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Tra i tanti cambiamenti che hanno interessato le epistemologie contemporanee, una rilevanza particolare assume la duplice svolta che, nella seconda metà del secolo scorso, ha investito, trasformandole radicalmente, le scienze sociali: la “svolta linguistica”, da un lato, e la “svolta narrativa” dall’altro. La prima muove dall’elaborazione di Wittgenstein (successivamente ripresa ed autorevolmente sviluppata da Rorty) e mette in evidenza la centralità del linguaggio nell’esperienza umana. La seconda, riconducibile ai contributi di Lyotard e di Bruner, mette in dubbio il primato della scienza sulla narrazione rivalutando il sapere narrativo (che secondo Lyotard è a fondamento dello stesso sapere scientifico in quanto quest’ultimo, per essere espresso e reso pubblico, deve necessariamente far ricorso al racconto). Il linguaggio, in quanto fondamento di ogni tipo di agire e persino del pensiero, è strettamente legato alla narrazione la quale rappresenta il tratto essenziale e costitutivo della dinamica esperienziale dei soggetti e dei gruppi. Come scrive Sartre in una memorabile pagina de La nausea, “un uomo è sempre un narratore di storie, vive circondato delle sue storie e delle storie altrui, tutto quello che gli capita lo vede attraverso di esse, e cerca di vivere la sua vita come se la raccontasse” (J. P. Sartre, La nausea, La biblioteca di Repubblica, Roma, 2003, pp. 53-54). Le tendenze che ho appena evocato hanno contribuito notevolmente a generare, nel campo delle scienze sociali, un clima più favorevole che in passato nei confronti dei modi di produzione di conoscenza fondati sugli approcci qualitativi e soprattutto hanno restituito legittimità a modalità di rappresentare i fenomeni mediante descrizioni dense e basate su stilizzazioni tipiche della narrazione.
La narrazione, non solo rende possibile la costruzione e la condivisione del significato, ma dà ordine logico e temporale ai flussi caotici del pensiero e dell’esperienza.
Da questo punto di vista la scrittura (e la scrittura narrativa in particolare) diventa cruciale per descrivere efficacemente i fenomeni oggetto d’interesse dei ricercatori (sociologi, antropologi e psicologi), ma anche dei formatori e dei consulenti che operano nell’ambito delle organizzazioni.
E’ un modo di rappresentare la realtà osservata che riesce ad integrare (e spesso sostituire) modalità argomentative basate su stilizzazioni tipiche delle scienze sperimentali. E spesso il “modello”, il punto di riferimento di guardare e raccontare il mondo è costituito dalla letteratura e in particolare dal romanzo. L’uso delle narrative per descrivere la realtà rende possibili letture dei fenomeni tanto penetranti quanto puntuali – e talora molto più potenti di quanto non possano essere quelle proposte da analisi rigorose e fondate su basi tecniche di una certa affidabilità.
La pagina letteraria rende possibile la comprensione profonda dei fenomeni nella misura in cui riesce a concentrare nel testo (e a trasmettere al lettore) descrizione, narrazione e, al tempo stesso, riflessione ed emozione: è la combinazione di tali “ingredienti” che rende possibile la partecipazione del lettore alla costruzione del significato e all’interpretazione del testo.
C’è una grande varietà di testi letterari che costituiscono casi esemplari di descrizione e interpretazione di fenomeni particolari (si pensi, ad esempio, alle dinamiche di potere, al funzionamento delle istituzioni o delle organizzazioni, al mondo del lavoro) ai quali le scienze sociali dedicano risorse ed energie intellettuali cospicue senza ottenere risultati comparabili con quelli derivanti dalla lettura delle narrative: basterà citare a questo proposito le descrizioni dei mercati generali di Parigi proposte da Il ventre di Parigi di Zola, la lettura della burocrazia derivante da Gli impiegati di Balzac o da Il castello di Kafka, la folgorante analisi della fabbrica fordista contenuta nel Viaggio al termine della notte di Céline.
Tra i tanti temi su cui il contributo della letteratura è particolarmente fecondo, quello del lavoro trova nella riflessione proposta da Alberto Peretti (La sindrome di Starbuck e altre storie. Il lavoro attraverso la letteratura, Guerini e Associati, Milano, 2011) un contributo di grande interesse.
La scelta di campo dell’autore nel proporre la sua analisi del lavoro attraverso la letteratura è molto netta: il libro, scrive Peretti nella Premessa, “muove dall’idea che il lavoro sia prima di ogni altra considerazione, un’espressione dell’umano esistere e non un semplice strumento per guadagnarsi da vivere. Sono convinto che il lavoro, per diventare autenticamente produttivo, vada liberato dai paraocchi che lo hanno aggiogato agli apparati di produzione e alle loro logiche, reso docile bestia da soma intorpidita dalle parole dell’efficientismo e del profitto.  Penso che occorra guarire dall’accecamento che separa la produttività materiale dalla produttività esistenziale e spirituale.  Insomma, che un grande processo politico e culturale di civile convivenza sia possibile a partire dal lavoro. Anche da quello malato, offeso, banalizzato. Che chiede gli sia offerta una possibilità di riscatto” (p. 17).
Muovendo da un simile punto di vista, il volume offre al lettore un panorama molto ampio del modo in cui nel tempo la letteratura – dall’Antico testamento all’Iliade, dalla grande produzione rappresentata dal romanzo europeo dell’800 alla narrativa contemporanea – ha affrontato e trattato il tema del lavoro.
Il volume è strutturato in modo da proporre una serie di suggestioni e “concetti” legati al tema del lavoro (tra gli altri: identità, bellezza, creatività, onore, tecnica, ecc.); ciascuno di essi è affrontato e sviluppato attraverso la presentazione e l'analisi del personaggio protagonista di un romanzo o, più in generale, di un'opera letteraria in cui li lavoro ha una rilevanza particolare. Ne deriva, per ogni capitolo-tema-protagonista, una lettura che ci offre interpretazioni dense e ricche di stimoli che aiutano a comprendere la potenza descrittiva dei testi letterari così come la loro capacità di dar conto in maniera compiuta del fenomeno oggetto di analisi. Al punto da poter constatare come una pagina letteraria risulti spesso più rilevante ed efficace nella descrizione di un fenomeno sociale di quanto non riesca ad esserlo un’analisi scientifica puntuale e molto rigorosa.
Lasciando ai lettori il piacere di entrare direttamente in contatto con la ricca proposta di Peretti (essa ha anche una certa utilità didattica che si esprime attraverso una serie di rinvii tematici ai quali è riservato un approfondimento specifico al termine di ogni capitolo), mi limito qui a segnalare, a titolo puramente esemplificativo, il capitolo dedicato al protagonista de La chiave a stella di Primo Levi (il romanzo di Levi è recensito in questo stesso numero di “Formazione & Cambiamento” da Giuseppe Tacconi, autore tra l'altro, di un saggio di notevole interesse dedicato appunto al libro di Levi e al suo contributo all'analisi del lavoro: cfr.: G. Tacconi, Il mestiere del formatore secondo Primo Levi, in “Rassegna Cnos”, 32(2), 2016).

Dalla lettura di Levi proposta da Peretti, emerge non solo una figura vitalissima di lavoratore intelligente e creativo (il montatore di tralicci Faussone) che svolge la sua attività con lo spirito di chi usa la sua intelligenza per “dar vita al mondo, per trasformarlo e portarlo a maggior compimento” (p. 45), ma anche una visione del lavoro come processo in cui l’attività umana è sottratta alla logica reificante dell’economicismo imperante per essere restituita alla sua essenza di opera in cui si riversa la creatività e l’atto vivificante del soggetto in una dinamica che mentre da un lato esalta la dignità di chi lo compie, dall’altro vitalizza (“rende vivente” dice Peretti) il prodotto realizzato. Come si vede da questo cenno all’interpretazione leviana di Peretti, il lavoro incarnato dalla figura di Faussone è davvero un processo di emancipazione soggettiva dai vincoli insopportabili della riduzione meccanica e impersonale del lavoro mercificato.