1. Da che cosa dipese la grande “rivoluzione” che portò la funzione del personale, a metà degli anni Settanta del secolo scorso, al centro dei processi organizzativi? Che cosa fece sì che si determinasse quel significativo mutamento di ruolo da un profilo eminentemente gestionale a uno marcatamente orientato allo sviluppo delle risorse umane? Molti fattori vi concorsero, non c’è dubbio. Ma uno in particolare a me pare decisivo e cioè l’assunzione, da parte della funzione, di uno specifico compito nel farsi interprete attento e autorevole dello scenario esterno. È questo spostamento di attenzione alla complessa realtà dei fenomeni sociali con cui ogni contesto organizzativo doveva fare i conti, non potendo più ritenere di vivere in una qualche sorta di “splendido isolamento” e pertanto di essere al riparo da ogni influenza dell’ambiente, che fu decisivo per il suo ingresso nel nucleo ristretto di coloro che, ai vertici dei sistemi organizzativi, erano impegnati a definire vision e mission. La funzione del personale, in qualche caso, seppe valorizzare talmente bene questo compito di “vigilanza dello scenario” da ottenere un significativo riconoscimento e ritrovarsi ad assumere un ruolo di primo piano nell’elaborazione delle strategie di sviluppo, non solo di quelle rivolte alle persone, ma di quelle più generali organizzative.
Detto in altri termini, la grande rivoluzione della funzione del personale dipese anzitutto, in questa ipotesi di lavoro, dalla capacità e dal coraggio di fare proprio il compito di lettura e interpretazione dell’ambiente esterno, di raccolta e decodificazione dei “segnali deboli”, come si diceva allora, e di conseguente ridefinizione dei processi organizzativi interni: riallineamento, aggiornamento, innovazione, trasformazione. Questo ovviamente rappresentò un profondo ripensamento di competenze e comportamenti, un ri-orientamento di strumenti e metodi, nuovi e diversi approcci alla lettura dei fenomeni del clima, della cultura, dei valori: come dire un vero e proprio passaggio epocale. Se c’è una parola d’ordine capace di riassumere in sé la discontinuità di scenario da un lato e dall’altro la chiave di lettura di cui la funzione del personale si fece portavoce mi pare possa essere ritrovata nell’espressione, peraltro ben nota, dell’ambiente turbolento. L’espressione voleva indicare ciò che era percepito come un cambio radicale da un tempo e da un mondo di relativa stabilità a uno di crescente instabilità.
Potremmo allora chiederci, sempre per ipotesi di lavoro: come sono andate poi le cose nei quaranta anni che ne sono seguiti? L’ambiente esterno ha mutato ancora una volta aspetto? Abbiamo assistito a un nuovo transito, a una nuova fase? Certamente i transiti, i passaggi di “stato”, le discontinuità sono state più d’una ma nessuna in realtà ha rappresentato un ritorno al passato in termini di indebolimento dell’instabilità. La turbolenza semmai è cresciuta: ha accelerato, talvolta ha assunto un’intensità parossistica, è diventata endemica. Da qui l’insistenza sul “cambiamento permanente”. E della funzione del personale, divenuta ormai per tutti HR, che ne è stato? È proceduta di pari passo su questa linea? Ha saputo affinare, perfezionare, sofisticare le sue letture dello scenario? Ha saputo cogliere, se non anticipare, i complessi risvolti della turbolenza dell’ambiente esterno, le ricadute sull’ambiente interno, gli effetti “indesiderati” sulla vita organizzativa? Purtroppo la risposta sembra qui più complessa, perché quello a cui si è assistito è stata sicuramente una significativa crescita, da parte della funzione del personale, di qualità “metodologica” della sua azione (basti pensare alle tematiche della valutazione e della formazione) ma in molti casi ciò ha finito per assorbire gran parte delle energie destinate alla lettura dello scenario esterno, determinando così un abbandono del compito di “vigilanza” dei fenomeni macro, e un ripiegamento nell’ambito micro, una concentrazione a governare il presente con l’unico obbiettivo di garantire anzitutto una gestione ottimale delle risorse umane di breve periodo, anziché di investire su un orizzonte di sviluppo di medio e lungo periodo. Ciò ha fatto sì che, almeno dalla fine degli anni Novanta, la funzione del personale abbia iniziato a perdere “presa” sulla comprensione approfondita dei fenomeni di scenario finendo per ritrovarsi sempre più confinata nel ruolo specialistico che ovviamente le è proprio. Se dunque fossimo alla ricerca di una nuova stagione per la funzione del personale, per la funzione HR, dal momento che, come è evidente, il prolungarsi della situazione attuale di confinamento del ruolo specialistico finirebbe per tramutarsi in un percorso più involutivo che evolutivo, dovremmo a mio avviso riprendere il senso e il contenuto di ciò che rappresentò la grande rivoluzione di metà anni Settanta. Cioè una riconquista del presidio interpretativo dello scenario e una conseguente riappropriazione di un pensiero di indirizzo dello sviluppo organizzativo con nuove parole d’ordine e nuove formule.

2. La formula dell’ambiente turbolento ha fatto il suo tempo e già da un bel po’. Non è oggi che una tautologia. L’ambiente è per definizione turbolento. La turbolenza è il suo stato permanente, il suo carattere, il suo marchio. Quello che è accaduto (quello che abbiamo registrato negli ultimi trenta anni) è stato un progressivo affinamento di sguardo, da parte dei più attenti osservatori e studiosi, nel cogliere i molteplici volti e risvolti di questa turbolenza, i diversi aspetti che, di momento in momento, si imponevano all’attenzione, i segni particolare i che ne emergevano. Molti si sono dedicati a ciò, e disponiamo ormai di un quadro di lettura assai ricco e approfondito, sfaccettato e articolato. Se volessimo, sempre per ipotesi di lavoro, tentare di riassumere questo scenario in un’unica formula analoga a quella che è stata l’etichetta dell’ambiente turbolento, ci troveremmo certo in difficoltà. Ma in ogni caso, insistendo, potremmo ritrovarla a mio avviso nell’espressione, peraltro ben nota, della modernità liquida.
Diamo una rapida occhiata ai più significativi contributi a cui si può fare riferimento. Seguiamo il rincorrersi di etichette in ordine cronologico. Mi limito qui a una dozzina di contributi, quelli che mi paiono i principali, e li elenco semplicemente: 1986, La società del rischio (U. Beck); 1995, La vita in frantumi (Z. Bauman); 1996. L’intossicazione ermetica (J. Hilmann); 1999, La società dell’incertezza (Z. Bauman); 2000, La modernità liquida (Z. Bauman); 2002, La società eccitata (C. Türcke); 2004, Vite di scarto (Z. Bauman); 2006, L’epoca delle passioni tristi (M. Benasayag, G. Schmidt); 2007, Vite di corsa (Z. Bauman); 2010, La società della stanchezza (H. Byung-Chul); 2010, Guasto è il mondo (T. Judt); 2013, Eros in agonia (H. Byung-Chul).
Lo scenario che questi titoli illuminano è inequivocabile: la criticità del tempo presente è pervasiva, orientata in più direzioni, intricatissima. La domanda che allora si impone è una sola: si può sostenere a buon diritto che i contesti organizzativi siano stati e siano del tutto impermeabili alla “modernità liquida”? Si può sostenere che non ne abbiano subito l’influenza o l’interferenza, che i processi, così come la vita stessa delle persone, ne sia rimasta al riparo? O non si dovrebbe invece tentare di riflettere per comprendere se e come la modernità liquida abbia potuto contaminare dall’esterno l’ambiente interno dei più diversi sistemi organizzativi? Questi interrogativi sono ovviamente retorici: le organizzazioni vivono totalmente immerse nel tempo della modernità liquida. I segnali sono molteplici. Alcuni sono sintomi ben evidenti che hanno sollecitato già da tempo preoccupazione: indebolimento del legame tra individui e organizzazioni, demotivazione e disaffezione, navigazione a vista, accelerazione dei ritmi operativi e perdita di rapidità dei processi decisionali, addensamento degli interlocutori su ogni problema e incremento dei modi e dei tempi degli incontri e delle riunioni, indebolimento delle leadership e dei presidi di integrazione, e così via. Se volessimo riordinare i diversi aspetti di criticità della modernità liquida in alcune dimensioni principali con cui poi fare i conti per verificare se come e quanto essi possono rappresentare altrettanti punti di criticità all’interno dei contesti organizzativi potremmo tentare con il quadro nella figura 1.
 

1_figura 1 per contributo teorico 1.png

 FIGURA 1. Dimensioni critiche principali della modernità liquida

Che cosa emerge da questo quadro? In grande sintesi emerge in primo luogo fragilità, debolezza e precarietà come sentimenti attivati da una turbolenza che genera frammentazione, dispersione e spreco di ogni tipo di risorse, in particolare per ciò che qui ci riguarda, certezze, convinzioni e conoscenze da un lato e propositi, intenzioni e volontà dall’altro. In secondo luogo mobilitazione, messa in scena e frenesia, come connotati emozionali di comportamenti e condotte “alterati” dallo stato di connessione permanente imposto dalla turbolenza, di continuo ingaggio, e di ossessiva chiamata al coinvolgimento totale su ogni problema e questione così come su ogni obbiettivo e compito. In terzo luogo sconforto, sovraffaticamento e apprensione, come vissuti profondi di danneggiamento e perdita del piacere di fare le cose, di spegnimento della passione a fare, di ritiro dell’investimento e di costante preoccupazione. Infine disorientamento, insicurezza e indecisione come stati d’animo indotti da una turbolenza sempre più confusiva, disordinata e caotica che rende nebbioso il procedere, opaco il futuro e oscuro il senso della meta.
Riformuliamo allora gli interrogativi: ci sono segnali deboli o forti, e quali, di emergenza nella vita organizzativa dell’una o l’altra di queste quattro dimensioni? Ci sono “sintomi” e quali? In che misura chi si occupa di HR dovrà in qualche modo farsene carico impegnandosi a ripensare, qualche volta anche da capo la sua azione e i suoi strumenti, oltreché ovviamente i comportamenti e le competenze attese dalle stesse persone a cui azioni e strumenti si rivolgono?

3. Recuperare da parte della funzione HR una nuova padronanza di scenario è riaprire una nuova stagione, un next che restituisca quell’autorevolezza conquistata quarant’anni fa. Significa, a mio avviso, un cambio di passo del pensiero, una nuova prospettiva intellettuale e conoscitiva capace di fare i conti fino in fondo con la modernità liquida. Il che vuol dire abbandonare ogni semplificazione che si sarebbe tentati di adottare per resistere alla complessità problematica che dall’ambiente esterno precipita nei contesti organizzativi, pur restando quasi sempre in ombra, annidata nel tessuto della vita organizzativa, nella trama implicita degli eventi in cui sono coinvolti gli attori organizzativi.
Se si vuole essere capaci di un’analisi sufficientemente disincantata nel valutare ciò che è accaduto negli ultimi vent’anni, si potrebbe cominciare con il riconoscere, ne sono convinto, che molte delle “azioni positive” intraprese dalla funzione HR all’interno del perimetro della gestione e sviluppo delle risorse umane, non abbiano saputo ottenere tutti i risultati che si ottenevano: molte delle iniziative formative, ad esempio, indirizzate ad aggiornare e innovare competenze e capacità che tanto hanno insistito sulla parola d’ordine del benessere organizzativo hanno poi trovato debole radicamento per non aver approfondito adeguatamente e criticamente le ragioni del malessere. Occorre prima padroneggiare il malessere in tutti i suoi risvolti, altrimenti ogni azione ispirata dall’ “ottimismo della volontà” perde molta della sua efficacia: non bastano ricette che enfatizzino lo slancio del “cuore oltre l’ostacolo” siano esse, per fare esempi ben conosciuti, il potenziamento o l’autoefficacia o la resilienza o quant’altro, per far la differenza, per produrre un cambiamento, se non si è consolidato un quadro di analisi consapevolmente impegnato a sfidare il “pessimismo della ragione”.
Al tempo della modernità liquida le cose sono purtroppo assai complicate: nessuna rassicurazione basta a se stessa, se prima non sono state approfondite le buone ragioni che possono convincere del senso di applicare nuove ricette, se non si sono chiariti gli ostacoli del passare dal dire al fare, se non si sono prese le misure di ciò che, sottotraccia, perdura come ambivalenza, perplessità, resistenza. Non bastano cioè le buone parole a costruire buone pratiche, né è sufficiente enunciare un dover essere per ottenere, da parte degli individui, il poter e il voler essere. Al tempo della modernità liquida tutto appare sfuggente, fluido, quasi inafferrabile. Ciò che è indispensabile è, prima di ogni nuova ricetta, un solido ancoraggio di pensiero per ottenere una più alta determinazione nell’azione. Proviamo allora a formulare una prima proposta su ciò che potrebbe essere questo “solido ancoraggio di pensiero”, dicendo che si tratta anzitutto di fare i conti con competenze, capacità, ma soprattutto qualità personali che occorre padroneggiare al meglio al di là del quadro ampiamente noto delle cosiddette hard e soft skills che evidentemente non è più sufficiente a esaurire in sé il saper fare e il saper essere che è necessitato dai tempi. Proviamo a riprendere le dimensioni critiche della figura 1 ritrovando per ciascuna, nella figura 2, quelle “doti di pensiero” che possono consentire di fronteggiarle.
 

3_figura 2 per contributo pratico.png

FIGURA 2. Doti di pensiero utili per fronteggiare la modernità liquida

Il tempo della modernità liquida è un tempo di forti discontinuità. Se i confini dei contesti organizzativi ne sono permeabili le risposte alle più differenti problematiche non potranno che essere trovate padroneggiando al meglio un pensiero della discontinuità. E se poi si ha in mente che tra le forze che accelerano la discontinuità vi è in primo luogo la tecnologia, saper pensare in profondità le ricadute sul terreno specifico dei comportamenti e delle competenze degli attori organizzativi così come su quello degli indirizzi e delle soluzioni di gestione e sviluppo delle risorse umane, non potrà che risultare decisivo.
Così, per stare a questo tema, il quadro di doti personali proposto nella figura 2 va visto anch’esso in discontinuità con l’assetto consolidato di quelle hard e soft skills che si rivelano una volta di più non sufficienti a rispondere alle questioni poste dalle nuove turbolenze. Al di là dei tradizionali saper fare e saper essere occorre dunque ribadire la necessità di un saper pensare capace di esprimere una nuova e diversa “dotazione” di qualità personali da padroneggiare al meglio. Occorre un pensiero sicuro di sé e determinato, capace di procedere con dinamismo e forza nei suoi propositi, di trasformare i vincoli in opportunità, di saper andare “fino in fondo”; occorre un pensiero capace di equilibrio non tanto come moderazione o misura, ma anzitutto come abilità a sfidare i limiti, dotato di un grande senso di realtà, di severità e rigore, nel prendere ogni volta veramente “le cose sul serio”; occorre un pensiero lucido e lungimirante, capace di districare le complessità sapendo andare all’essenziale dei problemi, sapendo cogliere “il cuore dei problemi e il nocciolo delle questioni”; occorre infine un pensiero vigile e al tempo stesso ingaggiato dal cambiamento, capace di inventiva, di escursioni in territori “non noti e non soliti”.
Se questa può essere una nuova dotazione di competenze imposta dallo scenario della modernità liquida, le ricadute saranno su ogni tema che coinvolga la gestione e lo sviluppo delle risorse umane: dalla formazione alla valutazione, dalla selezione al presidio del clima, e così via. Alla funzione HR spetta il compito di ripensare se stessa, il proprio ruolo, e la sua azione per una nuova stagione, per un next che la riveda al centro dei processi organizzativi, da protagonista nella definizione delle linee di indirizzo e da interprete autorevole dei mutamenti dell’ambiente esterno.