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La valutazione è una di quelle pratiche a cui, in modo crescente negli ultimi anni, sono state associate, promesse difficili e forse impossibili da mantenere: nelle organizzazioni c’è ad esempio chi, anzitutto su un piano retorico, ne ha fatto la premessa e la garanzia per il raggiungimento degli obiettivi più disparati, dal miglioramento gestionale al riconoscimento dei meriti fino all’incremento dell’equità tra gli attori organizzativi (p. 11). Nonostante la centralità così apparentemente riservata all’argomento, Cepollaro e Morelli illustrano e dimostrano che la retorica manageriale ancora prevalente è carente sul piano delle epistemologie (spesso implicite) che guidano la prassi. Come accade anche in molti contesti educativi, infatti, può capitare di adottare quotidianamente modelli di insegnamento e valutazione carichi di un’epistemologia malamente riduzionista e positivista, perfino quando sul piano delle dichiarazioni esplicite se ne ammettono le carenze: è il modello tenacemente resistente alle smentite del Thomas Gradgrind di Tempi difficili (1854) di Dickens, «a man of realities», «a man of facts and calculations», in linea con l’adagio manageriale ancora diffuso secondo cui «You can’t manage what you can’t measure» (cfr. p. 94).
Come gli autori sottolineano, riformulando il primo assioma della comunicazione di Paul Watzlawick, «non si può non valutare» (p. 21), ma il singolare con cui abitualmente si declina il termine nasconde la necessità di pensare i molti modi possibili del “dare senso” alla misura e quindi al “valutare”. La sfida centrale del libro consiste nel delineare le coordinate epistemologiche e metodologiche per una valutazione sensata, all’altezza di ciò che è stato scoperto sull’essere umano come mente incarnata (embodied mind), situata e relazionale, le cui competenze e le cui azioni emergono da processi storici e contingenti, senza mai essere riducibili a “cose” misurabili, quali sono quelle agognate dal citato Gradgrind. Perciò, situandosi nell’orizzonte epistemologico della complessità, il saggio richiama il principio di Gregory Bateson secondo cui la relazione «viene per prima» e ne trae le conseguenze denunciando l’equivoco di chi aspira a valutare misurando in modo certo e oggettivo le performance di singoli individui isolati dal contesto. Tenendo conto della contingenza e delle relazioni che costituiscono la vita organizzativa ed i suoi attori, infatti, la misura non può che essere, dal lato dell’osservatore, una «stima, densa di soggettività e incertezza» (p. 12). Gli autori mostrano inoltre che, passando dalla concentrazione sulle misurazioni (presunte) oggettive al “senso della misura” ed assumendo «un’idea aperta ed evolutiva di competenza» (p. 14), la valutazione può diventare un’occasione di apprendimento e di scoperta, un modo per esercitare la capacità di anticipazione (nel senso del foresight) esplorando gli spazi evolutivi disponibili tra il cammino intrapreso (l’esistente) ed altri cammini, o andature, possibili. In tal senso la valutazione può diventare qualcosa di ben diverso dall’incasellare l’esistente nelle maglie di tabelle predefinite: qualcosa che assomiglia al disegnare coordinate e mappe che mettano in relazione in modo generativo il presente e l’assente (sia come passato, sia come futuro), ovvero l’esistente, l’auspicabile e il consentito.