Sono della generazione Xennials, di quelli che ricordano come funzionava un telefono a gettoni, ma che oggi non potrebbero fare a meno del cellulare, che ricordano lo stupore per la caduta del muro di Berlino, ma non hanno mai avuto la percezione che in Europa esistessero frontiere.
L'Europa, i meccanismi che la regolano e la cittadinanza europea mi hanno incuriosito prima, e riempito d'orgoglio poi. Sicuramente le opportunità che ho avuto e le scelte che ho compiuto sino ad ora sono legate a una mia attitudine di apertura al dialogo interculturale e alla negoziazione continua di significati simbolici.
È difficile rintracciare nella memoria un momento preciso in cui ho capito cosa volesse dire per me essere europea, ma fra i molti aneddoti che mi sono rimasti impressi ce ne sono alcuni che sento come particolarmente emblematici.

Per cominciare, nel 2003 arrivai in macchina a Valencia per iniziare un anno di progetto Erasmus. Neanche avevo avuto il tempo di capire la portata dell’esperienza che mi aspettava, che fui subito battezzata dai miei coinquilini tedeschi e finlandesi la “Princesa de Roma”. Effettivamente, mia madre mi aveva fatto caricare la macchina con abiti per le quattro stagioni e un kit completo da campeggio con cui avrei potuto fare un safari in Kenya, tutte cose ovviamente inutili per sopravvivere nella civilissima Spagna e che nei vari traslochi che sono seguiti mi sono dovuta caricare a piedi più volte con mia somma gioia. Fu quella la prima volta che ebbi la consapevolezza di uno degli stereotipi più famosi nel mondo: la “mamma italiana”, vigile apprensiva e onnipresente, indipendentemente dalle distanze fisiche ti sa sempre dare consigli su meteo e abbigliamento. Capii che non tutte le mamme del mondo sono così. Questo nomignolo me lo portai avanti per mesi e diventò subito un mezzo confidenziale con cui sfidavo e smontavo stereotipi e pregiudizi sulle diverse lingue e culture europee. Ogni giorno, ogni situazione, che fosse all’università o alle feste “en los pisos” (in casa), era fonte di stimoli e nuove domande. Come se entrassi in una sorta di “biblioteca vivente” (metodo che si usa in educazione non formale), per me ogni persona era un libro inedito da scoprire su modi di vivere il presente, ma soprattutto modi di interpretare gli eventi storici e sociali. Infatti, sebbene studiassi lingue e culture straniere, solo in quel momento mi resi davvero conto di quanto la storia e le tradizioni nazionali siano narrate da un punto di vista culturalmente soggettivo e parziale. Così scoprii che a seconda dello studente europeo con cui parlavo, Cristoforo Colombo poteva avere origini e nazionalità spagnola, portoghese, francese e in molti casi anche italiana! Io che ero cresciuta con il mito che l’uomo del nuovo mondo era di Genova.

Le amicizie strette, la libertà di vivere e viaggiare in autonomia, l’abitudine a conoscere, discutere e sperimentare sempre cose nuove ormai erano parte integrante del mio modo di essere e relazionarmi con il mondo. Quindi, tornata in Italia, il giorno dopo la laurea acquistai un volo solo andata per Londra alla modica cifra di 18,00 euro tasse incluse. Dovevo fermarmi tre mesi, invece sono ripartita dopo quasi due anni. Ero già stata diverse volte in Inghilterra per frequentare corsi d’inglese, ma un conto è viaggiare in modalità vacanza, un conto è vivere in un paese. Londra per me rappresentava l’ombelico del mondo. Ho conosciuto gente di ogni luogo, cultura, genere e orientamento, però a differenza della Spagna in cui i rapporti sono più amicali e informali, lì invece capitava che discutessi per ore dei massimi sistemi con qualcuno e il giorno dopo eravamo di nuovo perfetti sconosciuti. Fu uno dei motivi per cui alla lunga decisi di ritornare a casa (oltre al sole del bel paese).

Sono moltissime le cose che ho imparato in quei due anni: innanzitutto che in un paese civile esiste un minimo salariale, avevo appreso che come lavoratrice avevo diritto a uno stipendio minimo di 5,95£ l’ora, che rivendicavo soprattutto i primi tempi in cui facevo lavoretti, cosa che in Italia ancora oggi non esiste. Poi ho sperimentato il famoso aplomb inglese in situazioni estreme. Arrivai a Londra a giugno del 2005 e dopo neanche un mese ci furono due attentati. Quando avvennero, una volta ero su un bus, l’altra in metropolitana. Mi sconvolse quasi più la reazione composta, ordinata, silenziosa e comunitaria delle persone intorno a me, che la paura reale per quello che stava accadendo e le sue conseguenze in termini di diffidenza involontaria verso chiunque portasse un turbante in testa. Non riuscivo a smettere di pensare che se fosse successo a Roma le urla della gente impazzita si sarebbero sentite fino a Milano. E per confermare lo stereotipo, mia madre, in preda al panico perché non riusciva a chiamarmi, mi ha fatto contattare da mezza Telecom Italia.
Altra scoperta londinese fu l’esistenza degli apolidi. Conobbi un ragazzo giamaicano cresciuto a Seattle, che nonostante avesse il padre in fin di vita non poteva rientrare negli Stati Uniti per andare al suo capezzale in quanto era stato espulso per vilipendio alla bandiera. A quanto pare la US Army fa campagna acquisti nelle scuole superiori, lui lì per lì aveva firmato per arruolarsi nei marines, ma poi aveva preferito continuare gli studi. Nessun ripensamento possibile, espulsione immediata. E come lui c’erano tante persone bloccate in Gran Bretagna senza diritti e senza nazionalità. Rimasi così indignata da questo fenomeno, che tornai a Roma e mi iscrissi a un master in mediazione culturale in contesto migratorio mentre facevo il servizio civile, insegnando italiano L2 in moschea e a Via Giolitti, ben prima dell’”emergenza” migranti.

Roma mi stava stretta, la chiamavo la capitale di provincia, ero sempre in centro per parlare almeno un po' d’inglese, però proprio da Roma è iniziata una nuova fase della mia consapevolezza europea.
Nel 2008 la campagna giovanile paneuropea “All Different – All Equal” era agli sgoccioli e in diverse città italiane si stavano organizzando eventi locali. Un’associazione giovanile mi coinvolse come volontaria nell’organizzazione di alcuni eventi di sensibilizzazione in città.
Dopo aver viaggiato e vissuto tre anni fra Spagna e Gran Bretagna, proprio da casa mia diedi forma al mio ideale di Europa che tutt’ora ritengo valido: tutti diversi – tutti uguali, non importa come ti vesti, che lingua parli, che religione pratichi e che usanze hai, in ben 27 stati abbiamo tutti gli stessi diritti riconosciuti dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (1), che sono oltretutto la forma più avanzata al mondo di applicazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (2).

Da qui in poi, l’Europa ha investito su di me. Con un gruppetto di esuli da esperienze simili a quelle sopracitate costituimmo un’associazione giovanile ricchi solo del nostro entusiasmo e della nostra creatività. Iniziammo a scrivere progetti per organizzare e inviare giovani a scambi giovanili e corsi di formazione in educazione non formale finanziati dal programma europeo Gioventù in Azione. Senza raccomandazioni nè agganci nel giro di poco tempo ero sempre su un aereo per partecipare attivamente alla costruzione del sogno europeo di tanti giovani della mia generazione: un'Unione politica che si rifacesse ai principi del Manifesto di Ventotene (3) scritto in esilio nel 1941 da Altiero Spinelli.

Nonostante chi mi diceva che ormai era tempo di trovarmi un lavoro serio e guadagnare di più, io non ho mollato. Avevo studiato lingue, ma avevo giurato a me stessa che dietro una cattedra non mi ci sarei mai seduta. L’educazione non formale applicata a temi di attualità generale mi ha fatto scoprire il valore dell’esperienza e del confronto nelle fasi di apprendimento e crescita, esperienze che se avessi fatto quando ero a scuola mi avrebbero evitato di percepire molte lezioni come una noia mortale.

Così, sempre per caso, nel 2009 mi ritrovai a progettare per la piattaforma delle associazioni giovanili nazionali, ora formalmente riconosciuta come Consiglio Nazionale di Gioventù, e insieme ad altri giovani ci creammo il lavoro dei nostri sogni accedendo sempre a finanziamenti europei. Iniziai prima come trainer nel processo di cooperazione giovanile Euro-Arabo Mediterraneo, poi diventai coordinatrice del pool di trainers nazionale del FNG come risultato del processo di scambio metodologico fra formatori del sud Europa e dei paesi africani di lingua portoghese; infine, divenni international officer, ovvero raccoglievamo le istanze sulle politiche giovanili in eventi non formali nazionali e internazionali e poi scrivevamo documenti di policy da sottoporre alle istituzioni nazionali ed europee. Proprio come si fa politica in Europa.
Nei gruppi di lavoro e nelle assemblee del Forum Europeo della Gioventù le attività di policy e advocacy svolte attraverso il metodo del dialogo strutturato fra giovani e istituzioni, solo negli anni in cui ho partecipato direttamente, hanno permesso di promuovere iniziative come "garanzia giovani", che offre opportunità di tirocinio retribuito nelle Regioni in tutta Europa, la strategia europea per i giovani, proposte di riconoscimento dei diritti di cittadinanza delle seconde generazioni in Europa e molto altro, perché quando si parla attraverso il linguaggio dei diritti umani, le differenze culturali non esistono.

Ci vorrebbero molte altre pagine per raccontare come sono evoluta negli ultimi anni, ma qui mi preme sottolineare ancora due cose: la prima è che se ho una professionalità riconosciuta e uno stipendio da diversi anni lo devo ai fondi europei, grazie ai quali mi sono specializzata come formatrice e che mi offrono la possibilità di sperimentare costantemente nuovi approcci metodologici in rete con università, istituzioni e associazioni di tutta Europa.
La seconda è un aneddoto che porterò sempre con me: nel 2012 ero in Tunisia per un Simposio sulla cooperazione giovanile Euro-Araba organizzato dal Consiglio d’Europa e molti attivisti del nord Africa mi ripetevano: We are learning Democracy – stiamo imparando la democrazia. Io gli risposi: We are forgetting Democracy – stiamo dimenticando la democrazia. E purtroppo, effettivamente quello che al tempo era solo un sentore, si è rivelato realtà. Infatti, i sogni di libertà e diritti di tanti amici che avevano popolato le piazze delle primavere arabe svanirono velocemente, soprattutto per colpa di una mancata unità politica europea e per l’indifferenza dell’opinione pubblica, la quale anziché chiedere ai governi dell’Unione di appoggiare le spinte democratiche in Nord Africa, si è ripiegata su sé stessa inneggiando all’emergenza immigrazione e supportando la chiusura delle frontiere esterne e interne, abbandonando milioni di persone al loro destino.

Oggi che sono senior education officer in educazione alla cittadinanza globale per una ONG, mi ritrovo a dover difendere il valore di cose che solo 10 anni fa erano vissute come la più grande opportunità della nostra generazione. Cercare il colpevole di questo processo involutivo è inutile, ma c’è tanto da lavorare per restituire alle nuove generazioni il senso dell’Europa delle opportunità. Paradossalmente, l'innovazione tecnologica e i social network, che un tempo credevamo avrebbero accelerato il processo di integrazione e partecipazione europea, hanno contribuito a distrarre l'opinione pubblica. Inoltre, l'innovazione tecnologica e i social network hanno favorito processi di disgregazione e mistificazione della realtà legati a una visione consumistica, in cui l’avere e l’apparire individuale contano più dell’essere una collettività unita in un solo destino, che deve affermare quotidianamente i valori della pace fra i popoli, dell’uguaglianza e del rispetto per ambientale per mitigare le disuguaglianze economiche e gli effetti dei cambiamenti climatici in corso. In queste sfide, come in molte altre, possiamo essere tutti diversi, ma siamo tutti ugualmente esposti e nessun paese potrà farcela da solo.



Note
1 https://www.europarl.europa.eu/charter/pdf/text_it.pdf
2 https://www.ohchr.org/en/udhr/pages/Language.aspx?LangID=itn
3 https://it.wikipedia.org/wiki/Manifesto_di_Ventotene