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N° 19/ 2021 - Ventennale III – Metodi e pratiche

 

 
 

Anche questo terzo ed ultimo “speciale” dedicato ai venti anni di “Formazione & Cambiamento” ripropone testi ed interviste dedicati al tema generale dell’apprendimento avendo lo scopo – già anticipato nel numero 17/21 –di associare alle “Quattordici tesi sull’apprendimento” esposte nel n. 15 del 2020 alcuni contributi pubblicati nella “vecchia” e nella “nuova” serie della rivista. 
La retrospettiva che presentiamo in questo numero, che ha come titolo “Metodi e pratiche”, propone un insieme di contributi riconducibili agli assunti di cinque delle “Tesi sull’apprendimento”: la seconda (“La conoscenza non è ‘che si possa travasare da qualcuno che la possiede a qualcun altro che ne è privo e quest’ultimo non è un contenitore”), la settima (“Ogni soggetto, in ragione della sua irriducibile unicità, ha una propria strategia di apprendimento”), l’ottava (“L’apprendimento è formale, non formale e informale”), la nona (“Il metodo nei processi di apprendimento è cruciale”), la quattordicesima (“Il lavoro nell’apprendimento è una professione”).
Affidiamo ai nostri lettori la varietà dei punti di vista sulle particolari dimensioni dell’apprendere che emergono dai contributi proposti, nella speranza di favorire un arricchimento della riflessione e del dibattito su temi di crescente interesse per chi si occupa di apprendimento.
 

*In “Formazione & Cambiamento”, numero 51, maggio 2008
 
 
Where is the Life we have lost in living?
Where is the wisdom we have lost in knowledge?
Where is the knowledge we have lost in information?
 
 T.S. Eliot, The Rock (1934) 
 
 
REFLECT è un progetto europeo finalizzato a contribuire allo sviluppo professionale e culturale dei professionisti della formazione professionale (VET, “vocational education and training”)  i quali operano in istituzioni formative, aziende e altri contesti di formazione e apprendimento. Più specificamente l’obiettivo fondamentale del progetto è la diffusione di “pratiche riflessive” negli ambienti della formazione, a partire dall’ipotesi che la riflessività sia una meta-competenza complessiva che caratterizza in misura crescente una nuova cultura professionale dei formatori. Una cultura che emerge all’incrocio tra gli interessi degli stessi formatori al proprio auto-sviluppo da un lato e la complessa domanda rivolta ai sistemi di formazione professionale dai più diversi strati della società e dell’economia dall’altro. La riflessività può infatti essere considerata cruciale per un segmento significativo di  professionisti coinvolti in processi di cambiamento per molti aspetti più intensi di quelli che caratterizzano i docenti delle scuole e delle università.
 
La molteplicità degli obiettivi e delle interazioni che si attivano nell’ambito del campo della formazione – da assumere come parte del più vasto campo del lifelong learning  – non può essere governata solo attraverso regolazioni e programmi, per quanto innovativi, di tipo top-down e a livello macro. Dovrebbe invece essere gestita attraverso diverse iniziative a carattere bottom-up e di livello micro, direttamente guidate dai professionisti interessati in una logica di auto-sviluppo, eventualmente con il supporto di esperti esterni. Le “pratiche riflessive” possono essere considerate come tipici modi di pensare e agire dei professionisti della formazione nelle dimensioni micro e bottom-up in quanto incrementano le capacità necessarie in contesti in cui sono rilevanti aspetti di innovazione, problem-solving, cooperazione e apprendimento organizzativo. 
 
La necessità di sviluppare un nuovo tipo di professionista della formazione va affrontata – come si tenta di fare nelle pagine seguenti – considerando sia le politiche che guidano i processi di innovazione della formazione a livello europeo sia le dinamiche evolutive della knowledge economy che, per loro stessa natura, richiedono una moltiplicazione di sforzi in dimensioni locali e micro. Date queste coordinate sarà quindi possibile ripercorrere brevemente alcuni recenti necessità evolutive della formazione nel suo insieme e alcuni tratti ideal-tipici che caratterizzano il “professionista riflessivo della formazione”.
 
Lo sviluppo dei sistemi di formazione e del loro personale è uno dei maggiori aspetti dell’agenda politica europea legata alla cosiddetta strategia di Lisbona, avviata nel 2000, secondo la quale l’Europa dovrebbe essere trasformata nella più avanzata economia basata sulla conoscenza nel modo, mantenendo l’equilibrio tra le esigenze dell’innovazione e della competitività e quelle dell’inclusione sociale. 
In numerose prese di posizione delle istituzioni europee, generate a seguito della strategia di Lisbona, la formazione professionale rappresenta una leva fondamentale per tale trasformazione, da azionare attraverso specifiche politiche finalizzate a (i) assicurare la corrispondenza delle competenze (skills) della forza lavoro all’evoluzione economica e tecnologica; (ii) ridurre le disuguaglianze sociali e promuovere le diversità culturali; (iii) supportare gli sviluppi a livello individuale in modo da aiutare le persone per quanto riguarda la realizzazione del loro potenziale e le opportunità di “vivere una buona vita” (Consiglio Europeo, 2001). 
 
In questa prospettiva la VET e il lifelong learning sono strettamente connessi. Per molti aspetti le attività di VET sono viste infatti come il lato formale di un più ampio sforzo complessivo di miglioramento delle competenze e dei comportamenti sociali, nel cui ambito trovano posto anche altri tipi e livelli di formazione e educazione, connessi a obiettivi di apprendimento non-formale e informale.
Il lifelong learning, in questa prospettiva, è costituito da tutte le attività di apprendimento finalizzate intraprese su base continuativa con lo scopo di migliorare la conoscenza e le competenze (“skills and competence”) (Commissione Europea, 2000). Inoltre, viene incoraggiata la facilitazione degli accessi alle opportunità di apprendimento da parte non solo delle istituzioni tradizionali della educazione e della formazione ma anche di imprese e altre organizzazioni. Come si afferma in uno dei più rilevanti documenti ufficiali a questo riguardo, “mettere in pratica il lifelong learning richiede che ognuno possa lavorare efficacemente con gli altri – sia a livello individuale sia nelle organizzazioni” (Commissione Europea, 2001). Su questa base sono state create in tutti i paesi europei le importanti iniziative di “Formazione Tecnica Superiore” che, attraverso la collaborazione tra imprese, istituzioni formative e università, hanno permesso di realizzare interventi di VET nei più diversi settori produttivi.
 
Dopo i passi iniziali, in parallelo con l’evoluzione della costruzione europea, le finalità strategiche di Lisbona sono state ulteriormente specificate, attraverso diverse prese di posizione riferite alle decisioni assunte nell’ambito del cosiddetto “processo di Copenhagen” avviato nel 2002 e presentato nel documento “Education & Training 2010”.  Quest’ultimo fornisce parametri di benchmark per la misurazione dei progressi in diverse aree di sviluppo dell’educazione e della formazione (Consiglio Europeo e Commissione Europea, 2004). 
 
Tre sono gli obbiettivi principali che dovrebbero essere raggiunti dai sistemi VET a beneficio dei cittadini e dell’Unione Europea nel suo insieme: 
- migliorare la qualità e l’efficacia dei sistemi di educazione e formazione; 
- assicurare che siano accessibili a tutti; 
- aprire l’educazione e la formazione al più vasto mondo. 
 
Anche attività che non sono di apprendimento tramite insegnamento sono considerate parte integrante della missione della VET. Si tratta, in particolare, di attività di orientamento al lavoro a carattere lifelong, di ricerca delle opportunità formative, di supporto alle scelte che riguardano la mobilità e la cittadinanza. Allo stesso tempo si ritiene che processi di innovazione continua siano urgentemente necessari all’interno dei sistemi formativi.
 
Altre decisioni recenti confermano le direttive precedentemente indicate e le integrano nel quadro delle nuove politiche per la crescita e la creazione di posti di lavoro decise con la più recente revisione della strategia di Lisbona (Consiglio Europeo, 2006). Si ri-afferma che la formazione professionale è parte integrante e rilevante del lifelong learning, in quanto quest’ultimo deve fornire le conoscenze e le competenze (skills e competencies) richieste a tutti i cittadini europei nel mercato del lavoro e, più in generale, nella società della conoscenza. Ciò implica che la formazione professionale deve affrontare la “doppia sfida” di coinvolgere sia i giovani sia chi già lavora. Nel prossimo futuro devono quindi essere implementate nuove politiche nazionali che consentano sia di incrementare l’attrattività e la qualità della formazione sia di sviluppare strumenti comuni. In particolare ai sistemi formativi sono richiesti compiti come quello di sviluppare e testare un Sistema Europeo di Crediti Formativi  (ECVET) e un Quadro Europeo della Qualificazione (EQF) o come quelli di usare strumenti di assicurazione qualità e di coinvolgere con continuità tutti gli stakeholder implicati – come parti sociale e istituzioni rappresentative – nei processi di apprendimento/formazione (Consiglio Europeo, 2004).
 
Il policy-maker europeo è consapevole del grande sforzo richiesto ai formatori per far fronte a queste sfide. Nell’ambito dell’obiettivo di migliorare la qualità e l’efficacia della formazione sono infatti considerati aspetti-chiave, tra gli altri, quelli di: 
- identificare le competenze che i formatori devono possedere, dato il cambiamento del loro ruolo nella società della conoscenza;
- assicurare un sufficientemente elevato livello di ingresso nella professione insegnante, e al contempo fornire risposte alle esigenze a lungo termine della professione rendendo più attraenti le attività di insegnamento e addestramento;
- reclutare nel campo della formazione persone dotate di ampia esperienza professionale in altri campi (Consiglio Europeo, 2004).
 
Queste liste di obiettivi e azioni da intraprendere rappresentano un quadro altamente problematico per lo sviluppo della formazione nei prossimi anni. Saranno necessari diversi adattamenti per passare dal cielo dei princìpi allo scabro suolo delle realtà locali della formazione a differenti livelli. Adattamenti rilevanti sono naturalmente quelli legati alle differenze, disuguaglianze e squilibri che caratterizzano l’Europa allargata. Ma, più che quelli che hanno a che fare con le differenze sociali e nazionali  (che vanno armonizzate a livello legale-istituzionale),  gli adattamenti maggiormente significativi delle linee-guida europee sembrano quelli riconducibili alla complessità strutturale dei processi di sviluppo socio-economico. La natura di tali processi è infatti molto più variegata di quella raffigurata nella visione, spesso troppo lineare, del policy-maker europeo. 
 
Alcuni aspetti sembrano particolarmente rilevanti nell’attuale fase di definitiva instaurazione dell’economia della conoscenza in quanto rimandano alle caratteristiche non lineari dei diversi fenomeni connessi al valore delle risorse della conoscenza a livello sia sociale complessivo sia di singoli individui.
 
Un primo aspetto riguarda l’importanza delle competenze reali – e non solo delle qualificazioni formali – in tutti i settori di attività. L’economia della conoscenza è stata infatti anche definita come l’ “economia dell’apprendimento”, in quanto al suo interno “la chiave della performance economica non è più costituita da una determinata base di conoscenze ne dalle capacità di accesso all’informazione in quanto tali, ma piuttosto dall’abilità degli attori socio-economici e produttivi di sfruttare tali capacità in modo ottimale, attraverso il rapido adattamento a sempre mutevoli condizioni di mercato e lo sviluppo di nuove capacità non appena divengano obsolete quelle attualmente esistenti” (Lundvall and Borras, 1999: 23).
In questo modo viene messa in piena luce l’importanza, fondamentale negli attuali assetti economici e sociali, della differenza tra conoscenza esplicita e tacita. La conoscenza esplicita, equivalente a informazione facilmente trasferibile, assume valore solo quando si interseca con le diverse forme della conoscenza tacita, radicata in competenze e routines delle quali non è affatto facile il trasferimento e la replica. La conoscenza tacita appare in misura crescente come  l’insieme delle risorse che possono contribuire al vantaggio competitivo di imprese, territori, interi aggregati nazionali e locali, nonché degli stessi singoli individui (Archibugi and Lundvall, 2001). 
 
La conoscenza, da questo punto di vista, non solo cresce di importanza ma cambia di natura: va considerata come una risorsa che si rigenera continuamente in una molteplicità di situazioni e attraverso l’interazione di diversi attori. Mentre tradizionalmente il locus della creazione di conoscenza era identificato nell’accademia, in cui scopi e mezzi di tale creazione sono controllati da ristrette cerchie di scienziati, attualmente viene riconosciuta l’esistenza di una modalità più ampia di creazione della conoscenza (il cosiddetto “modo 2”) al quale contribuiscono attivamente anche ruoli non accademici, come tecnici e professionisti (Gibbons et al., 1994; Nowotny et al., 2001).  Un aspetto importante a questo riguardo, anch’esso dato troppo spesso per scontato, è legato al fatto che nelle società tardo-moderne la gran parte della conoscenza che ha valore economico e utilità per la vita viene sviluppata all’interno di organizzazioni. E’ infatti nella dimensione organizzativa e inter-organizzativa – dalle grandi multinazionali alle reti di imprese fino alla più piccola azienda – che hanno luogo le interazioni tra gli attori sociali che assicurano la creazione della conoscenza tacita e le opportunità di valorizzazione della conoscenza esplicita (Tomassini, 2006; 2007).
 
La stessa dimensione organizzativa è peraltro sottoposta a intense trasformazioni. Il tradizionale modello del lavoro centrato su grandi imprese, su impieghi a lungo termine e su ben definiti ruoli, mansioni e percorsi di vita è oggi largamente superato. Le strutture centralizzate delle grandi imprese si accoppiano sempre più spesso con radicali rimodellamenti delle attività e delle relazioni sociali-produttive, attraverso le applicazioni intensive di ICT, l’ outsourcing, il re-engineering, le strutture a progetto. I confini tra forma organizzazione e forma mercato tendono ad assottigliarsi. A seguito della struttura multi-polare dell’economia della conoscenza tende a moltiplicarsi la diffusione di piccole imprese dei più diversi tipi e in parallelo tendono sempre più ad articolarsi i modi di vita e di lavoro: continuamente nascono e scompaiono nuove specie di profili professionali e di competenze mentre i rapporti di lavoro di tipo dipendente e indipendente sono sempre più interconnessi. Devono continuamente essere scoperte nuove soluzioni che permettano a individui e gruppi di difendere il proprio valore di mercato, le proprie opportunità di apprendimento e aggiornamento, il proprio “senso di sé” nell’ambito di condizioni di lavoro e organizzazione che cambiano continuamente. 
 
In parallelo è necessario tenere conto della perdita complessiva di valore del fattore lavoro in quanto tale. Recenti studi su larga scala mostrano in modo esauriente che l’insieme del lavoro attualmente disponibile nell’economia globalizzata perde di valore rispetto al fattore capitale. Il lavoro – non questo o quel lavoro, che può singolarmente essere molto richiesto, remunerato e fonte di soddisfazioni, ma l’insieme del lavoro – è più che mai una merce assai abbondante, che di per sé non assicura quote crescenti di reddito ai suoi portatori. Il valore del lavoro è sempre meno direttamente correlato all’erogazione di energia fisica o mentale per scopi condivisi e sempre più invece all’ “incorporamento” di conoscenze e capacità di apprendimento che aggiungono valore rispetto a tali scopi. Ciò è riscontrabile a tutti i livelli, non solo necessariamente quelli di manager e professionisti, anche se in tali casi il fenomeno del valore è più diffusamente evidente. 
 
In questa chiave l’emergere della centralità delle risorse della conoscenza e della competenza appare come un fenomeno non neutro ma accoppiato con un incremento di importanza della dimensione del “rischio”, in particolare per coloro che hanno minori opportunità di accesso a tali risorse  (Beck, 1992, 2000). In parallelo le necessità di apprendimento non possono essere colte solo in termini di approvvigionamento incrementale delle informazioni e conoscenze utili in specifici contesti ma soprattutto in termini di “riflessività”, ossia di quella funzione critica (istituzionale, sociale, individuale) che consente l’uso competente di tali informazioni e conoscenze attraverso l’analisi e la riformulazione delle pratiche in atto negli specifici contesti  (Beck et al., 1994; Giddens, 1991). In una società complessa sono richieste sempre nuove capacità riflessive a tutti i membri della società stessa in modo di assicurarne l’auto-sviluppo nella vita e nel lavoro. La riflessività, da questo punto di vista, è la forma più alta e necessaria dell’apprendimento, una funzione continuamente richiamata dalle politiche europee ma troppo spesso considerata solo in termini di aggiornamento e adattamento della conoscenza formale. 
 
Le dinamiche contestuali sinora richiamate dovrebbero essere poste come punti di riferimento fondamentali per l’implementazione delle direttive e linee-guida europee in materia di formazione. Ad esempio, la finalità spesso evocata di assicurare la corrispondenza delle competenze della forza lavoro all’evoluzione economica e tecnologica non può essere compiutamente perseguita se non vengono presi in considerazione gli aspetti legati alla conoscenza tacita. La formazione professionale (VET) deve ovviamente trasferire conoscenza esplicita e rafforzare le competenze formali, come affermano i documenti ufficiali. Ma deve anche, in misura crescente, trovare modalità appropriate per supportare lo sviluppo della conoscenza tacita nei contesti organizzativi, ossia, in altri termini, per contribuire all’ampliamento delle capacità di apprendimento laddove si manifestano e si applicano, anche al di fuori degli schemi di qualificazione formale. 
Questo spostamento di focus dalla dimensione formale dell’apprendere a quelle non-formali e informali rappresenta un vettore fondamentale dei recenti cambiamenti strategici in campo formativo. Dall’essere una funzione rivolta a forme di domanda stabili e principalmente finalizzati a fornire programmi educativi/formativi stabili per i giovani, la formazione professionale è evoluta in relazione a finalità di fornire risposte multi-livello sia ai bisogni di adulti occupati e non occupati sia alle esigenze di aziende e altre organizzazioni. In altri termini, dall’essere guidata da una logica di qualificazione la formazione è stata recentemente spinta verso una logica di competenza. La prima è la logica dell’implementazione di programmi progettati in funzione dei profili professionali richiesti da ambienti a cambiamento lento. La seconda è invece quella per cui ciò che realmente conta è la capacità della formazione di supportare la continua integrazione di conoscenza esplicita e tacita e di contribuire al mantenimento di meccanismi sociali (cooperazione, aiuto reciproco, valori condivisi, sense-making collettivo) che assicurano lo sviluppo contestualizzato dell’apprendimento e della creazione di conoscenza.
 
Rispetto alle altre finalità spesso evocate  nei documenti europei – come quelle di ridurre le disuguaglianze sociali, di promuovere la diversità culturale e supportare i potenziali individuali – la formazione, come parte del più vasto campo del lifelong learning, deve più che in passato aiutare le persone sia a valorizzare le proprie esperienze di vita e di lavoro (Griffith and Guile, 2004) sia ad accrescere la consapevolezza delle proprie condizioni di cittadinanza. Quest’ultima dovrebbe essere considerata in termini non di appartenenza statica a entità statuali e istituzionali ma di partecipazione mobile a differenti attività e contesti attraverso adeguate competenze tecniche, sociali, discorsive ed etiche (Tomassini, 2006). Si tratta, a questo livello, di un obiettivo trasversale per la formazione nel suo insieme, spinta a moltiplicare le proprie sfere di attività in un arco di settori estremamente variegato. Più che mai il termine “formazione professionale” appare oggi come un’etichetta generica  che copre un’ampia varietà di pratiche, da quelle richieste per la preparazione tecnica di risorse umane altamente qualificate, ad esempio in settori hi-tech, a quelle connesse a interventi addestrativi rivolti ai target svantaggiati, che rappresentano gli “have-nots” dell’economia europea dell’apprendimento nell’era della globalizzazione. In ciascuno dei differenti ambienti di pratica formativa è richiesta in modo crescente la mobilizzazione di risorse individuali e collettive di diverso tipo (risorse cognitive, culturali, e anche emotive) finalizzate a far fronte ai processi dinamici e instabili dell’economia della conoscenza attraverso capacità di interpretazione della realtà e competenze che consentono performance di valore. 
 
L’impatto di queste tendenze sulle strutture e le routine formative è evidentemente forte: i programmi a lungo termine tendono a perdere la loro utilità in relazione a contesti in cui la velocità del cambiamento frequentemente eccede le capacità di previsione e pianificazione nella prospettiva educativa tradizionale. In  parallelo le strutture pesanti (come i centri di formazione aziendali) tendono a essere ri-articolate in stretta relazione con esigenze e domande locali. E’ per questo che le risorse umane della formazione vanno sotto stress. Ad esse vengono richieste nuovi modi di pensare e agire, a partire dalla rivoluzione copernicana individuata già negli anni Novanta del secolo scorso con il riconoscimento del passaggio “dall’insegnamento all’apprendimento”, ossia dal trasferimento della conoscenza alla facilitazione dell’apprendimento (Infelise, 1994; Arnold, 1994; Mehaut, 1994).
 
In molti contesti – anche a seguito dei condizionamenti imposti da obsoleti sistemi nazionali di regolazione – i modelli consolidati di attività formativa tendono ad essere ancora legati all’obiettivo istituzionale di produrre titoli in relazione a determinati schemi e programmi di qualificazione.  Ma è evidente una chiara tendenza alla trasformazione. Ad esempio le competenze di insegnamento evolvono in molti casi al fine di includere diversi approcci e tecniche (l’animazione, la simulazione, il lavoro di gruppo, etc.) che vanno ben al di là del  modello di attività basato sulla lezione. Inoltre, le competenze non di insegnamento (ad esempio legate alla consulenza, al supporto dell’innovazione, al trasferimento di tecnologie e allo sviluppo delle competenze) trovano collocazione in misura crescente tra i compiti dei formatori, nei contesti in cui la formazione gioca un ruolo nei processi di innovazione di imprese e di altre organizzazioni. Ancora, come esempio della moltiplicazione delle competenze necessarie, le recenti disposizioni legislative spingono numerosi formatori a divenire esperti nell’uso di tecniche per la valutazione dell’apprendimento “informale” e “non-formale”, come quelle in uso nell’area del “bilancio di competenza” (Le Boterf G., 1999).
 
Il campo della formazione è stato anche significativamente trasformato dalla crescente presenza di risorse non strettamente formative. Si assiste al progressivo assottigliamento dei confini rispetto ad altri professionisti (esperti, tecnici, accademici, manager) che operano come formatori nei più diversi contesti, da quelli tipicamente aziendali a quelli – definibili in termini di enlarged training/ learning systems (Conceicao and Heitor, 2001) – attivati per iniziative di sviluppo locale attraverso la cooperazione tra aziende, università e altre istituzioni formative.
 
REFLECT è dedicato ai professionisti della formazione a partire dall’ipotesi che le trasformazioni attualmente in corso nei loro settori di attività richiedano nuovi approcci allo sviluppo in cui possano essere convogliate anche le spinte individuali all’apprendimento e all’auto-miglioramento. 
 
In particolare il progetto è finalizzato a contribuire allo sviluppo dei professionisti della formazione attraverso l’introduzione di valori e pratiche basate sulla  riflessività, assumendo quest’ultima come funzione equilibratrice rispetto alla spinta alla standardizzazione generata da recenti iniziative europee (come ad esempio lo European Qualification Framework).  Tale spinta può infatti ostacolare l’evoluzione verso una maggiore flessibilità delle pratiche formative e verso l’accrescimento delle abilità dei professionisti della formazione nel gestire lo sviluppo dei loro contesti. In altre parole sembra verificarsi un rischio di neo-burocratizzazione della formazione nell’ambito di tendenze che, al contrario, richiederebbero attitudini di maggiore orientamento al cliente e priorità allo sviluppo delle competenze reali più che l’attenzione alle qualifiche formali (Tomassini, 2007b). La riflessività come funzione tipica di individui e piccolo gruppi può aiutare ad evitare questo tipo di rischi valorizzando modelli di attività guidati da principi di apprendimento dalla pratica, autonomia, e self-empowerment.
 
I profili ideal-tipici cui si rivolge il progetto sono quelli dei professionisti della formazione che affrontano le proprie attività sulla base dei principi sopra delineati. In questa prospettiva i criteri di razionalità tecnica derivanti da fonti disciplinari e regolamentari non vengono trascurati ma connessi dinamicamente con attitudini e capacità riflessive. Seguendo Schoen (1983), il “professionista riflessivo della formazione” può essere una definizione appropriate per questi attori. Da un lato, in termini generali, questa definizione rappresenta il bisogno di accresciute capacità riflessive, tipico dell’impegno in ogni campo professionale e anche della stessa cittadinanza neo-moderna, considerando che la reflessività – come già sottolineato – è il tratto cruciale di una  modernità in cui convergono aspetti quali: l’autonomia nell’uso delle risorse disponibili di informazione e conoscenza, l’apprendimento continuo, il self-monitoring e la “prevalenza dell’azione sulla struttura” (Giddens, 1990).  Da un altro lato i professionisti della formazione appaiono coinvolti in processi che hanno a che fare con ciò che è stato definito come “doppia riflessività”, in quanto devono sviluppare riflessività per sé stessi e allo stesso tempo devono introdurla come forma, e contenuto in alcuni casi,  dei propri interventi.
 
Favorire lo sviluppo di professionisti riflessivi della formazione ha diverse conseguenze in termini di politiche e azioni per la formazione dei formatori. A questo livello devono essere messe in campo visioni e tecniche innovative sia nei modelli tradizionali “classroom-based” sia per quanto riguarda gli strumenti, sempre più usati, dell’e-learning. Queste visioni e tecniche possono essere introdotte in termini di prospettive culturali innervate su processi bottom-up di auto-trasformazione delle pratiche organizzative e professionali, non contraddittorie rispetto a interventi top-down (es. piani di sviluppo formativo su larga scala) che tendano agli stessi obiettivi.
L’idea di fondo è che quello di riflessivo non è uno status formale, da raggiungere attraverso programmi e riconoscimenti di qualche tipo. Al contrario la riflessività rappresenta un orientamento di fondo per lo “sviluppo professionale continuo” dei professionisti della formazione basato su principi quali: l’apprendimento continuo dalla pratica, lo sviluppo di attitudini di ricerca, la partecipazione e la cooperazione, la mobilitazione di  risorse personali.
 
Il primo di tali principi, l’ “apprendimento continuo dalla pratica”, riguarda la volontà di continuo miglioramento dei risultati dell’attività e l’impegno nell’ auto-sviluppo delle competenze. Quest’ultimo può prendere corpo nell’ambito di pratiche che “richiedono innumerevoli atti di riconoscimento, giudizio e abilità nella performance” e che in alcuni casi prende la forma di una professional artistry dispiegata all’interno di “situazioni uniche, incerte e conflittuali” (Schoen, 1987). Le pratiche riflessive, anche nell’accezione di metodi per lo sviluppo della riflessività, devono direttamente riguardare situazioni di vita reale e il knowing che circola in tali situazioni. Nei termini proposti da Schoen, il knowing-in-action è ciò da cui dipende la vita quotidiana dei professionisti, ciò che rappresenta il loro comportamento intelligente, il modo caratteristico della loro conoscenza pratica ordinaria, il locus del loro learning by doing. “Riflettere nell’azione”, da questo punto di vista, rappresentano il lato consapevole del “pensare-mentre-si-agisce” e dell’accumulazione di conoscenza tacita che consente il trasferimento dei risultati della riflessione nei sempre mutevoli eventi della pratica professionale (Schoen, 1983). Questi aspetti sono alla base della crescita cumulativa della conoscenza personale e organizzativa attraverso cui il professionista giunge a instaurare quella continua “conversazione riflessiva con la situazione” che Schoen giudica come la caratteristica più tipica del professionista riflessivo.
 
L’idea delle “attitudini di ricerca” si riferisce a un tipo di professionista della formazione che  si pone allo stesso tempo come esperto, soggetto di apprendimento e ricercatore, continuamente interessato all’analisi delle esperienze che hanno luogo nella vita professionale a differenti livelli, (in cui le dimensioni “pedagogiche”, “relazionali” e “organizzative” sono tenute insieme all’interno del continuum delle attività). Riflessione e ricerca sono per molti aspetti termini gemelli, soprattutto in relazione al fatto che la riflessione-in-azione incorpora una logica sperimentale di esplorazione. Come notato da Schoen, questa prende le mosse dalla prova delle ipotesi come mezzo per creare un migliore incontro tra strategie d’azione e condizioni operative. In tal modo possono sorgere nel tempo diversi repertori di soluzioni che contribuiscono a ulteriore apprendimento e sviluppi professionali. “Quando qualcuno riflette-in-azione diventa un ricercatore nel contesto della pratica. Non dipende più dalle categorie di una determinata teoria o tecnica, ma costruisce una teoria del caso unico. La sua indagine non è limitata a una deliberazione circa i mezzi legata a un precedente accordo sui fini. Egli non mantiene separati mezzi e fini  ma li definisce interattivamente al momento in cui inquadra le situazioni problematiche. Egli non separa il pensare dal fare” (Schoen, 1983: 68). 
 
Partecipazione e cooperazione sono principi che riflettono la natura intrinsecamente sociale e organizzativa delle pratiche riflessive nella formazione. La necessità di spostare il focus dalla riflessione come compito di singoli individui alla riflessione come processo sociale e organizzativo è stata evidenziata da più punti di vista. Ad esempio, il termine organising reflection (la “riflessione che organizza”) rappresenta una prospettiva emergente, riferita a processi “sociali, situati, relazionali, politici e collettivi” che può consentire vantaggi sia teorici sia pratici (Reynolds e Vince, 2004). La riflessività, in questa prospettiva, gioca un ruolo importante nelle situazioni di lavoro in quanto interrompe i flussi dell’esperienza comune e può consentire l’emergere di nuovi livelli di conoscenza organizzativa (Gherardi and Nicolini, 2001). E può evitare fenomeni involutivi di isolamento “Nella maggior parte delle situazioni l’individuo da solo non può affrontare e risolvere problemi di natura organizzativa e meta-organizzativa..  una visione ristretta dell’apprendimento può neutralizzare la capacità di produrre apprendimento e cambiamento.. la riflessione individualizzata, privata rischia di essere uno sforzo sterile nella misura in cui gli individui da soli sono raramente nella posizione di poter apportare cambiamenti organizzativi sostanziali” (Nicolini et al., 2004: 81).
 
La “mobilitazione di risorse personali” richiama il fatto che la riflessività non è una questione semplicemente cognitiva. Gli usi realmente consapevoli delle conoscenze e informazioni disponibili sono quelli in cui viene coinvolta la conoscenza personale, che contiene anche aspetti affettivi, coinvolgimenti identitari, interessi ed emozioni, che vanno considerati parte integrante della conoscenza produttiva. Il lato soggettivo della riflessività riguarda quindi fenomeni come l’auto-riconoscimento, l’impegno e lo sforzo per la realizzazione degli obiettivi. In questi termini la riflessività è la funzione che aiuta le persone nella comprensione di sé stessi in quanto attori situati in specifici contesti operativi e, in qualche modo, fiduciosi nelle loro capacità. Ciò implica il coinvolgimento su un doppio asse: quello “sincronico”, riguardo a obiettivi e assunti correnti, e quello “diacronico”, rispetto al quale le azioni vengono intese nella loro temporalità, in relazione al divenire degli stessi attori e dei loro contesti, nonché al manifestarsi di risultati anche inattesi. Questa doppia natura della riflessività  può essere espressa dall’opposizione tra reflectivity (di natura sincronica) and reflexivity (di natura diacronica), evidenziata da recenti approcci critici e post-moderni (Cunliffe e Jun, 2002;  Cunliffe and Easterby-Smith, 2004).  In questa prospettiva la reflection è legata all’idea di uno specchio che riflette una realtà oggettiva, semplicemente “out there”, mentre la  reflexivity – da pensare soprattutto in termini di self-reflexivity – è qualcosa che mette in questione le basi del pensiero, le regole date per scontate, i modi di pensare le pratiche e le relazioni con gli altri. La self-reflexivity, in particolare, è legata a “un processo interno attraverso cui esaminiamo noi stessi, includendo anche i nostri valori…  un processo che dipende dall’idea di un sé in trasformazione, che emerge e cambia continuamente in quanto interagiamo con gli altri, con l’ambiente e con la sfera pubblica”  (Cunliffe e Jun, 2002). 
 
Richiamando brevemente i diversi argomenti sinora trattati, sembra utile sottolineare in primo luogo l’importanza del passaggio da una logica di azione della formazione basata su obiettivi di qualificazione a un’altra logica basata su obiettivi di competenza. Questo è probabilmente il fenomeno più cruciale che ha oggi luogo in campo formativo, in relazione alle trasformazioni indotte nell’intero sistema socio-economico dal nuovo ruolo assunto dalle risorse della conoscenza, dell’apprendimento e della competenza. Questo passaggio comporta cambiamenti sostanziali nelle strumentazioni e negli habitus professionali di tutti gli attori del campo formativo.  L’accresciuta necessità di comportamenti riflessivi e l’implementazione di pratiche riflessive, da questo punto di vista, è una delle maggiori conseguenze di tendenze complessive in cui il coinvolgimento dal basso diventa indispensabile anche per il successo delle politiche di tipo top-down. L’avvio di iniziative per lo sviluppo della riflessività rappresenta, da questo punto di vista, una spinta al riequilibrio degli effetti inattesi di diverse politiche e misure che rischiano di rinforzare la tendenza neo-burocratica alla standardizzazione delle forme e dei risultati delle attività formative. Di contro a questa tendenza, nuove iniziative a supporto della riflessività possono contribuire a raggiungere obiettivi rilevanti a livello sia individuale sia organizzativo. In termini organizzativi tali iniziative potrebbero essere altamente coerenti con la necessità delle istituzioni formative di approssimarsi alla metafora della learning organisation, funzionante attraverso diversi meccanismi auto-gestiti che possono garantire più elevati livelli di efficacia e affidabilità. In termini individuali tali iniziative potrebbero soddisfare il desiderio di maggiori opportunità di auto-riconoscimento e sviluppo professionale autonomo, secondo una tendenza che è comune a un vasto arco di professioni nell’economia della conoscenza.
 
E’ ovvio che sono necessari tempo e sforzi per rendere disponibili gli approcci riflessivi a più vasti pubblici nel mondo della formazione. In questa prospettiva REFLECT può essere visto come rappresentativo di una nuova generazione di progetti di ricerca e sviluppo, a supporto di orientamenti politici che tengano conto dell’importanza delle risorse umane impiegate nei processi formativi: orientamenti aperti allo sviluppo di nuove competenze professionali, riferite non a insieme di compiti da eseguire in forme routinarie ma a “pratiche” che richiedono partecipazione consapevole e innovazione. 
 
 
Referenze bibliografiche
 
Archibugi D., Lundvall B.-A. (2001) “Europe and the Learning Economy” introduction to D. Archibugi, B.-A. Lundvall (2001)
 
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*In “Formazione & Cambiamento”, numero 46, maggio 2007
 
 
NG: Mi piacerebbe che questa intervista fosse il racconto del rapporto di Gordon Lawrence con i sogni, e di come questi sono diventati, attraverso il Social Dreaming, in una certa misura, uno strumento di sviluppo sociale. Considero questa una personale occasione per imparare. Gordon, cos’è un sogno?
 
GL: Gli inizi del Social Dreaming (SD) sono interni alle esperienze di creazione di gruppi. A quel tempo, erano gli anni 70, ero co-direttore del  Group relation Programme del Tavistock Institute. Di tanto in tanto, un membro del gruppo condivideva un sogno. E io sapevo di non poter trattare quel sogno individualmente per non andare contro il compito principale del gruppo che era lo studio dell’esercizio dell’autorita’ in un gruppo. Sentivo che il sogno poteva essere usato per identificare processi inconsci, ma non avevo ancora un metodo. Lessi molta antropologia e psicoanalisi, in generale immergendomi in sogni dei tipi piu’ diversi. Finalmente, per caso, mi imbattei nel “Terzo Reich dei Sogni” di Charlotte Beradt, lo lessi e rimasi colpito. La scrittrice, da giornalista, aveva raccolto i sogni di Ebrei durante il regime di Hitler. Tutti i sogni mostravano che, mentre la coscienza di chi sognava diceva loro di reagire, il loro inconscio dava il messaggio opposto. Era la prova definitiva di cui avevo bisogno per definire l’idea del SD. Approfondendo quell’idea, nei diversi anni che furono necessari per farlo, sono stato colpito dalla formulazione di Bion (Bion, 1961) sui due modi di vedere un gruppo. Il primo, ovvero la prospettiva Edipica che si focalizza sulle relazioni di accoppiamento dell’individuo. Il secondo, ovvero la prospettiva della Sfinge, che identificava come il gruppo raggiungeva la conoscenza e il metodo scientifico. Questo considerando la cultura del gruppo.
La primissima matrice SD si e’ tenuta alla Tavistock nel 1982. Era stato deciso di non chiamarla gruppo, ovvero Gruppo di Social Dreaming, perché volevamo mettere  l’accento sul sogno e pensavamo che esaminare le dinamiche del gruppo avrebbe interferito col processo del sogno. Così abbiamo scelto “Matrice”, termine  preso a prestito da Foulkes, e privo degli ostacoli derivanti da una pletora di significati. Quel termine chiariva che non si trattava di un “gruppo” e permetteva un tipo di esplorazione che solo in una matrice è possibile fare.
 
NG: Come definiresti la pratica del sogno, ovvero cosa accade quando le persone entrano in confidenza con i propri sogni, e si abituano a “pensarli” e a raccontarli a se stessi?
 
GL: Un Sogno e’ cio’ che accade durante il sonno. I sogni diurni hanno interesse limitato. Le Social Dreaming Matrix  hanno reso possibile un nuovo modo di considerare i sogni come parte della cultura. E hanno portato a nuove scoperte.
 
NG:  Quanto, secondo te, la memoria del sogno aiuta le persone a sviluppare un nuovo modo di dialogare con se stessi?
 
GL: L’ipotesi che la gente possa sognare socialmente fu suggerita  durante la prima SDM nella quale si assunse il principio che nessun sogno dovesse essere interpretato. Ovviamente, ricordare un sogno implica che chi lo fa riesca a parlare col proprio inconscio.
 
NG: Quale atto di generosità interpersonale e sociale è necessaria, da parte di un individuo, per mettere in comune il racconto di un sogno? Quali sono le resistenze che incontriamo nel “parlare” di un nostro vissuto onirico?
 
GL: Per altruismo io intendo la rinuncia all’ego, che vedo essenziale per il successo del Social Dreaming. In una Matrice e’ possibile giocare col sogno. E’ un oggetto esterno? a tutti i partecipanti.
 
NG: Spogliare il sogno del bisogno di interpretazione in chiave soggettiva, dalla quale ci aspettiamo aiuto e sostegno, e trasformare la trama onirica in un linguaggio, ovvero in uno strumento per portare la nostra esperienza di pensiero all’Altro, e renderlo disponibile ad un allargamento di senso attraverso la libera associazione, in che senso ci espone a un rischio sociale?
 
GL: Nessun aiuto viene dato ai partecipanti che danno voce al loro sogno esercitando  la propria autorità.
 
NG: Quando proponiamo, attraverso il Social dreaming, di sviluppare il pensiero creativo, a quale atto di condivisione e fuoriuscita dagli “schemi” alludiamo?
 
GL: [Nel S.D] Il sogno viene associato e, possibilmente, amplificato. E’ un aiuto che puo’ essere accettato o rigettato. Il racconto del sogno e’ accettato per quello che appare. Sono sempre piu’ cosciente del fatto che il racconto di una sequenza narrativa  riflette cio’ che pensa il sognatore. Freud, nella sua revisione della teoria dei sogni, riconobbe che il sogno era non solo il deposito dei desideri, ma anche una forma di pensiero. In una Social Dreaming Matrix prestiamo attenzione solo al pensiero, non alla persona, in modo da “capire” il pensiero dei sogni. Trasformando il pensiero dei sogni diventiamo creativi perche’ pensiamo qualcosa di nuovo che non e’ mai stato pensato prima.
 
 
NG: Se proponiamo di utilizzare il Social Dreaming a gruppi di psicologi o psicoterapeuti, crediamo di essere facilitati dal loro rapporto con i concetti di libera associazione e di sogno. Ma non è forse vero che il Social Dreaming e la costruzione della Matrice che lo ospita hanno la loro forza proprio nel poter nascere da un gesto “semplice” e “appartenente a tutti” (indipendentemente dal grado di evoluzione culturale e dalla comunità di appartenenza) che si concretizza nel “prendere in mano” i propri sogni ed usarli per raccontare?
 
GL: La mia esperienza delle varie “terapie” e’ che si trastullano con ricordi e desideri e non riescono ad accettare un nuovo modo di analizzare i sogni. Le libere associazioni sono difficili da accettare per la paura di essere giudicati dai propri pari. Voglio  mettere in luce l’esperienza del sogno, di per sé straordinaria e miracolosa, qualcosa di ordinario che chiunque dotato di intelligenza può affrontare. Non serve alcuna conoscenza arcana, anche se aiuta. Sempre che non ostacoli il compito principale di una SDM!
 
NG:  Quando ho incontrato il tuo gruppo e il Social dreamnig sono rimasta colpita dalla carica “innovativa” che poteva esserci nel portare in Italia, nelle organizzazioni, il Social Dreaming come strumento di potenziamento della creatività nei gruppi e come agente di benessere, a tutti i livelli delle gerarchie delle istituzioni e delle aziende. Ho però constatato che la fase di “preparazione” e quella di “debriefing” sono essenziali perché le persone accordino fiducia al metodo accettando di “parlare un linguaggio”, quello dei sogni, normalmente censurato nelle pratiche di lavoro. Quali sono le tue esperienze a questo riguardo?
 
GL: Si’, e’ innovativo! Forse, troppo. Sono convinto che il SD possa essere usato come strumento di indagine culturale in qualunque sistema. Una SDM e’ non gerarchica. Certo, deve essere introdotta, altrimenti le fantasie dei partecipanti possono prendere il sopravvento. E’ per questo che l’obiettivo viene dato sempre all’inizio della Matrice, per acquietare le ansie e chiarire. Il linguaggio dei sogni, quando e’ centrato sul mondo interiore e’ sempre, correttamente, censurato in un sistema. Ma noi usiamo i sogni diversamente, per esplorare la cultura, la conoscenza, del sistema che e’ materia pubblica che influenza tutti.
 
NG:  Quando abbiamo introdotto, con il tuo team in Italia, una matrice di social dreaming in una comunità professionale di consulenti human resources impegnati in particolare sul versante della formazione, le reazioni sono state contrastanti, ma un evento preciso ha contraddistinto l’esperienza: dalla matrice in avanti, e fuori dal luogo della matrice, le persone hanno cominciato a parlarsi raccontando i propri sogni incontrandosi al mattino o nei momenti di socializzazione creativa e informale che precedevano le riunioni di lavoro. Anche nella mia personale esperienza con le persone del tuo team, mi accade di sentire il bisogno di pensare e dialogare attraverso il racconto del sogno, sentendo che questo è diventato un nuovo linguaggio. Credi che la partecipazione alle matrici generi una “confidenza” della persona con il sogno come linguaggio e come strumento di amplificazione del pensiero, capace di trasformare i vissuti dei gruppi in una matrice sempre “open”?
 
GL: La Matrice e’ la chiave. La confidenza viene con l’esperienza della Matrice. Non c’e’ una sola risposta al sogno. Ci sono infinite possibilita’. Non mi interessano i singoli, o cio’ che apprendono. La Matrice da’ o meno loro l’autorita’ di espandere la propria conoscenza. Sono loro responsabili di cio’ che possono fare di questa opportunita’ .
 
NG: La mia prima associazione all’apertura della prima matrice alla quale ho partecipato fu, 3 anni fa, con un sogno molto antico, nel quale mi ero vista affacciata ad un balcone con un fiammifero in mano, in camicia da notte, mentre lasciavo cadere un fiammifero che, posandosi in terra colpiva un camion in corsa carico di bambini, i cui capelli prendevano fuoco. Ma questa corsa di fuoco era di una vitalità tale che io avevo paura nel pensare di poterla provocare. Oggi, prima di scrivere questa intervista, ho letto per caso, un racconto di un giovane scrittore (Giuseppe Costanzo) nato nella mia stessa città d’origine. Il racconto ha per protagonisti dei bambini, prigionieri nella Biblioteca di Alessandria, nella quale, appesi a dei fili, hanno il compito di prendere e riporre i libri sugli scaffali. Nel momento in cui la Biblioteca, con un grande respiro decide di darsi fuoco e consumarsi, fuggono verso il mondo con i lunghi capelli in fiamme. Tutto questo mi torna in mente ora, mentre scrivo. La parola alla quale penso è energia. L’associazione è con un altro racconto, di Borges, in cui dalla cenere, Paracelso riporta in vita una rosa. Hai un sogno, Gordon?
 
GL: Accetto la tua ipotesi di lavoro…

*In “Formazione & Cambiamento”, numero 25, febbraio 2004
 
Io posso creare interi romanzi in sogno
(F. Dostoevskij – Le notti bianche)
 
Il Social Dreaming è una tecnica di lavoro di gruppo che valorizza “il contributo che i sogni possono offrire alla comprensione non del mondo interno dei sognatori, ma della realtà sociale ed istituzionale in cui vivono” (Neri, 2001). Dal punto di vista implementativo, si sviluppa in una serie di incontri, in genere da 3 a 5 sedute di gruppo, ciascuna della durata di un’ora e mezza, coordinate da uno o più conduttori. Il setting circolare o a fiocco di neve che i gruppi di 20-50 partecipanti compongono, non governato al centro dal conduttore ma lasciato vuoto e libero per ospitare idealmente le immagini e i vissuti, per posare al centro, consente di far sviluppare e comporre la così detta matrice di Social Dreaming, ovvero, secondo la definizione dello stesso Lawrence, il luogo da cui nasce qualcosa (Lawrence, 2001).
 
La matrice si apre con l’invito ai partecipanti (che possono appartenere a una sola organizzazione o provenire da diverse realtà) a rendere disponibile un sogno, a raccontarlo, partendo dal presupposto che non sarà considerato nella sua dimensione personale, come una traccia del vissuto privato del parlante, ma come innesco associativo messo a disposizione del gruppo per tirar fuori, attraverso la tecnica delle libere associazioni, i fantasmi, le fantasie e i vissuti conosciuti ma non pensati che derivano e si connettono alla realtà esperienziale condivisa con gli altri a livello sociale e nelle organizzazioni. L’analisi collettiva dei sogni, intesi come patrimonio del gruppo offerto al suo interno, consente di avvicinarsi all’organizzazione come luogo in cui “anche” si sogna e come entità che è spesso sognata (Neri, 2001), con modalità  che gli ambiti di consulenza organizzativa e sviluppo professionale spesso disattendono e ignorano.
 
L’apporto del Social Dreaming va nella direzione di una analisi delle persone nella loro interezza, del loro tessuto di fantasticherie, percezioni inconsce e socializzazioni inconsapevoli, che andrebbe a completare, nella pratica di intervento, il lavoro e le esperienze progettate e sviluppate a partire dal lato “cosciente” delle realtà di lavoro.
 
Nei vissuti della formazione e della consulenza tradizionali, a partire dal bisogno di sostenere percorsi strutturati di generazione di soluzioni, si esprime spesso la tendenza ad adoperare tecniche e metodi di esplorazione della realtà organizzativa, di lavoro e professionale, centrati sui comportamenti e sulla loro analisi.  Il piano di miglioramento delle persone e dei gruppi viene costruito a partire dall’esigenza di dotare ciascuno di un bagaglio condiviso di risposte e azioni da utilizzare a fronte di bisogni, richieste, criticità. La consulenza e la formazione, intese come attività tese a generare e governare cambiamenti necessari o in atto, vengono utilizzate in ottica terapeutica sulle organizzazioni secondo modelli sistemico- relazionali.
 
Se proviamo a porci davanti alle organizzazioni a partire dalla loro risorsa primaria, il gruppo, occorre spingersi un passo più avanti.  Occorre domandarci se tutto quello che abbiamo davanti agli occhi, e che possiamo ricondurre a una mappa della vita stessa di una realtà di lavoro, possa essere ricondotto a qualcosa di pensato, ovvero di percepito in termini consci dai soggetti e dall’organizzazione nel suo insieme.  “In certe fasi della vita di una organizzazione, le tensioni e i conflitti raggiungono dei picchi. E’ allora che viene investita una grande quantità di energia nel trovare risposte. Potrebbe invece risultare più proficuo permettere che le domande presenti in una istituzione si sviluppino”. (Neri, 2001)
 
Una proposta in questa direzione, nella direzione cioè dei nuclei di sofferenza non pensata delle organizzazioni e delle persone che le abitano viene già dagli anni ’50 dal Tavistock Institute of Human Relations, che mette al centro della propria analisi le relazioni umane nelle organizzazioni, portando a convergenza da lì in avanti gli approcci di Bion, Foulkes, Lawrence, Miller, Rice allo studio della persona nel contesto di lavoro.
 
“Il modello Tavistock considera le organizzazioni umane come suscettibili di andare incontro a processi di sofferenza, certamente diversi da quelli degli individui ma tali da danneggiare e far soffrir sia le persone che lavorano al loro interno sia soprattutto il compito primario dell’organizzazione” (Miller e Rice, 1967 cit. in Perini, 2003). A partire dai vissuti soggettivi per l’analisi delle organizzazioni, e pensando a queste ultime come luoghi in cui si sviluppa un inconscio collettivo nutrito dalla storia comune e condivisa del contesto istituzionale, il contributo operativo estremamente suggestivo di Gordon Lawrence si aggiunge all’inizio degli anni ’80, con la nascita del modello di intervento socioanalitico proposto nel primo Progetto di Social Dreaming e creatività. 
 
Lo scopo della proposta di Lawrence è quello di portare la consulenza e la formazione a conoscere “l’organizzazione nella mente” (Lawrence, 2001 cit in Perini, 2003) ossia “l’ampia costellazione dei miti, dei preconcetti e delle fantasie inconsce di cui è fatta l’immagine soggettiva che si ha di una organizzazione e in particolare delle relazioni che intercorrono tra individui e gruppi e tra gruppi al suo interno. Con una parafrasi, l’organizzazione conosciuta ma non pensata”. (Armstrong, 1997 cit. in Perini, 2003).
 
Adottare delle esperienze di Social Dreaming oggi, in contesti culturali in cui i fantasmi ci fanno sentire sui due lati di un ponte, a un margine del quale è la flessibilità e all’altro l’incertezza, in contesti sui quali  pesano i coni d’ombra che le tracce del dolore sociale posano sui vissuti sociali e organizzativi (Varchetta, 2003), può voler dire dotare la consulenza e la formazione di strumenti capaci di consentire, alle persone e alle istituzioni, di porre le giuste domande, di analizzare anche i versanti non detti e non pensati degli “inciampi” organizzativi. Può costituire quindi, per azzardo, il modo per dotare la formazione di un senso in più, altre le dovute percezioni  tradizionali, un sesto senso al servizio della comprensione e dello sviluppo dei gruppi. 
 
Nell’ottica delle comunità, infine, e nell’ottica delle pratiche anche virtuali, a partire dalla capacita di aiutare un gruppo a generare la propria pelle (Neri, 2001) ovvero a costruire l’epidermide capace di contenere i vissuti sia positivi che traumatici del gruppo, uno stimolo potrebbe venire a sviluppare la coesione. Uno stimolo a desiderare quella propensione al mettere in comune che rende possibili le esperienze di comunità professionale, andando a proporre e incrementare la disponibilità alla condivisione, fino a configurare gruppi di social dreamers, di sognatori sociali.  
 
Il Social Dreaming  potrebbe portare nelle organizzazioni quella inclinazione alla separazione da sé che sola consente di riconoscere le proprie risorse cognitive, immaginifiche, informative e creative non come “private e proprietarie” ma come risorsa sociale. 
 
 
Per approfondimenti
W. G. Lawrence (a cura di), Social Dreaming - La funzione sociale del sogno – Borla – 2001
C. Neri,  Gruppo – Borla - 2001
C. Neri, Introduzione al Social Dreaming – 2001 – http://www.funzionegamma.edu/
G. Varchetta, Dall'insegnamento all'apprendimento: dichiarato ed effettivo –Seminario AIF – Società Autostrade - Roma, 10 ottobre 2003
M. Perini, L'analisi delle organizzazioni secondo il "modello Tavistock" 1 – in  http://www.psychomedia.it/ilnodogroup/perini.htm
 
Siti di interesse per il tema:
http://www.tavinstitute.org/index.php
http://www.socialdreaming.org/
 

di Piergiorgio Reggio
 
*In “Formazione & Cambiamenti”, numero 22, settembre 2003
 
 
Premessa
 
Numerose e significative sono le trasformazioni che hanno interessato, in questi anni, il panorama assai composito della formazione con gli adulti. Processi diversi - di ordine economico, organizzativo, sociale - hanno contribuito a generare innovazioni formative riguardanti contenuti, metodologie e finanche strategie complessive. In tal senso, ad esempio, competenze aspecifiche, trasversali si sono venute imponendo come traguardi significativi di percorsi formativi; le trasformazioni del lavoro e delle organizzazioni richiedono sempre più la padronanza, da parte dei soggetti, di capacità autonome non solo nell'esecuzione delle attività professionali ma nella definizione e nello sviluppo delle proprie competenze. Parliamo di "autoformazione" quando vogliamo riferirci non solo all'impegno del soggetto nello sviluppo delle proprie competenze ma quando intendiamo sottolineare l'importanza della direzionalità che egli può assegnare al proprio percorso. Tale sforzo di scegliere le proprie mete formative, privilegiare contenuti e metodologie, individuare tempi adatti è possibile se l'adulto possiede, utilizza e sviluppa una serie di competenze sottese all'agire formativo. Si tratta di una trama, un reticolo sul quale è possibile disegnare attività, itinerari, opportunità. Un' espressione quale "apprendere ad apprendere" è assurta a slogan di molte politiche formative dentro e fuori le organizzazioni proprio ad indicare una competenza che fa da trama a successive possibili acquisizioni. 
In tale prospettiva di innovazione formativa, si sono venuti moltiplicando - in questi anni - programmi e proposte metodologiche riguardanti lo sviluppo di competenze di apprendimento, pensiero, soluzione di problemi1. La formazione manageriale, quella professionale, i percorsi per i giovani in ingresso nel mondo del lavoro come le proposte di riqualificazione per lavoratori, sono alcuni degli ambiti di sperimentazione che sono stati maggiormente interessati dalla diffusione di questo genere di attività. Nonostante la significatività di molti interventi realizzati, resta significativo il divario tra consapevolezza teorica relativa all'importanza di tale innovazione e la concretezza degli interventi, spesso ancora - nel nostro Paese - contraddistinti da episodicità, assenza di condizioni di sperimentazione, disorganicità. 
Tra le proposte che si sono venute diffondendo uno spazio rilevante - da un punto di vista culturale e metodologico - è stato occupato dal Programma di Arricchimento Strumentale (PAS), elaborato dallo psicologo di origine rumena Reuven Feuerstein. In questo testo ci soffermeremo su alcuni aspetti di rilevante interesse di questa proposta, in ordine ad una più ampia prospettiva di innovazione formativa nel campo dell' "educabilità cognitiva", quale contributo alla qualificazione della formazione con gli adulti. 
   
 
1. Insegnare a pensare è possibile?
 
Questa domanda pare assolutamente legittima e, nel tempo stesso, assai ardua. Ancora più provocante essa risulta essere se riferita alla condizione degli adulti, alla quale di consueto associamo condizioni di rigidità, conformazione degli atteggiamenti e delle abitudini. Eppure è intorno ad essa che ruota la riflessione e la proposta di Feuerstein. Occorre premettere che le caratteristiche delle origini del Programma elaborato dallo psicologo allievo di Piaget erano radicalmente diverse da quelle dei contesti rispetto ai quali noi oggi ci poniamo la stessa domanda. E' richiesto, quindi, per consentire una riflessione adeguata e produttiva, uno sforzo significativo di  adattamento, innanzitutto culturale, che consenta di situare i contributi più significativi della proposta di Feuerstein nell'attuale panorama specifico della formazione degli adulti. Tale atteggiamento di adattamento critico, di contestualizzazione possono, d'altronde, permettere di evitare gli opposti rischi di enfatizzazione entusiastica, da un lato, e di svalorizzazione radicale dall'altro. Tali posizioni hanno, di fatto, spesso connotato dibattiti e analisi intorno al pensiero ed alle proposte di Feuerstein, impedendone una corretta valorizzazione2. Forse tra le ragioni di questo genere di barriere alla comprensione della proposta di Feuerstein è possibile considerare anche la stretta commistione, in essa presente, tra diversi livelli. La riflessione e la pratica proposte ormai da decenni in numerosi Paesi del mondo intrecciano infatti tre dimensioni:
 
- teorico-scientifica, relativa alle concezioni di apprendimento e sviluppo sviluppate da Feuerstein a partire da un'impostazione originariamente piagetiana ma, successivamente, affine anche ai contributi di Vygotsky
- educativa, con la proposta di un Programma (PAS) strutturato e codificato, includente definizione di obiettivi, predisposizione di strumenti, ruolo del formatore…
- etica, interessante la sfera dei valori proposti attraverso il programma. Si può pensare, in tal senso, alla fiducia nello sviluppo di tutte le persone, al riconoscimento di elementi comuni di dignità di ogni appartenente alla specie umana
 
In particolare, la presenza significativa del terzo livello genera  effetti sia sul piano scientifico, come su quello educativo, risultandone, ovviamente, a sua volta, influenzata. La pratica originariamente riabilitativa ed educativa di Feuerstein è ispirata da una forte intenzionalità, una fiducia profonda nelle possibilità di sviluppo di ogni persona ed, inoltre, da una fiducia nell'educazione come modalità per consentire lo sviluppo. Per Feuerstein “L’Uomo è il solo essere capace di decidere la direzione che vuole prendere nella propria vita (Feuerstein, 1990, p.151). Egli si muove in un orizzonte di “perfettibilità umana” (Hadji, 2000), secondo il quale – in base ad una decisione etica – l’Uomo diventa obiettivo in sé, soggetto attivo del proprio sviluppo e non semplice oggetto. Significative sono anche le tracce del pensiero ebraico in questa impostazione etica e culturale (Kopciowski Camerini, 2002), così come rilevanti sono le implicazioni pedagogiche di questo approccio: se gli esseri umani vengono visti come perfettibili, anche la persona concreta che stiamo educando lo è. In quanto educatore, io mi riconosco in grado di modificare la persona che educo, così come l’esperienza educativa modificherà me stesso; analogamente la società nel suo insieme è soggetta a processi di modificazione e perfettibilità. Tra educazione e sviluppo, così come tra apprendimento e sviluppo, Feuerstein stabilisce un nesso circolare, frutto di influenzamenti reciproci, rimandi (Blagg, 1991). Lo sviluppo può avvenire grazie alla capacità del soggetto di cogliere circostanze, opportunità nella vita quotidiana ed assumerle quali esperienze di apprendimento. In tale prospettiva diventano strategiche le capacità di pensiero, lo sviluppo di consapevolezza circa le proprie modalità cognitive, la competenza nell’affrontare problemi e nell’adottare strategie efficaci di apprendimento. Ma tali competenze sono realmente insegnabili? A  questa domanda cruciale,  Feuerstein risponde attraverso la proposta di alcuni elementi fondanti:
- necessità di una valutazione dinamica delle potenzialità cognitive, alla quale ha risposto attraverso l'elaborazione di un modello nato in aperta opposizione alla logica all'epoca imperante degli IQ. LPAD (Learning Potential Assessment Device) è un sistema di valutazione dinamica delle potenzialità cognitive dei soggetti
- concetto di modificabilità cognitiva strutturale, come fondamento della visione del soggetto in apprendimento
- proposta dell'esperienza di apprendimento mediata, quale strategia formativa fondante.
 
In considerazione del nostro interesse specifico, in questa sede prevalentemente di natura formativa, ci concentreremo sugli ultimi due aspetti.  
 
L’interrogativo centrale intorno al quale è impostato il Programma di Arricchimento Strumentale (P.A.S), messo a punto da Reuven Feuerstein, è costituito dalla domanda se sia possibile, e come, suscitare negli individui cambiamenti significativi delle modalità di uso del pensiero (Feuerstein, 1980). Il contributo di Feuerstein, in questa prospettiva di ricerca, prende le mosse dalla focalizzazione di due elementi fondanti l’intera impostazione del Programma.
 
L’apprendimento scaturisce dalla risposta ad uno stimolo ma ciò non avviene in modo meccanico: tra stimolo e risposta è centrale il comportamento del soggetto, dell’organismo che apprende. A quest’ultimo, quindi, e al contesto nel quale è inserito vanno rivolte specifiche attenzioni quando ci preoccupiamo di rendere più efficace l’apprendimento. Nell'esperienza di apprendimento mediato si viene ad attuare un cambiamento della natura stessa dello stimolo e nel soggetto che apprende. 
 
Le componenti dell’atto mentale sono, anche per Feuerstein, "Input, Elaborazione, Output". La sottolineatura significativa di Feuerstein è però relativa al fatto che, nel caso di difficoltà sul piano cognitivo, la nostra attenzione viene subito posta spontaneamente sulle possibili carenze della fase di Elaborazione. In tal senso si va spesso alla ricerca, ad esempio, di disfunzioni dei processi logici. In soggetti normodotati, che danno vita a quotidiane prestazioni cognitive di livello soddisfacente nella vita quotidiana, le difficoltà nell’affrontare problemi complessi, situazioni difficili rimandano piuttosto a carenti funzionamenti nella gestione delle fasi di Input e Output. Si può trattare, ad esempio, a livello di Input di difficoltà nella percezione chiara e precisa dei dati di una questione, di imprecisione e inesattezza nell’acquisizione degli stessi dati. A livello di Output, invece, possono esistere difficoltà quando la nostra modalità di comunicazione è egocentrica e non rivolta agli interlocutori, oppure quando incontriamo blocchi nella espressione degli esiti del processo cognitivo che abbiamo effettuato. Queste e altre sono le carenze individuabili nelle fasi di Input e Output; da tali inadeguatezze scaturiscono spesso, anche per soggetti con una vita professionale e sociale ben integrata, prestazioni non pienamente soddisfacenti oppure, più semplicemente, diseconomie nell’uso del pensiero. Proprio la constatazione della crucialità di una corretta gestione delle funzioni cognitive correlate alle fasi di Input e Output dell’atto mentale apre possibilità di intervento formativo e di possibile cambiamento del soggetto, che  può essere sollecitato a riconoscere e modificare quanto riesce ad osservare concretamente.
 
Prendendo le mosse, come si è detto, dal modello piagetiano  "stimolo-organismo-risposta" l'attenzione di Feuerstein si rivolge maggiormente all'irrinunciabilità di predisporre situazioni di apprendimento mediato. Per attuare tali situazioni, il formatore - operando una trasposizione verso i contesti formativi rispetto ai quali stiamo ragionando - individua, enfatizza, interpreta elementi del contesto in modo che i soggetti in apprendimento possano costruire una propria visione del mondo attribuendo significati validi all'esperienza che hanno fatto (Blagg, 1991, p.18). La mediazione assume caratteristiche, quindi, di esplicita intenzionalità educativa ed agisce tra soggetto ed esperienza nel contesto. Riferendoci all'apprendimento degli adulti nelle situazioni professionali (o di preparazione alle professioni) potremmo dire che la mediazione consente ai soggetti di avvicinare il contenuto di apprendimento (la competenza professionale, un determinato argomento, un problema…) attraverso la padronanza delle proprie funzioni cognitive, cioè del proprio modo di pensare. Il fatto che tali contenuti siano spesso percepiti dai soggetti come difficili, complessi, non interessanti, lontani da sé richiede, appunto, forme di mediazione, cioè di interpretazione contestualizzata dell'oggetto di apprendimento. In sostanza, il formatore si interpone tra soggetto e contenuto di apprendimento proponendosi come mezzo per accedere alla comprensione. La sua funzione è, però, essenzialmente metodologica, paradigmatica di un modo di procedere dinanzi alla conoscenza, non riguardando il versante dei contenuti. Il PAS propone una serie di strumenti formativi che consentono di predisporre situazioni di apprendimento mediato e che non  contengono, di fatto, se non in minima parte, contenuti culturali; non richiedono, cioè, basi culturali e di istruzione quali requisiti per l'utilizzo. Tale caratteristica ne consente l'applicazione in situazioni diverse e con persone di differente condizione culturale, sociale, professionale. 
Un'osservazione critica, derivata dall'esperienza diretta, che è possibile formulare, a questo proposito, è relativa al rischio implicito, sia pure non presente nell'intenzionalità del formatore che propone situazioni di apprendimento mediato, di proporre "il" modello di pensiero, inteso quale la via ottimale per impiegare le funzioni cognitive in modo efficace, economico, produttivo. Pur riconoscendo che si danno differenti modalità, ad esempio, per stabilire comparazioni, come per utilizzare la deduzione o l'induzione, oppure per stabilire nessi temporali o causali…è presente il rischio di assolutizzare la modalità che, a titolo paradigmatico, viene proposta alle persone in formazione. Ad essi, infatti, è lasciata la responsabilità, una volta acquisito il paradigma, eventualmente di discostarsene in base alle proprie propensioni, attitudini, come alle specificità del contesto nel quale si trovano ad utilizzare quella determinata funzione. Sappiamo, però, quanto tale autonomia del soggetto sia ardua da conquistare e come evidente sia la tendenza, dei giovani come degli adulti, a riprodurre modalità sperimentate, ancor più se "validate" dalla situazione formativa vissuta. Il rischio è quello di indirizzare, sia pure contro la propria intenzionalità formativa, ripeto, verso acquisizioni fortemente convergenti, modellizzanti proprio mentre si dichiara di muoversi in un orizzonte di autoformazione, centralità del soggetto, autonomia dell'apprendere. In realtà la consapevolezza di questo rischio è presente in Feuerstein, che utilizza il concetto di "flessibilità cognitiva" proprio ad indicare la capacità di applicare le competenze ed i comportamenti acquisiti in modo non rigido, stereotipato ma, anzi, sempre adattato alle situazioni (Guetta, 2001) Forse radici di questa contraddizione, che personalmente trovo ricca di sollecitazioni critiche e, quindi, da accettare e non rimuovere, possono essere individuate nell'accettazione - da parte  di Feuerstein - del concetto vygotskyano di    "trasmissione culturale e sociale".
 
 
2. La strategia formativa del PAS
 
Il programma si basa sulla sollecitazione sistematica di funzioni cognitive, il cui corretto esercizio si presenta come propedeutico e preliminare rispetto alle stesse operazioni, così come sono state individuate da Piaget.
I 14 strumenti che compongono il programma sono dedicati ciascuno allo sviluppo di una determinata funzione cognitiva, anche se - ovviamente - un unico strumento sollecita, nel tempo stesso, diverse modalità di uso del pensiero, quindi anche altre funzioni3.
Gli strumenti del programma sono disposti secondo una logica di crescente complessità. Il primo strumento (“Organizzazione dei punti”) ha carattere preliminare, orientativo e diagnostico e consente di intraprendere successivi percorsi anche differenziati. 
Solo in rari casi di formazione di lunga durata vengono proposti tutti gli strumenti. Normalmente il formatore progetta un percorso che si muove attraverso più strumenti e, all’interno di questi, ne utilizza parti specifiche. Ogni strumento è composto da un numero variabile di pagine (da 20 a 30), riunite in unità accomunate dalla focalizzazione su un particolare aspetto di una determinata funzione cognitiva.
Anche le unità sono ordinate secondo una logica crescente di complessità e difficoltà. I partecipanti vengono, quindi, impegnati nella gestione di processi mentali sempre più elevati.
In tal senso la strategia adottata da Feuerstein utilizza il concetto di “Zona Prossimale di Sviluppo” elaborato da Vygotsky (Vygotsky, 1978). L’apprendimento proponibile con possibilità di successo è quello che va ad occupare (e conseguentemente incrementare) la zona di sviluppo più vicina alle condizioni del soggetto in quel particolare momento. Si configura una concezione di apprendimento non riducibile ad una semplice successione di cambiamenti, ma simile piuttosto a un processo dialettico, caratterizzato da regolarità e periodicità, trasformazioni qualitative.
 

Il PAS si presenta come uno strumento didattico “carta e matita”; a questa semplicità di utilizzo corrisponde, però,  uno sforzo significativo di progettazione didattica. Il formatore si appresta alla programmazione delle sessioni formative – solitamente della durata di 3-4 ore – considerando, in particolare, due aspetti determinanti: da un lato, gli obiettivi dell’intervento formativo e, dall’altro, le caratteristiche cognitive dei partecipanti. Lo strumento principale di programmazione didattica delle sessioni è la cosiddetta “carta cognitiva”. Si tratta di una guida di criteri ai quali fare riferimento per decidere il percorso di una singola sessione come di un intervento complessivo. La carta cognitiva è lo strumento che permette al formatore di adattare (mediare) gli strumenti del Programma ad un gruppo specifico in formazione.

I criteri contenuti nella carta cognitiva sono i seguenti.
 
-> Contenuto proposto. Sebbene il Programma, come detto,  sia impostato senza riferimento a contenuti disciplinari specifici,  ogni strumento (e, all’interno di esso, ogni pagina) ha comunque un proprio tema. Ad esempio, lo strumento “Relazioni familiari” propone contenuti relativi ai legami di parentela, “Orientamento spaziale” alle coordinate di orientamento (punti cardinali, destra-sinistra, alto-basso...). In fase di progettazione è importante considerare il livello di familiarità dei partecipanti con i contenuti che verranno proposti, il loro possibile atteggiamento psicologico nei confronti dei temi.
 
-> Modalità di espressione del compito (linguistica, iconica, numerica...), che può creare alle persone maggiore o minore facilità di approccio ed esecuzione.
 
-> Fase del processo cognitivo sul quale la pagina richiede di lavorare: input, elaborazione o output.
 
-> Operazioni cognitive che vengono implicate.
 
-> Livello di astrazione della pagina (e dello strumento). Alcuni strumenti costringono ad un maggiore livello di utilizzo del pensiero logico-astratto rispetto ad altri. E’ il caso di strumenti quali, ad esempio, Relazioni Transitive o Sillogismi. Questa caratteristica va tenuta in considerazione per una impostazione graduale e intenzionale dell’iter formativo.
 
-> Livello di complessità del compito proposto dalla pagina. Come si è già detto, la logica di strutturazione degli strumenti è ordinata dal semplice al complesso. Il grado di complessità della pagina va quindi riconosciuto in fase di progettazione.
 
-> Livello di efficienza con cui è richiesto ai partecipanti di eseguire il compito e, di conseguenza, livello di efficienza dell’utilizzo della funzione cognitiva implicata.
 
Procedendo nella fase di gestione didattica del Programma, assume centralità la già considerata funzione di “mediazione”. Questa funzione, viene esercitata, all’interno del gruppo, prevalentemente dal formatore. In fase avanzata di una attività formativa possono essere sollecitate - sempre dal formatore - anche  forme di mediazione reciproca tra i partecipanti. Riferendoci per ora al ruolo specifico del formatore evidenziamo come egli agisca principalmente una mediazione tra compito (situazioni - stimolo proposte) e soggetti. Tale mediazione è rivolta sostanzialmente a:
 
favorire il riconoscimento da parte dei soggetti delle strategie mentali impiegate, la comprensione della natura e dell’utilità dei processi cognitivi. A questo proposito Feuerstein usa il termine insight in un’accezione di progressiva presa di coscienza;
consentire l’individuazione degli errori e delle strategie di superamento;
sostenere le persone nello sforzo dinanzi alla risoluzione del compito, sviluppando il loro sentimento di competenza;
aiutare la individuazione delle potenzialità personali e delle risorse da valorizzare;
sollecitare la capacità di “trascendere” dal compito generalizzando e trasponendo le indicazioni in esso contenute dal punto di vista cognitivo verso altri contesti, situazioni;
far apprezzare i vantaggi reali della mediazione ai fini della risoluzione del compito e della consapevolezza rispetto ai processi cognitivi;
sollecitare i partecipanti a stabilire “bridging”, collegamenti, analogie tra i “principi” di miglioramento delle funzioni cognitive individuati in aula e situazioni della vita lavorativa o quotidiana. In tal modo si tende a favorire la trasposizione consapevole delle acquisizioni formative nei contesti operativi.
 
La funzione di mediazione si presenta, in tal senso, come una forma di sostegno individualizzato – il gruppo, infatti, è strumentale – allo sviluppo di capacità di metacognizione, riflessione sui processi mentali attivati.
In estrema sintesi, i principali criteri della mediazione secondo Feuerstein possono essere così riassunti.
 
Intenzionalità e reciprocità. Le situazioni - stimolo vengono scelte e proposte intenzionalmente dal mediatore; intenzionale è anche, da parte sua, la scelta di insistere su una specifica funzione cognitiva. Alla intenzionalità formativa del mediatore dovrebbe corrispondere una risposta sintonica dei partecipanti; in questo modo si sviluppa una situazione di reciprocità comunicativa e del processo formativo.
Trascendenza dalla situazione contingente rappresentata dal compito assegnato (la pagina di un determinato strumento) per accedere a obiettivi più lontani e generali. Ci si riferisce ad altre situazioni sperimentate personalmente dai soggetti; il mediatore facilita la formulazione di principi - guida generali per una gestione conveniente delle funzioni cognitive.
Mediazione del significato del compito assegnato per ognuno dei partecipanti. Pur non essendo riferiti, come abbiamo già evidenziato, a contenuti specifici di apprendimento, gli strumenti del Programma non sono neutrali ma assumono per le persone significati diversi in ordine a differenti reazioni affettive, motivazionali. Il formatore media tra contenuto dell’oggetto (compito) e significato ad esso attribuito dal soggetto, favorendo lo sviluppo di atteggiamenti produttivi delle persone nella situazione di apprendimento.
Mediazione del sentimento di competenza. Lo sviluppo del sentimento di competenza è requisito essenziale per una piena valorizzazione delle competenze cognitive. Il mediatore, con attenzioni e interventi individualizzati, sostiene i soggetti nel conquistare sentimento di competenza attraverso la riuscita (ed il riconoscimento) nell’affrontare i compiti.
Regolazione e controllo del comportamento individuale di apprendimento. Attraverso questa dimensione specifica della mediazione, il formatore si prende cura delle modalità individuali dei partecipanti nell’affrontare la conoscenza. Quando il mediatore fa osservare difficoltà, errori, incompletezze non svolge una funzione di tradizionale insegnamento ma di controllo del processo, teso a favorire lo sviluppo di modalità di autoregolazione da parte dei soggetti stessi. L’aspetto regolativo della mediazione è complementare a quello precedente dello sviluppo del senso di competenza: si corregge e apprezza realisticamente per dare credibilità ed efficacia all’esperienza di apprendimento mediato.
Comportamento di “sfida”. Si tratta di una attenzione specifica del mediatore, tesa a favorire l’adozione, da parte dei soggetti, di modalità attive, di coinvolgimento nel rapporto con il compito assegnato. Le pagine degli strumenti sono disposte, come si è detto, secondo un criterio di crescente complessità e presentano spesso situazioni impegnative sul piano cognitivo, che richiedono un buon utilizzo delle funzioni cognitive. Il sentimento di sfida,se adottato opportunamente e correlato ad altre dimensioni della mediazione, quali lo sviluppo del sentimento di competenza e la regolazione dell’apprendimento, produce motivazione nelle persone e predispone ad atteggiamenti positivi ed intraprendenti nei confronti delle situazioni di apprendimento.
Comportamento di cooperazione e condivisione. La formazione allo sviluppo delle competenze cognitive effettuata con l’utilizzo degli strumenti del P.A.S. si svolge in piccoli gruppi; si presenta tuttavia come un lavoro “in gruppo” ma non “di gruppo”. Si intende che rimane individuale la fase di risoluzione delle situazioni - stimolo proposte, mentre in gruppo viene effettuata la fase di condivisione e confronto delle strategie adottate, di individuazione delle difficoltà e delle modalità di superamento, di formulazione di principi - guida. Tutte queste attività possono avere maggiore efficacia se, attraverso adeguati interventi di mediazione effettuati dal formatore, vengono valorizzati i comportamenti cooperativi e di condivisione dei punti di vista, degli stili cognitivi.
Differenziazione psicologica. Un gruppo in formazione, sia pure di dimensioni ridotte, presenta una pluralità - talvolta assai ricca - di stili di pensiero, modalità comportamentali e comunicative, tratti di personalità. Pur centrando la propria attenzione sulle modalità di gestione -da parte dei soggetti - delle funzioni cognitive, il formatore prende in considerazione le principali caratteristiche dei partecipanti che richiedono opportune differenziazioni e adattamenti delle modalità formative.
Mediazione della ricerca degli obiettivi di pianificazione e loro realizzazione. Il processo attraverso il quale il soggetto si confronta con il compito trova un momento particolarmente delicato nella individuazione degli obiettivi che egli intende perseguire, nelle strategie di organizzazione (pianificazione) del percorso che sceglie di adottare. Il mediatore è attento alla facilitazione di questa operazione di focalizzazione di un piano orientato agli obiettivi e, successivamente, sostiene i partecipanti nella realizzazione della strategia scelta.
Mediazione della consapevolezza di essere modificabili e di poter cambiare. Il Programma si presenta come uno dei possibili strumenti da adottare per praticare la strada della “Educabilità cognitiva”, cioè di un processo di cambiamento, anche per gli adulti, delle proprie modalità concrete di utilizzo del pensiero. La mediazione in questa direzione è tesa, innanzitutto, a favorire lo sviluppo della consapevolezza di essere soggetti che possono modificare i comportamenti; la mediazione della modificabilità valorizza la motivazione personale e consente l’utilizzo delle risorse personali. Siamo, in questo caso, nell’ambito dei processi di self-empowerment sul piano cognitivo.
 
La mediazione all’interno del PAS fa anche riferimento a criteri più di ordine generale e valoriale che non sono di secondaria importanza ma che si collocano ad un livello di ispirazione di fondo del Programma. Si tratta della mediazione della alternativa ottimista, utilizzata per valorizzare le risorse individuali e orientarle al successo e la mediazione dell’appartenenza al genere umano, che esprime il valore antropologico e filosofico del Programma.
 
 
3. Formazione alle capacità di pensiero e innovazione formativa
 
Il PAS, come altri programmi in precedenza citati, ha goduto, in anni recenti, di una certa fortuna nell’ambito della formazione con gli adulti. La considerazione critica di queste esperienze consente oggi di tracciare alcune linee di sviluppo di interventi rivolti allo sviluppo delle competenze di pensiero, sia all’interno che all’esterno delle organizzazioni.  Consideriamo alcune prospettive, tentando di evidenziarne le principali implicazioni sul piano formativo, culturale e metodologico.
 
Arricchire le situazioni di apprendimento esperienziale nelle organizzazioni.
 
Diverse e sempre più diffuse sono le forme di apprendimento esperienziale che vengono realizzate nelle organizzazioni. Tutoring, coaching, affiancamento possono essere, di fatto, lette come soluzioni riconducibili ad una didattica della mediazione (Reggio, 2003), intesa come facilitazione del rapporto tra soggetto ed organizzazione, tra soggetto e contenuti professionali da acquisire o sviluppare. Spesso tale forma di mediazione avviene spontaneamente, in modo occasionale e dettato dalle condizioni organizzative; al contrario, essa può essere intenzionalmente proposta quale strategia che accompagna e rinforza le esperienze di apprendimento sul lavoro. Tutor, coach, personale esperto che viene affiancato possono accrescere l’efficacia formativa della propria azione sviluppando, innanzitutto, capacità di riconoscimento delle proprie modalità di pensiero e di insegnamento. Inoltre, una maggiore consapevolezza delle modalità di apprendimento delle persone ad essi affidate può consentire loro di individuare strategie di argomentazione, spiegazione più efficaci. Riconoscere come le funzioni cognitive vengono esercitate rappresenta il primo passo per aiutare i soggetti nel migliorare le proprie capacità di pensiero, di apprendimento ed anche lavorative. Analogamente, interventi di sviluppo delle competenze cognitive possono essere opportunamente proposti agli stessi neofiti, in modo da sviluppare le capacità di riconoscimento dei propri processi di pensiero e di individuazione delle strategie di apprendimento più adatte alle diverse situazioni.
   
Arricchire percorsi formativi rivolti allo sviluppo di competenze professionali.
 
Una delle tendenze maggiormente significative e da tempo in atto nella formazione alle professioni, consiste nel progressivo spostamento  da una forte attenzione ai contenuti da trasmettere/apprendere ai processi da padroneggiare. Competenze di vario ordine (comunicative, organizzative, decisionali, di innovazione ma anche di pensiero) risultano strettamente connesse all’apprendimento di contenuti professionali ed anzi  per permetterne l’acquisizione.
Percorsi formativi per personale neo-assunto come esperto, proposte formative per ruoli di coordinamento o manageriale possono contemplare la presenza di obiettivi e contenuti.  
Un’attività di  aggiornamento, formazione, training rivolta a contenuti di carattere tecnico - specialistico non può oggi prescindere da un’esplicita attenzione al processo di apprendimento che richiede ai soggetti di attivare. Formare oggi nelle organizzazioni significa porsi innanzitutto il problema di come le persone possano veramente imparare. Per questo motivo il processo di insegnamento e quello di apprendimento - che sono talvolta consonanti e vicini, talaltra assai divergenti - vanno fatti oggetto di attenzioni specifiche, tese a migliorarne l’efficacia. In altre parole, è necessario occuparsi non solo di cosa insegnare (contenuti), di come farlo (metodi di insegnamento)  ma anche di come le persone imparano o possono imparare (strategie, modalità, metodi e tecniche di apprendimento).
Da tali premesse discendono due piste di necessario investimento formativo:
 
- preparazione dei trainer, formatori, istruttori, docenti alla padronanza di competenze di diagnosi e sviluppo delle competenze di pensiero (proprie e degli “allievi”)
 
- attivazione di momenti formativi dedicati allo sviluppo delle competenze di pensiero (altrimenti dette “imparare ad apprendere”) come integrazione di percorsi formativi tecnici.
 
In tali prospettive il Programma Feuerstein rappresenta una possibile strada da percorrere accanto ad altri metodi e programmi di diagnosi e sviluppo delle competenze cognitive. Per le proprie caratteristiche specifiche, che abbiamo precedentemente descritto, il PAS si presta assai efficacemente ad un utilizzo nelle direzioni indicate. Infatti alcuni punti di forza e  potenzialità del programma sono:
- assenza di riferimenti a contenuti specifici di apprendimento; ciò consente di spostare l’attenzione delle persone sul processo di apprendimento per poi ritornare all’acquisizione (e alla trasposizione) di contenuti tecnici;
- presenza di un “repertorio” già predisposto di strumenti di lavoro, che richiede di essere di volta in volta utilizzato secondo una progettazione specifica. Tale caratteristica rende il Programma altamente flessibile e adeguabile a utenze e contesti differenti. 
 
Sostenere percorsi formativi di transizione verso il lavoro.  
  
Sia nel caso di giovani che si preparano, da un punto di vista formativo, per entrare nel mondo del lavoro come nel caso di adulti che passano da una condizione lavorativa ad un’altra o, ancora, rientrano al lavoro dopo un periodo di inattività, l’adozione del PAS può offrire un valido contributo al potenziamento delle risorse cognitive ma, nel tempo stesso, motivazionali. I moduli di sviluppo delle competenze cognitive possono essere proposti in modo autonomo oppure inseriti nel percorso didattico di tipo tecnico-professionale. In tal caso, è necessario uno sforzo di progettazione didattica per correlare in modo corretto contenuti professionali a contenuti cognitivi. In questo genere di interventi, la mediazione assume un più ampio valore di accompagnamento ad una nuova situazione di socializzazione lavorativa ed impegna il mediatore in uno sforzo di comprensione e “traduzione” didattica degli elementi del contesto di destinazione delle persone in formazione. Anche tale sforzo ha evidenti implicazioni sul piano cognitivo e necessita la padronanza di modalità di pensiero coerenti e produttivi. Le situazioni di transizione rappresentano momenti di potenziale conoscenza di sé, autoconsapevolezza riguardo le proprie propensioni, modalità di affrontare questioni e problemi ed, infine, ridefinizione delle strategie usualmente adottate. Imparare a pensare rappresenta una prospettiva di accompagnamento del soggetto nei diversi passaggi che egli affronta.
 
 
Note
 
In ambito francese si segnalano i programmi Activolog, ARL (Atelier de Raisonnement Logique); di provenienza statunitense sono, invece, il programma CoRTdi sviluppo della creatività di De Bono e il programma Philosophy for Children di Lipman . Una sintetica rassegna di alcuni metodi si trova in Demetrio D.- Fabbri D. – Gherardi S., Apprendere nelle organizzazioni, Proposte per la educabilità cognitiva in età adulta, in partic. cap.8 "Educabilità cognitiva e problemi per la formazione nelle organizzazioni", NIS, Roma, 1994 e in Blagg, 1991
Disponiamo peraltro, oggi, di dati significativi rispetto a valutazioni di interventi formativi condotti con l’impiego del Programma di Arricchimento Strumentale, vd. Blagg, 1991
Gli strumenti del PAS sono: Organizzazione dei Punti, Orientamento spaziale (1 e 2), Comparazione, Percezione analitica, Classificazione, Relazioni familiari, Relazioni temporali, Progressioni numeriche, Consegne, Sillogismi, Relazioni transitive, Pochoirs, Illustrazioni.
 
 
Bibliografia
 
Ben-Hur M (ed.), On Feuerstein’s Instrumental Enrichment: a Collection, Palatine, Illinois, IRI/Skylight, 1994
 
Blagg N., Can we teach intelligence? A Comprehensive Evaluation of Feuerstein’s Instrumental Enrichment Programm, Hillsdale, Erlbaum Ass. 1991 
 
Feuerstein R. , Le PEI, in Paravy G (Ed.), Pédagogies de la mediation, Lyon, La Chronique Sociale, 1990
 
Feuerstein R., Instrumental enrichment. An intervention program for cognitive modifiability, University Park Press, Baltimora, 1980
 
Guetta S., Il successo formativo nella prospettiva di Reuven Feuerstein, Napoli, Liguori 2001
 
Hadji, Ch., "Science, Pedagogy and Ethics in Feuerstein’s Theory and Applications", in Kozulin A. Rand Y (Ed.), Experience of Mediated Learning. An Impact of Feuerstein’s Theory in Education and Psychology, Amsterdam, Pergamon 2000, pp.21-33
 
Reggio P., "Sviluppo di competenze cognitive e formazione degli adulti", in FOR, nn.34-35 1997, pp.71-92 
 
Reggio P., L’esperienza che educa, Unicopli, Milano 2003
 
Vyogtsky L.S., Il processo cognitivo, Boringhieri, Torino, 1980 (ed.orig.1978)
 
 

*In “Formazione & Cambiamento”, numero 39, genn.-febb. 2006
 
“E’ una gioia senza limiti prendere 
dimora nel numero, nell’ondeggiante,
 nel movimento, nel fuggitivo e nell’infinito.
 Essere fuori di casa, e ciò nondimeno sentirsi o
ovunque nel proprio domicilio; vedere il mondo,
 esserne al centro e restargli nascosto” 
(C. Baudelaire, I fiori del male)
 
 
Dal 2000, con sempre maggiore significatività numerica, si sono imposti, fra le pratiche di comunicazione e di editoria individuale in rete, i blog. Nati come diari personali, capaci di consentire con estrema facilità la pubblicazione su Internet di diari, di agende autobiografiche, sono diventati, nel breve giro di un anno (e sono adesso, a distanza di sei) un fenomeno dirompente di libera editoria e di comunicazione.
 
Inizialmente adottati e utilizzati dal popolo della rete per “giocare” con le potenzialità di un content management di utilizzo immediato, capace di ospitare nella griglia grafica di un sito, contenuti testuali e, via via, immagini, suoni e filmati, i blog hanno reso possibile, a livello individuale, la creazione di vere e proprie autobiografie aperte, da proporre nel tessuto di internet e capaci di ospitare commenti, annotazioni, ipotesi di lettura e provocazioni dei lettori sulle stesse pagine della narrazione.
 
Portatori di 3 messaggi fondamentali, l’autonomia assoluta nella gestione dei contenuti, l’aderenza dei contenuti ai vissuti degli autori (blogger), la disponibilità al dialogo (attraverso le funzioni di commento e linking), sono velocemente diventati il luogo di costruzione di migliaia di “campagne” di comunicazione personali.
 
Accanto alla miriade di “autobiografie” minuscole, originate dal desiderio delle persone di “dichiararsi” al mondo della rete raccontando di sé, hanno cominciato a consolidare una campagna di “controcultura” giornalisti, attori, artisti, interessati ad aprire, senza la mediazione delle testate, dei canali di distribuzione, dei media ufficiali, canali di comunicazione aperti e autogestiti.
 
Parallelamente, il mondo del business e le realtà d’impresa, hanno scoperto il valore mediatico di questo strumento, utilizzandolo come canale per consentire una relazione più onesta, diretta e aperta fra i testimonial dei valori e delle visioni e i propri utenti, clienti, consumatori. Sono nati quindi CBlog, corporate blog1, con lo scopo di aprire la comunicazione d’impresa e la comunicazione pubblica alle strategie di relazione rese possibili dalla richiesta di trasparenza e interattività emersa, sin dall’origine, dalle tribù telematiche.
 
Per dirla con J. Duvignaud2, E’ “prestando attenzione al prezzo delle cose senza prezzo”, che anche il mondo economico ripensa e reinventa le proprie strategie di comunicazione, e che “riusciremo a dare un senso a tutti quei fenomeni che sembrano rifiutarlo”.
 
Nati quindi spontaneamente dalle maglie della rete, i blog hanno testimoniato di alcuni desideri e di quel senso dell’altrove che Michel Maffesoli3 definisce come pratica dell’erranza, come tendenza dei soggetti heideggerianamente “scagliati” e propensi a cercare, attraverso la dichiarazione di sé e la ricerca in rete dell’altro, la propria saudade, la propria nostalgia per i luoghi non visitati ed esistenzialmente possibili. 
 
Quello che anima un blogger è il desiderio di assumere come possibili alcuni intenti:
esprimersi liberamente, dare forma alla propria dimora mediale (personalizzando i layout, le sezioni, la rete dei “pari”), accettare il dialogo e il contraddittorio (nella forma del libero commento), promuovere il nomadismo (ovvero la capacità di migrare verso i luoghi altri e dell’altro) diventando mappa egli stesso della propria geografia di comunicazione.
 
Se in rete Internet il tratto dominante è il proliferare delle biografie, accompagnato dalla comparsa di una editoria para-ufficiale che consente di legittimare il proprio pensiero e la propria opera al di fuori dell’establishment ufficiale, qualcosa di molto delicato e peculiare accade quando il blog si trasforma in strumento di comunicazione organizzativa, toccando il territorio “protetto” delle Intranet aziendali.
 
Il mondo della produzione economica ha assunto dentro di sé, negli ultimi 3 anni, i Blog come strumento di comunicazione verso l’universo dei clienti e dei fruitori. Da Microsoft  ad alcuni comuni italiani, dalla grande impresa alla PAC, sono via via crescenti le esperienze di apertura di blog che consentono all’impresa di “parlare” al cittadino/cliente e di ascoltarne feedback e indicazioni. Il blog ha il vantaggio di proporre una “conversazione” vera, non mediata, fruita in archi temporali brevissimi. 
 
Sono i “diari dei giorni” a testimoniare di evoluzioni, eventi, umori. Si prospetta un valore assegnato alla “trasparenza” con incisività e responsabilità. Si comincia a scrivere il diario dell’organizzazione, si esprime e si sedimenta la “memoria dei giorni”, con l’aggiunta di una interattività e di una “apertura” all’ascolto impensabili nei giorni dei siti e dei portali tradizionali.
 
Ancora un passo avanti, un passo verso quello che Hoelderlin definiva “essere arrischianti”4 si verifica quando e se, nelle imprese, viene proposta l’adozione del Blog, non solo come strumento di comunicazione d’impresa, ma anche e fortemente come strumento di comunicazione interna.
 
Le riflessioni dell’ultimo decennio sulla condivisione della conoscenza, e sulla condivisione delle emozioni, accompagnate da quelle sull’importanza della ricostruzione autobiografica come occasione imperdibile per dotare di senso la propria storia e il proprio progetto, sia per le organizzazioni che per le persone, aprono la strada alla opportunità di recepire lo strumento blog come luogo principe di una accoglienza della biografia necessaria a uno sviluppo sano delle comunità di lavoro. 
 
“Esiste un aspetto dell’ipertrofia della memoria nelle istituzioni, scrive Antonello Correale5, che riguarda non tanto il ricordo di eventi, né il mantenimento di ruoli, o di comportamenti, ma addirittura la modalità di produzione dei pensieri e di fantasie”.
 
Il blog, in quanto diario dei giorni, individualmente gestito e liberamente editato, costituisce per propria natura il moleskine dell’erranza emotiva, la traccia della genesi dei pensieri, la traccia dei dialoghi intorno ai pensieri in formazione, e costituisce quindi una occasione impedibile di recupero e condivisione dei vissuti emotivi, delle creatività non consolidate, delle innovazioni in nuce, di cui ogni persona è portatrice, che troppo spesso sfuggono e tacciono nei dialoghi dell’organizzazione.
 
C’è un grande silenzio, in tutto il rumore generato da un’impresa. Il silenzio che dichiara i contenuti inconsci, i fantasmi, le fantasie, i vissuti relazionali informali, che solo uno strumento così destrutturato e “autonomo” è capace di ospitare e gestire. 
 
Una organizzazione che decida di dotare ognuno di uno spazio sì fatto, osa un azzardo, una “piccola rivoluzione” nella direzione del riconoscimento della persona come risorsa nel suo esser intera. 
 
Si può ragionevolmente ipotizzare, scrive ancora Correale6, che faccia parte delle funzioni preventive e sane di un gruppo istituzionale disporre di numerosi e validi strumenti di pubblicazione e collettivizzazione della comunicazione (…). E’ necessario però che questi gruppi si permettano un certo grado di “trasgressione” che consenta nei rapporti un livello medio e accettabile di sincerità non distruttiva. E’ necessario a questo scopo un clima di tolleranza, di fiducia, di appartenenza, di adesione ai valori e miti di gruppo, di lotta alla formazione di ideologie intolleranti.
 
Ci sono aziende che stanno lavorando in questo senso. Che stanno sperimentando e testando l’adozione di questi strumenti nelle diverse accezioni che abbiamo visto: dotare la comunicazione d’impresa di nuovi canali, ripensare la comunicazione interna, aver cura della memoria delle organizzazioni nelle sue forme emotive e tacite, aiutare lo sviluppo delle comunità di pratiche.
 
A testimonianza di ciò diamo ora nota di due progetti partiti in una media impresa italiana attiva per la diffusione di Learning e Knowledge nelle imprese. 
 
Nel desiderio di facilitare e rendere espliciti i processi di recupero della memoria personale e collettiva, e di offrire strumenti per la condivisione delle esperienze emotive e cognitive nel tessuto quotidiano dell’organizzazione, sono nati nel 2005, in TILS (www.tils.com), due progetti rivolti alla comunità professionale interna di consultant e formatori e all’intera impresa. 
 
Il primo dei due progetti, Conversazioni, progettato e realizzato con la consulenza esterna di ISMO (www.ismo.org), è nato dal desiderio di offrire una occasione di riflessione collettiva su temi e fermenti cari a chi si accosti alla cura della persona nelle organizzazioni, attraverso l’ascolto delle esperienze e della memoria di testimoni nel tempo. Conversazioni è stato progettato secondo un format che ha inteso facilitare sia l’introspezione sia il dialogo nell’organizzazione, ed è sviluppato prevedendo, per ognuno dei seminari in calendario:
 
- una suggestione tematica, mutuata dai vissuti impliciti delle organizzazioni
- due voci narranti impegnate nel racconto della loro esperienza di pensiero e di scrittura sul tema, ridondate da un facilitatore
- un luogo mutuato dal vissuto cittadino, nel quale porre le voci fuori dall’usuale contesto di lavoro
- un momento conviviale successivo al racconto dedicato al libero scambio di emozioni e pensieri fra i partecipanti.
 
I temi proposti sono stati: L’amore nelle organizzazioni (con il contributo di Humberto Maturana e Xiména Davila), Il corpo nelle organizzazioni (narrato da Umberto Galimberti e Tiziano Scarpa), L’inconscio delle istituzioni (con David Gutmann e Giovanna Garuti), Il benEssere (attraverso la testimonianza teatrale di Laura Curino e la ricostruzione organizzativa di Roberto Grandis, a partire dalle figure di Camillo e Adriano Olivetti), Il racconto delle Storie di vita e la vita nelle organizzazioni, anche attraverso i blog, con la partecipazione poetica di Alberto Bellocchio.
 
I luoghi che hanno ospitato i dialoghi sono stati una libreria nel centro storico, l’orto botanico cittadino, un ristorante, un convento, uno studio fotografico ricavato in una ex fabbrica.
 
Il secondo progetto, Scribenda, partito nel luglio 2005, e tuttora in corso, prevede la creazione di due spazi di scrittura individuale condivisa offerti a tutti i dipendenti e collaboratori. Sono stati predisposti due strumenti di comunicazione virtuale, un motore per la gestione di BLOG (diari personali in rete) e una libera casa editrice (SCRIBENDA), destinata a consentire la pubblicazione nella Intranet di collane editoriali personali, a cura dei singoli, nelle quali inserire articoli, recensioni, segnalazioni, pubblicazioni, presentati quotidianamente attraverso una vetrina online ai colleghi invitati a commentare e votare i contributi immessi nel circuito di editoria virtuale.
 
Da alcuni mesi circa 250 persone hanno accesso ai BLOG e possono creare un loro diario personale (eventualmente visibile anche su Internet), attraverso il quale presentarsi nella comunità di lavoro con i loro vissuti sia professionali che personali. Il BLOG rappresenta il proprio cahier intime, veicola foto, file musicali, racconti, link a siti e realtà che si desidera segnalare e far conoscere. Ogni BLOG consente di descrivere a tutto tondo il vissuto che il singolo desidera condividere e proporre, a partire dal bisogno di dar voce allo spessore delle esperienze di vita e di “sentimento” che troppo spesso siamo chiamati a tener fuori dai confini della convivenza di lavoro.
 
Mentre il BLOG parla del singolo e racconta una biografia della quale ognuno è redattore ed editore, Scribenda ospita tutti quei contributi che desideriamo diventino oggetto di confronto, scambio, dibattito, costruzione di una memoria collettiva.
 
Il progetto prevede, in sinergia con la casa editrice Castelvecchi, la premiazione, a cura di una giuria esterna, dei BLOG che abbiano proposto e condiviso un progetto di comunicazione efficace e vero, e la pubblicazione di un libro che contenga la narrazione dell’esperienza di progetto.
 
BLOG, Scribenda e Conversazioni hanno quindi consolidato fra il 2005 e il 2006, costituendone un esempio, una esperienza di narrazione offerta e costruita nello spazio organizzativo con l’intento esplicito di lavorare per e con la memoria. E per utilizzare la memoria per benEssere.
 
Note
1 Gilda Serafini, Corporate Blog:l’organizzazione riscritta, in L’Asterisco – Numero 3-4 Anno II – Editore TILS – Anche su http://www.tils.com/open_mind/asterisco/index.asp
2 J.Duvignaud, Le jeu du jeu, cit. in Del nomadismo, M. Mafesoli, Franco Angeli, 2000, pag. 40
3 M. Maffesoli, Del nomadismo, Franco Angeli - 2000
4 M. Heidegger. Sentieri interrotti, Perché i poeti – La nuova Italia, 1950 – Pag. 247
5 A. Correale, L’ipertrofia della memoria come forma della patologia istituzionale, in Sofferenza e psicopatologia dei legami istituzionali, Borla, 1998 – pag. 113
6 Antonello Correale, ibidem – pag. 118,119)

*In “Formazione & Cambiamento”, numero 27, maggio 2004
 
 
1. L’apprendimento attivo nella formazione a distanza 
 
La ricerca da cui è stato tratto questo scritto, si articola intorno al tentativo di definire dei modelli di formazione a distanza, quali modelli caratteristici della knowledge society, in cui il concetto di apprendimento occupi un posto centrale ed in cui questo concetto sia descritto nei termini di un processo attivo, legato all'agire sulla realtà, alla possibilità da parte dell’individuo di costruire un proprio percorso, una propria interpretazione della sua posizione in quella realtà.
 
In particolare la ricerca muove dal presupposto che i modelli tradizionali di formazione a distanza hanno introdotto un importante cambiamento nel sistema di trasmissione della conoscenza, rappresentato dalla rete e non più dalla presenza di un docente, ma non nel modo in cui si sviluppa concretamente la dinamica della conoscenza. Infatti, nella misura in cui rimane legata alle parole di un docente o di un testo, anche se ricevute a distanza, tale dinamica attribuisce ancora un ruolo sostanzialmente passivo al soggetto conoscente. In opposizione a questo modello, la ricerca tenta di capire in che modo l'utilizzo di modelli di simulazione nella formazione a distanza consente di cambiare oltre allo strumento di trasmissione del sapere, la rete, lo stesso modello di apprendimento che, proprio grazie alla simulazione, non avviene solo attraverso il linguaggio ma soprattutto attraverso l'esperienza. A questo riguardo sono state approfondite alcune specifiche dimensioni: l'analisi delle differenze tra due forme di apprendimento legate, la prima, al linguaggio ed alla parola scritta, la seconda, all'esperienza vale a dire al principio del "learning by doing"; la necessità di rivalutare un modello attivo della conoscenza teso ad affermare la centralità dell'individuo quale protagonista ed artefice del proprio sapere; la ricerca di paradigmi teorici che possano giustificare modelli di apprendimento attivo come lo sono i paradigmi non cognitivisti, vale a dire quelli legati al pensiero filosofico di Dewey, alla psicologia di Piaget e Vygotskij, alla psicologia ecologica di Gibson.
 
In una prospettiva più generale la ricerca si colloca all'interno delle riflessioni che l'Area Sperimentazione Formativa dell'Isfol e l’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del Cnr hanno elaborato sull’innovazione dei modelli di organizzazione e di formazione in relazione ai mutamenti socio-economici legati all'avvento della società post-industriale. 
 
I concetti di apprendimento e di conoscenza sono considerati essenziali in riferimento al processo di crescita professionale nella Knowledge Society. L’importanza e la centralità assunta da questi concetti nelle teorie e nelle pratiche formative delinea dei rapporti di stretta interazione e di forte circolarità tra universi di discorso estremamente diversificati. Essi si ritrovano di fatto all’interno di ambiti disciplinari molto diversi l’uno dall’altro – dalle scienze cognitive all’epistemologia, dalla sociologia alla psicologia del lavoro ed alla gestione delle risorse umane – ed in diversi settori di attività – il sistema scolastico, la formazione istituzionale ed aziendale, la regolazione dei mercati interni alle imprese e le agenzie preposte al funzionamento del mercato del lavoro. Al di là della grande ricchezza di contenuti, legata ai termini di conoscenza ed apprendimento, è comunque possibile stabilire un ordine logico tra i diversi significati dell’universo fisico e simbolico da essi delineati. In questa prospettiva, è possibile ipotizzare che siano stati prioritariamente i cambiamenti verificatisi in seno al mondo del lavoro ad esercitare un’analoga richiesta di mutamento al mondo dell’educazione e della formazione.  
 
Con lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione il lavoro è sempre meno descrivibile in termini di azioni fisicamente rappresentabili e sempre più in termini di processi cognitivi. Le conoscenze e le competenze tendono a non stratificarsi in un solo punto ma a crescere ed a trasformarsi continuamente facendo sì che i termini di apprendimento, conoscenza e metacompetenza prendano il sopravvento sulle accezioni nozionistiche del sapere, sulla descrizione del lavoro umano in termini di qualifiche e di mansioni. Proprio queste grandi trasformazioni sociali e di pensiero sembrano determinare in definitiva l’orientamento delle istituzioni e delle parti sociali, in Italia come negli altri Paesi europei, verso obiettivi formativi tesi ad affermare l’importanza di alcuni processi fondamentali:
 
il passaggio dall’insegnamento all’apprendimento;
la centralità dei processi di apprendimento, con il riferimento alla formazione ed alla capitalizzazione del sapere lungo tutto l’arco della vita;
la centralità dell’individuo, come soggetto attivo, a cui riconoscere in primo luogo il diritto di accesso alle competenze per una piena cittadinanza nella knowledge society.
 
Nella società della conoscenza la categoria fondamentale dell'esperienza professionale è la capacità di apprendere ad apprendere. Capacità che implica una pluralità di dimensioni: cognitive, emotive, sociali, linguistico-narrative. Questa categoria, scrive Aureliana Alberici, riguarda una disposizione fondamentale, flessibile e adattiva, legata a capacità individuali relazionali, affettive, di responsabilità, orientamento, progettazione e intervento sul reale. Si tratta di ciò che in altri termini si può definire la metafora degli “attrezzi del mestiere per comprendere e per poter essere attori sociali nella Knowledge society"1. La capacità di apprendere lifelong finisce per configurarsi come una capacità, propria ad ogni individuo, di adattarsi e riadattarsi alle dinamiche evolutive del suo sistema ambientale e relazionale di riferimento, costruendo e trasformando continuamente i propri modelli di conoscenza e di azione.
 
In questo contesto matura anche l'esigenza di riorganizzare le attività ed i luoghi della formazione secondo una rinnovata logica. Si tenta di superare una nozione di adattamento meccanico dell'individuo all'organizzazione per approdare ad un modello di formazione in cui l’individuo occupi un posto centrale ed in cui sia fondamentale la nozione di apprendimento. L’apprendimento non si configura più soltanto come acquisizione e consolidamento di saperi, bensì come un percorso che deve consentire ad ogni donna e ad ogni uomo di strutturare progressivamente quelle competenze che possono consentirgli di dare risposta a nuove domande. La priorità si sposta dal docente alla persona in apprendimento ed alla centralità della sua storia personale. L’apprendimento finisce per configurarsi come un processo di acquisizione delle risorse necessarie per il raggiungimento dell’autonomia. A tale proposito, come ha scritto Edgar Morin, oggetto dell’educazione diventa la costruzione di uno stato interiore che sia capace, a sua volta, di orientare per tutta la vita l’individuo verso l’apprendimento. 
 
Non solo diventa centrale il concetto di apprendimento, ma l’apprendimento è descritto nei termini di un processo attivo strettamente connesso a quel concetto di "learning by doing" cui Dewey aveva già fatto riferimento e su cui oggi insistono non solo teorici della conoscenza ma anche esperti delle scienze organizzative e formative, quando dicono che nella vita di tutti i giorni si conosce la realtà guardandola direttamente, misurandola, agendo su di essa e osservando le conseguenze delle proprie azioni.
 
 
2. Conoscenze e nuove tecnologie dell'informazione
 
In questo processo di trasformazione dei modelli dell'organizzazione e della formazione, segnato dalla centralità e dalla crescita della conoscenza, un ruolo fondamentale è giocato dalle possibilità di diffusione e di trasmissione del sapere offerte dalle nuove tecnologie della comunicazione. Il computer, scrive al riguardo Parisi2, rappresenta un elemento centrale nel discorso sulla modernità e sulla razionalità della società occidentale nella misura in cui esteriorizza nelle macchine quella razionalità che precedentemente aveva trovato posto solo nella mente umana e dentro le organizzazioni sociali degli esseri umani. 
"Forse già tremila anni fa la cosiddetta arte del Paleolitico superiore… è stata una conseguenza ma anche una causa di un ampliamento delle nostre capacità cognitive di immaginare, prevedere, ricordare, sentire da soli e insieme agli altri. Certamente, l'adozione della scrittura alfabetica … ha avuto un ruolo importante nell'emergere della civiltà greca e quindi di quella occidentale. La permanenza e l'oggettività delle parole scritte, rispetto alla volatilità di quelle dette, ha accresciuto le possibilità della memoria e l'accumulazione della conoscenza ed ha … contribuito alla comparsa della filosofia, della scienza e della democrazia politica nella Grecia classica. Quasi un millennio dopo, l'avvento della stampa ha reso possibile il crearsi di comunità estese di ricercatori e scienziati, distanti nello spazio e anche nel tempo, con scambi facilitati e accelerati dalla riproducibilità meccanica dei libri"3.
 
Il computer rappresenta una tecnologia cognitiva dalle potenzialità infinitamente più grandi e innovative rispetto ad altre tecnologie vecchie e nuove come l'arte, la scrittura e la stampa ma anche il telefono, la radio e la televisione. Il computer costituisce un fondamentale e innovativo strumento di conoscenza, nella misura in cui crea i primi artefatti cogniti e comunicativi con cui è possibile interagire. Se la realtà è ciò con cui interagiamo possiamo dire che il computer allarga e crea un più di realtà mentale e sociale, esso ci presenta delle informazioni e reagisce alle nostre azioni proprio come fanno la nostra mente e in buona misura le altre persone4. Le tecnologie cognitive pre-computer erano profondamente diverse: un libro si poteva leggere, si poteva scriverci sopra, metterci un segnalibro; al telefono si poteva ascoltare o parlare, al cinema si potevano vedere immagini in movimento, ma è con il computer che si sono moltiplicate le interazioni tra l'uomo e l'artefatto; interazioni che si sono amplificate all'infinito grazie ad internet dal momento che in ogni istante in questo universo si aggiungono nuove informazioni, nuove forme di socialità, nuovi modi di comunicare e di interagire.
 
Ma ciò che è più importante sottolineare oltre al potere di comunicazione che esso conferisce è il fatto che il computer può essere uno specifico ed importante strumento di apprendimento. Fino ad oggi si imparava leggendo un libro o interagendo con un insegnante, ascoltando le sue lezioni o dialogando con lui. Ma si può imparare anche interagendo con un computer ed è proprio in questo senso che si realizza l'apprendimento attraverso l'esperienza. 
 
"Ci sono due modi di imparare, cioè di conoscere e capire la realtà: si impara attraverso il linguaggio, perché qualcuno ci racconta come è fatta la realtà e ce la spiega, e si impara attraverso l'esperienza, osservando la realtà e interagendo con essa. Conoscere e capire la realtà attraverso le parole è stata fino ad oggi la modalità di apprendimento dominante nelle società moderne. Oggi però gli sviluppi delle tecnologie informatiche stanno aprendo nuove possibilità all'altro apprendimento, quello che passa attraverso l'esperienza, e forse questi sviluppi consentiranno all'apprendimento attraverso l'esperienza di competere con quello attraverso il linguaggio nelle società del futuro"5
 
L'avvento del computer, osserva Parisi, ha reso comunque possibile un nuovo modo di conoscere la realtà, attraverso la creazione di una realtà virtuale, di una sua copia semplificata, vale a dire attraverso la sua riproduzione all'interno di una simulazione. Le simulazioni, quali strumenti attivi di conoscenza, rappresentano un'importante novità sia dal punto di vista epistemologico che dal punto di vista del concreto potere conoscitivo della scienza; non è un caso che esse vengano adottate in misura crescente in tutte le discipline scientifiche, dalle scienze fisiche e biologiche alle scienze cognitive a quelle sociali ed economiche. 
 
In questa prospettiva, una differenza fondamentale tra l'apprendimento attraverso il linguaggio e l'apprendimento attraverso l'esperienza è legata al fatto che con le tecnologie cognitive e comunicative pre-computer tutto avviene nella nostra mente. "Naturalmente noi non siamo veramente passivi con gli artefatti cognitivi e comunicativi tradizionali, con i quadri, i libri, il cinema, la televisione… Leggendo un libro, guardando un quadro o un film o, più raramente, la televisione, la mente lavora e la nostra vita emotiva è in movimento. Ma il senso di avere a che fare con la realtà ce l'abbiamo quando ci accorgiamo che, agendo fuori di noi, quello che è fuori di noi cambia in risposta alle nostre azioni e ciò è possibile solo con il computer"6
 
E' proprio in questo senso che la simulazione è uno strumento di apprendimento7, una volta che la simulazione è stata costruita uno studente può imparare a conoscere e capire quella parte della realtà interagendo con la simulazione; e questo come si è detto non solo e non tanto osservando passivamente quello che la simulazione presenta ma agendo sulla simulazione, cioè sui comandi del computer, e osservando come la simulazione reagisce alle nostre azioni. 
 
La simulazione è dunque anche un laboratorio didattico virtuale; al suo interno si impara come è fatta la realtà agendo in condizioni controllate, vale a dire agendo sulla realtà e osservando le conseguenze delle proprie azioni. Il fatto che le simulazioni siano realtà costituisce una novità per la scienza. E questo assimila la scienza, che è un'impresa volta a conoscere e capire la realtà, alla tecnologia che è un'impresa volta a modificare la realtà e ad aggiungere ad essa dei nuovi elementi. In questa prospettiva le simulazioni sono importanti perché fanno penetrare più profondamente nella scienza e nel rapporto conoscitivo, che lega l'individuo al mondo, "la potente carica innovativa che il computer sta manifestando in ogni settore della vita sociale e individuale".8
 
Appare chiaro in definitiva come sia il linguaggio che la visualità siano potenti strumenti cognitivi degli esseri umani. Perciò il fatto che la visualità abbia avuto un ruolo così marginale nella conoscenza ha privato la conoscenza stessa di uno strumento cognitivo per cui gli esseri umani sembrano particolarmente dotati. Conoscere con la simulazione cambia questo stato di cose nella misura in cui il computer rende possibili le visualizzazioni. Una delle conseguenze più importanti del computer dal punto di vista della sua influenza sulle nostre capacità ed attività cognitive è che esso consente di visualizzare i processi e ci permette di interagire con le visualizzazioni, cioè di compiere azioni che modificano ed influenzano quello che vediamo. 
 
 
3. Il linguaggio come canale principale di apprendimento e strumento di base della formazione
 
Nei sistemi e nelle attività istituzionali della formazione - dalla scuola all’università, dalla formazione professionale a quella aziendale - si dà per scontato che la trasmissione delle conoscenze, gli apprendimenti delle competenze, la comprensione della realtà, debbano avvenire attraverso il canale del linguaggio. 
 
Questo succede, letteralmente, da millenni, e la tradizione è talmente consolidata che non si pensa neppure che la formazione e l’apprendimento possano avvenire in altri modi. Eppure nella vita di tutti i giorni gli esseri umani conoscono e capiscono la realtà non solo attraverso il linguaggio ma anche, e soprattutto, attraverso l’esperienza, cioè attraverso il vedere e il fare. Vedono e toccano cose, agiscono sulle cose, osservano gli effetti delle loro azioni e tengono conto di questi effetti. Il linguaggio è spesso presente, ma non da solo. Accompagna, commenta, spiega l’esperienza, ma non sostituisce l’esperienza. Nelle attività istituzionali della formazione, invece, il linguaggio è praticamente da solo. Tutto avviene attraverso il linguaggio e solo attraverso il linguaggio. Ma l'esperienza del vedere e agire sulle cose rimane un potente strumento di conoscenza e di comprensione della realtà. 
 
Anche nel corso dello sviluppo dell’individuo l’esperienza diretta, il vedere e il fare, hanno un ruolo fondamentale. Per un intero anno a partire dalla nascita, nella vita del bambino il linguaggio semplicemente non c’è, e il bambino cresce mentalmente solo perché vede e tocca le cose e agisce su di esse. Il linguaggio compare a 1 anno ma compare proprio perché, come ha messo in luce lo psicologo Jean Piaget, poggia le sue basi sull’esperienza non linguistica che il bambino ha fatto in precedenza e che continua ad accumularsi. I suoni del linguaggio acquistano un significato per il bambino perché nella sua esperienza questi suoni co-variano sistematicamente con specifiche cose che il bambino vede, sente, tocca, e con specifiche azioni che il bambino compie e vede compiere sulle cose. Questo continua fino a sei anni. Poi a sei anni, entrando nella scuola, l’esperienza del vedere e del fare rimane fuori dell’aula scolastica e gli apprendimenti scolastici e tutta la formazione vengono affidati al solo linguaggio. 
 
Naturalmente ci sono ragioni perché le cose stiano così, perché il linguaggio sia tradizionalmente il canale privilegiato e praticamente esclusivo degli apprendimenti istituzionali. Come canale di apprendimento e come strumento di formazione il linguaggio offre parecchi vantaggi. Il primo è pratico. La formazione tradizionalmente avviene attraverso una interazione tra insegnanti e allievi, e gli insegnanti posseggono naturalmente il linguaggio, sanno come usarlo per insegnare e possono insegnare su tutto usando il linguaggio. Questo vale per il linguaggio orale delle lezioni ma vale anche per il linguaggio scritto dei libri. Ogni cosa può essere descritta, analizzata e spiegata con un testo scritto. Perciò, se si usa il linguaggio come canale di apprendimento, la formazione può essere realizzata in modo facile, naturale e economicamente poco dispendioso.
 
Gli altri vantaggi del linguaggio per l’apprendimento sono più importanti. Imparare attraverso il linguaggio permette di arrivare a quella conoscenza e comprensione delle cose che solo il linguaggio rende possibile, una conoscenza e una comprensione esplicita, cosciente, generale, astratta, che può essere discussa con gli altri. L’esperienza del vedere e del fare di per sé non produce questo tipo di conoscenza e comprensione della realtà. Inoltre il linguaggio contiene in sé l’esperienza filtrata e sistematizzata delle generazioni passate, e imparare attraverso il linguaggio significa avere accesso a questa esperienza sociale e non più solo individuale, e di sfruttarla, superando i limiti del tempo e dello spazio. Il linguaggio può parlare di tutto. Tutto può essere descritto, raccontato, analizzato, e spiegato a voce da un insegnante che fa lezione o in un libro.
 
Ma ci sono anche ragioni più di fondo, almeno per quel che riguarda la tradizione culturale dell’Occidente, che spiegano perché il linguaggio costituisce il pilastro dell’educazione e della formazione. Il linguaggio non è solo il pilastro dell’educazione e della formazione ma è anche il pilastro della concezione che abbiamo dell’uomo. Secondo la Bibbia, “all’inizio era la parola”. Il linguaggio è ciò per cui gli esseri umani sono esseri umani. Gli esseri umani sono diversi dagli altri animali perché hanno la ragione e perché parlano, ma le due cose sono un po’ la stessa cosa se, in greco, “logos”, la ragione, ha la stessa radice di “leghein”, dire. Anche politicamente, il parlare in pubblico per dire e difendere le proprie ragioni ha un ruolo centrale nell’origine della democrazia, un'altra cosa di cui la tradizione culturale dell’Occidente va fiera (Jullien). La filosofia è da sempre analisi e argomentazione linguistica, e lo è in modo particolarmente esplicito in tutte e due le sue varianti novecentesche, la filosofia “analitica”, che è sostanzialmente filosofia linguistica, e la filosofia “continentale”, per la quale “la realtà, nella misura in cui la si può conoscere, è linguaggio” (Gadamer). 
 
 
4. I limiti del linguaggio come strumento di formazione
 
Ma il linguaggio come canale di apprendimento e come strumento di formazione ha anche seri limiti. Un primo limite è dal punto di vista della motivazione ad apprendere. Per molti studenti, giovani e adulti, studiare e imparare sono e rimangono attività noiose, faticose, di per sé non molto motivanti. Dover imparare solo ascoltando lezioni e spiegazioni o leggendo libri e altri testi non fa che rendere il problema della motivazione ancora più serio. Imparare dal linguaggio, orale o scritto, richiede forte concentrazione dell’attenzione, sforzo di stabilire collegamenti tra concetti astratti, passività o addirittura immobilità dal punto di vista fisico, tutte cose che a molti studenti non riescono facilmente, specialmente se non sono accompagnate da nessuna ricompensa esterna immediata, come succede quando si studia e si impara.
 
Un secondo limite del linguaggio come canale di apprendimento è che può facilmente dar luogo ad apprendimenti superficiali, puramente verbali e mnemonici, “appiccicati”, non integrati in quello che lo studente già sa, e quindi facilmente dimenticati, mentre un buon apprendimento richiede comprensione, collegamenti con esperienze precedenti, con cose viste e fatte, con cose dotate di senso per chi impara, e solo in questo modo può lasciare una traccia profonda e permanente nella sua mente. Ma se il canale attraverso cui si impara è solo il linguaggio, questa comprensione e questi collegamenti non si ottengono facilmente.
 
Il terzo limite è che apprendere attraverso il linguaggio presuppone che esista un buon linguaggio, cioè presuppone che chi deve apprendere possegga un vocabolario sufficientemente ampio e una buona capacità e facilità linguistica. Se le cose non stanno così, se chi deve apprendere non possiede un buon vocabolario, esteso e che copra argomenti di tipo intellettuale, e non ha abitudine o propensione al linguaggio, allora studiare attraverso il solo linguaggio non può non creare problemi e produrre apprendimenti limitati.
 
Tutti questi problemi e questi limiti del linguaggio come strumento di studio e di apprendimento oggi sono diventati ancora più seri e più gravi per i cambiamenti che sono avvenuti e stanno avvenendo nella società. Mentre in passato l’educazione era riservata a relativamente pochi individui, in genere provenienti da famiglie che li avevano pre-attrezzati, cognitivamente, linguisticamente e motivazionalmente, a una scuola basata esclusivamente sul linguaggio, oggi la scuola è diventata di massa, cioè rivolta a tutti, che siano in possesso o meno di un buon linguaggio. Inoltre la formazione deve continuare per tutti anche in età adulta perché la società è diventata una “società della conoscenza”, cioè una società in cui le attività lavorative per essere svolte richiedono quantità sempre maggiori di conoscenze e di abilità e il rinnovamento continuo di tali conoscenze e abilità. Ma per ragioni anche solo statistiche, non ci si può aspettare che tutti posseggano una forte motivazione a studiare e sufficienti capacità linguistiche che permettano a tutti di imparare senza problemi da una scuola o comunque da un’attività formativa che insegna solo, o quasi, attraverso il linguaggio.
 
Un altro cambiamento recente che è avvenuto nella società e che rende oggi un apprendimento basato esclusivamente sul linguaggio più problematico di quanto fosse in passato è il crescente spazio che si sono conquistati nella società i mezzi di comunicazione non verbali, ma visivi, interattivi e immersivi, a spese dei mezzi di comunicazione verbali. E’ evidente allora che la scuola e in genere le istituzioni della formazione, in cui il linguaggio verbale è ancora il mezzo di comunicazione prevalente, tendono a diventare ristrette “enclaves” superverbali all’interno di società in cui il linguaggio è sempre più sfidato e in qualche modo ridimensionato dai mezzi di comunicazione non verbali. Questo non può non creare una situazione di difficoltà sia per le istituzioni di formazione che per gli studenti.
 
Con la globalizzazione il linguaggio poi rivela oggi un altro limite. Con la globalizzazione e lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione, in particolare di Internet, diventa possibile e necessario studiare e imparare in ambienti condivisi, in modo collaborativo e aperto alle culture e alle esperienze di popoli lontani. Ma dire linguaggio significa dire lingue diverse, senza possibilità di comprensione reciproca tra chi parla lingue diverse. Quindi il linguaggio e l’apprendere attraverso il solo linguaggio rappresentano un ostacolo alla globalizzazione e all’apprendere in quell’ambiente globale che è Internet. 
 
 
5. Le nuove tecnologie
 
Lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione è stato accompagnato fin dall’inizio da tentativi di usare queste tecnologie per gli scopi dell’apprendimento e della formazione. L’ “istruzione programmata”, le “macchine per insegnare”, gli scrambled books (che non erano altro che ipertesti ancora in forma cartacea) sono stati temi di ricerca e di tentativi di applicazione, almeno negli Stati Uniti, fin dagli anni 60 del secolo scorso, cioè prima della comparsa dei personal computer e quindi della possibilità di usare il computer nella formazione. In ogni caso le risorse tecniche, economiche, scientifiche e culturali che sono state profuse da allora nei tentativi di applicare le nuove tecnologie digitali alla formazione e all’apprendimento sono state considerevoli. Ma quali sono allora i risultati?
 
Qui non è possibile ovviamente fare un bilancio complessivo di quanto le attività di formazione dei diversi tipi e ai diversi livelli siano state effettivamente influenzate dalle nuove tecnologie e di quali siano i risultati ottenuti. La maniera migliore per vedere come le potenzialità di apprendimento del computer siano oggi ancora quasi interamente non realizzate è tornare alla questione iniziale dell’apprendere attraverso il linguaggio e apprendere attraverso l’esperienza.
 
Abbiamo visto che l’apprendere attraverso il linguaggio, su cui pure la scuola si basa quasi esclusivamente da sempre, ha molti limiti, specie con i ragazzi di oggi e nella società di oggi. Ma abbiamo anche visto che l’altro modo di conoscere e capire la realtà, quello basato sull’esperienza del vedere e del fare, non può entrare nella scuola e nella formazione in genere perché, mentre l’apprendimento attraverso il linguaggio richiede che entrino nella scuola e nella formazione in genere soltanto i simboli del linguaggio, l’apprendere attraverso l’esperienza richiede che entri dentro la scuola la complessa realtà che lo studente dovrebbe vedere e su cui dovrebbe poter agire. Questo è impossibile. Il problema appare perciò irrisolvibile. 
 
L’ipotesi su cui si basa il nostro lavoro è che le nuove tecnologie abbiamo la capacità di risolvere questo problema. Le nuove tecnologie digitali della informazione e della comunicazione sono in grado di rendere possibile un apprendimento basato sull’esperienza del vedere e del fare esteso alla maggior parte dei contenuti scolastici e ai diversi contenuti della formazione professionale e aziendale. Se la maggior parte dei fenomeni e aspetti della realtà sui quali lo studente deve apprendere non possono essere portati dentro le quattro mura di un’aula scolastica in modo che lo studente possa vederli e agire su di essi, possono però essere portati nell’aula scolastica in quanto simulati in un computer e lo studente può vederli e agire su di essi attraverso il computer. In questo modo diventa possibile superare i seri limiti di una formazione che utilizzi il solo canale del linguaggio, sfruttare i grandi vantaggi di apprendere dall’esperienza, vedendo e facendo, invece che solo ascoltando e leggendo, e creare una formazione più equilibrata tra componente linguistica e componente del vedere e del fare.
 
 
6. Le simulazioni come strumento di apprendimento
 
Le simulazioni sono prima di tutto strumenti di ricerca per la scienza e di progettazione e realizzazione di artefatti tecnologici e interventi sulla realtà9. Sono ipotesi, modelli, teorie, sui meccanismi e i processi che stanno dietro ai fenomeni e che spiegano i fenomeni. Queste ipotesi vengono tradotte in un programma di computer in maniera tale che quando il programma “gira” nel computer, il programma riproduce i fenomeni, ce li fa vedere sullo schermo del computer mentre avvengono. Ma le simulazioni non sono soltanto un nuovo modo di esprimere o formulare le teorie e le ipotesi nella scienza, al di là dei due modi tradizionali che sono l’uso del comune linguaggio e l’uso dei simboli e delle formule matematiche. Le simulazioni sono anche laboratori sperimentali (virtuali). Una volta costruita, una simulazione permette all’utente di agire sui meccanismi e sui processi che stanno dietro ai fenomeni, sulle variabili e sulle cause del fenomeni, e di osservare le conseguenze di queste sue manipolazioni. Questo è quello che succede nel laboratorio sperimentale, dove lo scienziato riesce a capire meglio i fenomeni perché li osserva in condizioni controllate, li manipola e osserva le conseguenze delle sue manipolazioni. E, come sappiamo, il metodo sperimentale ha permesso alla scienza di fare negli ultimi 3-4 secoli i grandi progressi che tutti conosciamo.
 
Le simulazioni non vanno confuse con le immagini e neppure con le animazioni o i “giochini” o gli esercizi al computer. Costruire una simulazione significa avere elaborato e definito un qualche modello di determinati fenomeni, cioè un insieme di ipotesi su quali sono le cause, i meccanismi e i processi che stanno dietro quei fenomeni e li fanno avvenire, li fanno cambiare nel tempo, fanno in modo che influenzino e siano influenzati da altri fenomeni, ecc. Poi bisogna visualizzare in modo appropriato questi fenomeni, dove visualizzare significa anche e soprattutto rendere visibile quello che nella realtà non è visibile: entità, fenomeni, concetti e ipotesi, che o non sono visibili o sono addirittura astratti e quindi per definizione non visibili. (Ad esempio, bisogna visualizzare non solo un circuito elettrico ma anche il concetto di elettricità). Infine bisogna creare una opportuna “interfaccia”, appropriata agli studenti a cui la simulazione come strumento di apprendimento è destinata, mediante la quale lo studente possa interagire con la simulazione, cioè scegliere i diversi fenomeni e i diversi risultati che vuole vedere, manipolare le variabili e le condizioni che influenzano i fenomeni simulati, cambiare il valore dei parametri, osservare le conseguenze di queste sue azioni sui fenomeni che vede, ottenere dati quantitativi opportunamente sintetizzati in grafici e tabelle. Le simulazioni somigliano ai computer games in quanto si tratta in entrambi i casi di creare mondi artificiali e di permettere all’utente di interagire con questi mondi, entrandoci in qualche modo dentro e agendovi dall’interno10. Per questo le interfacce delle simulazioni possono diventare le interfacce immersive tipiche dei computer games.
 
Le simulazioni sono quindi occasioni di esperienza simulata. Sono un vedere e un fare relativamente a fenomeni simulati dal computer. Messo davanti a una simulazione, chi deve imparare vede riprodotti sullo schermo del computer (ma eventualmente anche in artefatti fisici come i robot) i fenomeni della realtà che deve capire e sui quali deve imparare, li vede mentre avvengono e mentre cambiano, e agisce su tali fenomeni, osservando, come succede nell’esperienza reale, le conseguenze e gli effetti delle sue azioni, e capendo meglio i fenomeni che deve studiare proprio perché vede che rispondono in un certo modo alle sue azioni. Il vantaggio dell’esperienza simulata rispetto all’esperienza reale è che mentre l’esperienza reale non può che essere limitata a pochi fenomeni, piccoli, vicini, semplici, concreti, l’esperienza simulata nel computer può essere estesa a ogni tipo di fenomeni, grandi, lontani, complessi, astratti.
 
I vantaggi che ci si aspettano dall’imparare interagendo con delle simulazioni corrispondono, con segno invertito, agli svantaggi di basarsi sul linguaggio come unico canale di apprendimento: maggiore motivazione in chi deve imparare, migliore comprensione dei fenomeni e dei concetti da imparare, miglior ricordo e integrazione di quello che si è imparato. Chi impara può essere più motivato se interagisce, invece che soltanto con parole sentite o lette, con un mondo visivo che si presenta in modo gradevole, interessante, dinamico, capace di rispondere alle sue azioni, in cui lui o lei può entrare, esplorandolo e agendovi dall’interno. Che deve imparare può capire meglio fenomeni complessi che non siano semplicemente descritti in un testo scritto e spiegazioni complesse che non siano semplicemente formulate a parole, ma siano visualizzati concretamente, in modo dinamico, in modo che rispondano alle sue azioni, in modo che tengano desta e interessata la sua attenzione. Chi impara può ricordare meglio quello che ha imparato se quello di cui ha fatto esperienza non sono soltanto suoni e segni scritti, ma cose viste, cambiamenti osservati e capiti, modi in cui le cose rispondono a quello che lui o lei fa.
 
Ovviamente, se la formazione fino ad oggi (anche quando usa come contenitori le nuove tecnologie) è una formazione che si serve, diciamo, per il 90% del linguaggio e solo per il 10% di altri canali di apprendimento, quello a cui bisogna puntare non è una formazione che inverta questi valori, abolendo o mettendo da parte il linguaggio, ma è una formazione che realizzi un apprendimento equilibrato, diciamo così con un 50% di linguaggio e un 50% di vedere e fare. L’interazione eminentemente non linguistica di chi deve imparare con una simulazione deve essere integrata dal linguaggio verbale che arriva dai testi letti e dalle parole dell’insegnante o del tutor, o anche dallo stesso computer. In questo modo, da un lato le parole possono essere riempite di significato e non restare soltanto parole, in quanto vengono associate con le cose viste e fatte nelle simulazioni (non si dimentichi che il bambino impara a parlare a uno-due anni in quanto usa e sente le parole usate in contesti di cose viste e cose fatte, e soltanto a scuola si pretende che il linguaggio viva da solo, senza l’accompagnamento dell’esperienza), e dall’altro le cose viste e fatte nelle simulazioni possono essere portate al livello della coscienza esplicita, dell’astrazione, del ragionamento e della discussione con gli altri, proprio in quanto vengono espresse linguisticamente.
 
 
7. Un esempio concreto di simulazione: simulare la globalizzazione culturale
 
Uno degli obiettivi di questa ricerca è stato la realizzazione di un modello di simulazione relativo ad uno specifico fenomeno: la globalizzazione culturale. Tale modello può essere utilizzato da un utente come strumento per apprendere, cioè per conoscere e capire meglio il fenomeno che è oggetto della simulazione. La simulazione, come si è detto, è accessibile in rete all’indirizzo: http:gral.ip.rm.cnr./Global/GlobalHome.html.
 
Il fenomeno della globalizzazione culturale, cioè dell’emergere di un’unica cultura globale al livello dell’intera Terra, è uno dei fenomeni più importanti che ha presso l’avvio negli ultimi decenni del XX secolo e che caratterizzerà sempre di più il XXI secolo. Si tratta di un fenomeno dalle molte ramificazioni e che fa sentire la sua influenza su ogni aspetto della vita sociale, economica, lavorativa, e personale di ogni essere umano che viva oggi sulla Terra. Quindi è un fenomeno che dovrebbe essere conosciuto e capito da tutti e in particolare da chi intraprende oggi una attività di formazione ed è alla ricerca di un suo posto nella società. 
 
Per realizzare la simulazione della globalizzazione culturale si è reso necessario disporre di un modello di questo fenomeno, dato che una simulazione non è che un modello di un dato fenomeno tradotto in un programma di computer. Come ogni modello, il modello della globalizzazione semplifica rispetto alla complessità e alla varietà dei fenomeni reali, e ci permette di capire meglio i fenomeni reali proprio perché li semplifica cercando di individuare i meccanismi e processi essenziali che stanno dietro ai fenomeni e li spiegano.
 
Il modello parte dall’esistenza di un certo numero di individui. Ciascun individuo ha un insieme di modi di comportarsi, di valori, e di artefatti della tecnologia, che costituiscono la cultura dell’individuo in quel particolare momento. La cultura di ciascun individuo viene rappresentata nel modello come una sequenza binaria di 1 e di 0, cioè in pratica come un insieme di caratteristiche ciascuna delle quali può essere presente (1) oppure assente (0) in quel particolare individuo. La lunghezza della sequenza è uguale in tutti gli individui ma può variare da una simulazione all’altra, ed è quindi un parametro che può essere deciso di volta in volta dall’utente della simulazione. All’inizio ad ogni individuo viene assegnata una sequenza casuale di 1 e di 0. Questa casualità iniziale rispecchia il fatto che nel modello non è importante il contenuto specifico di una cultura ma la dinamica del cambiamento culturale che emerge quando la simulazione comincia a “girare”. 
 
La simulazione rappresenta infatti un processo in corso. Il processo viene rappresentato come una successione di cicli di aggiornamento. In ogni ciclo, la cultura di ogni determinato individuo viene aggiornata, cioè viene modificata in funzione delle influenze culturali provenienti dagli altri individui con cui l’individuo interagisce. Come avviene questo aggiornamento? Il modello offre una varietà di regole diverse in base alle quali la cultura di ogni particolare individuo viene modificata in funzione della cultura degli altri individui con cui l’individuo interagisce. L’applicazione di regole di modificazione culturale differenti dà luogo a risultati differenti, e l’utente può scegliere la specifica regola da applicare per rendersi conto degli specifici effetti di ogni regola.
 
Per studiare e capire meglio i diversi fenomeni ed i diversi fattori e meccanismi della simulazione, l’utente ha a disposizione dei comandi che gli permettono di variare una serie di parametri e di condizioni in modo da scoprire i loro possibili effetti. L’utente può variare il numero complessivo di individui coinvolti nella simulazione e la rete di collegamenti, cioè di possibilità di interazione, tra gli individui. Manovrando quest’ultima variabile, cioè la rete dei collegamenti tra gli individui, l’utente può creare varie condizioni interessanti. Innanzitutto può decidere se e quanti sono i gruppi di individui senza collegamenti tra loro, e quindi quante sono le potenziali comunità culturali. Poi può decidere quale è la rete dei collegamenti all’interno dei ciascun gruppo. Il tipo di rete di collegamenti può essere una variabile importante nel determinare la dinamica dei cambiamenti culturali. Possono variare (1) il numero medio di collegamenti che ha ciascun individuo: ciascun individuo può essere collegato in media con pochi altri individui, oppure, nel caso estremo opposto, ogni individuo può essere collegato con tutti gli altri individui; (2) il tipo di distribuzione dei collegamenti: pochi individui possono avere molti collegamenti e molti individui pochi collegamenti, oppure ogni individuo può avere più o meno lo stesso numero di collegamenti di ogni altro individuo.
 
Il modificarsi nel tempo della cultura di ogni singolo individuo e quindi, eventualmente, della cultura di una intera comunità culturale, non dipende unicamente dalle influenze e dalla assimilazioni che si realizzano tra individui che interagiscono tra loro. Come si è detto, vi sono infatti mutamenti connessi ai modelli di comportamento, ai valori, agli artefatti tecnologici. Naturalmente anche le innovazioni legate a questi fattori si propagano nella comunità attraverso il meccanismo dell’assimilazione culturale. In assenza di modificazioni intrinseche la dinamica del cambiamento culturale all’interno di un gruppo di individui collegati tra loro può portare a lungo andare a una situazione “congelata” in cui non ci sono più modificazioni culturali. Invece, l’aggiunta di un determinato tasso di innovazione mantiene la situazione in uno stato di permanente mobilità culturale che, attraverso le interazioni tra gli individui, può dar luogo a cambiamenti collettivi, magari anche molto tempo dopo che l’innovazione è stata realizzata da un singolo individuo.
 
E’ evidente che con fenomeni di questo tipo ci avviciniamo alla globalizzazione culturale. Un certo numero di comunità culturali partono diverse ma poi, aumentando le possibilità di interazione tra individui appartenenti a comunità differenti, progressivamente si diffonde un’unica cultura al livello globale. L’utente della simulazione ha la possibilità di studiare le condizioni in cui questo avviene, i fattori che possono accelerare o ritardare la omogeneizzazione culturale, che cosa fa si’ che la cultura globale che può emergere sia una cultura nuova oppure sia, fondamentalmente, la cultura originaria di una delle comunità che si è diffusa su scala globale.
 
Un altro aspetto della variabile “rete dei collegamenti” è se la rete dei collegamenti rispetta vincoli spaziali in senso fisico oppure no. E’ possibile fare l’ipotesi che nelle comunità umane del passato lo spazio fisico dettasse le possibilità di interazione e quindi di assimilazione culturale tra gli individui. Solo individui che vivevano tra loro vicini nello spazio avevano la possibilità di interagire tra di loro e quindi di assimilarsi culturalmente. Questa non era una legge senza eccezioni dato che le migrazioni, le colonizzazioni, i commerci e le conquiste militari, creavano le condizioni per cui individui che erano vissuti fino a un certo momento lontani tra loro nello spazio potessero interagire tra loro e influenzarsi culturalmente. Tuttavia, le interazioni tra individui tendevano a rimanere vincolate dalla vicinanza fisica e non esistevano interazioni e quindi possibilità di assimilazione tra individui che vivevano spazialmente lontani. 
 
La simulazione, da noi realizzata, permette di esplorare l’ipotesi che la globalizzazione culturale oggi emergente sia, a differenza di quanto avveniva in passato, in buona misura il risultato del passaggio da reti di interazione vincolate dallo spazio fisico a reti di interazione che non hanno vincoli di vicinanza spaziale. In passato i vincoli di vicinanza spaziale nelle interazioni facevano in modo che le comunità culturali emergessero all’interno di gruppi di individui che vivevano vicini tra loro nello spazio. Distanze fisiche e ostacoli naturali o politici che creavano confini per le comunità culturali producevano come risultato l’esistenza di una pluralità di comunità culturali diverse. Negli ultimi decenni il crescere degli scambi internazionali e l’emergere delle aziende multinazionali, da un lato, gli sviluppi nelle tecnologie di trasporto delle cose, delle persone e delle informazioni, dall’altro, hanno reso possibili e moltiplicato le interazioni tra individui che non vivono vicini tra loro nello spazio. Queste interazioni possono avvenire per vicinanza fisica temporanea (viaggi per lavoro, turismo) ma possono avvenire a distanza per il tramite delle tecnologie della comunicazione o possono essere mediate dal fatto di usare gli stessi artefatti tecnologici e servizi. L’aumento delle interazioni tra individui che vivono lontani tra loro possono modificare la dinamica del cambiamento culturale all’interno di una comunità culturale e possono dar luogo a influenze e assimilazioni culturali a livello dell’intera Terra che lasciano intravedere l’emergere di una cultura globale comune.
 
La simulazione rende possibile esplorare i possibili esiti dei processi in corso attraverso la manipolazione dei diversi fattori e delle diverse condizioni che possono avere un ruolo nei processi di influenza e assimilazione culturale tra comunità culturali inizialmente differenti. Quale è il ruolo del numero di individui di ciascuna comunità culturale nel determinare l’esito di processi di influenza culturale tra le comunità? Quale è il ruolo della struttura della rete di interazioni all’interno di ciascuna comunità? Quale è il ruolo della regola che governa l’assimilazione tra individui? Quale è il ruolo del passaggio da reti di interazioni vincolate spazialmente a reti di interazioni non vincolate spazialmente? 
 
Un importante problema sollevato dalla globalizzazione culturale è se la globalizzazione culturale consiste nel diffondersi al livello dell’intero pianeta di una particolare cultura, quella occidentale, oppure se la cultura globale che andrà emergendo sarà una cultura nuova derivata dalle diverse culture esistenti sulla Terra fino ad oggi ma non identificabile con nessuna di tali culture. Ovviamente è possibile ipotizzare una serie di esiti intermedi. Ad esempio la cultura occidentale potrebbe estendersi al livello globale ma, integrandosi con elementi delle diverse culture locali, potrebbe dar luogo a varianti locali sufficientemente differenti tra loro da costituire nuove culture. 
 
Quest’ultimo problema, se cioè la globalizzazione culturale sarà occidentalizzazione del mondo oppure no - in altre parole, se le influenze culturali saranno unidirezionali o multidirezionali - può essere studiato introducendo nella simulazione un nuovo parametro (ancora non incluso nella presente versione della simulazione): la forza della influenza culturale. Nel modello finora descritto abbiamo assunto che, se due individui hanno possibilità di interagire tra di loro, l’influenza e l’assimilazione culturale è perfettamente reciproca. Una variante del modello consente all’utente della simulazione di assegnare una forza quantitativa dell’influenza culturale che un individuo A esercita sull’individuo B con cui interagisce, forza che ovviamente può essere diversa sia da A a B che da B a A. Il realizzarsi della globalizzazione culturale come occidentalizzazione, o come essenzialmente occidentalizzazione, può essere legato a una maggiore forza di influenza culturale della comunità culturale occidentale sulle altre comunità, maggiore forza che può avere cause economiche, politiche, tecnologiche e organizzative.
 
*  Per la redazione di questo articolo Dunia Pepe ha scritto i paragrafi 1 e 2; Domenico Parisi ha scritto i paragrafi 3, 4, 5, 6, 7. La ricerca, da cui l’articolo è tratto, è in corso di pubblicazione a cura di D. Denaro, C. Montedoro, D. Parisi e D. Pepe, La simulazione nella formazione a distanza: modelli di apprendimento nella knowledge society, Isfol, Roma.
 
Note
 
1 Alberici, A. (2002), "Per una pratica riflessiva integrata. La progettazione curricolare orientata alle competenze nella dimensione del lifelong learning". In C. Montedoro (a cura di), Le dimensioni metacurricolari dell'agire formativo. Franco Angeli, Milano.
2 Parisi, D. (2000), Parisi, D. (2000). Scuol@it. Mondadori, Milano, p. 41.
3 Ivi, p. 54.
4 Ivi, p. 59.
5 Ivi, p. 72.
6 Ivi, pp. 59 - 60.
7 Parisi, D. (2001), Simulazioni, Il Mulino, Bologna, p. 277.
8 Ivi, p. 257.
9 Parisi, D. (2000), op. cit. 
10 Antinucci, F. (2002), La scuola si è rotta, Laterza, Bari. 
 
 
Bibliografia
 
AAVV (2004). Apprendimento di competenze strategiche. L’innovazione dei processi formativi nella società della conoscenza, Franco Angeli, Milano.
Alberici, A. (1999), Imparare sempre nella società conoscitiva, Paravia, Torino. 
Angrist, J. E Lavy, V. (2002). “New evidence on classroom computers and pupil learning”. In The Economic Journal, n. 112, pp. 735-765.
Antinucci, F (2002). La scuola si è rotta. Laterza, Bari.
Delors, J. (1997), Nell'educazione un tesoro, Armando, Roma.
Drucker, P.F (2002). Le sfide di management del XXI secolo. Franco Angeli, Milano.
Lipari, D. (2002). Logiche di azione formativa nelle organizzazioni, Guerini e associati, Milano.
Manca, S. & Sarti, L. (2002). "Comunità virtuali per l'apprendimento e nuove tecnologie". In TD, N. 25, pp. 11 - 19.
Montedoro, C. (2002). Introduzione a C. Montedoro (a cura di). Le dimensioni metacurricolari dell'agire formativo. Franco Angeli, Milano.
Norris, C., Soloway, E., Sullivan, T. (2002) “Examining 25 years of technology in U.S. education”. In Communications of the Association for Computing Machinery, n. 45, pp.15-18.
Parisi, D. (2000). Scuol@it. Mondadori, Milano.
Parisi, D. (2001). Simulazioni. La realtà rifatta nel computer. Il Mulino, Bologna.
Pepe, D. (1997). La psicologia di Piaget nella cultura e nella società Italiane. Franco Angeli, Milano.
Piaget, J. (1967). Logique et connaissance scientifique, Gallimard, Paris.
Pilati, A. (2000). Prefazione a Th. Davenport e L. Prusak. Il sapere al lavoro. Etas, Milano.
Trentin, G (2001). Dalla formazione a distanza all'apprendimento in rete. Franco Angeli, Milano.
Varchetta, G. (2001a). "Tracce per una formazione ri-unificata". In A. Fontana (a cura di). Lavorare con la conoscenza. Guerini & Associati, Milano. 
 
 
 
 

*In “Formazione & Cambiamento”, nuova serie, numero 8, 2017
 

L’Art of Hosting è una metodologia altamente efficace per sfruttare la saggezza collettiva e la capacità di auto-organizzazione di gruppi di qualsiasi dimensione.
Sulla base dell'assunto che le persone diano la propria energia e prestino le proprie risorse a ciò che conta di più - in un lavoro come nella vita -, l'Art of Hosting mescola una serie di potenti processi di conversazione per invitare le persone a intervenire e affrontare le sfide che si presentano loro. Si focalizza, quindi, sull’invito a partecipare a conversazioni strategiche come driver per lo sviluppo e il cambiamento.

Più che una di serie di metodi, qui parliamo di una pratica. La chiamiamo l'Art of Hosting, perché è un'arte che ci fa diventare abili nell'aiutare noi stessi e gli altri a lavorare bene insieme, soprattutto in questi tempi di crescente complessità. Parliamo di 'hosting', perché ciò che viene offerto, ‘ospitato’, qui non è una tipica facilitazione o la moderazione di una sessione di lavoro. Qui si dà massima attenzione e cura a tutti gli aspetti del lavoro delle persone, intendendo aiutarli a svolgere con successo il lavoro comune, proprio come fa ogni persona che, accogliendo gli ospiti, assicura loro di avere tutto il necessario per rendere piacevole e feconda la loro visita.

L'Art of hosting conversations that matter, prende in considerazione l'intero processo - tutti i preparativi prima che i partecipanti si riuniscano, cosa succede mentre lavorano insieme e come i risultati della loro conversazione - il ‘raccolto’ (gathering) - sostengono passi successivi coerenti con il loro scopo e il loro contesto.

L'hosting è un modello e una pratica che ci permette di incontrare la nostra umanità in noi stessi e in ciascun altro - al contrario che cercare di essere macchine impersonali, quando ci incontriamo. E’ qualcosa che riguarda il diventare esperti su come promuovere relazioni, come alimentare la crescita e lo sviluppo. L'Art of Hosting, riunendo un insieme sciolto di strumenti, mappe, modelli e pratiche favorisce il pensare l'’intero’. Il dialogo è utilizzato per lavorare con la diversità per creare soluzioni emergenti, per mantenere confortevolmente i gruppi e le comunità nell'incertezza e nel timore del non sapere, per darsi il tempo di concordare, prototipare e progettare azioni sagge.

Si tratta di pratiche che abbracciano la complessità, sostengono la leadership individuale e collettiva e la resilienza in tempi di cambiamento, incertezza e paura. Alcune di loro vengono percepite come ‘nuove’quando invece, spesso, sono molto antiche: risalgono a quando abbiamo scoperto il fuoco, abbiamo cominciato a riunirci in cerchio e a formare i sistemi sociali. Come ha scritto Christina Baldwin: "Il cerchio è stato il cambiamento di paradigma alle fondamenta della nostra evoluzione umana e la conversazione collaborativa è il cambiamento paradigmatico che impedirà la nostra estinzione".

L'Art of Hosting lavora con una vasta gamma di metodi collaborativi - come Circle, World Café, Appreciative Inquiry, Open Space Technology, Pro Action Café, Storytelling e altro ancora. Ciascun professionista può adattare l'approccio al contesto e allo scopo.

Non potendo illustrare tutti i metodi citati, qui dedicheremo qualche parola al World Cafè e al Pro Action Cafè, rimandando all’articolo di Vito Garramone in questo stesso numero per l’Open Space Tecnology e immaginando più noti gli altri metodi citati.

world café guidelines.jpg

Cos'è, quindi, il World Café? E’ un metodo semplice per connettere i diversi modi di guardare a un determinato tema e sviluppare un pensiero comune più ampio e sfaccettato di quello che ciascuno singolarmente può avere. E' un metodo 'emerso' nel 1995, all'interno di un piccolo gruppo di uomini e donne di business e professori universitari, che si incontravano a casa di Juanita Brown e David Isaacs nella Mill Valley in California e che è rapidamente diventato un approccio, diffuso in tutto il mondo tra decine di migliaia di persone, che viene utilizzato per coinvolgere gruppi piccoli, grandi o grandissimi di persone, in discussioni che riguardano profondamente la vita di una comunità, o di un gran numero dei suoi membri, consentendo a tutti di partecipare portando il proprio contributo.

Il metodo del World Café è stato creato, infatti, per rispondere in maniera creativa e concreta principalmente a due domande fondamentali:

  • come possiamo migliorare la nostra capacità di parlare e pensare insieme in maniera più profonda sui temi più critici che la nostra collettività si trova ad affrontare?
  • come possiamo avere accesso all’intelligenza collettiva e alla saggezza necessarie per creare o percorrere le nuove strade che si aprono?

Presupposti del World Café sono:

  • la convinzione e la fiducia che tutte le persone abbiano già, dentro di loro, la saggezza e la creatività per affrontare anche le sfide più difficili
  • la consapevolezza che le conversazioni sono il modo più naturale attraverso il quale le persone scoprono cosa sanno e lo scambiano con gli altri e che, in questo processo, si crea nuova conoscenza per l’intera comunità o organizzazione
  • la creazione di uno spazio accogliente dà sicurezza e incoraggia la conversazione. Quando le persone sono a proprio agio pensano, ascoltano e parlano nel modo più creativo.

La principale caratteristica del World Café, quindi,  è quella di essere un 'contenitore' molto curato, un ambiente informale in cui le persone sono invitate a prendere spontaneamente parte ad una conversazione, aggregandosi in piccoli gruppi variabili e sollecitati con opportune domande, a dare il proprio contributo condividendo idee e riflessioni su un dato argomento.

Uno degli elementi realmente in grado di fare la differenza, pertanto, è la qualità dell’accoglienza. Per questo il facilitatore deve aver cura di trovare e allestire uno spazio che faccia sentire i partecipanti a proprio agio, in un clima in cui possano esprimersi liberamente e che stimoli il fluire dei loro pensieri. Anche i dettagli fisici dell’ambiente - l’arredamento, i colori, la disposizione degli oggetti – quindi, rivestono un ruolo non secondario. Tutto viene accuratamente valutato per creare la giusta atmosfera.

Il World Café è soprattutto un esercizio di esplorazione e di analisi di tematiche importanti con l’intenzione di arrivare alla 'scoperta' di proposte e soluzioni efficaci attraverso la contaminazione reciproca di idee, esperienze, riflessioni.
Fondamentale è che i partecipanti abbiano subito molto chiaro il motivo e la finalità della conversazione in cui saranno coinvolti. Condividere il 'perché' si è lì insieme è la base di partenza della condivisione.

Nella pratica dialogica - in una condizione di giocosa serenità e di confronto aperto e non giudicante - l’apporto di ognuno è determinante per pervenire, attraverso la combinazione dei contributi di tutti i partecipanti, a un pensiero 'nuovo' frutto del lavoro 'comune'.
La domanda è uno strumento centrale e il facilitatore avrà cura di formulare quelle più opportune affinché il dialogo possa essere profondamente generativo.

Per favorire la più ampia connessione tra le persone, la trasmissione di idee viene agevolata anche attraverso il movimento nello spazio e l’aggregazione reiterata in piccoli gruppi - 'tavoli' - diversi nel corso dell’incontro. Una delle peculiarità del World Café è, infatti, quella prevedere tre diversi round di conversazione a seguito di una domanda e di cambiare tavolo - e quindi interlocutori - a ogni domanda. In questo modo ciascuna persona presente si arricchisce delle riflessioni di un gran numero di altri partecipanti pur intrattenendo singole conversazioni in gruppi molto piccoli. In essi, proprio in virtù della dimensione, lo scambio diventa molto semplice ed effettivo.

In ciascun tavolo, un ruolo cruciale viene svolto da uno dei partecipanti alla prima conversazione che si mette al servizio degli altri accettando di essere l’ 'host del tavolo'. E’ l’unico che non cambia tavolo, raccogliendo, in tal modo, una gran varietà di punti di vista. Accogliendo, di volta in volta, i nuovi venuti, sintetizza loro quanto emerso dalla conversazione precedente favorendo così la condivisione tra tutti i partecipanti che, riconoscendosi come parte di un 'tutto', si influenzano reciprocamente facendo fluire il dialogo.

L’host, inoltre, ha anche il compito di incoraggiare i partecipanti a entrare nella conversazione, sempre nel pieno rispetto della volontà di ognuno di farlo e in quale misura. Il tavolo, poi, può essere dotato di alcuni particolari 'dispositivi' - per la gestione del tempo, delle obiezioni, della partecipazione - che agevolano l’attività.
Grazie alla pratica costante dell’ascolto condiviso, durante la quale emerge un’abbondanza riflessioni sulle tematiche scelte, si realizza una connessione di alto livello tra tutti e dopo alcune fasi di conversazione, ciascuna sollecitata da una buona domanda, il gruppo è pronto per una sintesi di quanto emerso dai diversi 'tavoli' e per un dialogo, realmente partecipato, che lo coinvolga nel suo insieme.

Il Pro Action Café, invece, è una miscela di due metodi: World Café e Open Space Technology. E’ stata ideata da Rainer von Leoprechting e Ria Baeck a Bruxelles per lavorare con gruppi della Commissione Europea.
Come processo conversazionale, il Pro Action Café è una metodologia innovativa collettiva, per ‘ospitare’ conversazioni su questioni e progetti che riguardano le persone che partecipano.
Queste conversazioni si collegano e si costruiscono l'una sull'altra mentre i partecipanti si muovono tra i tavoli generando una spontanea cross-impollination.
In tal modo ci si offre reciprocamente nuove viste e nuovi approfondimenti sui temi e sui problemi che sono sentiti  come più importanti nella propria vita, nel lavoro, nelle organizzazioni e comunità.

Pro Action Cafè.jpg

Come processo, il Pro Action Café evoca e rende visibile l'intelligenza collettiva di qualsiasi gruppo, aumentando così la capacità delle persone di agire in modo efficace nel perseguimento del proprio obiettivo o nella realizzazione del proprio progetto.
Fondamentale, per la buona riuscita di un Pro Action Café è che ciascun ‘case giver’ – la persona che ospiterà al suo tavolo la conversazione sulla questione o il progetto che le sta a cuore – abbia molto chiaro qual è il tema su cui vuole effettuare un approfondimento, attraverso la conversazione con i partecipanti che si avvicenderanno al suo tavolo, e sia in grado di esporlo con chiarezza in non più di 2 minuti nella presentazione in plenaria dei diversi tavoli che introdurrà la sessione di lavoro in piccoli gruppi.
La presentazione è cruciale perché al tavolo arrivino le persone realmente interessate e utili e per questo va adeguatamente preparata.

Il Pro Action Cafè si propone come una metodologia tesa a costruire un ‘ponte creativo’ tra i soggetti portatori di un'idea (Case giver/Host) e i soggetti sensibili al tema proposto (partecipanti).
Ogni Host,  dopo aver proposto il proprio progetto a tutti i partecipanti in plenaria, siederà a un tavolo al quale lo raggiungeranno - per 3 round di conversazione e cambiando tavolo alla fine di ogni round – i partecipanti interessati al suo progetto/questione  e/o che ritengono di avere un contributo utile da portare e che, pertanto, dialogheranno  con l'Host e tra loro in maniera interattiva e informale.
La modalità ‘conversazione’ consente di condividere le difficoltà nello sviluppo di un progetto, di mettere al vaglio delle idee, di avere uno sguardo più ampio e ‘vergine’ sul progetto, di ricevere spunti creativi e di soluzione  ai problemi , ‘mettendo al lavoro’ un'intelligenza collettiva diversificata e orientata all'azione.

La metodologia, a differenza che nel World Café dove le domande sono pensate ad hoc per quella specifica conversazione, prevede che i tre round siano dedicati a rispondere a domande fisse. Queste sono:

  1. Qual è la finalità, l’obiettivo, la motivazione profonda che dà senso/sostiene l’idea/progetto? Ogni partecipante è invitato a sollecitare l'Host del tavolo a esplicitare ( e quindi a riflettere più profondamente su) quale sia il significato più profondo o quale il senso più generale della questione e cosa, in essa, lo ‘interroghi’
  2. Cosa manca (cosa renderebbe il quadro più completo, quali sono prospettive o opzioni non ancora considerate, ecc.)? Una domanda di scoperta una volta che la ricerca è stata ridefinita, per far emergere cosa può rendere l'immagine più completa
  3. Quale potrebbe essere lo step successivo? Come implementare il progetto?  Il terzo turno è per gli host il momento di consolidare i loro apprendimenti per procedere verso l’azione - Cosa ho imparato? Quali passi successivi intraprenderò? Il pensiero è sull’azione.

Al termine delle conversazioni ogni Host ha qualche minuto in plenaria per raccontare cosa è emerso dalle conversazioni tenutesi al suo tavolo per condividere tra tutti, tutte le conversazioni.

Come processi di conversazione, il World Café e il Pro Action Café sono metodologie innovative e semplici per ‘ospitare conversazioni’ su domande e progetti che interessano le persone che partecipano. Queste conversazioni si collegano e si fondono l'una sull'altra, mentre le persone si muovono tra i gruppi, incrociano le idee e scoprono nuovi approfondimenti sulle domande o sui problemi più importanti nella loro vita, lavoro o comunità.

Come nella tecnologia Open Space, gli argomenti vengono portati avanti dai partecipanti. Non esiste un ordine del giorno, solo questioni generali di guida, con l'intento di approfondire il processo di apprendimento di tutti i partecipanti. In questo modo viene evocata e resa visibile l'intelligenza collettiva di ogni gruppo, aumentando così la capacità delle persone di intraprendere azioni efficaci per perseguire obiettivi comuni. Ciò significa che durante questo evento partecipiamo a diversi argomenti di conversazione.

A seconda dello scopo, un World Café o un Pro Action Café possono prevedere un invito aperto a un numero elevato di persone o possono essere utilizzati come metodologia per un gruppo, un'organizzazione o una comunità specifici, per impegnarsi in una conversazione creativa e ispiratrice. In particolare in questo secondo modo, si rivelano ottimi strumenti per favorire la convergenza delle idee e l'adozione di azioni concrete.

Per concludere: quali sono i punti di forza di questi metodi che fannno si che siano sempre più adottati nel mondo per realizzare ‘conversations that matter’:

  • la brevità (con un centinaio di persone bastano poco più di due ore) e la velocità di produzione di idee
  • la capacità di creare in pochi momenti un'atmosfera calda e informale che favorisce l'espressione di tutte le intelligenze
  • l'orizzontalità della relazione e il coinvolgimento di tutti: ciascuno può e vuole esprimere il proprio pensiero
  • la possibilità di far emergere ciò a cui le persone tengono veramente
  • il fluire vivace e armonioso del dialogo in un modo che riesce a far diventare generativi anche i conflitti
  • la ricchezza incredibile degli output, che li colloca tra i metodi più generativamente produttivi
  • lo stupore e il benessere che vivono i partecipanti.


Bibliografia:

Christina Baldwin, Calling the Circle, Bantam Books 1994
Peter Block, Community: The Structure of Belonging, Berret Koheler Publishers, 2008
Margaret Wheatley, Finding Our Way, Berret Koheler Publishers, 2005
Harrison Owen, Open Space Technology, Berret Koheler Publishers, 2008
Juanita Brown and David Isaacs, The World Cafe, Shaping Our Futures Through Conversations That Matter, Berret Koheler Publishers, 2005

*In “Formazione & Cambiamento”, nuova serie, numero  5, 2017

 

È dall'invenzione delle parole, dei graffiti rupestri, della scrittura e poi delle tavolette d'argilla, che la produzione, la conservazione e la diffusione della conoscenza fanno uso di tecnologie. È per questo che la discussione "tecnologia sì/tecnologia no" è del tutto priva di senso. Quelli che "sono contrario al computer", stanno semplicemente preferendo una tecnologia a un'altra.
Dalle tecnologie non si può prescindere: per quelli che hanno a che fare con la conoscenza (cioè tutti) si tratta di un fattore determinante che separa il possibile dall'impossibile.
Tutto come sempre, allora? Non proprio: qualcosa di nuovo è accaduto.
Fino a pochi decenni fa, le tecnologie delimitavano un recinto piuttosto ristretto, che si allargava con grande lentezza. Nell'antichità e fino alla diffusione di massa della stampa, per trasmettere i concetti chiave della religione (e della ragion di Stato) era necessario costruire un tempio e riempirlo di statue, mosaici e affreschi. La diffusione di papiri, pergamene e altri codici era limitata a poche élite, mentre gli altri non sapevano leggere. La musica, poi, era solo dal vivo.
È andata molto meglio con la penna, la stampa, la radio, il cinema, il grammofono e, infine, la televisione. Tutte tecnologie che "formatori" del tempo hanno potuto assimilare con la dovuta lentezza, in decenni di pratica, senza salti generazionali troppo evidenti (qualcuno ha mai visto citare nelle cronache dell'epoca il concetto di "nativo radiofonico"?).
All'interno del "recinto del possibile", tecnologie e metodi progredivano insieme senza strappi evidenti, con i formatori che avevano il tempo di inventare, sperimentare e raffinare qualcosa di nuovo (anche radicalmente nuovo, come il metodo Montessori) in un mondo relativamente stabile.
Quando iniziavo ad andare a scuola, la penna i libri e i quaderni erano di uso comune, mentre i "sussidi audiovisivi" cominciavano ad affacciarsi, ma piano piano: un giradischi (per tutta la scuola), un proiettore (nell'apposita sala) e un televisore (nell'ufficio del preside). Niente che richiedesse (o consentisse) una nuova didattica.


Rifiuto e vecchi metodi
Con l'informatica, la telematica e infine i dispositivi mobili è cambiato tutto. Il recinto si è allargato vertiginosamente e in pochissimo tempo, spiazzando tutti. Producendo i due fenomeni che vediamo ogni giorno sotto i nostri occhi:

  •  il rifiuto di usare tecnologie sempre nuove;
  •  il loro impiego con i metodi vecchi.

Il rifiuto
Ricordo un vecchio (allora) e bravissimo professore di elettronica che sosteneva che "la calcolatrice serve solo a fare le addizioni". Per tutto il resto bisognava usare il regolo calcolatore (chi se lo ricorda?). Un atteggiamento del genere è comprensibile, ma non giustificato: chi vuole fare il professionista dell'apprendimento deve essere un buon apprenditore.
Vecchi metodi con nuovi strumenti
Come quando vediamo usare potentissimi strumenti interattivi e multimediali per presentare lunghissime sequenze di slide spacciate per contenuti digitali. Qui il problema è serio, ma l'atteggiamento è più comprensibile, perché per inventare nuovi metodi ci vuole tempo. E ci vuole un'attitudine all'innovazione metodologica continua che i formatori, per la loro storia millenaria, non sono abituati a coltivare.
Oggi abbiamo già territori sterminati da esplorare e altri la tecnologia promette (o minaccia, a seconda dei punti di vista) di aprirne in futuro. Siamo in arretrato e non possiamo nemmeno fermarci a smaltirlo.

In questo numero
Che si fa? Questo numero di Formazione & Cambiamento ha una proposta: portiamoci avanti col lavoro. Cerchiamo di andare oltre il recinto attuale, per immaginare il futuro (almeno il futuro prossimo) delle tecnologie per l'apprendimento.
Abbiamo chiesto a quelli che se ne occupano quotidianamente (ricercatori, consulenti e persone d'azienda) di rispondere brevemente a due domande:

  1. Quale sarà lo sviluppo più significativo (tecnologico, metodologico, organizzativo o una loro combinazione) del Technology Enhanced Learning nei prossimi due anni?
  2. Cosa state facendo concretamente (o intendete fare a breve) per favorire questo sviluppo o integrarlo nel vostro lavoro?

Poi, per arricchire il quadro, abbiamo aggiunto tre contributi sulle competenze digitali nella scuola, sulla pianificazione formativa nella Regione Lazio e sulla transizione dei giovani al lavoro. E, infine, un "controcanto" che sottolinea il pericolo di cercare l'innovazione tecnologica in sé, senza un metodo che la renda efficace. Molti degli articoli hanno a corredo una bibliografia (a volte una "infografia"), con link a siti e documenti che consentono di andare a fondo nelle argomentazioni e nelle visioni.
Da tutto l'insieme emerge che i futuri possibili sono diversi, ma con importanti punti in comune. Uno scenario che aiuterà tutti noi a pensare e, visto che abbiamo due anni di tempo, a prepararci con un po' di anticipo.

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