Se parliamo di inclusione...

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L'inclusione è un cammino, non un approdo.

Un cammino individuale e relazionale, fatto di dialogo interiore ed esterno, di domande poste con sincero interesse e di autenticità.

Cosa intendiamo per inclusione

L'inclusione non è l'atto di accogliere una persona all'interno di un gruppo. È anzitutto un atto di riconoscimento.

È riconoscere l'altra persona nella sua unicità fatta di geni, cultura, educazione, formazione ed esperienze di vita.

È la valorizzazione di questa unicità, attraverso l’identificazione di ciò che abbiamo in comune e di ciò che ci rende differenti.

È la valorizzazione delle differenze come fonte di arricchimento delle proprie prospettive, di opportunità di allargamento della propria visione, di - perché no? - conferma delle proprie posizioni proprio grazie al confronto.

È una postura mentale ed emotiva che si traduce in compor­tamenti.

L'inclusione e' bidirezionale

Perché questa postura possa essere agita concretamente, occorre il contributo dell’altra persona. Anzitutto, deve voler essere inclusa.

Può sembrare banale ma, analizzando l'atto di farsi includere, non lo è.

Farsi includere a volte è una necessità. Se pensiamo alla scuola, ai luoghi di lavoro, a tutte quelle aggregazioni umane delle quali si è parte senza aver scelto chi compartecipa, è evidente la necessità di vedersi e sentirsi includere.

In tutti gli altri casi, si tratta di una scelta che individualmente facciamo rispetto all'interesse che una persona o un gruppo ci suscitano e che deve essere tale da giustificare la 'sforzo'.

Per farsi includere occorrono:

  • autenticità, ovvero la capacità e disponibilità a mostrarsi per ciò che si è - con le proprie qualità e fragilità- senza maschere o sovrastrut­ture
  • trasparenza, nell'espressione e condivisione di pensieri, idee, opinioni ed emozioni.
  • inclusività: desiderio di includere l'alterità nella propria vita come sopra descritta.

In una società che sempre più ci chiede di corrispondere a modelli, che si radicalizza in fazioni, che definisce nettamente ciò che è giusto e ciò che non lo è, essere autenticamente sé non è banale. Ecco perché, per farlo, dobbiamo sentire che ne valga effettivamente la pena.

Ecco perché sempre più persone stanno scegliendo di lasciare lavori stabili, perché le scelte e i valori delle organizzazioni in cui si trovano non corrispondono più ai loro.

Dove guardare per includere

Per includere, dobbiamo imparare a guardarci e a guardare le persone e il mondo da diverse prospettive.

Guardarsi dentro (con compassione)

Nonostante la migliore volontà, ci sono persone e situazioni verso le quali includere ci genera resistenza. A volte in maniera automatica e immediata; come se il nostro cervello inviasse segnali di allarme che non sempre riusciamo a interpretare e contestualizzare. In questi casi, a 'parlare' sono stereotipi e preconcetti.

Uno stereotipo è un'opinione su persone o gruppi sociali, non fondata su esperienze dirette e che prescinde dalla valutazione dei singoli casi.

Senza voler entrare in esempi specifici, i proverbi, i motti e i modi di dire sono tipicamente stereotipi perché fondati su pregiudizi.

I preconcetti sono attitudini o preferenze - fondate su stereotipi o convinzioni - che influenzano i nostri giudizi, impedendoci di valutare persone e situazioni nel loro contesto e in modo equilibrato. Poiché i preconcetti sono spesso frutto della nostra cultura, dell'educazione ricevuta o di esperienze personali, il più delle volte non ne siamo nemmeno consapevoli.

Stereotipi e preconcetti possono essere positivi e - il più delle volte – negativi, costituendo così un ostacolo al nostro genuino desiderio di includere.

Diciamoci la verità: non c'è chi non ne abbia né chi possa dire di non averne più.

Sono un modo automatico e 'facile' con il quale il nostro cervello archivia informazioni ed eventi della vita e ci protegge dal reiterare esperienze negative.

Ma sapere di averne e saperli riconoscere ci dà la possibilità di scegliere: seguirli comunque e chiuderci a persone e situazioni (opportunità?) o metterli da una parte e fare esperienza del ‘momento’ per poi decidere se sono fondati e da mantenere o se invece non siano una inutile generalizzazione.

Cosa siamo dipende da cosa guardiamo

Ogni persona è parte di qualche maggio­ranza e di qualche minoranza contempo­raneamente e per tutta la vita. Dipende da cosa - di quella persona - si guarda, dal contesto in cui la si guarda e da chi osserva.

Per fare esempi semplici: una persona caucasica in Italia è parte della maggioranza della popolazione, in Senegal della minoranza. Se quella stessa persona ha numerosi titoli accademici può essere parte di una minoranza in un’azienda e di una maggioranza in un'università.

Ogni persona ha tante caratteristiche, visibili (età, aspetto fisico, accento, colore della pelle, ecc.) e invisibili (nazionalità, valori, esperienze, orientamento sessuale, ecc.) e a seconda di cosa guardiamo in lei, e di chi siamo noi e da quale posizione guardiamo (la nostra età o nazionalità per esempio) ci sentiremo uguali o differenti.

E avviare il dialogo a partire da ciò che ci accomuna o da ciò che ci distingue, disponibili a esplorare - però - anche il resto, per conoscerci reciprocamente nella nostra interezza e unicità.

L'inclusione non si puo' imporre

Se includere significa includere in me, nella mia vita, allora non può essere un obbligo.

Si possono sanzionare comportamenti discriminatori, non imporre quelli inclusivi.

Tra discriminare e includere, ci sono numerose posture intermedie, compreso l'ignorare. L'inclusione si può invece promuovere, valorizzare, sostenere con strumenti e metodologie che ne agevolino la pratica, rispettando le posizioni di partenza, onorando gli sforzi e celebrando gli avanzamenti, lasciandosi guidare dal presupposto che nella propria unicità ogni persona è diversa e perciò tutte le persone sono uguali in quanto uniche.

Il comitato redazionale

Myriam Ines Giangiacomo

Domenico Lipari

Giusi Miccoli

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