È difficile al momento prevedere quali decisioni prevarranno sul delicato terreno delle politiche scolastiche all’indomani delle elezioni legislative del 4 marzo 2018. Certo è che la nuova compagine governativa che emergerà dalle prevedibilmente laboriose consultazioni e trattative finalizzate a dare un governo al Paese, dovrà valutare attentamente la strategia da adottare: la legge 107/2015 (meglio nota come la legge della “buona scuola”) sarà rafforzata mediante eventuali aggiustamenti ritenuti necessari alla luce di una riconsiderazione analitica e critica dell’esperienza fin qui maturata, oppure, al contrario, come dai molti detrattori variamente proclamato – specie durante la recente campagna elettorale –, sarà “smontata” e sostituita con qualcosa d’altro di cui per ora non si intravvede un minimo disegno? In assenza di plausibili previsioni – ed auspicando che non si continui a trattare la scuola come una sorta di “tela di Penelope” il cui tessuto viene di volta in volta fatto e disfatto in ragione delle idee e delle volontà delle forze politiche che si alternano alla guida del governo – varrebbe la pena concentrare l’attenzione sull’esperienza che la riforma della “buona scuola” ha realizzato allo scopo di apprezzarne gli esiti nell’ottica di valorizzare quelli ritenuti soddisfacenti e correggere ciò che si considera da modificare e/o migliorare.
Su un simile terreno di lettura analitica dell’esperienza, tra i tanti lavori disponibili, il recente contributo di Dario Nicoli e Arduino Salatin (L’alternanza scuola-lavoro. Esempi tra classe, scuola e territorio, Erickson, Trento, 2018), centrato sul tema dell’alternanza scuola-lavoro (che rappresenta uno dei punti qualificanti della riforma nella misura in cui diventa elemento strutturale dell’esperienza formativa e si pone come “uno dei vettori più rilevanti per il cambiamento del paradigma pedagogico della scuola” – Nicoli, Salatin, ibidem, p. 7), offre spunti  di riflessione di notevole interesse sostenuti da una nutrita rassegna di casi di studio che esplorano il fenomeno dell’alternanza in una varietà di contesti (dalla classe, all’Istituto, al territorio).
La logica dell’alternanza scuola-lavoro ha radici lontane nel tempo: risale infatti all’assunzione (non sempre esplicitamente teorizzata) dell’insufficienza delle istituzioni educative rispetto alle esigenze concrete della pratica lavorativa e si esprime, nelle varie epoche, secondo criteri e modalità che vanno dalla regola benedettina dell’ora et labora (“il cui asse portante è dato dal riferimento alla realtà, nella prospettiva tomistica secondo cui il mondo esiste indipendentemente dai nostri schemi concettuali, dalle nostre pratiche linguistiche, dalle nostre credenze” – ibidem, p. 35), alle esperienze realizzate nella bottega rinascimentale dove la dimensione della conoscenza astratta dei fenomeni è sempre accompagnata da attività pratiche producendo quella mirabile fusione di lavoro intellettuale e lavoro manuale tanto ammirata ed apprezzata dal Marx della Critica del Programma di Gotha del 1875 che delinea la prospettiva della scuola politecnica in cui la compenetrazione tra lavoro produttivo ed istruzione costituisce la premessa della “ scuola dell’avvenire”, luogo privilegiato della formazione dell’”uomo onnilaterale”. Come è noto, però, la prospettiva dell’alternanza contenuta in nuce nelle esperienze e nelle “visioni” alle quali ho appena accennato, non trova corrispondenze significative nelle realizzazioni delle politiche educative moderne attuate nella maggior parte dei paesi europei nel corso dei due ultimi secoli: schematizzando  al massimo si può dire, infatti, che prevale una logica di separazione tra luoghi della formazione in cui da un lato, la riproduzione delle élite è garantita dai licei e dalle scuole che preparano alle professioni liberali e a quelle “disinteressate”, mentre dall’altro, alle  strutture professionalizzanti è riservato il compito di addestrare coloro i quali sono destinati a svolgere compiti esecutivi (per lo più lavoro manuale in fabbrica). La formazione destinata alle élite della società si realizza dunque all’interno delle istituzioni educative in termini di rigida opposizione al lavoro manuale, mentre ai ceti “subalterni” è riservato un tipo di formazione direttamente finalizzata allo svolgimento di compiti legati alla produzione.  E’ del tutto evidente – come mostra una vastissima letteratura sul tema – che una simile impostazione trovi un limite di fondo (al quale si è cercato in vari modi di porre rimedio) nell’incapacità dei sistemi educativi dualistici di fronteggiare la crescente richiesta di qualificazioni pertinenti e appropriate alle esigenze delle mutate condizioni di sviluppo dell’economia e della società. Non sfugge infatti il problema della non corrispondenza tra le conoscenze acquisite nelle strutture educative formali (sia in quelle “disinteressate” sia in quelle direttamente orientate al lavoro) e il tipo particolare di qualificazione richiesta dal ricoprire e occupare una qualsiasi posizione lavorativa specie in un tempo in cui il ritmo di cambiamento impresso dalle innovazioni nella conoscenza, nella tecnologia, nella società e nella cultura rende rapidamente obsoleta la gran parte delle conoscenze di cui sono portatori gli individui. Tale considerazione, che mette in discussione il ruolo sociale e la stessa “funzionalità” produttiva delle istituzioni educative, può essere colta come un utile punto di riferimento delle riflessioni ed esperienze che, almeno a partire dagli ultimi 40 anni, cercano di porre rimedio ai limiti di una tradizione fondata sulla scissione sociale tra lavoro intellettuale e lavoro manuale e su conoscenze non sempre adeguate al livello di sviluppo del sapere socialmente disponibile. (Tra tali riflessioni basterà qui citare il Rapporto Faure dell’Unesco  Apprendre à être del 1972 che segnala l’esigenza di una maggiore connessione tra processi educativi e mondo del lavoro in un’ottica che postula la non riducibilità dell’esperienza di studio all’esperienza educativa formale: “La scuola deve preparare al lavoro e all’attività produttiva procurando ai giovani non solo una formazione specifica per l’esercizio di un preciso mestiere ma anche l’attitudine all’indefinito perfezionamento e all’adattamento a compiti diversi, via via che evolvono le strutture della produzione e le condizioni del lavoro. Essa deve tendere perciò a moltiplicare la mobilità professionale e ad agevolare i processi di riconversione da una professione all’altra” – E. Faure, Rapporto sulle strategie dell’educazione, Armando, Roma, 1973, p. 296.)
 Il recupero del concetto (e della pratica) dell’alternanza scuola-lavoro si colloca, dunque, nel solco di una tradizione di pensiero piuttosto ricca (basti pensare agli sviluppi legati alle teorie del Lifelong, Lifewide e Lifedeep Learning, alle teorie dell’apprendimento situato, ecc.), che ha come punto di approdo una serie di misure normative di una certa importanza in vari paesi europei. E tra tali misure, bisogna certamente collocare quelle contenute nella riforma italiana del 2015 alla quale (e ai cui esiti) è dedicato il volume di Nicoli e Salatin che affrontano il tema sottolineando come l’alternanza costituisca uno dei dispositivi di maggiore efficacia allo scopo di favorire il passaggio da una scuola tradizionale (definita come “inerte”) ad una scuola “viva” capace di “fornire ai giovani un curricolo per la vita ricco delle risorse culturali che consentano loro di esercitare la propria libertà assumendosi in modo autonomo e responsabile compiti significativi per il futuro della nostra società” (Nicoli, Salatin, L’alternanza scuola-lavoro…, cit, p. 7). La riflessione contenuta nel volume muove da tre assunti di fondo: 1) un’idea della conoscenza fondata su sintesi appropriate tra saperi di base, saperi pratici (ed agiti) e “novità di cui i giovani sono portatori” (ibidem); 2) la scuola dovrebbe essere concepita come un laboratorio fondato sulla ricerca-azione come veicolo di elaborazione che muove dalla pratica per fondare teorie e conoscenze dotate di senso e soprattutto aderenti alla realtà; 3) la scuola infine dovrebbe avere come suo referente ed alleato principale il “territorio”, ossia il tessuto degli attori sociali, economici e istituzionali che strutturano l’ambiente locale in cui essa è inserita.
Muovendo da tale punto di vista, il volume propone nei primi tre capitoli una ricca prospettiva teorica e un solido schema di metodo, mentre nei due capitoli successivi presenta una serie di esempi e di casi concreti di alternanza raccolti in una varietà di situazioni e contesti didattici differenziati (licei, istituti tecnici, istituti professionali, centri di formazione professionale). Le analisi contenute nella presentazione dei casi costituiscono un materiale prezioso per quanti vorranno approfondire le realizzazioni pratiche anche nell’ottica di una riconsiderazione ex post degli esiti di una politica scolastica tanto discussa (anche se prevalentemente in chiave propagandistica pre-elettorale) quanto meritevole di attenzione per i notevoli profili innovativi di cui è portatrice. Chiude il volume un prezioso glossario che propone in 45 voci ben argomentate i termini che in larga misura strutturano il linguaggio tecnico dell’alternanza.
Vorrei chiudere queste note sul lavoro di Nicoli e Salatin sottolineando come l’alternanza – assunta in un’ottica Lifelong Learning –  rappresenti uno dei dispositivi intellettuali e al tempo stesso organizzativi grazie al quale sia possibile superare quel paradosso italiano evidenziato recentemente da C. Calenda e M. Bentivogli (Un piano industriale per l’Italia delle competenze, in “il Sole 24 ore”, 12 gennaio 2018) “…per cui i giovani finiscono troppo presto di studiare, iniziano troppo tardi a lavorare e quando trovano un lavoro interrompono i loro rapporti con la formazione”. L’alternanza richiede però – ma qui bisognerebbe aprire un discorso molto più ampio di quanto consentito dallo spazio di una recensione – che i professionisti che operano sul terreno didattico nella scuola e nella formazione professionale interpretino il loro ruolo assumendo una prospettiva che superi radicalmente la logica dell’insegnamento per privilegiare quella dell’apprendimento: si tratta di un cambiamento di paradigma che mette al centro non più il docente-che-insegna, ma il soggetto-che-apprende e che proprio per questa ragione reclama da parte dei docenti disponibilità, sensibilità e competenze non sempre né facilmente rintracciabili nelle istituzioni scolastiche e formative del nostro Paese.