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Nel 1934 chiesero a Thomas Mann di scrivere un articolo in occasione della morte di un uomo che per lui era sempre stato un padre: Sammi Fischer, il suo editore berlinese, l'ebreo ungherese che aveva contribuito in maniera determinante a fare di lui un autore di fama mondiale. Mann ricordava questo scambio di battute, avvenuto qualche mese prima, nel corso del suo ultimo incontro con l'anziano amico, ormai gravemente ammalato. Fischer fece un commento su una persona che conoscevano entrambi:
«Non è europeo» disse scuotendo la testa.
«Non è europeo, signor Fisher? E perché?»
«Non capisce niente delle grandi idee umane».
(Rob Riemen, “La cultura come invito”, in George Steiner, Una certa idea di Europa, Garzanti, Milano, 2006, p.18)
Con lo speciale dedicato ad una riflessione sull'”Idea Europa al tempo dei nazionalismi in riemersione”, il gruppo redazionale di “Formazione & cambiamento” si propone di dare un contributo al dibattito attuale – che certamente si intensificherà nelle prossime settimane con l’avvicinarsi delle elezioni per il rinnovamento del parlamento europeo – sul senso da attribuire all’appartenenza all’Europa.
Il nostro contributo muove dalla consapevolezza della necessità di reagire alle spinte centrifughe che attraversano oggi l’intero continente. Per la prima volta da quando, nel 1957, per impulso di Adenauer, Schuman, De Gasperi, Monnet ed altri, con il Trattato di Roma si è dato vita ad un processo di enorme portata per i cittadini del vecchio continente, in Europa si vanno manifestando e intensificando forti pressioni, spesso incoraggiate da potenze extra-europee, che si propongono di scardinare il processo unitario e, in definitiva, di infrangere un disegno di grande respiro storico (si pensi al referendum inglese sulla cosiddetta Brexit o ai focolai di nazionalismo riemergente in vari Paesi).
In una simile congiuntura che, proprio per la sfida che siamo tutti chiamati a fronteggiare, non esitiamo a considerare di portata storica, abbiamo fatto la scelta di orientare il nostro contributo evitando di proporre articoli e riflessioni specialistiche (di tipo politico, giuridico, economico o sociologico) sul tema oggetto del nostro “speciale” ben sapendo che di tali contributi il dibattito attuale è (e sarà nelle prossime settimane) ricchissimo. Abbiamo pensato invece di dare la parola ai giovani, e in particolare a quanti dell’Europa hanno fatto una concreta esperienza di vita, di studio o di lavoro in vari paesi dell'Unione.
L’idea che ci ha mosso è quella di illustrare e descrivere mediante testimonianze autobiografiche di un piccolo numero di giovani individuati sulla base della loro disponibilità a raccontarsi (e dunque senza pretese di completezza o di rappresentatività), il “sentimento europeo” radicato tra larghe fasce di cittadini e in particolare tra le nuove generazioni.
E’ un sentimento basato su un’idea di appartenenza, divenuta ormai quasi fisiologica, all’Europa che è considerata come luogo dell'esercizio di un diritto di cittadinanza largo e privo di chiusure nazionalistiche, un diritto che si esprime attraverso libertà di circolazione, di studio, di sviluppo personale e professionale, di impegno civile, di lavoro.
Gli oltre 70 anni di pace solida (quasi un miracolo in un continente percorso da guerre feroci e distruttive) e la costruzione (graduale, lenta, tortuosa e “zigzagante” quanto si voglia, ma decisa e mai messa seriamente in discussione) di un soggetto istituzionale orientato all'unità, rappresentano un fatto storico di assoluto valore e comunque prezioso per tutti.
Al di là delle non rare tensioni tra i singoli stati (la cui composizione risulta sempre più riconducibile – e quasi sempre ricondotta – entro lo spazio delle istituzioni sovranazionali); e al di là del riemergere di tanto in tanto di egoismi nazionalistici e relative pressioni su temi particolari, il processo unitario sembra talmente radicato nelle culture, nei comportamenti e nelle pratiche di vita degli europei, specie di quelli più giovani, da poter essere considerato solido e probabilmente irriducibile.
Nonostante i numerosi problemi politici ed economici e nonostante i rischi causati dai riemergenti nazionalismi dell’attuale fase del processo di costruzione dell’Unione, la tensione “cosmopolitica” legata al sentirsi cittadini europei (conseguenza immediata della scomparsa dei vecchi confini) si manifesta e si esprime concretamente come aumento delle libertà individuali, come moltiplicazione delle opportunità, intensificazione degli intrecci relazionali, di dilatazione dello spazio vitale, fisico e culturale per i singoli e per i gruppi.
Lo status di cittadino europeo è diventato, nell’autopercezione di molti, parte integrante, quasi data per scontata, del modo di essere dei giovani di tutto il continente.
Questo ci raccontano le 12 storie di vita delle ragazze e dei ragazzi che hanno aderito al nostro invito (e che immaginiamo simili a quelle che potrebbero raccontare le centinaia di migliaia di loro coetanei di vari Paesi del continente che hanno alle spalle storie analoghe).
Leggendo i loro testi – problematici certo, ma sempre decisamente orientati a rivendicare il valore culturale politico e soprattutto umano dell’essere cittadini europei – si può cogliere, nella varietà delle espressioni narrative di ciascuna microstoria, il racconto di esperienze dense dei molti valori che hanno arricchito sul piano personale e professionale chi ne è stato protagonista. Ma si può cogliere anche – e questo merita una sottolineatura speciale – come l’idea di Europa sia talmente radicata nel loro modo di percepirsi come gli europei del futuro, da poter essere considerata solidissima e si spera irreversibile.
Mi chiamo Letizia, ho trent’anni (purtroppo ancora per pochissimo) e sono nata e cresciuta a Roma. Dopo gli studi classici e anche un po’ omologato-borghesi, mi sono laureata in economia a Tor Vergata. Per motivi diversi ho sempre sentito la necessità di andare a studiare fuori dall’Italia: un po’ perché a differenza di molti amici non ho fatto l’Erasmus ma soprattutto perché, per curiosità e anche ambizione, avevo voglia di sperimentare diversi metodi di studio e scoprire nuovi obiettivi o percorsi.
Per questo sono partita per il Regno Unito nel 2010 e, tra una cosa e l’altra, non sono più tornata, se non per un anno. Detta così potrebbe sembrare che questo Paese abbia rapito il mio cuore e mi piacerebbe poterlo dire – o forse no – ma non è così. Sono tornata in Italia nel 2011 per un dottorato a Roma ma poi quella stessa spinta, non completamente razionale, al cercare di nuovo e di più mi ha riportato all’estero l’anno dopo (tra l’altro nello stesso posto). Il dottorato si sa – anche se forse non abbastanza – è una cosa lunga, soprattutto quando non trovi subito la tua strada o la trovi ma poi la perdi. Fatto sta che tra dottorato, amore e lavoro sono ormai quasi 7 anni che sono qui.
(Soprav)ivere all’estero non è facile. In un paese come l’Inghilterra poi per me non lo è stato per niente. Non ho mai vissuto a Londra, l'immensa città-stato che poco ha a che vedere con il resto del Paese. Ci sono più di 250mila italiani ed in generale moltissimi stranieri. L’integrazione è più facile e, quando non lo è, è meno evidente. In ogni caso, io ho vissuto a Coventry, Leamington Spa (che ha meno abitanti di Monte Sacro a Roma) e Bristol, in ordine cronologico e forse un po’ anche di vivibilità (Bristol ovviamente è la migliore, tra le altre due è una brutta lotta).
Nei miei primi anni qui ho avuto molte difficoltà nell’accettare la maggior parte delle diversità culturali e ambientali tra l’Italia e l’Inghilterra: l’assenza del culto del cibo, il clima terribile, l’ostinata assenza di flessibilità, la mancanza di un passato artistico (a parte quello musicale semi-contemporaneo), la guida dal lato sbagliato, la repressione emotiva sfogata nell’alcool. Tutte queste cose nel loro complesso hanno sempre creato un senso di alienazione e solitudine culturale, che per qualcuno come me, che prende energie quasi interamente dalle interazioni con l’esterno, è stato a tratti spaventoso. Questo spavento è però rimasto abbastanza contenuto fino a quando sono rimasta nel contesto universitario che è estremamente internazionale, aperto e comunque pieno di italiani e quindi un po’ più familiare.
Quando però ho cominciato a lavorare a Bristol ho trovato un ambiente di soli inglesi (no non è vero, anche scozzesi). Ciò ha senza dubbio ingigantito questo senso di alienazione ma ha anche stimolato la consapevolezza di dover necessariamente provare a combatterlo, focalizzandomi sulle cose che rendono più facile la sopravvivenza all’estero o, in particolare, in questo Paese. In ordine sparso: imparare a prendersi cura degli altri anche a distanza, avere la possibilità di gestirsi in autonomia, sia finanziariamente che a livello pratico, sentirsi parte di una generazione che è il motore principale, e non lo scarto, della società, avere la consapevolezza che la mente si stia aprendo ogni giorno un po’ di più, lontano dalla propria comfort zone, scoprire che alla fine l’accento british non ce l’ha quasi nessuno e va bene anche così, avere la certezza che il pregiudizio, se esiste, è socialmente inaccettabile e che non importa quanti anni hai, di che sesso sei, da dove vieni o quali sono le tue preferenze sessuali. Davvero non importa. E questa è un’arma a doppio taglio perché a volte questo sistema, così giusto ma così freddo, così bilanciato ma anche così indifferente, mi fa sentire vittima di un inganno in cui si fa del bene non perché lo si voglia ma “solo” perché così si fa. E allora ci si può chiedere cosa succede se si dice alla gente che si può anche non fare così (e la risposta a volte la si trova durante il weekend nei pubs con la moquette impregnata di birra).
Quello che mi manca dell’Italia è il senso di familiarità. Di guardarmi intorno e sapere alla perfezione cosa sta succedendo, nel bene e nel male, di sentire discorsi in sottofondo e poterli intercettare anche senza prestare attenzione perché sono fatti nella mia lingua madre (purché non siano in qualche dialetto), di mangiare bene senza spendere metà stipendio. Mi mancano i motorini, mi mancano le persone che si prendono una confidenza mai autorizzata, mi manca a volte non passare inosservata, mi manca poter parlare del più e del meno senza annoiarmi a morte, mi manca capire quando sto antipatica a qualcuno e allo stesso avere io stessa motivi per non sopportare qualcuno.
Penso sia impossibile non sentire la mancanza delle proprie radici ma vorrei potermi sentire un po’ a casa anche qui, tra di loro. Però non sono mai riuscita davvero ad avvicinarmi all’identità di questo Paese. Quando sono venuta qui immaginavo di allontanarmi un po’ dall’Europa ma non così tanto: ho sempre respirato poca cultura, poca autenticità, poca tradizione e poca Europa e poca identità. So che molti miei amici o connazionali la vedono diversamente, ma ho sempre vissuto il risultato di Brexit con molta indifferenza, forse anche perchè non ho mai visto il mio futuro qui. Un po’ come se appena terminata una cena a casa tua, i più noiosi fanno per andarsene; un po’ ti chiedi se sono stati male, ma poi ti rendi conto che forse sono solo molto diversi da te.
Per quelli della mia generazione non esiste un pre-Europa, ma esiste un pre-Euro. E io non ho mai percepito che cosa volesse dire essere europeo o meno fino a quando è arrivato l’euro, durante le scuola medie. Ancora mi viene da sorridere per l’eccitamento e mistero che si erano creati intorno a questo evento per noi pre-adolescenti completamente ignari della politica e tantomeno dell’economia. Soprattutto, ho cominciato a capire cosa volesse dire essere europeo quando sono uscita per la prima volta da sola dal continente nell’estate del 2005 per andare ad una summer school negli Stati Uniti. Eravamo una cinquantina di 15enni da tutto il mondo. Io ero l’unica italiana e ricordo benissimo la sensazione di similarità che ho sentito con Louise, una ragazza danese. Anche se rischio di risultare retorica, ho proprio percepito il significato di comunità, nel senso di avere qualcosa in comune. Avevo ovviamente cose in comune anche con gli americani, i messicani, gli israeliani, i palestinesi ma dal punto di vista più astrattamente culturale mi sono ritrovata molto piu’ vicina a lei, nonostante fosse danese, nonostante quasi vivesse da sola ed io a Roma avessi il coprifuoco a mezzanotte o al massimo l’una, e nonostante avesse gia’ fatto il triplo delle mie esperienze. Sentivo che le nostre lenti culturali erano, in qualche modo, simili.
Ho cominciato a guardare all’Europa in senso critico e politico solo più avanti, durante l’Università. Ricordo ancora quanto ci sono rimasta male quando ho scoperto dal libro di Economia Monetaria che secondo alcuni modelli l’Europa non è un’area valutaria ottimale. Ricordo anche quanto ho considerato ingiuste o almeno poco lungimiranti tante decisioni di austerity dopo la crisi finanziaria. Nonostante abbia accumulato sempre più strumenti per criticare l’Europa, ho sempre dato per scontato di farne parte e vorrei poter continuare a farlo. Questo non vuol dire legitimmare qualsiasi cosa venga proposta o decisa dall’Unione Europea ma vuol dire riconoscerne e rispettarne le radici, pur criticandola e cambiandola. L’Europa è fatta anche di contraddizioni, strani giochi di potere, inefficienze politiche ed economiche ma ha il potenziale per essere uno strumento di pace e rispetto reciproco e un luogo dove forse si può preservare quella familiarità e quel senso di appartenza che tanto mi sono mancati in tutti questi anni.
Sono arrivata a Lisbona perché mi sono innamorata del portoghese.
Per un lungo periodo ho ricondotto questa attrazione verso la lingua di Pessoa a un viaggio in Brasile che ho fatto a vent’anni con la mia migliore amica, durante gli anni dell’università. Poi ho capito che quella è stata soltanto la seconda tappa di un viaggio linguistico cominciato almeno dieci anni prima, a Villa Aldobrandini di Frascati, dove i miei genitori mi hanno portato a sentire un concerto dei Madredeus.
Quella musica struggente, accorata, cantata in una lingua incomprensibile e misteriosa ha lavorato dentro di me per anni, fino a quando, da grande, ho capito che si trattava del modo di parlare di un popolo che occupa una lingua stretta di terra schiacciata tra la Spagna e l’Oceano Atlantico. Su queste note romantiche e spinta da un desiderio di evasione tipico dei vent’anni, ho fatto richiesta per l’Erasmus a Lisbona, della durata di un anno, e l’ho vinto. Studiavo antropologia alla Sapienza di Roma, abitavo con degli amici in una casa allegra e piena di gente a Piazza Bologna, riuscivo a guadagnare abbastanza bene con le ripetizioni e avevo un fidanzato a Milano. Ero contenta di come andavano le cose, ma volevo partire, trasferirmi da qualche parte, immergermi in una cultura aliena e vedere che cosa si provava. Non c’era una meta che desiderassi più del Portogallo: se ne sentiva parlare ancora poco, conoscevo la lingua, perché nel frattempo l’avevo studiata, e amavo il fado e Pessoa. E poi il mio coinquilino mi aveva detto che Lisbona era la città europea più bella che avesse mai visto (poi ho scoperto che però era anche l’unica!). Mi sembravano degli ottimi motivi per volerci vivere.
Così ho preso qualche libro di antropologia e a settembre del 2010 sono arrivata a Lisbona insieme al mio paziente fidanzato dell’epoca, che aveva deciso di accompagnarmi in questa nuova avventura, prima di sparire per sempre dalla mia vita.
Lisbona era allegra, gialla e piena di sole: molti di noi l’hanno ribattezzata la città della luce, alcuni mesi dopo.
Ho trovato casa nel quartiere più incasinato della città, ho cominciato a frequentare l’università, ho stretto le prime amicizie (che poi sono rimaste anche le più solide) e ho trovato un nuovo fidanzato. Nel giro di un mese la mia piccola vita di ventiquattrenne è cambiata del tutto, ero felice di vivere fuori, di conoscere ogni giorno persone e strade nuove, di innamorarmi della città più malinconica d’Europa e di sentire che trasferirsi all’estero non era poi così male… Ricordo un anno pieno di euforia, scoperte quotidiane, nuovi legami, curiosità e salti nel vuoto: un anno indimenticabile. Ho dato tutti gli esami previsti, ho ballato su ritmi nuovi, ho mangiato e bevuto alcune delle cose più buone della mia vita e soprattutto ho ascoltato tantissima musica dal vivo, perché la sera Lisbona si trasforma in un’isola tropicale, in cui si suona fino al mattino.
Allo scadere del periodo di Erasmus, così, ho deciso di rimanere a Lisbona, mentre tutti gli amici (o quasi) tornavano a casa per finire l’università. Lisbona e io avevamo ancora molto da dirci, tanto che ho avuto un indirizzo portoghese per altri due anni. Ho continuato a studiare a distanza, tornando a Roma soltanto per sostenere gli esami all’università. Mentre ero a Lisbona lavoricchiavo, ma soprattutto camminavo, prendevo treni, scoprivo quel piccolo grande Paese che si affaccia sull’oceano e mi entusiasmavo.
Studiare i luoghi, la storia e la cultura portoghese ha cambiato il mio sguardo inesorabilmente, lasciandomi in eredità la passione per i bar gestiti da persone anziane, per le mattonelle colorate (gli azulejos), per la musica di inizio 900, per i bar al porto che friggono il pesce anche di notte, per i tram d’epoca, per i castelli dei Mori, per il salmone e l’interesse spasmodico per le dittature (quando ero lì ho svolto una ricerca antropologica su Salazar che ho presentato in un’università turca).
Di casa mi mancavano soltanto i miei e gli amici e sono tornata a Roma per fare un altro lungo viaggio che mi ha portata in India, dove ho svolto la mia ricerca di antropologia sul campo. Dopo l’India ho lasciato definitivamente il mio indirizzo portoghese e mi sono ributtata nella vita romana: avevo molto da recuperare e soprattutto dovevo mettere radici da qualche parte. Farlo a casa all’inizio mi è sembrato un piano folle e un po’ forzato dagli eventi, ma sicuramente necessario e oggi sono contenta di averlo fatto, anche perché bisogna imparare a restare, secondo me.
Quando sono tornata in Italia, mi è capitato di leggere “Il mondo di ieri” di Zweig, un libro che, tra le tante cose, racconta la creazione delle frontiere europee, l’invenzione dei passaporti, la divisione di quello che un tempo era stato unito, la decadenza di una comunità artistica transfrontaliera che vedeva Milano, Vienna, Parigi e Torino nella stessa mappa geografica. Ricordo di aver pensato all’Europa che avevo conosciuto nei baretti di Lisbona e di Porto, così naturalmente spalancata all’altro, socievole, intrigante, collaborativa, allegra. Ricordo di aver pensato alle centinaia di persone che avevo incrociato in tre anni, a tutte le lingue che avevo sentito parlare, ai dialetti che avevo imparato a capire, alle confidenze che avevo scambiato, ai libri che avevo letto, ai cibi che avevo assaggiato e alle canzoni che avevo imparato a memoria.
L’Europa dei miei vent’anni era pacifica, entusiasta e un po’ sprovveduta, come eravamo noi, buttati in cento sulle rive del Tago a sentire musica e a sentirci leggeri.
Mi chiamo Cristina Ceccarelli, ho 31 anni e sono nata a Roma, dove ho vissuto la maggior parte della mia vita.
Mi sono diplomata al liceo classico Augusto di Roma nel 2006, per poi continuare gli studi in Scienze politiche presso l'Università "La Sapienza" (sempre a Roma), dove mi sono laureata nel 2011. Aggiungo che attualmente la mia sede di lavoro è… Roma!
Fino a qui la mia storia sembrerebbe molto ancorata alla mia città natale e all’Italia, ma scoprirete a breve che la realtà è ben diversa.
È stata sufficiente un’esperienza di studio all’estero presso la Copenhagen Business School per cambiare completamente la prospettiva della mia vita.
Quando sono partita nel gennaio del 2011, ho scelto Copenhagen come destinazione del mio Erasmus principalmente perché volevo praticare l’inglese e la Danimarca era uno di quei paesi disponibili, dove la popolazione si può considerare quasi bilingue. Ricordo perfettamente una delle prime lezioni introduttive che l’Università aveva organizzato per accogliere gli studenti stranieri, in cui si sottolineava di dover essere pronti ad affrontare uno shock culturale. Dopo una prima fase di entusiasmo, ci dissero che era molto frequente soffrire di un sentimento di distanza e di spaesamento, e di dover resistere per trovare la nostra dimensione.
In quel momento non capivo bene cosa volesse significare questo “shock culturale”, e avevo percepito quell’avvertimento come troppo allarmista.
Poco tempo dopo però, iniziai a realizzare a cosa facessero riferimento.
Dopo circa un mese dal mio arrivo iniziai a sperimentare come alcuni stereotipi nazionali a volte non sono troppo lontani dalla realtà. Tra le varie persone che stavo conoscendo, riscontravo delle affinità quasi naturali con amici spagnoli, portoghesi e italiani, mentre era abbastanza difficile entrare in confidenza con le persone locali o provenienti dai paesi scandinavi. Ad esempio, vivevo con una ragazza finlandese, Reetta, che inizialmente non accettava nemmeno che le offrissi un caffè o che passava la maggior parte del suo tempo chiusa nella sua stanza. Un approccio che era molto diverso dal tipo di relazioni interpersonali a cui ero abituata.
Ancora più scioccante era partecipare a cene in cui ognuno doveva portarsi le proprie bevande e non condividerle come invece siamo soliti in Italia e in tutti i paesi mediterranei!
Erano tante le differenze che stavo riscontrando, non ultimo il clima nordico effettivamente impattante sulla vita quotidiana, soprattutto perché al di là del freddo, sono tante le giornate in cui il cielo è grigio e non si intravede neppure un barlume di sole.
Nonostante questo però, sono stata felice di ricredermi e di realizzare come gli stereotipi dimostrino di avere i propri limiti e di essere solo una prima fase di passaggio nella conoscenza delle persone. Al termine del mio soggiorno, la mia coinquilina finlandese mi invitava ogni giorno a prendere il caffè insieme e mostrava sempre più affetto verso di me. Ovviamente prima di salutarci non ho potuto non regalarle una moca italiana. Ed io che ero partita con l’obiettivo di imparare bene l’inglese, sono tornata in Italia parlando il danese e con una nuova passione che avrebbe impattato di molto sulle mie scelte future.
In Danimarca, oltre che sostenere esami per completare la magistrale, stavo anche scrivendo la tesi sul ruolo del Parlamento danese nel processo decisionale europeo. Proprio nelle giornate chiuse nella bellissima libreria nazionale che chiamano “Black Diamond”, avevo iniziato ad incuriosirmi sul progetto europeo, su cosa significasse realmente, su quali fossero le opportunità insite nell’Unione europea.
Vivere in un paese con una cultura così diversa, coltivare amicizie con persone provenienti da tutta Europa, aveva iniziato a creare in me un interesse sempre più forte per una dimensione che fino a quel momento non avevo troppo preso in considerazione. Proprio in quei mesi mi capitò di vedere un annuncio su Facebook in cui si parlava delle carriere europee e lessi che era possibile sostenere dei concorsi per lavorare in Unione europea.
Completamente ignara di cosa volesse realmente significare, ma incuriosita da questa prospettiva, decisi di provare il concorso europeo EPSO. È un concorso che è possibile sostenere in qualsiasi paese europeo. Mi iscrissi, presi un treno per arrivare al centro EPSO più vicino e feci l’esame.
Ad oggi posso dire che fortunatamente non superai quel concorso, ma fu per me un primo momento in cui iniziai a capire che le mie aspirazioni lavorative non erano legate ad una dimensione solamente nazionale.
Tornata a Roma, nel dicembre dello stesso anno mi laureai e a quel punto avevo abbastanza chiaro in mente che avrei voluto lavorare in un settore che mi permettesse di avere contatti in tutta Europa. Essendomi laureata in Scienze politiche e avendo delle ambizioni legate anche al mondo istituzionale, iniziai a contattare tutte quelle istituzioni che avessero degli uffici dedicati agli affari europei.
La mia ricerca, basata essenzialmente su invio di CV e lettera di motivazioni, finì per essere accolta dalla Rappresentanza in Italia della Commissione Europea.
Una particolare coincidenza volle che la persona che mi reclutò aveva studiato nella mia stessa università a Copenhagen. Da quel momento ho lavorato presso il settore politico della Rappresentanza della Commissione europea per quasi quattro anni, fino al dicembre 2015.
Anche la Rappresentanza presentava quel micro-cosmo multiculturale che avevo vissuto durante la mia esperienza Erasmus: colleghi da tutta Europa, ognuno con il proprio portato culturale e abitudini diverse. Ovviamente non poteva mancare anche un collega danese, Christian.
Da ognuna di queste persone ho appreso moltissimo e la lista diventerebbe troppo lunga se dovessi nominarli tutti, ma posso affermare che grazie ad ognuno di loro ho avuto modo di apprendere gli aspetti più tecnici del lavoro, ma anche di sviluppare ulteriormente una sensibilità interculturale necessaria per rapportarsi con persone di culture diverse.
La mia esperienza in Rappresentanza fu inoltre decisiva per le scelte lavorative che di lì a poco avrei fatto. Anche qui posso dire che l’Europa ci ha messo uno zampino.
In quegli anni infatti avevo iniziato ad interessarmi all’ambito della progettazione europea, vale a dire a quel settore che permette di svolgere progetti internazionali finanziati dalla Commissione europea, in alcuni settori chiave in cui essa intende intervenire. Proprio in Rappresentanza ho avuto l’opportunità di conoscere delle persone che condividevano questa mia stessa passione: Erika e Gianna.
Da quel momento abbiamo iniziato a pensare a come poter mettere a frutto le nostre diverse competenze, a come poter realizzare quello che allora sembrava essere un sogno nel cassetto: lavorare in proprio realizzando progetti che permettessero di far sentire l’Europea più vicina alla società.
Proprio da questa idea nel settembre 2014 è nata Euphoria, un’associazione con la quale abbiamo deciso di lanciare progetti europei nel settore dell’educazione. Il nome stesso della nostra associazione racchiudeva la nostra ambizione: oltre a portare il “bene”, avremmo voluto portare avanti anche gli ideali dell’Unione europea.
Dal gennaio 2016, anno in cui decisi di dedicarmi completamente a questa nuova attività, sono ormai passati 3 anni, e di seguito proverò a riassumere cosa è successo da allora:
• abbiamo incontrato più di 2.000 insegnanti e dirigenti scolastici italiani e non durante corsi di formazione organizzati per le scuole per sviluppare la loro dimensione internazionale e modernizzare le metodologie di insegnamento e apprendimento;
• abbiamo vinto 6 progetti europei Erasmus Plus;
• lavoriamo con partner provenienti da Grecia, Spagna, Portogallo, Ungheria, Irlanda, Svezia, Polonia, Belgio, Romania, Turchia, Bulgaria, Germania, Estonia (e forse ne dimenticherò qualcuno).
Ad oggi lavoro come project manager all’interno di questi progetti, mi occupo sia del loro coordinamento che della comunicazione, e posso affermare di non lavorare a Roma o in Italia, ma in Europa.
Sono in contatto tutti i giorni con partner di paesi stranieri, la mia lingua di lavoro è l’inglese, e spendo almeno 2/4 del mio tempo lavorativo viaggiando proprio per coordinare questi progetti.
Sicuramente la mia realtà attuale è molto diversa dal lavoro di ufficio che mi immaginavo quando avevo iniziato l’Università, ma è proprio questo aspetto che mi rende ancora più motivata.
La mia fortuna è stata quella di avere l’opportunità di svolgere una carriera internazionale, pur rimanendo vicina ai miei affetti e alle mie amicizie. Ma devo ammettere che ci sono ormai tanti altri luoghi in Europa in cui posso dire di sentirmi a casa e in cui ho persone pronte ad accogliermi.
A prescindere dal mio lavoro che per sua stessa natura necessita di contatti in tutta Europa, ho realizzato che in qualsiasi settore l’approccio internazionale sta diventando sempre più importante. Possiamo essere insegnanti, commercianti, ricercatori, liberi professionisti, ingegneri, informatici, ma ormai l’orizzonte europeo è presente in tutte le nostre vite. E non si tratta solo di un obbligo astratto. L’arricchimento che può derivare dal confronto con l’altro, non ha assolutamente prezzo.
Dicendo questo non voglio dire che l’Europa sia un progetto perfetto, né tanto meno che non abbia le sue storture. Ma nonostante questo è un dato di fatto che essa rappresenti la nostra nuova dimensione, e chiunque ha bisogno di strumenti appropriati per saper leggere questa nuova realtà.
Essere cittadini europei per me significa principalmente vivere l’Europa come la propria casa, apprezzarne le opportunità che ne derivano in termini lavorativi e di diritti, e mettersi in campo in maniera attiva qualora si voglia intervenire per modificarne la rotta, perché esistono degli strumenti per farlo.
Un cittadino europeo ideale, a mio avviso, è colui che, pur continuando ad essere ancorato ai propri valori e tradizioni, non ha paura della diversità, sia essa culturale, etnica, religiosa, di orientamento politico, ma ne sappia cogliere delle opportunità di crescita personale e sociale. Solo se si è in grado di abbracciare le differenze, si può realmente vivere non solo in Europa, ma nel mondo.
Sono della generazione Xennials, di quelli che ricordano come funzionava un telefono a gettoni, ma che oggi non potrebbero fare a meno del cellulare, che ricordano lo stupore per la caduta del muro di Berlino, ma non hanno mai avuto la percezione che in Europa esistessero frontiere.
L'Europa, i meccanismi che la regolano e la cittadinanza europea mi hanno incuriosito prima, e riempito d'orgoglio poi. Sicuramente le opportunità che ho avuto e le scelte che ho compiuto sino ad ora sono legate a una mia attitudine di apertura al dialogo interculturale e alla negoziazione continua di significati simbolici.
È difficile rintracciare nella memoria un momento preciso in cui ho capito cosa volesse dire per me essere europea, ma fra i molti aneddoti che mi sono rimasti impressi ce ne sono alcuni che sento come particolarmente emblematici.
Per cominciare, nel 2003 arrivai in macchina a Valencia per iniziare un anno di progetto Erasmus. Neanche avevo avuto il tempo di capire la portata dell’esperienza che mi aspettava, che fui subito battezzata dai miei coinquilini tedeschi e finlandesi la “Princesa de Roma”. Effettivamente, mia madre mi aveva fatto caricare la macchina con abiti per le quattro stagioni e un kit completo da campeggio con cui avrei potuto fare un safari in Kenya, tutte cose ovviamente inutili per sopravvivere nella civilissima Spagna e che nei vari traslochi che sono seguiti mi sono dovuta caricare a piedi più volte con mia somma gioia. Fu quella la prima volta che ebbi la consapevolezza di uno degli stereotipi più famosi nel mondo: la “mamma italiana”, vigile apprensiva e onnipresente, indipendentemente dalle distanze fisiche ti sa sempre dare consigli su meteo e abbigliamento. Capii che non tutte le mamme del mondo sono così. Questo nomignolo me lo portai avanti per mesi e diventò subito un mezzo confidenziale con cui sfidavo e smontavo stereotipi e pregiudizi sulle diverse lingue e culture europee. Ogni giorno, ogni situazione, che fosse all’università o alle feste “en los pisos” (in casa), era fonte di stimoli e nuove domande. Come se entrassi in una sorta di “biblioteca vivente” (metodo che si usa in educazione non formale), per me ogni persona era un libro inedito da scoprire su modi di vivere il presente, ma soprattutto modi di interpretare gli eventi storici e sociali. Infatti, sebbene studiassi lingue e culture straniere, solo in quel momento mi resi davvero conto di quanto la storia e le tradizioni nazionali siano narrate da un punto di vista culturalmente soggettivo e parziale. Così scoprii che a seconda dello studente europeo con cui parlavo, Cristoforo Colombo poteva avere origini e nazionalità spagnola, portoghese, francese e in molti casi anche italiana! Io che ero cresciuta con il mito che l’uomo del nuovo mondo era di Genova.
Le amicizie strette, la libertà di vivere e viaggiare in autonomia, l’abitudine a conoscere, discutere e sperimentare sempre cose nuove ormai erano parte integrante del mio modo di essere e relazionarmi con il mondo. Quindi, tornata in Italia, il giorno dopo la laurea acquistai un volo solo andata per Londra alla modica cifra di 18,00 euro tasse incluse. Dovevo fermarmi tre mesi, invece sono ripartita dopo quasi due anni. Ero già stata diverse volte in Inghilterra per frequentare corsi d’inglese, ma un conto è viaggiare in modalità vacanza, un conto è vivere in un paese. Londra per me rappresentava l’ombelico del mondo. Ho conosciuto gente di ogni luogo, cultura, genere e orientamento, però a differenza della Spagna in cui i rapporti sono più amicali e informali, lì invece capitava che discutessi per ore dei massimi sistemi con qualcuno e il giorno dopo eravamo di nuovo perfetti sconosciuti. Fu uno dei motivi per cui alla lunga decisi di ritornare a casa (oltre al sole del bel paese).
Sono moltissime le cose che ho imparato in quei due anni: innanzitutto che in un paese civile esiste un minimo salariale, avevo appreso che come lavoratrice avevo diritto a uno stipendio minimo di 5,95£ l’ora, che rivendicavo soprattutto i primi tempi in cui facevo lavoretti, cosa che in Italia ancora oggi non esiste. Poi ho sperimentato il famoso aplomb inglese in situazioni estreme. Arrivai a Londra a giugno del 2005 e dopo neanche un mese ci furono due attentati. Quando avvennero, una volta ero su un bus, l’altra in metropolitana. Mi sconvolse quasi più la reazione composta, ordinata, silenziosa e comunitaria delle persone intorno a me, che la paura reale per quello che stava accadendo e le sue conseguenze in termini di diffidenza involontaria verso chiunque portasse un turbante in testa. Non riuscivo a smettere di pensare che se fosse successo a Roma le urla della gente impazzita si sarebbero sentite fino a Milano. E per confermare lo stereotipo, mia madre, in preda al panico perché non riusciva a chiamarmi, mi ha fatto contattare da mezza Telecom Italia.
Altra scoperta londinese fu l’esistenza degli apolidi. Conobbi un ragazzo giamaicano cresciuto a Seattle, che nonostante avesse il padre in fin di vita non poteva rientrare negli Stati Uniti per andare al suo capezzale in quanto era stato espulso per vilipendio alla bandiera. A quanto pare la US Army fa campagna acquisti nelle scuole superiori, lui lì per lì aveva firmato per arruolarsi nei marines, ma poi aveva preferito continuare gli studi. Nessun ripensamento possibile, espulsione immediata. E come lui c’erano tante persone bloccate in Gran Bretagna senza diritti e senza nazionalità. Rimasi così indignata da questo fenomeno, che tornai a Roma e mi iscrissi a un master in mediazione culturale in contesto migratorio mentre facevo il servizio civile, insegnando italiano L2 in moschea e a Via Giolitti, ben prima dell’”emergenza” migranti.
Roma mi stava stretta, la chiamavo la capitale di provincia, ero sempre in centro per parlare almeno un po' d’inglese, però proprio da Roma è iniziata una nuova fase della mia consapevolezza europea.
Nel 2008 la campagna giovanile paneuropea “All Different – All Equal” era agli sgoccioli e in diverse città italiane si stavano organizzando eventi locali. Un’associazione giovanile mi coinvolse come volontaria nell’organizzazione di alcuni eventi di sensibilizzazione in città.
Dopo aver viaggiato e vissuto tre anni fra Spagna e Gran Bretagna, proprio da casa mia diedi forma al mio ideale di Europa che tutt’ora ritengo valido: tutti diversi – tutti uguali, non importa come ti vesti, che lingua parli, che religione pratichi e che usanze hai, in ben 27 stati abbiamo tutti gli stessi diritti riconosciuti dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (1), che sono oltretutto la forma più avanzata al mondo di applicazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (2).
Da qui in poi, l’Europa ha investito su di me. Con un gruppetto di esuli da esperienze simili a quelle sopracitate costituimmo un’associazione giovanile ricchi solo del nostro entusiasmo e della nostra creatività. Iniziammo a scrivere progetti per organizzare e inviare giovani a scambi giovanili e corsi di formazione in educazione non formale finanziati dal programma europeo Gioventù in Azione. Senza raccomandazioni nè agganci nel giro di poco tempo ero sempre su un aereo per partecipare attivamente alla costruzione del sogno europeo di tanti giovani della mia generazione: un'Unione politica che si rifacesse ai principi del Manifesto di Ventotene (3) scritto in esilio nel 1941 da Altiero Spinelli.
Nonostante chi mi diceva che ormai era tempo di trovarmi un lavoro serio e guadagnare di più, io non ho mollato. Avevo studiato lingue, ma avevo giurato a me stessa che dietro una cattedra non mi ci sarei mai seduta. L’educazione non formale applicata a temi di attualità generale mi ha fatto scoprire il valore dell’esperienza e del confronto nelle fasi di apprendimento e crescita, esperienze che se avessi fatto quando ero a scuola mi avrebbero evitato di percepire molte lezioni come una noia mortale.
Così, sempre per caso, nel 2009 mi ritrovai a progettare per la piattaforma delle associazioni giovanili nazionali, ora formalmente riconosciuta come Consiglio Nazionale di Gioventù, e insieme ad altri giovani ci creammo il lavoro dei nostri sogni accedendo sempre a finanziamenti europei. Iniziai prima come trainer nel processo di cooperazione giovanile Euro-Arabo Mediterraneo, poi diventai coordinatrice del pool di trainers nazionale del FNG come risultato del processo di scambio metodologico fra formatori del sud Europa e dei paesi africani di lingua portoghese; infine, divenni international officer, ovvero raccoglievamo le istanze sulle politiche giovanili in eventi non formali nazionali e internazionali e poi scrivevamo documenti di policy da sottoporre alle istituzioni nazionali ed europee. Proprio come si fa politica in Europa.
Nei gruppi di lavoro e nelle assemblee del Forum Europeo della Gioventù le attività di policy e advocacy svolte attraverso il metodo del dialogo strutturato fra giovani e istituzioni, solo negli anni in cui ho partecipato direttamente, hanno permesso di promuovere iniziative come "garanzia giovani", che offre opportunità di tirocinio retribuito nelle Regioni in tutta Europa, la strategia europea per i giovani, proposte di riconoscimento dei diritti di cittadinanza delle seconde generazioni in Europa e molto altro, perché quando si parla attraverso il linguaggio dei diritti umani, le differenze culturali non esistono.
Ci vorrebbero molte altre pagine per raccontare come sono evoluta negli ultimi anni, ma qui mi preme sottolineare ancora due cose: la prima è che se ho una professionalità riconosciuta e uno stipendio da diversi anni lo devo ai fondi europei, grazie ai quali mi sono specializzata come formatrice e che mi offrono la possibilità di sperimentare costantemente nuovi approcci metodologici in rete con università, istituzioni e associazioni di tutta Europa.
La seconda è un aneddoto che porterò sempre con me: nel 2012 ero in Tunisia per un Simposio sulla cooperazione giovanile Euro-Araba organizzato dal Consiglio d’Europa e molti attivisti del nord Africa mi ripetevano: We are learning Democracy – stiamo imparando la democrazia. Io gli risposi: We are forgetting Democracy – stiamo dimenticando la democrazia. E purtroppo, effettivamente quello che al tempo era solo un sentore, si è rivelato realtà. Infatti, i sogni di libertà e diritti di tanti amici che avevano popolato le piazze delle primavere arabe svanirono velocemente, soprattutto per colpa di una mancata unità politica europea e per l’indifferenza dell’opinione pubblica, la quale anziché chiedere ai governi dell’Unione di appoggiare le spinte democratiche in Nord Africa, si è ripiegata su sé stessa inneggiando all’emergenza immigrazione e supportando la chiusura delle frontiere esterne e interne, abbandonando milioni di persone al loro destino.
Oggi che sono senior education officer in educazione alla cittadinanza globale per una ONG, mi ritrovo a dover difendere il valore di cose che solo 10 anni fa erano vissute come la più grande opportunità della nostra generazione. Cercare il colpevole di questo processo involutivo è inutile, ma c’è tanto da lavorare per restituire alle nuove generazioni il senso dell’Europa delle opportunità. Paradossalmente, l'innovazione tecnologica e i social network, che un tempo credevamo avrebbero accelerato il processo di integrazione e partecipazione europea, hanno contribuito a distrarre l'opinione pubblica. Inoltre, l'innovazione tecnologica e i social network hanno favorito processi di disgregazione e mistificazione della realtà legati a una visione consumistica, in cui l’avere e l’apparire individuale contano più dell’essere una collettività unita in un solo destino, che deve affermare quotidianamente i valori della pace fra i popoli, dell’uguaglianza e del rispetto per ambientale per mitigare le disuguaglianze economiche e gli effetti dei cambiamenti climatici in corso. In queste sfide, come in molte altre, possiamo essere tutti diversi, ma siamo tutti ugualmente esposti e nessun paese potrà farcela da solo.
Note
1 https://www.europarl.europa.eu/charter/pdf/text_it.pdf
2 https://www.ohchr.org/en/udhr/pages/Language.aspx?LangID=itn
3 https://it.wikipedia.org/wiki/Manifesto_di_Ventotene
L'estate scorsa ho conosciuto un ragazzo mio coetaneo, nato e cresciuto a Firenze, figlio di due genitori marocchini che, da diversi anni, dopo la maturità, si è trasferito a Parigi per l'università. Mi raccontava di essere convintamente ateo e orgogliosamente omosessuale. Mi diceva di non conoscere l'arabo e di non ricordare con gran piacere i periodi estivi in cui da piccolo lo portavano dai nonni e dai cugini, non so più in quale città del Marocco. Come se volesse rispondere a una mia domanda, come se già la conoscesse e io stessi per porgergliela, mi rispose: “No, io non sento le mie radici marocchine. E neanche tanto quelle italiane, visto che a Firenze ci torno giusto per vedere i miei, mentre la mia vita, i miei amici, i miei interessi e casa mia sono a Parigi.”
Quella sua affermazione mi fece molto riflettere. Intanto mi aveva colpito che l'aveva detto quasi con dispiacere di dispiacermi, come se io invece avessi assai desiderato che mi raccontasse il contrario e mi aspettassi un suo commento esotico e purtroppo invece lui dovesse precedermi e deludermi con la cruda verità. Poi, quella sua affermazione mi fece ragionare sul fatto che il concetto delle “mie radici” è qualcosa di nettamente sopravvalutato, eppure apparentemente obbligatorio, nel raccontarsi e nel decostruire un'autobiografia. D'altronde, riflettevo, può darsi che il “sentire” un'origine, delle radici culturali, una sorta di background intellettuale eppure materialmente genetico, sia come provare un'aderenza zodiacale alla propria sostanza individuale e originale di persona. Per ultimo feci una riflessione più politica: tutti i Salvini, i Minniti, le Le Pen, gli Orbán, le Albe dorate, le Alternative für Deutschland etc. etc., con i loro muri, i confini, i Cpt o i Cie e le violenze verbali o fisiche, non potranno in nessun modo arrestare l'inevitabile realtà di un mondo in cui le persone viaggiano, si muovono e si scambiano idee e esperienze.
Questa Unione Europea non è la soluzione. Questa Unione Europea è invece la causa, la malattia che ha come sintomi dolorosi e debilitanti l'odio xenofobo e la chiusura nazionalista. Eppure, penso, l'Unione non può che essere la soluzione e la medicina per curare se stessa.
Mi spiego. L'Unione Europea attuale si basa sostanzialmente su due principi: la competizione economica tra gli Stati che ne fanno parte e la libertà, praticamente deregolamentata, di movimento per prodotti e merci, per capitali, finanze e imprese. È evidente che questo sistema non possa funzionare visto che crea naturalmente e necessariamente baratri di disuguaglianze e cosiddette guerre tra poveri. Se per fare il pecorino conviene comprare il latte in Polonia, è ovvio che i pastori sardi non sapranno più che farsene dei loro prodotti. Se conviene, ed è possibile, spostare la fabbrica in un paese dove i diritti sindacali degli operai sono più arretrati, è ovvio che altrove si creeranno disoccupati. E così via: più sfruttati da una parte, più disoccupati da un'altra. È semplice quanto banale. In più c'è un terzo asse su cui si basa questa Unione: ogni Stato membro è obbligato a rispettare un vincolo nel proprio bilancio, vincolo stabilito negli uffici dell'Unione Europea. Giocoforza questo sistema ha creato al proprio interno pulsioni e propulsioni autodistruttive.
Per fini elettorali, per qualche voto in più, hanno inventato il problema perennemente emergenziale dell'immigrazione: folle di gente senza scrupoli che premono ai confini di terra e di mare per derubarci di pane, lavoro e donne e poi magari farsi esplodere in una chiesa... D'altronde è molto più semplice e veloce dare la colpa di qualsiasi catastrofe all'uomo nero o allo zingaro sotto casa, piuttosto che soffermarsi a spiegare che a Bruxelles hanno deciso di lasciar scegliere al mercato chi mangia e chi digiuna, chi si fa sfruttare e chi fa il disoccupato, chi vive e chi muore.
Altrettanto sbrigativa è l'opzione di chi propone di uscire dall'Unione. Chiudersi a riccio, sigillarsi nei propri confini, godere della propria solitudine, autocelebrare la propria presunta unicità e scegliersi liberamente gli amici e i capri espiatori. Tale prospettiva mi appare perfino più spaventosa del presente malato. Decine e decine di egoismi, rancori, xenofobie, paure, diffidenze, indifferenze e chiusure. Qui in Italia torneremmo ai tempi di “Roma ladrona!”, continueremmo a mortificare il Meridione, a sviluppare sistemi sanitari e scolastici di serie A e di serie B, ad arricchire Regioni già ricche e a impoverire le più povere. Certo, è esattamente ciò che accade anche adesso, ma proprio per mano di quelle forze politiche che fanno dell'antieuropeismo, del razzismo, del nazionalismo e del populismo pauperista la propria bandiera.
All'Unione Europea non resta che riformarsi completamente, rivoluzionarsi, mettendo al centro di una propria Costituzione i popoli e gli individui, applicando un unico sistema fiscale, un unico sistema di welfare e un solo sistema di diritti dei lavoratori. L'Unione Europea guarirà solo quando passerà dalla competizione alla solidarietà tra gli Stati membri. Anzi, federati.
Sono Giulia Di Mascio e sono nata a Roma 24 anni fa.
I miei genitori si sono entrambi laureati in economia in una delle migliori università italiane ed entrambi hanno contribuito alla mia scelta di affrontare un percorso di studio universitario prima e di completarlo all’estero poi.
Mi sono laureata nell’estate del 2016 in Economia presso la LUISS a Roma e successivamente ho intrapreso il percorso di laurea magistrale in Management nella stessa università.
Entrambi i miei percorsi di studio sono stati caratterizzati dalla mia decisione di svolgere un periodo di studio all’estero.
Durante la triennale in Economia, quando avevo 21 anni, sono andata in Inghilterra per circa 4 mesi grazie al programma Erasmus che consente a milioni di ragazzi ogni anno di studiare in uno dei paesi europei.
Attualmente, sono in Svezia per un programma di doppia laurea.
In entrambi in casi ciò che mi ha spinto a partire è stata la curiosità di sperimentare la vita universitaria in paesi notoriamente diversi dall’Italia ma europei, con persone provenienti da tanti paesi diversi paesi e con background differenti.
Inoltre, la scelta di svolgere un intero anno di studio in Svezia è stata dettata anche, e soprattutto, dalla presenza di corsi specializzati, su ciò che mi interessa, nell’università che sto frequentando.
Certo, le differenze comportamentali ci sono e la mancanza di casa si sente.
Tuttavia, dopo le prime settimane di confusione e spaesamento, alcuni luoghi iniziavano a sembrarmi familiari e costruivo le mie nuove abitudini. Le persone che fino a poco tempo prima consideravo sconosciute iniziavano a diventare amiche e parte integrante dell’esperienza.
Grazie ai 4 mesi vissuti in Inghilterra e al periodo che sto vivendo in Svezia, ho imparato ad apprezzare la diversità e renderla risorsa per arricchire la mia personalità.
Secondo me essere cittadini europei vuol dire avere la possibilità di mettersi in gioco in un contesto diverso ma non estremamente complicato dove, nonostante i rispettivi paesi di appartenenza, le persone percepiscono la presenza di un filo conduttore comune che le unisce.
Vedo l’Europa come lo strumento che connette gli individui degli Stati membri in modo piuttosto semplice, consentendogli di muoversi liberamente e di porre in essere uno scambio culturale senza precedenti.
Descriverei il cittadino europeo ideale come colui che non ha paura di muoversi in Europa perché in ogni paese ha la possibilità di trovare qualcosa che lo fa sentire un po’ a casa.