Sono Rebecca, 25 anni a maggio, da poco laureata in giurisprudenza. Vivo a Lucca, piccola città vicino Pisa dove ho frequentato l’università. È stato proprio grazie all’Università di Pisa che ho avuto la possibilità di sentirmi “cittadina europea”. Il progetto Erasmus, infatti, mi ha concesso di frequentare per nove mesi un’università straniera.
La meta da me prescelta è stata l’Inghilterra, Birmingham, più precisamente. A spingermi a fare domanda sono stati un insieme di fattori: la volontà di apprendere finalmente bene l’inglese, a cui si univa la voglia di vivere un anno da sola, la curiosità per i metodi di studio usati fuori dall’Italia e l’obiettivo, per me fondamentale, di non rimanere indietro con gli esami.
Man mano che il giorno della partenza si avvicinava però la paura e l’ansia aumentavano. Avevo l’idea di aver fatto la scelta sbagliata: trascorrere un anno all’ estero poteva non essere poi così valido per il mio futuro. E poi c'era la paura di stare lontano da amici e famiglia per così lungo tempo.

Il giorno in cui sono atterrata a Birmingham mi sentivo sperduta, nella mia mente avrei trovato all’aeroporto un “comitato di benvenuto” e, invece, non c’era nessuno! Così, da sola, con tre valige che contenevano “l’indispensabile” per un anno di viaggio, mi sono diretta – impresa tutt’altro che facile – alla ricerca di un taxi e da lì all’accommodation del college. La prima sera non è andata meglio, la mattina dopo neanche. Cercavo un volo per tornare a casa almeno una volta ogni due ore!
Le mie coinquiline inizialmente mi sembravano schive e restie a fare amicizia con me, solo dopo mi sono resa conto che invece ero io ad esserlo, ad avere nei loro confronti un atteggiamento diffidente e critico. Giudicavo negativamente ogni abitudine diversa dalla mia: la cena alle cinque e mezzo, l’andare in chiesa la domenica mattina, i cibi che mangiavano – che comunque, anche dopo averle conosciute e superato i miei pregiudizi, rimanevano, nella maggior parte dei casi, per me, disgustosi!
Ogni piccola difficoltà mi sembrava un ostacolo insuperabile come fare la spesa, districarmi tra gli infiniti scaffali del supermercato, trovare qualcosa da mangiare che potesse piacermi – per circa una settimana ho mangiato insalata, solo dopo ho iniziato ad aggiungere altre cose –. Se non capivo cosa mi diceva la cassiera o se il bancomat non funzionava, ne facevo una tragedia. Credo, nella prima settimana a Birmingham, di aver chiamato mia mamma circa venti volte al giorno, ogni volta sottoponendole un problema vitale, che ovviamente dall’Italia non poteva risolvere come quando la chiamai disperata perché non sapevo che autobus prendere per tornare a casa!

Pian piano, però, le cose sono migliorate. Superando i miei pregiudizi e la mia riluttanza nei confronti dell’altro, mi sono resa conto che, nel mio appartamento, c’erano altre cinque ragazze che potevo conoscere, cinque potenziali amiche, che lo stabile era pieno di ragazzi con cui poter legare, esperienze da poter fare, opportunità da sfruttare.
Dopo un anno in quell’appartamento posso senza dubbio affermare che, se con alcune ho effettivamente stretto amicizia, con altre, invece, non ho scambiato più di due parole. Di una delle mie coinquiline, ad esempio, dopo un anno nella stessa casa non sapevo neanche il nome; in questo caso però posso dire con un’elevata sicurezza che il problema non è stato il mio essere schiva, quanto piuttosto il suo isolamento che ha fatto sì che, mentre io e le mie coinquiline eravamo in cucina insieme – e nonostante l’avessimo più volte invitata – lei stesse da sola in camera sua, portandosi addirittura via le pentole con cui cucinava onde evitare che le usassimo.

Vivere in un altro paese significa anche lavorare su se stessi; rinunciare ad alcune abitudini per far spazio ad altre, confrontarsi con culture, modi di essere differenti. Era ovvio che, nonostante abbia messo un po' a capirlo, la mia routine italiana non poteva essere trasportata, immutata, là: i pranzi della domenica dai miei nonni, i caffè del sabato pomeriggio al solito bar con le solite amiche, la preparazione degli esami insieme alla mia compagna di studi, etc.. Questo, però, non vietava che me ne potessi creare un’altra. E così ai pranzi domenicali dai nonni si sono ben presto sostituiti i brunch con Chiara, Pauline, Bensu, che erano diventate un po' la mia famiglia; ai caffè con le amiche di sempre quelli con nuove amiche; e gli esami potevano sempre essere preparati con i nuovi colleghi di corso.

Niente è insuperabile, basta ingegnarsi per far funzionare le cose. È ovvio infatti che avere le proprie abitudini o impegni fissi dà stabilità e sicurezza, soprattutto nei primi tempi in cui tutto sembra nuovo. E il nuovo, si sa, un po' spaventa.
La necessità di parlare un'altra lingua non aiutava; c’era sempre la paura di sbagliare pronuncia, che non venissi compresa. Velocemente però, mi sono resa conto che, anche se la mia pronuncia non era perfetta – e non lo è tutt’ora, nonostante un anno in Inghilterra – o se mi inventavo alcune parole era comunque possibile instaurare una conversazione. Conoscersi.  Uno dei modi più semplici e divertenti per farlo, è stato attraverso il cibo. Con il gruppo di amici che ero solita frequentare avevamo introdotto la “cena della domenica sera” per cui, a turno, ognuno cucinava il piatto che preferiva del suo paese. Io ho fatto le lasagne, ma ho così scoperto quanto siano buone le natas portoghesi, i lady’s figer indiani, il cozonac rumeno.

Anche l’inizio dell’università è stato destabilizzante, già sull’elaborazione del piano di studi sono sorte le prime difficoltà. La prima lezione l’ho mancata perché non avevo capito che si sarebbe tenuta “on Tuesday” e non “Thursday”. Confrontarsi poi, con un linguaggio tecnico non è stato facile, molte parole erano per me incomprensibili e non sempre seguire i docenti era possibile.
Superato il primo impatto però ho avuto modo di confrontarmi con un altro sistema universitario, completamente differente da quello italiano. La maggior parte degli esami in Inghilterra avevano la forma dell’essay, che consiste in un tema di 1000 o 2000 parole, in cui prendere posizione su una tematica o risolvere quesiti giuridici. Esami quindi scritti e non, come la maggior parte di quelli della mia università italiana, orali. Tutti i corsi erano composti, oltre che dalla classica lezione accademica, anche da seminari in cui, a gruppi di 10 studenti, facevamo dibattiti, simulazioni di processi, lavori di gruppo. Come prova finale di un corso ad esempio abbiamo fatto un dibattito a squadre su problematiche quali la pena di morte, la tortura, il trattamento dei prigionieri in carcere. Non era solo la didattica ad essere completamente differente ma anche l’ambiente e le strutture. Avevamo a disposizione una biblioteca universitaria aperta 24h, tutti i giorni, computer accessibili a tutti, strutture super moderne e docenti sempre reperibili e, soprattutto, giovani.
Nell’università, inoltre, gli studenti di Birmingham erano la minoranza, il numero di “international students” era invece elevatissimo, tantissimi dunque gli universitari provenienti dai posti più disparati per cui, le varie attività di gruppo organizzate diventavano anche un’occasione per confrontarci sui vari sistemi giuridici e universitari vigenti negli altri paesi, europei e non.

In poche settimane mi sono accorta che quella routine all’inizio tanto agognata, l’avevo già ricreata: la spesa del sabato pomeriggio al supermercato accanto casa, dove tutti gli studenti andavano, che era anche il luogo in cui, incontrandoci tra gli scaffali, ci organizzavamo per l’uscita serale; i venerdì sera a cena da Pauline; le lezioni tre volte a settimana; il solito posto nella biblioteca, quello alla vetrata!

Il bello – e il brutto – di vivere fuori, da soli, è che in breve tempo crei legami molto profondi. Vedere la solita persona tutti i giorni; sapere che, essendo anche lei sola, sicuramente avrà voglia di compagnia. Il tempo libero da trascorrere insieme ha fatto sì che, quando, per Natale sono dovuta tornare in Italia per le vacanze, sia stato per me impensabile stare tutto quel tempo senza quelle persone e quelle abitudini che avevo trovato a Birmingham.
Quando a giugno sono dovuta tornare in Italia la voglia di non farlo era tantissima, la mia città mi stava stretta, mi sembrava che gli amici di sempre non capissero le mie esigenze, i miei bisogni, mi ci sentivo troppo lontana. Purtroppo, essendo partita per studiare un anno fuori dall’Italia con un programma, quindi, a scadenza, non era possibile prorogare oltre questa esperienza, dovevo infatti tornare in Italia e completare il mio percorso universitario.

Quell’anno è stato per me un anno di crescita personale e di esperienza, un modo per mettermi alla prova e testare le mie capacità. Un’occasione per capire le mie priorità, i miei bisogni ma anche i miei limiti. Mi ha insegnato il valore dei legami, di quelli creati in Inghilterra, e di quelli lasciati in Italia, facendomi inoltre capire che in alcuni casi quei legami che credevo forti, in realtà erano probabilmente dettati da situazioni contingenti, che i sentimenti che ho provato per alcune persone erano più dettati dalla situazione in cui vivevo, dalla volontà – e a volte dalla necessità – di attaccarmi ad un'altra persona più che dalle mie emozioni.
Questa esperienza a livello universitario mi ha lasciato un senso critico nello studio delle materie, che nell’analisi delle questioni giuridiche mi è stato, tra le altre, utilissimo per la redazione della tesi.

Non è sempre stato facile essere lontana da casa, confrontarmi con persone che, a causa delle innegabili differenze culturali e linguistiche, erano – in alcune cose – lontanissime dalla mia cultura o modo di vivere. Però a mio avviso, essere cittadini europei è proprio questo: avere una marcia in più! Questa doppia cittadinanza ci permette di fare cose che noi, troppe volte, diamo per scontate, come attuare progetti che in passato erano solo sogni destinati, spesso, a rimanere tali. Il rischio è che, di questo vantaggio, di questo valore addizionale che la Comunità Europea ci dà, spesso ci dimentichiamo: lamentiamo il peso dell’essere parte dell’Europa ma non ne vantiamo i meriti.
Se fossi vissuta in un altro periodo o in un'altra area geografica, fare questa esperienza sarebbe stato per me molto più difficile, forse impossibile.
La cittadinanza europea non solo ci consente di intessere relazioni fuori dall’Italia, di sfruttare opportunità nuove a livello di studio, di lavoro, di crescita personale. Ma ci consente anche di mantenerle. Poter in qualsiasi momento partire per andare a trovare un amico a Zurigo o a Parigi, senza bisogno di visti e passaporti, non è scontato.
Adesso, da laureata, nonostante non abbia in programma di tornare a studiare all’estero, almeno in un futuro prossimo, in quanto la scelta del percorso che ho fatto non me lo consentirebbe, non escludo che, se avessi l’occasione, non lo farei.