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Da alcuni anni si registra, anche in Italia, una ripresa di interesse per i metodi della formazione. Si tratta di un fenomeno che ha come principale punto di riferimento una grande varietà di pratiche che maturano e si sviluppano (i) in contesti caratterizzati da un legame forte con i processi locali organizzativi e di lavoro; (ii) in una prospettiva di radicale superamento degli schemi ancorati alla tradizione codificata dell’azione formativa; (iii) sulla base di un’idea “allargata” della formazione entro cui assumono una certa rilevanza tanto le attività di consulenza quanto quelle di assistenza tecnica. Questa proiezione verso le dinamiche della vita organizzativa assume nelle visioni emergenti un tratto del tutto nuovo, caratterizzato dall’affermarsi della consapevolezza del fatto che i fattori costitutivi dell’apprendimento sono “segnati” dall’intreccio di due “fattori” cruciali: da un lato, il riconoscimento della centralità della conoscenza e, soprattutto, del fatto che la conoscenza utile è quella che ha origine nelle pratiche degli attori impegnati nelle loro attività; dall’altro, il prevalere di una visione secondo cui assumono nuova rilevanza le dimensioni soggettive, intersoggettive e contestuali dell’apprendere. L’apprendimento trova il suo fondamento nella pratica, nelle relazioni degli attori. In simili condizioni, il rinnovamento della formazione, sul terreno del metodo, deve fare i conti con il dualismo tra insegnamento e apprendimento: il primo è centrato sulla trasmissione verticale di contenuti (saperi, valori, ecc.) da chi li detiene a chi li deve assumere; il secondo, invece, si fonda sulla centralità del soggetto e della sua capacità di ap-prendere dall’esperienza seguendo selettivamente le sue inclinazioni e i suoi interessi. Legati alla logica dell’insegnare, i metodi classici sono anche caratterizzati dalla centralità dell’”aula”, metafora che rinvia alle modalità trasmissive della conoscenza fondate sull’autorità e la gerarchia, sulla riduzione dei soggetti a contenitori, sulla trasmissibilità meccanica del sapere. Il rovesciamento del paradigma dell’aula privilegia la logica dell’apprendere, mette in luce la capacità degli attori di elaborare l’esperienza che diventa la fonte principale di conoscenza. Questa prospettiva scardina i modelli classici della formazione, apre nuove prospettive all’elaborazione metodologica dando luogo ad una grande varietà di metodi che possono essere riassunti dallo slogan “metodi oltre l’aula”. In questo quadro, gli approcci che si sono venuti consolidando sono molti e, pur tra molte differenze, sono tutti riconducibili all’interesse per la promozione dell’apprendere mediante lo stimolo alla partecipazione, il coinvolgimento degli attori implicati, il riconoscimento della loro soggettività, della rilevanza dell’azione e della riflessività in azione. Possiamo etichettare l’insieme di queste modalità di azione formativa come approcci orientati allo sviluppo di pratiche riflessive. L’abbozzo di una prima parzialissima mappa (da arricchire e rielaborare in funzione delle preferenze di ciascuno) muove dall’individuazione di diverse famiglie di metodi che - secondo una sommaria ricostruzione genealogica (almeno per la parte di ragionamento che intendo svolgere qui io) – vede da un lato, gli approcci basati sull’intervento, sulla partecipazione , sull’azione; dall’altro, quelli basati sulla condivisione della pratica in contesti d’azione omogenei (le cosiddette comunità).
Rinviando ad uno dei prossimi numeri della rivista l’approfondimento degli orientamenti basati sull’apprendimento a partire dalla pratica, ci concentriamo in questo speciale di “Formazione e Cambiamento” sul primo raggruppamento di approcci, ossia sulle metodologie d’azione. Appartengono a questa “famiglia” di metodi tutti quegli approcci che fanno riferimento al “modello” della ricerca-azione, il cui orientamento di fondo - dovuto, come è noto, alla formulazione originaria di Lewin - non è tanto legato alla produzione di conoscenza (la quale è legittimata solo dal riconoscimento da parte della comunità scientifica), quanto piuttosto alla produzione della conoscenza specifica che, in un contesto dato, genera cambiamento e che nel riconoscimento sociale del cambiamento realizzato trova la sua legittimazione: nell'azione sono inglobate, potenziate e dotate di senso le nozioni di conoscenza e di cambiamento. La logica del cambiamento costituisce il fondamento teorico e di metodo della ricerca-azione. Gli sviluppi di questo approccio possono essere riferiti ad almeno due indirizzi (1).
Il secondo “modello” è l’action learning, prospettiva elaborata da R. Revans nel 1982 e successivamente ripresa e variamente sviluppata nel quadro di interventi di sviluppo manageriale basati sull’azione. Qui, azione e apprendimento sono indissolubilmente legati. La prima rinvia costantemente al secondo e viceversa, in un processo continuo di alimentazione dato dall’esperienza e dai problemi che essa costantemente genera. L’apprendimento è sempre associato ad una tensione (tra saperi codificati e problemi legati all’azione) che si può superare grazie ad un processo esplorativo caratterizzato da “domande” sulla natura e sulle caratteristiche del problema.
Il terzo modello, la ricerca partecipativa, è legata all’opera di Paulo Freire e alla sua teoria dell’educazione come “liberazione” a partire dalla “coscientizzazione”: la ricerca dovrebbe essere sempre associata a pratiche educative capaci di stimolare la partecipazione degli attori sociali all’analisi e alla conoscenza critica della loro condizione e realizzare così forme concrete di emancipazione. Le più rilevanti applicazioni del modello della ricerca partecipativa sono legate a progetti ed interventi orientati allo sviluppo locale o allo sviluppo di comunità.
Lo “speciale” di “Formazione e cambiamento” approfondisce il tema delle metodologie d’azione per l’apprendimento proponendo all’attenzione dei suoi lettori tre contributi di altrettanti esperti che al tema dell’apprendimento hanno dedicato studi approfonditi.
Giovanni Moretti introduce il discorso della ricerca-azione che, come ho accennato, rappresenta il il “modello” teorico e metodologico da cui derivano tutte le successive elaborazioni ed esperienze di apprendimento basato sull’azione.
Giuseppe Varchetta illustra la prospettiva dell’action learning così come è stata proposta e sviluppata da Revans.
Piergiorgio Reggio, infine, presenta l’approccio della ricerca partecipativa che costituisce il fondamento della concientization come progetto (elaborato e praticato da Paulo Freire) educativo e di liberazione.
1 Non consideriamo in questa sede Il “modello” della “ricerca-intervento” nelle organizzazioni elaborato dal Tavistok Institute di Londra come articolazione dello schema socio-tecnico di analisi e intervento (progettazione) in campo organizzativo. La logica di questo schema è legata agli sviluppi del movimento delle human relations e si basa sull’idea secondo cui la progettazione organizzativa deve tener conto delle dimensioni tecniche e, simultaneamente, di quelle sociali, cioè dei bisogni dei membri dell’organizzazione. La “progettazione congiunta” è realizzata in modo da garantire il coinvolgimento, la partecipazione e la collaborazione dei lavoratori.
Acquisire competenze per il lavoro interculturale in diversi settori (educativo, sociale, culturale, di ricerca, organizzativo) attraverso un percorso universitario costituisce una sfida dall’esito non scontato. L’esperienza del Master in “Competenze interculturali. Formazione per l’integrazione sociale”, promosso dall’Università Cattolica di Milano e giunto alla dodicesima edizione, ha affrontato in questi anni – con i docenti e con gli studenti - tale impegnativo compito.
“Intercultura” è l’oggetto di studio del Master e nella programmazione didattico formativa, è declinata in specifiche competenze interculturali: proprio l’attenzione allo sviluppo di competenze giustifica l’utilizzo, nel titolo del Master, del termine “formazione”, ad indicare la preoccupazione costante, lungo tutto il percorso formativo, per l’acquisizione di saperi utilizzabili in situazione.
Una preoccupazione che non sempre si è coniugata e si coniuga con la tradizione e con la cultura formativa accademiche, ma che si è tradotta, nel corso degli anni, in una ricerca costante, da parte dell’équipe didattica del Master 1, di nessi tra contesto universitario, temi di apprendimento interculturali e processi formativi.
Un aspetto specifico di tale ricerca e oggetto di analisi in questo articolo, è costituito dal tentativo di individuare modalità formative capaci di promuovere e sostenere lo sviluppo, in situazioni reali, delle competenze oggetto di formazione.
Se è vero che nell’impianto formativo del Master, sin dalla sua prima edizione, hanno trovato spazio – oltre a tradizionali lezioni frontali – momenti di lavoro individuale e di gruppo, laboratori monografici e di supporto alla rielaborazione formativa delle conoscenze proposte, tirocini presso realtà operanti in ambito interculturale, nel corso delle ultime tre edizioni però, l’équipe didattica ha valutato la necessità di integrare nella programmazione didattica, un modulo formativo specifico, il Progetto Formazione Intervento (PFI), finalizzato proprio a rinforzare ulteriormente lo sviluppo, in situazioni reali, delle competenze interculturali.
Il Progetto Formazione Intervento
Il PFI prevede un “trasferimento” delle attività formative dalle aule universitarie ad una realtà territoriale specifica caratterizzata da situazioni di pluralismo culturale e introduce nella didattica alcuni aspetti operativi specifici di acquisizione ed esercizio delle competenze 2.
Dal punto di vista metodologico, il PFI si presenta come attività formativa connotata da alcune dimensioni qualificanti:
Organizzativamente, viene realizzato un primo modulo intensivo di tre giornate, finalizzato a:
Gli output di questo primo modulo intensivo consistono, da un lato, nell’elaborazione, da parte di studentesse e studenti, di un profilo della comunità locale dal punto di vista delle problematiche connesse all’immigrazione e, dall’altro, nell’individuazione e descrizione di situazioni-problema significative intorno alle quali articolare il lavoro progettuale della fase successiva.
Il secondo modulo intensivo di tre giornate è invece maggiormente orientato a sviluppare capacità di progettazione e programmazione degli interventi ed è finalizzato a:
Nel corso dei tre anni di attuazione del PFI, coerentemente con l’approccio di ricerca azione adottato, le finalità del PFI si sono ulteriormente declinate e specificate e il lavoro di ricerca, di riflessione, di verifica realizzato con le studentesse e gli studenti, con i docenti, nei quartieri, ha permesso di focalizzare ulteriori specificità metodologiche e formative importanti che di seguito provo a descrivere.
Per un’intercultura trasversale
Se l’obiettivo del Master è lo sviluppo di competenze interculturali, e non solo l’acquisizione di saperi, il PFI si caratterizza come modulo formativo costantemente orientato a sostenere e costruire mediazioni e connessioni tra quattro dimensioni tra loro interagenti:
La ricerca costante di una mediazione tra queste diverse dimensioni è una attenzione formativa specifica del PFI, necessaria per evitare – da un lato - di “parlare di intercultura” e, dall’altro, per non scadere in un “fare senza ipotesi”: le soluzioni didattiche che integrano aspetti teorici e pratici sono essenziali per formare e accompagnare studentesse e studenti all’incontro, oltre le idealizzazioni, con il pluralismo sociale, professionale, culturale che - prima di divenire prospettiva autenticamente interculturale - spesso si manifesta sotto forma di non conoscenza, diffidenza, separatezza, conflitto (Bennet, 2015).
Per incontrare, per conoscere e comprendere i contesti, le persone, le dinamiche sociali dei territori è importante porsi in ascolto, ricercare, comprendere, abbandonare letture stereotipate o troppo semplificanti dei territori e riconoscerne le sfumature, le specificità, le contraddizioni. Il PFI promuove processi di conoscenza e strategie di collaborazione con soggetti del territorio, prettamente interculturali, attenti cioè a cogliere la densità di sguardi e di significati che nei territori si incontrano, a decentrarsi rispetto alle proprie modalità di pensiero e di azione, a orientarsi verso la ricerca di “spazi di incontro”: “pensare l’intercultura facendola, fare l’intercultura pensandola”.
Da gruppo a gruppo interculturale
Il PFI è anche occasione importante per lavorare con il gruppo e per accompagnare il gruppo di studentesse e studenti a riconoscere a sperimentare la sua specificità interculturale.
Studentesse e studenti che frequentano il Master sono appunto, in primis studenti, alcuni neo laureati, altri operatori sociali ed educativi, insegnanti, operatori della cooperazione internazionale che già lavorano in contesti interculturali e che nella frequenza del Master ricercano una specializzazione specifica nell’ambito del lavoro interculturale. E ci sono anche studentesse e studenti di origine straniera che lavorano in servizi o progetti interculturali, con una laurea non sempre coerente e che necessitano di un percorso formativo che formalizzi e integri le competenze acquisite nell’esperienza personale e professionale.
Un gruppo, tante biografie personali e professionali che proprio per età, lingue, culture, storie molto differenti, contengono in sé un potenziale interculturale che in aula fatica ad emergere, anche per il prevalere di uno studio individuale, ma che nel PFI trova occasioni, spazi, tempi per darsi.
Il gruppo, nell’uscire dall’aula e dal setting universitario, nel “trovarsi in situazione”, si scopre plurale e può farsi interculturale.
Il PFI accompagna gli studenti fuori dall’aula, in territori che non conoscono, in situazioni talvolta spiazzanti, propone loro scene e scenari anche poco noti (si pensi all’incontro con la periferia metropolitana per chi vive in un piccolo paese…). L’incontro con i territori non solo chiede di attingere anche a risorse personali, relazionali per orientarsi, per riuscire ad entrare in ascolto, per stare anche nell’incertezza del poco noto, ma chiede anche di condividere strategie, con il gruppo, per decidere come muoversi, chi incontrare, quali priorità di ricerca darsi. Un setting formativo che chiede di attingere a quanto studiato fino a quel momento, ma che attiva una immersione anche personale e relazionale molto vicina a situazioni lavorative reali: il lavoro sul territorio, il lavoro di équipe, scadenze e compiti, l’incontro con la rete di servizi e organizzazioni…
Il gruppo, nel PFI, si fa gruppo di apprendimento e gruppo interculturale nel senso che elabora e trova risorse e strategie per collaborare, per condividere una mappa di lettura e comprensione del territorio e del proprio stare in quel territorio, negozia strategie di relazione, di comunicazione, di decisione che in aula difficilmente sarebbero emerse.
Mediare l’incontro con il territorio
Il PFI deve collocarsi e prendere forma in un “perimetro territoriale” particolare che è importante presenti alcune caratteristiche:
Il PFI si caratterizza come dispositivo formativo attento a ricerca una mediazione costante tra “vita del territorio e studenti”, per non “buttare studentesse studenti nella bolgia della complessità (e talvolta della conflittualità) sociale” e per non correre il rischio di metterli nella condizione di “ritirarsi” per la fatica a gestire un livello di complessità eccessivo, o di banalizzare il processo conoscitivo e di non cogliere la densità della storia del territorio e le dinamiche sociali e interculturali che lo attraversano.
Sostare nell’aula temporanea
Il PFI prevede e propone un decentramento rispetto all’aula universitaria: studentesse, studenti e docenti nel PFI, cambiano aula, svolgono le lezioni presso uno spazio offerto da organizzazioni del territorio (sedi di cooperativa ed organizzazioni sociali del territorio), “escono” sul territorio e incontrano cittadini, operatori sociali, amministratori, abitanti del quartiere che li aiutano nella costruzione della conoscenza di quel territorio attraverso interviste, dialoghi, osservazioni, analisi di dati, ricerche documentali. Nel PFI, studentesse studenti camminano, si muovono, vanno ad incontrare i testimoni privilegiati, attraversano vie, piazze, giardini, dialogano con le persone, fanno fotografie, elaborano mappe dei luoghi che osservano. E poi ritornano nella loro aula, temporanea, dove, insieme ai docenti, rielaborano, rileggono, decodificano quanto scoperto, ascoltato, visto.
Per un verso, il PFI allestisce un’aula temporanea in cui quanto ascoltato e osservato nelle uscite e negli incontri viene sistematizzato e ricomposto, grazie anche all’accompagnamento dei docenti e agli apprendimenti sviluppati, in precedenza, in università.
Per un altro verso, gli apprendimenti sviluppati precedentemente nelle aule dell’università, nell’immersione in situazione, si ampliano, si articolano, acquisiscono una densità maggiore, trovano la possibilità di declinarsi in competenze e di integrare ed arricchire il percorso di formazione personale e professionale di studentesse e studenti.
È nell’aula temporanea che diventa possibile costruire mediazioni e connessioni tra il qui ed ora del PFI e ciò che accade, prima e dopo, in università, è nell’aula temporanea che studentesse e studenti “riportano l’esperienza” e la riattraversano per sperimentare modi e forme specificatamente interculturali, per conoscere, interagire, collaborare.
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1 Il Master è stato diretto dalla prima edizione (a.a. 2002-03?) dalla prof. M. Santerini; a partire dall’ a.a.2013-14 (undicesima edizione) la direzione è stata svolta dalla prof. M.Colombo; il coordinamento didattico è stato sempre svolto dal prof. P. Reggio; tutor e componenti dell’équipe didattica sono stati Elisabetta Dodi, Ulderico Maggi e Monica Oppici
2 Nel corso di questi anni il PFI è stato realizzato in alcuni quartieri di Milano: Dergano (a.a. 2012-13) e Giambellino (2013-14 e 2014-15)
L’essere in sé una “organizzazione a tempo” rappresenta per i partecipanti una rilevante opportunità di sperimentazione e confronto con la realtà operativa “lavoro per progetti”, pratica oggi estremamente diffusa nell’organizzazione contemporanea, che contiene simultaneamente del tempo organizzativo contemporaneo i dati di flessibilità e insieme di precaria imprevedibilità.
Questo insieme di problemi-obiettivi sono conseguibili attraverso la presenza combinatoria di alcuni dispositivi-strutture indicati come i pilastri della struttura di action learning:
La metodica dell’action learning è oggi declinante e nella cultura manageriale e organizzativa italiana poco utilizzata. Metodo in sé collettivo action learning è stata travolta dallo tsunami delle pratiche formative one to one, dal coaching, dal counseling, dal mentoring. Tutto questo (pur senza alcuna intenzione di contrapporre metodi in sé diversi e in sé utili per bisogni formativi e contesti organizzativi diversi) marginalizzando la realtà più pregnanti dell’essere l’esperienza organizzativa, ancora oggi, un’esperienza soprattutto collettiva.
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“Formazione & Cambiamento”, come sanno i suoi più assidui (e meno giovani) lettori, è apparsa per la prima volta per mia iniziativa nel 2001 ed ha continuato ad essere pubblicata regolarmente con frequenza bimestrale nel sito istituzionale del Formez.
Per ragioni legate a scelte editoriali del Formez, “Formazione & Cambiamento” ha cessato di essere pubblicata nella sua forma originaria nel luglio 2014 (l’ultimo numero di quella serie è l’84).
Nei suoi 14 anni di presenza nel web, “Formazione & Cambiamento” è riuscita a conquistare l’interesse di un pubblico sempre più vasto caratterizzandosi come un veicolo di servizi informativi - rivolti ad una platea molto ampia di attori della formazione - a variabile grado di approfondimento su un insieme di temi legati all’apprendimento degli adulti. Questa prospettiva, volutamente ampia ed aperta, si è tradotta in una logica editoriale orientata a cogliere nella misura del possibile una molteplicità di temi, di questioni e di riferimenti alle pratiche seguendo un approccio transdisciplinare quanto alle teorie di riferimento, fondato sul legame con le (e sulla valorizzazione delle) esperienze, aperto al confronto.
È difficile dire quanto l’esperienza dei quattordici anni (e 84 numeri) di “Formazione & Cambiamento” abbia contribuito allo sviluppo della cultura della formazione italiana – in un tempo di scarsa presenza non solo nel web di punti di riferimento – riviste, newsletter, ecc. – specializzati e autorevoli. Certo è che la rivista ha potuto contare sul contributo di moltissimi esperti di riconosciuto valore che hanno risposto generosamente (con articoli, interventi, interviste) alle mie sollecitazioni a collaborare alla costruzione dei vari numeri del webmagazine. Al tempo stesso, non si può non segnalare, almeno come indicatore di gradimento, la crescente attenzione degli addetti ai lavori testimoniata dalla notevole dimensione quantitativa degli abbonati alla rivista – l’ultimo dato disponibile ne registra circa 13.000.
Il ragguardevole patrimonio di contributi di ottimo livello accumulato in tutti questi anni (e “custodito” nel vasto archivio della rivista, ma anche nella memoria collettiva dei numerosi attori che hanno reso possibile la nostra “impresa”) non può andare disperso; al contrario, reclama di essere recuperato, valorizzato e rinnovato. Ma anche la responsabilità verso i tanti lettori e abbonati che finora hanno seguito il nostro lavoro impone di riprendere il cammino bruscamente interrotto lo scorso anno.
Sono queste le ragioni principali che mi hanno indotto a rilanciare in forme decisamente rinnovate (nell’ispirazione, nella logica editoriale e nella forma grafica) l’esperienza di “Formazione & Cambiamento”, il cui sottotitolo (“Rassegna trimestrale sulle teorie e sulle pratiche dell'apprendimento") riassume l’intenzione di tenere insieme le dimensioni della teoria e della metodologia da un lato e quelle dell’esperienza concreta dall’altro.
Allo scopo di rendere tale rilancio più efficace e più ampiamente condiviso ho invitato a collaborare nell’impresa (e loro hanno accettato con entusiasmo) Myriam Giangiacomo, Giusi Miccoli e Vindice Deplano che, insieme a me faranno parte del “comitato editoriale” della rivista e contribuiranno a rafforzarne la gestione e ad ampliare sia la rete degli autori, sia la platea dei lettori e degli abbonati.
Una nutrita schiera di esperti – in vario modo impegnati nella riflessione sui temi della formazione e dell’apprendimento – comporrà il nuovo “comitato scientifico” della rivista.
La linea adottata dal comitato editoriale per il rilancio di “Formazione & Cambiamento” punta a pubblicare quattro numeri l’anno e a concentrare in ogni numero un limitato numero di articoli dedicati all’approfondimento di un tema specifico. La "formula" dei numeri tematici (o speciali) obbliga di volta in volta a selezionare questioni rilevanti sulle quali focalizzare l’attenzione e l’invito alla riflessione (attenzione e riflessione che riguardino al tempo stesso gli autori e i lettori). La scelta dei temi da proporre rifletterà inevitabilmente quanto emergerà dal dibattito e dalla più accreditata produzione scientifica. Ogni tre mesi dunque usciremo con uno speciale che affronterà un tema definito la cui cura sarà affidata da noi ad un editor esperto del tema che si occuperà di (a) introdurre il numero speciale con un suo contributo; (b) di individuare gli autori di tre articoli (che potranno essere di più in ragione della complessità o della rilevanza del tema affrontato).
Oltre all’approfondimento tematico, ogni numero conterrà una rubrica dedicata alle pratiche formative raccontate da formatori o consulenti o ricercatori che ne abbiano fatto esperienza. Le pratiche di cui si ospiteranno tre resoconti narrativi dovranno fare riferimento al tema dello speciale di ciascun numero. Sarà possibile in tal modo mantener vivo il legame tra teorie e pratiche richiamato dal sottotitolo della rivista e sarà possibile rafforzare il legame della rivista con i suoi lettori. Allo scopo di rintracciare tali esperienze, bisognerà lanciare regolarmente una sorta di call rivolta ai lettori (una call permanente in sostanza) che chieda degli articoli su casi di formazione di particolare interesse e comunque attinenti al tema dello speciale in programma (è del tutto evidente che per la pubblicazione saranno seguiti criteri quasi-concorsuali per cui, a insindacabile giudizio del comitato editoriale e dell’editor dello “speciale”, saranno pubblicati i migliori tre). Attraverso questa rubrica, si darà voce ai portatori di esperienze utili (nell’ipotesi che sia sostenibile un processo di partecipazione dei lettori) e al tempo stesso saranno valorizzate pratiche meritevoli di attenzione e di diffusione.
Non mancherà, come da tradizione, una rubrica dedicata al suggerimento di letture (libri, riviste, ecc.) ritenute rilevanti dal punto di vista del loro contributo allo sviluppo dei saperi teorici e metodologici dell’apprendimento e della formazione.
Tutti i contributi – tanto gli articoli dello “speciale” e quelli dedicati alle esperienze, quanto le recensioni – avranno un “taglio” essenziale sia sul piano dell’esposizione (e dell’argomentazione) dei contenuti, sia, per conseguenza, su quello della lunghezza. L’equilibrio e l’omogeneità delle dimensioni sono una condizione necessaria per realizzare un “prodotto” agevolmente fruibile da una pubblico tendenzialmente molto vasto di lettori.
Come si vede, le scelte adottate per il rilancio di “Formazione & Cambiamento” puntano su una linea agile ed essenziale. È una scelta di campo, questa, che si propone di offrire contributi capaci di penetrare in profondità e in estensione nel vasto “territorio” della formazione italiana. “Formazione & Cambiamento” non è, né vuole essere una rivista accademica, ma non rinuncia in alcun modo al rigore concettuale, alla solidità dell’argomentazione e all’adesione alla realtà concreta delle pratiche professionali degli operatori.
Licenziamo dunque questo “numero zero” nella speranza che alle premesse qui enunciate seguano svolgimenti all’altezza delle nostre intenzioni.
Sono assai diffusi oggi approcci e modelli di intervento formativo, educativo, organizzativo e sociale fondati sulla partecipazione attiva dei soggetti coinvolti. Alle origini di tali modalità di azione si rintracciano contributi di ambiti disciplinari differenti: sociologia delle organizzazioni, psicologia e pedagogia sociale, psicologia di comunità. A partire dalle storiche istanze del paradigma della ricerca-azione formulate da Kurt Lewin, dai principi dell’educazione attiva di Dewey, diversi contributi teorici ed esperienze concrete hanno arricchito un panorama oggi assai consistente di opzioni metodologiche. Nell’ambito dell’educazione degli adulti il valore della partecipazione attiva dei soggetti alla costruzione della propria conoscenza è da tempo riconosciuto come fondamentale. Tale centralità – oggi quasi unanimemente dichiarata (benché altrettanto frequentemente disattesa nei fatti) da chi opera nel campo dei processi educativi con gli adulti – trae le proprie origini in alcune prospettive pedagogiche tra le quali, di particolare rilievo, è il contributo offerto dall’educatore brasiliano Paulo Freire (1921- 1997). Dall’esperienza di alfabetizzazione iniziata da Freire nel Nord-Est brasiliano negli anni ’60 del secolo scorso e attraverso numerose pratiche e teorizzazioni si è venuta formando una prospettiva pedagogica e di intervento sociale peculiare ed oggi diffusa – in differenti forme – in tutti i continenti[1]. La proposta pedagogica freiriana ha segnato profondamente l’educazione degli adulti e le pratiche formative. La centralità che in essa assume il soggetto – individuale e collettivo – nella costruzione della conoscenza trova le proprie ragioni di fondo, innanzitutto, in una critica radicale dei modelli educativi da Freire definiti “depositari” o “bancari” (Freire, 2011). Nella logica depositaria –ancora oggi ampiamente e profondamente diffusa nelle concezioni e pratiche di molti inseganti, formatori, operatori educativi – il sapere è predefinito e predefinibile, codificato in discipline, posseduto da alcuni (gli esperti, gli istruiti) che diventano formatori, insegnanti ed educatori. L’educazione, in tale prospettiva, consiste nella trasmissione del sapere da chi lo possiede a chi non lo ha. La conoscenza va, appunto, depositata in chi deve imparare. Tale concezione presuppone una definizione univoca dei contenuti da trasmettere ed implica inevitabilmente la riproduzione della conoscenza proposta e la sua accettazione acritica e passivizzante. A tale concezione, Freire contrappone una prospettiva di educazione “problematizzante” e “dialogica”. La conoscenza, in questa accezione, è problema per il soggetto che la deve costruire, questione da affrontare in senso critico non da soli ma attraverso il dialogo tra chi “insegna” e chi “impara”. Nel dialogo si confrontano dialetticamente saperi diversi: quelli prevalentemente teorici entrano in contatto con quelli pratici per produrre nuova conoscenza. Si rintraccia in questa alternativa all’educazione depositaria uno degli assunti fondamentali che ispirano ancora oggi molte soluzioni metodologiche basate sulla partecipazione attiva dei soggetti alla costruzione della conoscenza.
Il secondo elemento cardine che – nella riflessione freiriana – fonda le pratiche di co-costruzione del sapere, è individuabile nel concetto di “coscienza” e in quello ad esso connesso di “coscientizzazione”, termine peculiare della pedagogia freiriana (Freire, 2012). La coscienza, secondo Freire, è relativa al rapporto tra soggetto e mondo (Reggio – Manfredi, 2007). Quando l’essere umano vive nel mondo e ne subisce unicamente i condizionamenti, la sua coscienza è in uno stato che Freire definisce “intransitivo”: nulla passa tra soggetto e mondo perché lo stato di oppressione – materiale, spirituale, psicologico, cognitivo – è tale da impedire qualunque contatto con la realtà esterna, che unicamente determina le condizioni di vita del soggetto, appunto “oppresso”. Stare “nel” mondo è condizione di ogni essere vivente ma essere “col” mondo è condizione umana specifica. Quando siamo col mondo riusciamo a stabilire con gli altri, con la realtà nella quale viviamo processi di comunicazione e di influenzamento reciproco. Per stare col mondo è necessario sviluppare una coscienza “transitiva” che permette il passaggio comunicativo tra soggetto e realtà del mondo nel quale vive. La coscienza critica viene però distinta, con molta acutezza, da Freire in coscienza transitiva “naturale” e “critica”. La prima è il risultato dell’evoluzione spontanea delle condizioni di vita del soggetto. Il miglioramento delle condizioni materiali ma oggi potremmo anche dire la crescita personale della persona nelle varie età della propria vita, lo sviluppo cognitivo ed emotivo che consegue naturalmente all’essere in contatto con la realtà, producono uno stato nel quale il soggetto non subisce più passivamente gli eventi, non è puramente condizionato ma avverte problematicità, incoerenze e contraddizioni. Da questa apertura al mondo nascono domande ma, quando la coscienza è ancora “naturale”, le risposte a tali domande sono di carattere stereotipato e “magico”. Le contraddizioni del mondo si spiegano con il buon senso comune, si adottano le risposte conformiste che la realtà sociale e storica in quel momento fornisce. Mi pare opportuno chiederci quanto atteggiamenti ed abitudini di coscienza naturale siano oggi ancora persistenti in molte situazioni sociali ed organizzative. Spesso spieghiamo contraddizioni e problemi in modo assolutamente acritico, adottando modi di pensare routinari e omologati, ci accontentiamo di spiegazioni superficiali che inducono a fatalismo e sfiducia nelle possibilità di cambiamento. La coscienza transitiva “critica”, al contrario, ricerca spiegazioni anche scientificamente valide, oltrepassa i confini del conformismo, svela contraddizioni e coglie i problemi come occasioni per costruire nuova conoscenza e, appunto, sviluppare coscienza. Mentre il passaggio da coscienza intransitiva a coscienza transitiva naturale avviene per sviluppo spontaneo di fattori favorevoli del contesto e del oggetto, secondo Freire il passaggio verso la coscienza transitiva critica può avvenire solo attraverso un intervento di natura educativa. In qualche modo la coscienza critica va insegnata. Certamente non attraverso la trasmissione di concezioni, idee, atteggiamenti in modo che sarebbe ancora di carattere depositario ma attraverso un processo che – come detto prima – è di natura problematizzante e dialogico. In estrema sintesi, il processo di coscientizzazione è l’esito di percorsi di dialogo, ricerca di situazioni problematiche ed interrogazioni alla realtà ed a sé che conducono allo sviluppo di una coscienza, appunto, critica. Tale processo dialogico è inevitabilmente costruito con gli altri, attraverso lo scambio dialettico, è politico e collettivo. La coscientizzazione produce esiti di umanizzazione, sia in chi è oppresso, sia in chi esercita oppressione su altri. “Ser mais”, “essere più”, è l’espressione che Freire utilizza per indicare il processo di liberazione e di umanizzazione che permette a chi è oppresso di vedere con oggettività la propria realtà, comprenderne le cause ed intraprendere un percorso di emancipazione e a chi si riconosce come oppressore di individuare le ragioni che, a sua volta, lo opprimono nell’esercizio di un ruolo disumano e disumanizzante.
E’ da tali premesse - che fondano non solo una prospettiva pedagogica e di azione sociale ma una concezione antropologica, della società e della conoscenza - che si originano modelli di intervento educativo, formativo e sociale basati, appunto, sul ruolo attivo del soggetto e sull’irrinunciabile dimensione politica nella costruzione del sapere e nella liberazione personale e collettiva. Le realtà sociali, culturali ed economiche affrontate da Freire in America Latina agli inizi degli anni ’60 del secolo scorso sono ovviamente assai differenti dalle situazioni attuali nelle quali noi ci troviamo oggi in Europa ed in un mondo attraversato da radicali processi di globalizzazione(Reggio – Manfredi, 2012). Una rilettura critica della proposta freiriana è oggi necessaria per “reinventare” soluzioni di intervento coerenti con le condizioni attuali. In questa sede, la nostra attenzione si concentra – in particolare – sulla logica che può ispirare, a partire dai principi freiriani prima richiamati, interventi di sviluppo della coscienza critica in ambiti sociali ed organizzativi diversi. Quello che è conosciuto in tutto il mondo come “metodo Freire” – in riferimento alle esperienze di alfabetizzazione degli adulti - viene impropriamente definito “metodo”. Esso non contempla, infatti tecniche e strumenti definiti ma può essere inteso come “metodo” nel senso più profondo del termine, come strada (odòs, in greco), logica che permette di ordinare logicamente azioni, strumenti e tecniche di intervento. Il processo di coscientizzazione è considerabile metodo in questo senso: strategia e logica per sviluppare letture del mondo, comprensioni ed azioni che esprimono una coscienza critica. Riprendendo diverse formulazioni dell’impostazione metodologica freirana si possono individuare alcuni momenti di questo processo (Gerhardt, in Gadotti 1996, pp 149-172).
L’esposizione sintetica dei momenti che contraddistinguono un percorso formativo, educativo, animativo di sviluppo della coscienza critica non va in alcun modo inteso come procedura da adottare rigidamente ma come guida logica per mantenere saldo l’orientamento nel corso della prassi (formativa, educativa o di intervento sociale). La logica viene rispettata nella misura in cui viene coerentemente adattata alle caratteristiche del contesto di riferimento e delle persone con le quali viene agita[2]. Modalità, tecniche e strumenti da utilizzare vanno individuati con analoghi criteri di coerenza con i principi metodologici di fondo.
Lo sforzo necessario è di una incessante reinvenzione delle forme con le quali attivare processi di coscientizzazione, necessari oggi per sviluppare nelle persone, nelle organizzazioni e nei gruppi sociali competenze per affrontare criticamente situazioni problematiche, complesse, non sempre facilmente decodificabili e la cui trasformazione sembra spesso assai ardua. Lo sviluppo della coscienza critica – a livello personale e collettivo - è il principale contributo che la formazione e l’educazione possono dare a tale compito assai impegnativo.
Riferimenti bibliografici
Freire P. (2011), La pedagogia degli oppressi, ed. Gruppo Abele, Torino (ed. or. 1968)
M.Gadotti (e outros) (1996), Paulo Freire. Uma biobibliografia, Cortez Ed., Brasilia
Gerhardt H.P. (1996), Uma voz européia. Arqueologia de um pensamento, in Gadotti 1996, pp 149-172
Manfredi S.M. – Reggio P. (2207), “Educazione e coscienza critica. Note sul concetto di“coscientizzazione” in Paulo Freire, in “Animazione Sociale”, n° 5, Maggio 2007, p.11-20
Reggio P. (2010),Parole nuove che generano l’azione, in “Animazione Sociale”, n°241/2010, pp 56-66
Reggio P.-Manfredi S.M. (2011), Prefazione a Freire P., La pedagogia degli oppressi, Torino, Ed.Gruppo Abele, pp. 4- 20
[1] Per una ricostruzione del percorso educativo e di pensiero di Paulo Freire, vedi il testo fondamentale in lingua portoghese M.Gadotti (e outros), Paulo Freire. Uma biobibliografia, Cortez Ed., Brasilia, 1996. Indicazioni bibliografiche e relative alle esperienze di pedagogia freiriana in diversi continenti di possono consultare sul sito dell’ Instituto Paulo Freire di San Polo del Brasile http://paulofreire.org/ e su quello dell’Istituto Paulo Freire Italia www.paulofreire.it
1. [1] Un esempio di adattamento e reinvenzione metodologica si può vedere in Reggio Parole nuove che generano l’azione, in “Animazione Sociale”, n°241/ 2010, pp 56-66, che riferisce di un’esperienza di lavoro sociale con la popolazione sinta di Trento adottando principi metodologici freiriani