Arrivare in ritardo alle inaugurazioni di Mostre o alle presentazioni di libri può costituire un punto di osservazione utile per convivere, senza alcuna ufficializzazione, per qualche istante, un tempo privilegiato con il narratore celebrato.
Il ritardo giustifica una posizione defilata, a volte affannata, a volte inaspettatamente prossimale e il tuo narratore – scrittore, architetto, fotografo, pittore, scultore – quasi sempre maschio, sembra avere con te, proprio perché in ritardo, un ammiccare particolare, al limite di una scoperta oscenità.
Molti anni fa, tanti, alla mostra di un architetto scomparso, allestito dallo Studio di Architettura del figlio, l'architetto famoso: e lui, l'architetto famoso, bello, dalle grandi mani e la faccia malinconica di chi ha incrociato lingue diverse, nel replicare ai sermoni ufficiali non riusciva a essere presente forse come avrebbe voluto e sottolineava con un fil di voce che il padre, quel suo padre tanto amato e al quale doveva tutto, faceva sì l'architetto ma in realtà era un artigiano.
Qualche anno dopo, a dirla tutta molti anni dopo, avrei letto nelle sue pagine postume che per tutta la vita  “era stato amico della gente incerta, perplessa, modesta, che cerca di capire e che è sempre nello stato di uno che non ha capito. Sono molto amico della gente che ha paura” (1) e ricordo che quella notte  leggere quelle righe, nel silenzio opaco della notte di Milano, mi aveva aiutato a comprendere il significato di quel suo antico proporre il padre come artigiano.

“…”

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La piazza sul Campidoglio disegnata da Michelangelo è molto bella, tanto che un possibile affanno se si è in ritardo si stempera con felice naturalezza.
Quel fine pomeriggio l'occasione era mondanamente ghiotta; un famoso scrittore britannico, un suo collega italiano che sosteneva da tempo “vorrei essere per i nostri lettori e le nostre lettrici quello che è lui lassù”. Il terzetto, composto davanti al tavolo coperto da un velluto rosso, era completato dal Sindaco, divoratore dei libri dello scrittore britannico e che nel tempo avrebbe lui stesso scritto libri e diretto film. Conoscevo lo scrittore italiano, eravamo e abbiamo continuato ad essere amici. Trovavo da tempo, leggendo i libri di entrambi, delle risonanze nelle pagine dei due scrittori; coglievo quella sera una sorta di imbarazzo, come se il ruolo obbligato dell'essere un po' simili rendesse impossibile o per lo meno difficoltosa una dichiarazione da parte di entrambi di orgogliosa peculiarità. Kundera racconta come il romanzo non indaghi la realtà ma l'esistenza e come l'esistenza non sia il presente accaduto ma il campo delle possibilità,” di tutto quello che l'uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace” (2). E quei due bloccati li dietro al tavolo rosso dal loro dovere essere simili non potevano quella sera dispiegare le loro esistenze, ma accontentarsi, limitarsi, a raccontare delle loro vite, lo spazio in altre parole che trovi e che ti è dato e che non ti costruisci.
Qualche anno dopo in un libro dello scrittore italiano avrei letto “Mi piacerebbe condurti fino al punto in cui si smette di capire, si smette di immaginare, vorrei condurti dove si comincia a sentire” (3)

“…”

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È un maestro della fotografia europea; un uomo ora anziano, minuto nel fisico, con una voce ferma e un accento che mette insieme due mari, l'Adriatico e il Tirreno.
Ha scattato, e continua, lui sostiene, delle buone fotografie, più o meno due milioni di scatti, immagini che documentano, a tratti con dei lirismi, la quotidianità dei contesti che la sua macchina fotografica ha attraversato.
Respinge con forza quando gli si attribuisce una identità artistica, sostenendo di essere un testimone, un reporter delle azioni delle donne e degli uomini.
Testimonia un orgoglio infinito per essere un fotografo e,  pur dentro quei suoi due quasi milioni di scatti non sembra che l'accumulo di esperienze abbia alterato la sua percezione del passato.
Quando lo si invita ad eventi pubblici non ha pretese che lo possano proteggere; premette solo di non saper intrattenere con una conversazione compiuta e dice sempre: “vengo volentieri, mostro le mie foto e ne parlo” e foto dopo foto, una sequenza quasi infinita sullo schermo bianco, la sua parlata diventa senza interruzione e di ogni immagine narra soprattutto della sua relazione emotiva con quel contesto, quella gente, quel cielo, quell'improvviso squarcio di luce. La fotografia presentifica una assenza, vince il tempo e il tempo sulla pellicola e sull'immagine stampata si fa presente esteso. Io stringo la mia Nikon quasi senza accorgermene, impercettibilmente.
Una sera nel suo studio, prima di cena (non abbiamo mai cenato insieme),  gli ho recitato questa breve poesia di Brodskij (il padre del poeta russo era il fotografo ufficiale del Ministero della Flotta del Nord a San Pietroburgo)
Così ci si addormenta a una Laica abbracciati/
per imprimere i sogni nella lente/
e riconoscere se stessi in una foto/
svegliandosi in una vita più lunga”
e il vecchio maestro sorrideva disteso, quasi incredulo. (4)

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1.) Ettore Sottsass (2010), Scritto di notte, Adelphi, Milano, pag. 80
2.) Milan Kundera (1986), L’arte del romanzo, Adelphi, Milano, 1988, pag. 68
3.) Daniele Del Giudice (1997), Mania, Einaudi, Torino, pag. 82
4.) Josif Brodskij (1990), Intervista a J. Brodskij di Sven Birkerts, Minimun Fax, Roma 1996, pag. 17