratica riflessiva è aumentare la comprensione di sé e della situazione in cui si opera per favorire una trasformazione che vada nella direzione suggerita da questa accresciuta consapevolezza, la domanda centrale diventa: quali sono i principi e i criteri che guidano la riflessione e orientano la trasformazione?
Posto che l’esercizio della riflessione si appunta su come agiamo, sulle idee che sostengono e motivano questo nostro agire e sui sentimenti e le emozioni che lo accompagnano, che cosa ci interessa cambiare e perché?  
È estremamente riduttivo considerare la categoria dell’efficacia-efficienza come l’unica degna di orientare l’analisi di azioni, discorsi e comportamenti in vista della loro trasformazione. La riflessività, infatti, non può appiattirsi sul paradigma strumentale caratterizzato dalla ricerca dei mezzi migliori per realizzare obiettivi dati. Essa chiede di essere guidata da valori e finalità più ampie rispetto al perseguimento di ‘funzionamenti’ adeguati alle richieste di un contesto organizzativo. Se questo è vero, il posarsi del pensiero su comportamenti, abitudini e pensieri non potrà avere come unico movente la modifica dei comportamenti errati e disfunzionali, l’intervento sulle distorsioni cognitive e sulle emozioni disfunzionali. L’esercizio della razionalità riflessiva deve essere anche un esercizio critico, rivolto non solo a realizzare i propri obiettivi ma anche a rivedere criticamente questi stessi obiettivi, insieme alle idee e alle azioni che questi sorreggono e accompagnano. In altre parole le categorie con cui la ragione riflessiva ricostruisce, interroga e direziona l’esperienza non possono essere solo il successo o l’insuccesso di un comportamento, ma anche la verità, la giustezza, la legittimità di quel comportamento e la responsabilità e l’impegno che questo comporta.
D’altra parte l’immagine dello specchio fin dall’antichità viene utilizzata non solo per descrivere il processo della conoscenza di sé ma soprattutto quello della trasformazione di sé, della ‘cura di sé’. Sembra che Socrate raccomandasse l’uso dello specchio come opportunità di perfezionamento morale, per trionfare sui vizi ed estirpare le passioni. Se anche siamo lontani da un’interpretazione in senso morale della cura di sé, che anzi oggi viene concepita perlopiù come ricerca di  benessere psico-fisico, essa nel suo significato più autentico consiste nel dar forma alla propria esperienza secondo direzioni di senso che implicano una dilatazione della responsabilità personale al di là del proprio spazio esperienziale. Non c’è cura di sé senza attenzione all’altro, alle conseguenze di ciò che facciamo e diciamo sugli altri e sul mondo che abitiamo.
 
Le competenze per la riflessività
Che competenze servono per l’esercizio della riflessività? Su cosa deve fare leva chi deve formarla, allenarla e favorirla?
E’ evidente che l’esercizio della ragione riflessiva non costituisce un saper fare di tipo tecnico-specialistico, sebbene essa possa rivolgersi con successo a esaminare attività tecniche per indagarle sotto diversi punti di vista (ad esempio il significato che queste rivestono per la persona e l’organizzazione di cui fa parte o le possibili implicazioni non tecniche iscritte nel loro esercizio). Ma neppure può essere identificato come una blanda capacità di dialogo, se questa viene intesa come la semplice padronanza di alcune tecniche di riformulazione e di indagine o, peggio ancora, l’occasione per scambiare opinioni e punti di vista con gli altri. 
La riflessività è una pratica complessa che presuppone capacità diversificate. Tra queste: inquadrare, descrivere e interpretare una situazione, prestare attenzione a ciò che è meritevole di essere esaminato, fare emergere i pensieri taciti che condizionano i processi di elaborazione del significato, comprendere i legami che le idee hanno con l’esperienza, costruire connessioni e comprendere la rete dei processi che strutturano le situazioni, individuare gli automatismi del pensiero, riconoscere le tonalità emotive che accompagnano il fare e il rapporto che queste hanno con l’universo dei valori. E ancora, un agire riflessivo significa esercitare la capacità di giudizio per valutare azioni e discorsi, mettere in questione il valore di verità dei significati, saper esercitare il dubbio.
Si tratta di un universo di saperi e capacità che a torto vengono date per scontate ma che è utile richiamare in quanto danno conto della complessità e articolazione della pratica medesima. Senza di queste essa risulta monca, si muove su un unico binario, quello tutto sommato più semplice della riflessività strumentale che persegue obiettivi strategici.
Pertanto una concezione ricca della riflessività, dei suoi fini e dei suoi usi, comporta per chi la mette in atto e ancor di più per chi questa pratica intende formarla e allenarla, l’essere in grado di padroneggiare un universo variegato di capacità e saperi cui concorrono ambiti disciplinari diversi. Tuttavia, se non esiste un sapere esclusivo cui spetta formare e allenare alla riflessività, è altrettanto vero che la filosofia come pratica, con i suoi metodi e strumenti di analisi critica, ha con essa un rapporto privilegiato dal momento che la riflessività è ciò che la costituisce nella sua origine, che sta al cuore dell’idea socratica della vita filosofica come forma di vita centrata sull’esame di sé.
 
(1) Rigotti, 2007, pag. 52
 
Bibliografia
S.Contesini, La Filosofia nelle organizzazioni, Carocci, Roma, 2016.
S.Contesini, R.Frega, C.Ruffini, S.Tommelleri, Fare cose con la filosofia, Apogeo, Milano, 2005.
A.Giddens, U.Beck, S.Lasch, Modernizzazione riflessiva, Asterios, Trieste, 1999.
F.Rigotti, Il pensiero delle cose, Apogeo, Milano, 2007.
 

*In “Formazione & Cambiamento” n. 51, 2008
 
Simona: Tony, puoi raccontare brevemente la tua biografia professionale come Reflective Practitioner?
 
Tony: Ho cominciato ad apprezzare l’importanza della riflessione quando facevo attività di tirocinio per diventare insegnante. Quando frequentavo l'università, la mia prima attività di tirocinio l'ho fatta in una scuola elementare. Nel mio corsi c’era qualcosa che ogni studente doveva fare per diventare un insegnante qualificato. Ogni studente che aspirasse ad ottenere il titolo di insegnante doveva prevedere un’attività, che veniva definita "valutazione della lezione", per ciascuna lezione che veniva progettata. Nelle varie scuole dove ho svolto attività di tirocinio ho sempre redatto una valutazione per ogni lezione che ho tenuto. In realtà, a quei tempi nessuno mi diceva: ”Tony, stai imparando a riflettere sulla tua professione e stai facendo pratica riflessiva”, perché, nel secolo scorso in Inghilterra, mentre studiavo all’università per diventare insegnante, il concetto di pratica riflessiva e del professionista riflessivo non faceva parte dei programmi del corso di laurea per l’insegnamento. Ma era esattamente quello che stavo facendo. Stavo diventando un professionista riflessivo. Il corso mi aveva incoraggiato a pensare in modo riflessivo, ad individuare ciò che era andato bene ed a considerare le aree di futuro miglioramento e sviluppo.
Tuttavia, è interessante osservare che il programma, in realtà, mi conduceva a pensare in maniera riflessiva, seppure non esistesse nella realtà alcuna disciplina chiamata Pratica Riflessiva e nel programma non ci fosse alcun modulo che parlasse di diventare un insegnante riflessivo. Eppure io stavo realizzando quello che ora riconosco essere la pratica riflessiva e l’apprendimento riflessivo. E’ stato allora che ho iniziato a riflettere attivamente e sistematicamente sul mio lavoro. E’ stato allora che ho cominciato a considerare la centralità della nozione di riflessione nell’apprendimento.
Negli ultimi vent’anni ho fatto molte cose e sono tornato a studiare in diverse aree disciplinari. Ho studiato psicologia sociale e dell’organizzazione ed ho avuto l’opportunità di lavorare in differenti organizzazioni di diversi Paesi. Dopo aver lavorato in diverse scuole nel Regno Unito sono partito per l’Australia. Lavorare nel sistema scolastico australiano mi ha permesso di lavorare con gli Aborigeni nell’area selvaggia del Queensland, dove ho iniziato a pensare in maniera più aperta, allargando la mia visuale e ampliando il mio concetto di insegnamento e di luogo dove l’insegnamento avveniva, il significato di apprendimento e del modo in cui avveniva l’apprendimento, il concetto di classe e così via. In Australia la mia intera visione di insegnamento e di apprendimento esplose trasformandosi in qualcosa che si rivelò molto interessante per me, considerando che avevo sempre pensato che l’insegnamento e l’apprendimento riguardassero essenzialmente qualcosa strettamente collegato con il pensare e con la mente, che fossero attività essenzialmente di tipo cognitivo. L’esperienza australiana mi ha fatto pensare in modo più “olistico”. Dopo le mie esperienze in Australia, andai a lavorare nel Nord Africa, nel Medio Oriente e di nuovo in Europa e iniziai a pensare che l’apprendimento non fosse solo un’attività cognitiva ma che fosse anche un’attività altamente emozionale. Molto del mio lavoro può essere legittimamente visto come volto a favorire anche il lato emotivo/emozionale delle relazioni, che è un sentire che precede il pensare e l’azione. In altre parole cominciai a lavorare sul legame tra affettività e pensiero e tra pensiero e azione. Ossia sul fatto che “ciò che sento ha un effetto su ciò che penso e ciò che penso ha un effetto su ciò che posso fare”. In questo senso capivo anche che ciò che dicevo non corrispondeva affatto con quello che i miei studenti imparavano. Quindi cominciai ad assemblare nella mia mente sentimenti e pensieri e azione. All'inizio del mio programma universitario di formazione all'insegnamento, lavoravo con un tipo di modello di "stimolo-risposta" nel quale si diceva qualcosa e i bambini - oppure gli allievi - lo facevano, successivamente, grazie a tutta quella esperienza maturata all'estero, quando tornai mi misi a ragionare tenendo in considerazione il modo in cui percepiamo l'influenza che le cose hanno sul nostro modo di pensare e su quello che avremmo potuto fare al riguardo. Di conseguenza, mi ritrovai a cercare di pensare in maniera molto più olistica. E fu allora che compresi che la mia prima laurea e la mia formazione iniziale non erano abbastanza e che sarei dovuto ritornare all'università, imparando daccapo: avrei dovuto conseguire una nuova laurea, un master e avrei dovuto fare di nuovo formazione su cose diverse.
Guardando indietro credo che sia proprio a partire da queste esperienze che cominciai a gettare i primi semi dei valori di base che oggi caratterizzano l’attività di Reflective Learning UK.
Per vent'anni ho vissuto questo tipo di percorso scoprendo che ciò che stavo imparando era inadeguato oppure non mi aiutava a rispondere al tipo di domande o dilemmi con cui dovevo confrontarmi nella mia pratica attuale. Di conseguenza, mi ritrovavo a dover colmare i vuoti che esistevano tra la formazione e la pratica, il sapere e la realtà e per farlo sono sempre ritornato a qualche tipo di processo di apprendimento.
Ora come ora, descriverei me stesso come un professionista riflessivo, che ha maturato un’esperienza come psicologo sociale e dell’organizzazione. E quando la gente mi chiede: "Cosa fai?" oppure, "Cosa sei?", io rispondo: "Mi interesso alle persone e a quello che fanno". Mi interesso di ciò che le persone pensano e fanno in un determinato contesto, che può essere un'organizzazione, per esempio. Il mio lavoro consiste nel cercare di supportare le persone e i gruppi nella realizzazione dei loro obiettivi. Nella mia impostazione hanno avuto una grande influenza la psicologia positiva, le modalità partecipative di lavoro, il pragmatismo e il realismo critico, la ricerca interattiva, la teoria della strutturazione e l’action research.
Molte delle riflessioni e delle attività svolte che menziono nell’intervista sono state sviluppate a partire dal 1966, quando lavoravo all'università di Worcester, insieme ai colleghi Phil Cambers e Brian Clarke. A quell’epoca noi avemmo l'incarico di creare e sviluppare un centro di ricerca multidisciplinare basato sui principi e le pratiche della riflessione e dell'Action Research di tipo partecipativo, che si chiamava “Policy in pratica”. Proprio grazie al quel centro che dirigevo abbiamo ricevuto nella metà degli anni novanta un riconoscimento nazionale quale uno dei sei centri di eccellenza per l'Action Research nel mondo. Dopo questo, essendo la persona che sono, sono andato alla ricerca della sfida successiva. E questa avvenne quando, divenuto professore ordinario, il mio rettore mi fece chiamare e mi disse che aveva un grande incarico per me. Fondamentalmente si trattava di lavorare sulle pratiche, organizzare convegni e presenziare commissioni. Per tutta la vita ho sempre sostenuto di avere un piede nel mondo della pratica e l'altro altrove. E quell' altrove poteva essere nel settore universitario oppure in quello privato, ma ho sempre cercato di evitare di essere messo in una scatola. Mi sento in qualche modo un abitante di confine postmoderno, sai, uno che si muove sull'interfaccia tra le cose, tra differenti campi, discipline, tipi di organizzazione. Tra mondo della produzione e università, tra ricerca e sviluppo. Credo che ci sia bisogno di molti più professionisti interdisciplinari in questo mondo oggi, non credi? Io amo lavorare sulle interfacce. Secondo me è lì che la sinergia creativa ha luogo. Dopo essere diventato professore in Scienze dell’Educazione cominciai a pensare che era ora di provare a fare qualcos’altro.
 
Simona: Quando è nato l’Istituto di Pratica Riflessiva (R P Institute)? In seguito a queste esperienze? Quanto tempo è trascorso?
 
Tony: Fu allora che iniziai a considerare l'idea di creare un istituto per la Pratica Riflessiva. Ebbi molti incontri con la famiglia di Donald Shön - ad un certo punto avevo anche contemplato l'idea che ci potesse essere un istituto Donald Shön. Tuttavia, riflettendoci sopra - dopo averne discusso con la moglie dopo la morte di Donald Shön alla fine degli anni '90 - decisi che non sarebbe stato appropriato, in quanto io non volevo perseguire e semplicemente riprodurre il concetto di Donald Shön del professionista riflessivo: la mia concezione era molto più ampia, ed era ora di superare molte delle debolezze e limiti nella nozione di professionista riflessivo. Nel 2000 ebbi l'opportunità di lasciare il settore universitario e di fondare quello che ho chiamato Reflective Practice Institute. Comunque, a quel punto fu veramente utile il fatto che portai con me un'intera rete globale, sai, una rivista internazionale, alcuni membri del mio staff, i quali avendo collaborato con me all'università desideravano continuare a lavorare per me. Sviluppammo in poco tempo un metodo di lavoro. Sebbene il periodo iniziale di incubazione, credo, sia durato circa due anni, abbiamo iniziato a lavorare piuttosto presto e dopo è stata tutta una corsa. Fu proprio nel 2000 che pensai: "Questa è l'opportunità che ho per dare il mio contributo e fare quello che so fare meglio - ma senza essere soffocato dalla burocrazia e dai comitati". Eravamo in grado di prendere decisioni molto velocemente, potevamo essere flessibili, potevamo reagire con prontezza, potevamo avvicinarci molto alle comunità con cui lavoravamo, potevamo prendere le nostre decisioni, potevamo essere totalmente autonomi ma, allo stesso tempo, molto responsabili, perchè il nostro intento era quello di mettere in pratica quello che sostenevamo. Pertanto, essendo un Istituto di Pratica Riflessiva, noi volevamo dimostrare che chiunque poteva venire a vedere il nostro operato in quanto noi ce la mettevamo tutta per tradurre quello che dicevamo in azione. Di conseguenza, riflettevamo regolarmente, ci incontravamo regolarmente, eravamo disponibili al cambiamento, eravamo flessibili, reagivamo con prontezza ed eravamo veloci.
Ufficialmente quello che oggi si chiama Reflective Learning UK è nato nel 2001. Come sai l’istituto è stato da poco rinominato passando da Reflective Practice Institute a Reflective Learning. Ci sentiamo più a nostro agio con questo nome. Inoltre abbiamo pensato che l’inclusione della parola “Istituto” potesse dare l’impressione sbagliata di ciò che eravamo e facevamo. Siamo un’impresa sociale no-profit e questo ci ha consentito di impostare un differente tipo di dialogo con i nostri clienti.
Per il successo dell’istituto hanno avuto un’importanza cruciale tutte le relazioni ed i contatti che avevo sviluppato nei 20 anni precedenti. Hanno avuto un valore inestimabile. Quindi io non stavo partendo soltanto con un pezzo di carta bianca e grande sogno. Pensavo a come un’organizzazione del genere potesse essere messa in piedi e a come potesse essere strutturata. Pensavo a come, attraverso l’apprendimento riflessivo, avremmo potuto provare a favorire realmente un miglioramento della qualità della vita delle persone, sul lungo periodo, generando una profonda differenza tra vita e sopravvivenza.
All’inizio ero da solo. Successivamente uno dei miei più cari colleghi del centro di ricerca “Policy in pratica” dell’Università di Worcester decise di entrare. Poi aggiungemmo un terzo membro. E dopo questo, come si dice, il resto della storia. Attualmente abbiamo un esteso numero di consulenti associati su cui possiamo contare. Siamo molto distribuiti territorialmente ma abbiamo una struttura di network tra individui e organizzazioni molto forte ed estesa che si estende fino alla zona Artica, Asia, America e Africa. Credo che sul nostro sito: www.reflectivepractices.co.uk sia possibile trovare più informazioni su questa struttura di partnership. I partner lavorano autonomamente ma allo stesso tempo sono riconoscibili, accreditati e responsabili delle azioni svolte. Vogliamo provare, più che possiamo, a mettere in pratica i valori dichiarati. Il nostro modus operandi di base è: provare a lavorare in modo apprezzativo, costruendo obiettivi e scenari futuri migliori, partendo dagli aspetti positivi che caratterizzano il presente. Noi intendiamo favorire e valorizzare modi di lavorare fortemente inclusivi, partecipativi ed etici. Lavoriamo con singoli individui, gruppi, con organizzazioni e oltre le singole organizzazioni.
 
Simona: Hai parlato molto di riflessività e di pratica riflessiva. Potresti raccontare, in poche parole, cosa sono le pratiche riflessive?
 
Tony: Per me “Pratica Riflessiva” è un temine che rappresenta i metodi e/o gli strumenti che ci permettono di apprendere più efficacemente e di mettere quell'apprendimento a buon frutto. Per me pratica riflessiva significa un insieme di strumenti e metodi che ci consente di ripensare a quello che facciamo e migliorarlo. Ovviamente la pratica riflessiva significa molto più di questo; esiste un mondo di valori alla base della riflessione e della sua pratica, per cui è come la punta di un iceberg, sai, i suoi tre quarti si trovano ancora sotto il livello dell'acqua. Secondo il mio punto di vista, negli ultimi due anni è avvenuto un significativo cambiamento nell'uso del termine “Pratica Riflessiva”: adesso c'è maggiore consapevolezza del fatto che esiste più di una pratica di riflessione. Il movimento si è spostato dalla pratica riflessiva verso l'apprendimento riflessivo. Per me le “Pratiche Riflessive” fanno parte di un insieme più ampio che comprende l’”Apprendimento Riflessivo”. Credo che il principale proposito dell’apprendimento riflessivo sia quello di essere basato su azioni dense di valori finalizzate al miglioramento di specifiche situazioni o contesti. I valori a cui faccio riferimento sono l’etica, l’integrità, il coraggio morale, la responsabilità, l’impegno al fine di migliorare la qualità della vita e del lavoro.
Ci sono molte definizioni di “reflective practice”. Forse la più conosciuta è quella che deriva dal lavoro di Donald Shön e che si riferisce alla riflessioni nell’azione e alla riflessione sull’azione. C’è anche la riflessione per l’azione e la riflessione con l’azione. Recentemente si è verificato un crescente interesse in forme più critiche di riflessione. Su forme di pratica riflessiva che pone in questione habitus, routine e status quo. La riflessione critica ci aiuta a pensare e ad affrontare culture del lavoro e processi che sono oppressivi e dequalificanti. Una delle sfide lanciate dalle forme critiche di riflessione è quella di essere critiche ed allo stesso tempo sicure! Il trend più recente rivela un interesse per le forme creative di pratica riflessiva. In altre parole: come possiamo usare le pratiche riflessive per costruire e sostenere organizzazioni e team di lavoro più innovativi? Le pratiche riflessive di tipo creativo aiutano a riprogettare gli schemi di pensiero di riferimento e a vedere le cose in modo diverso, ad abbracciare il pluralismo e a favorire l’innovazione metodologica. La sfida per le comunità di apprendimento riflessivo, io credo, sia quella di pensare a come gli aspetti critici possano essere trasformati in aspetti e processi creativi. Questo modo di lavorare, più creativo, si connette strettamente ai recenti sviluppi, più innovativi, delle relazioni tra organizzazioni e nelle organizzazioni.
Questo è di centrale interesse per Reflective Learning UK.
 
Simona: Potresti fare un esempio relativo all’uso di metodi della pratica riflessiva dalla tua esperienza professionale?
 
Tony: Questa è una domanda particolarmente interessante. Risponderò in tre modi. Per primo, risponderò dal punto di vista del direttore di una rivista internazionale peer review: quasi tutti gli articoli che ricevo dagli autori utilizzano il metodo del diario riflessivo oppure del notebook (quaderno degli appunti) riflessivo. Quindi si tratta della tecnica della carta e penna. Questi metodi vengono utilizzati maggiormente in contesti in cui si svolge un corso o programma, un modulo per superare i quali devi tenere una sorta di giornale di bordo e poi ne devi fare qualcosa, che può essere, ad esempio, trarne degli estratti ed inserirli in un elaborato o in un saggio, o qualcosa del genere. Si può anche portare il proprio diario ad un incontro di gruppo e condividere i pensieri tratti dal diario in maniera simile ad una discussione di gruppo in cui si sviluppa una sorta di critica amichevole. Con questo metodo, che resta ancora il più popolare, io ho dei veri problemi. Uno dei problemi riguarda il fatto che tenere un diario riflessivo sembra un compito facile - che spesso si richiede per fare una valutazione della competenza, ecc.- mentre, in realtà, ora noi ci stiamo accorgendo che è un processo molto complesso. Noi, in quanto comunità, stiamo cominciando a discutere circa la dimensione etica relativa al fatto di tenere un diario riflessivo e di utilizzare poi in qualche modo il suo contenuto. E' un po’ come l'esempio in cui il professore dice: "Parla! Raccontami ancora!", e lo studente risponde: "Non metterò in gioco i miei sentimenti in tutto questo. Lei non ha il diritto di sapere quello che provo. Le ho già raccontato abbastanza". In realtà, abbiamo appena iniziato a parlare dell'etica della riflessione attraverso un metodo chiamato diario riflessivo. Questo è un esempio che proviene dalla mia posizione di direttore della rivista.
La seconda risposta di cui ti ho parlato si riferisce al processo di apprendimento intrapreso da soli, di cui ora si inizia a riconoscerne i limiti. Per questo motivo si preferisce sempre più la riflessione e le pratiche riflessive condotte in gruppi, alla riflessione individuale condotta introspettivamente - in maniera retrospettiva – ripensando sempre a qualcosa. Adesso è avvenuto un grosso cambiamento per cui la riflessione e la sua pratica avvengono apertamente, pubblicamente, in maniera più collegiale, con maggiore supporto, riuscendo così a ricollegarsi al concetto di comunità e collettività, a differenza dell'attività individuale, solitaria e privata. Naturalmente le implicazioni di questa pratica sono enormi in termini di relazioni interpersonali, poiché si parlerà delle cose solo quando si è sicuri di avere le risposte a domande tipo, "Se ti dico questa cosa, come reagirai?" oppure "Se ti dico questa cosa, cosa ne farai con quello che ti racconto?" Di conseguenza, sorge una grossa questione sulla fiducia, sulla confidenza, sull'essere capaci di tradurre in parole quelli che potrebbero essere sentimenti molto complessi. Mi metto nei panni di quelli - me compreso - che non sempre sanno esprimere con parole le loro riflessioni... Sai, io credo che il processo di articolare ciò che gli altri potrebbero capire quando noi siamo i primi a non capire noi stessi - i nostri sentimenti, intendo - richieda abilità e creatività. E poi si fanno tutte queste affermazioni sul fatto che la pratica riflessiva sia qualcosa che chiunque possa fare, e che è giusto e che non è nociva. Invece può essere enormemente nociva. La terza risposta invece riguarda un progetto che sto seguendo da tre anni, avente l’obiettivo di modernizzare i servizi alla maternità in un’area urbana molto estesa. Al cuore di questo progetto risiede lo sviluppo di team riflessivi multidisciplinari che hanno l’obiettivo di pensare a servizi che siano allo stesso tempo più creativi ed efficienti per le donne in maternità. Uno staff di RL-UK ha fatto emergere evidenze empiriche, ha realizzato conversazioni riflessive con differenti gruppi di professionisti che operano nei servizi sanitari e con gruppi di donne che usano tali servizi. Abbiamo creato un contesto in cui è possibile lo scambio, la condivisione di esperienze e l’apprendimento a partire dalla propria esperienze e da quella degli altri. Le conversazioni riflessive sono state utili a sviluppare dei servizi realmente centrati sulla donna. E’ da sottolineare l’esistenza di visioni iniziali sull’eccellenza nei servizi alla maternità molto differenti tra i professionisti del settore e le donne in maternità. Se non avessimo realizzato, supportato, incoraggiato queste conversazioni riflessive e se non le avessimo rese pubbliche e condivisibili, non avremmo mai potuto apprezzare questa diversità. Le conversazioni, per oltre un periodo di un anno, non sono state affatto facili.
Quando la riflessione diviene una pratica più pubblica e discorsiva, molte cose hanno bisogno, per essere percepite come “giuste”, come “cose da fare”, di una conversazione che sia stimolante, energizzante, illuminante e possibilmente creativa. Queste sono cose che possono essere realizzate mediante un determinato uso del linguaggio e sulla base della costruzione della fiducia, del rispetto, del clima confidenziale. Spesso i soggetti coinvolti hanno bisogno di maggior coraggio morale me di essere sicuri di agire in un contesto di relazioni che sia etico. L’ambizione più grande in questo progetto per la comunità di reflective learning è quella di trasformare le questioni critiche in questioni positive. Se riusciamo a cambiare la forma delle questioni allora abbiamo una chance di cambiare la conversazione. Se cambiamo le conversazioni, le narrative, allora creiamo l’opportunità di cambiare, e possibilmente di migliorare, le azioni.
 
Simona: Molto interessante. Poni l’accento sull’importanza dei metodi nella creazione di una relazione etica. Puoi approfondire questo tema del rapporto tra etica e metodo?
 
Tony: Credo che questa sia una domanda molto importante ed estremamente significativa per noi. Credo anche che questo aspetto sia stato un grosso punto cieco per molti di noi. E credo che la questione sia sorta soltanto di recente quando, all’interno delle diverse professioni abbiamo ricevuto pressioni affinché ci assumessimo maggiori responsabilità per le nostre azioni, anche a livello pubblico. E’ tempo di prendere seriamente in considerazione il la necessità di rendere le azioni professionali più pubbliche, visibili e più responsabili. Ogni volta che invitiamo qualcuno a riflettere sulla propria esperienze non bisogna mai dimenticare il fatto che tale esperienza potrebbe non essere positiva, felice, per chi la racconta. Occorre creare le condizioni affinché le persone che raccontano la propria esperienza e ciò che pensano di aver imparato da questa, in forma scritta o orale, non si sentano in uno stato di ansia, agitazione, sofferenza.
Prendiamo ad esempio una professione in generale, come l'insegnamento nelle scuole o il lavoro nella sanità dove ci sono contenziosi giudiziali, dove si presenta la problematica di rendere conto del proprio lavoro, dove si presenta la problematica del potere del paziente. Tutto questo si collega in maniera interessante e, secondo me , significa che ogni volta che invitiamo qualcuno a riflettere sulla propria esperienza di lavoro dobbiamo assicurarci di tenere a mente il concetto di lavorare seguendo l'etica, e ciò che implica, insieme alla nostra pratica della riflessione. Pertanto se io, ad esempio, ti chiedessi di riflettere su un'esperienza significativa per te, alcuni lo chiamerebbero "incidente critico" . Personalmente ho qualche problema per quanto riguarda l'incidente critico perchè nelle diverse professioni il termine "critico" assume significati diversi. "Critico" potrebbe significare “importante”, potrebbe essere un “incidente significativo”, ma in qualche modo noi giochiamo con quelle due parole nel momento in cui io ti invito, o ti chiedo. Oppure in altri contesti chiedo che il professionista rifletta sulla propria pratica, e questo implicitamente va a toccare una serie di questioni etiche. Chi sono io, che diritto ho di chiedere a te di rivelarmi i tuoi sentimenti su qualcosa che è molto importante per te? Che diritto ho di chiederti di svelarmeli specialmente se non si tratta di quello che si potrebbe definire una rapporto clinico in cui la tua risposta potrebbe influenzare uno specifico programma clinico o piano terapeutico, o qualcosa del genere? Parlando più in generale nell'ambito professionale, si tratta di un grosso problema etico: quali sono i tuoi diritti. Tu hai il diritto di non partecipare; tu hai il diritto di non raccontarti; tu hai il diritto di ragionare sulle cose e decidere di tenermi all'oscuro di alcune cose e io non ho il diritto di continuare ad esigere che tu me le riveli. Esiste un insieme di questioni legali, semi-legali, etiche e morali tutte raggruppate insieme.
Ad esempio, se io ti ponessi una domanda che non riguarda soltanto la tua professione ma anche quella dei tuoi colleghi, e tu me ne parlassi, in quel caso io entrerei in possesso di una certa quantità di informazioni. Posso fare due cose: potrei usare quelle informazioni per fare del bene e potrei usarle per nuocere. In ogni caso mi troverei di fronte ad una responsabilità etica. Devo essere in grado di assicurare che agirò con integrità e eticità rispetto alle cose che mi verranno raccontate e che vedrò. E se ciò su cui stiamo riflettendo sono pratiche non del tutto legalmente corrette, comportamenti che generano rischi, molestie, ecc..? Dobbiamo parlarne o no? Cosa possiamo dire? Niente? Qualcosa? Come? Quando e in che modo? Quali sono le implicazioni per coloro che sono coinvolti nella storia? Ritengo che etica e metodo debbano essere strettamente interrelati ed è per questo motivo che io sollecito tutti coloro che fanno parte della comunità di apprendimento riflessivo a parlare quanto più possibile dei valori che sono alla base dell’apprendimento riflessivo: quali sono i valori che guidano le pratiche della riflessione poiché i valori sono i motivi per cui facciamo le cose. Sono le ragioni per cui facciamo quello che facciamo. Di conseguenza, ritengo che dobbiamo sapere con certezza quali siano questi valori, specialmente perché si è visto un bel po’ di quello che si potrebbe definire “cattiva pratica” nel campo dell’apprendimento riflessivo, dove chiunque si ritiene idoneo a ricoprire il ruolo del facilitatore pensa di poter semplicemente inserirsi in un gruppo, oppure incontrare un individuo e chiedergli di riflettere sul proprio lavoro. E credo che sia per questo motivo che il processo di apprendimento riflessivo sia stato tanto diffamato e travisato. Ed è per questo motivo che molti studenti, non solo i professionisti nel posto di lavoro, alla menzione di riflessione o di apprendimento o pratica riflessiva, emettono un lamento , “Oh no. Non quello!” E gli si rivolta lo stomaco perché pensano che gli verrà chiesto qualcosa che li costringerà a svelare i propri sentimenti in una maniera che non vogliono, perché nella mente hanno questo stereotipo sulla riflessione e le pratiche. Io credo che ci aspetta un lavoro imponente e ritengo che abbiamo un obbligo etico di assicurarci che l’apprendimento riflessivo abbia delle solide fondamenta fatte di valori etici. Le pratiche riflessive, nel contesto più ampio dell’apprendimento riflessivo, hanno bisogno di dotarsi di basi etiche davvero solide. Credo che abbiamo l’obbligo di farlo. Credo anche che dobbiamo avere il coraggio morale di creare le opportunità affinché l’apprendimento riflessivo sia partecipativo, apprezzativo e finalizzato al miglioramento individuale ed organizzativo. Questa è una grande sfida. Come comunità riflessiva possiamo sperare di raggiungere questi obiettivi se discutiamo costantemente sui modi di creare e sostenere cambiamenti sociali positivi, sulle modalità attraverso le quali preservare la nostra integrità pur continuando a potenziare le nostre performance.
 

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