Un giorno, dopo quattro anni di lavoro alacre da quando ero stato assunto, irrompo nell’ufficio del mio responsabile - avevo 25 anni –“hai un minuto?” - gli faccio – “siediti” - mi fa. Gli punto gli occhi negli occhi e gli dico – senti, non so come la prenderai, ma devo dirti una cosa, io lavoro quasi niente, dopo che ho esaurito i miei compiti, e ho terminato, mi rimane un sacco di tempo: l’ho occupato leggendo, studiando altro, flirtando con le colleghe, andando al bar, ma dopo sei mesi che va avanti così, ho scoperto che può andare a finire in un solo modo: diventerò una specie di scansafatiche. E ci sto già riuscendo, una parte del lavoro l’ho automatizzata scrivendo un software, un’altra parte adattando i miei tempi di consegna ai ritardi degli altri colleghi, un’altra scommettendo sul numero di impegni che non supereranno mai una certa quota ogni mese, in pratica faccio overbooking di lavoro, come le compagnie aeree con i posti sui voli: mi assumo talmente tanti impegni che questa organizzazione elefantiaca e bradipica non ce la fa a starmi appresso e – normalmente- sembra che io faccia il triplo di quello che sono in realtà costretto a fare. Massimo risultato, minimo sforzo. Ma tu che mi hai fatto il colloquio di assunzione: sei proprio sicuro che vada bene così?

Avevamo sempre avuto un rapporto di reciproca lealtà, ma continuava a fissarmi come se gli avessi rivelato una tossicodipendenza. Ruppe il silenzio dicendo che un altro modo c’era: “lavorerai per obiettivi” - mi fa.

Ebbi ciò che meritavo, in tutti i sensi, e meritai molte altre cose da allora, lavorando per obiettivi potevo permettermi di scegliere la velocità che desideravo e, entro certi limiti, imporre anche i miei ritmi: se finivo un lavoro dieci giorni prima lo mandavo in stampa prima: non c’era alcun motivo di attendere i ritardi dell’azienda. Mi cominciai a fare una quantità incredibile di nemici tra i colleghi che mi vedevano consegnare piani e progetti come se non ci fosse un domani.

Oggi, a cinquantaquattro anni, come dipendente di una grande azienda di telecomunicazioni, faccio smartworking perché non potrei e non saprei lavorare altrimenti. Non potrei pensarmi al lavoro in orari diversi da quelli dei miei clienti, e non potrei lavorare oltre l’orario in cui i partner sono a cena o, nel migliore dei casi se negli altri paesi, al Pub dopo le diciassette.

E mi ci trovo bene perché di indole sono un Cacciatore, non un Coltivatore.

Tra i Coltivatori, l’unione fa la forza. La Natura detta i ritmi: ci si alza la mattina all’alba, tutti insieme, marcare visita è tabù, morire è tabù, lavorare insieme è un must. Si condividono gli strumenti, sempre gli stessi, usati sapientemente in modo uguale, c’è una liturgia nel loro uso, c’è un apprendimento e una gavetta da seguire: il falcetto lo maneggiano i ragazzini, il trattore è per i grandi. Si va insieme nei campi, si lavora insieme e si canta insieme, si fa pausa si mangia, si beve vino per anestetizzare la fatica e si ricomincia a lavorare e si torna tutti giù al tramonto, insieme. Ci sono il sabato e la domenica in cui ci si riposa e le feste da onorare. C’è una stagione per tutto, il momento per l’allegria è riportato per iscritto sul calendario, la coltivazione, la vendemmia, la mietitura. I valori sono la lealtà, la sincerità e perciò le informazioni girano alla velocità con cui vengono create. E’ la cultura della condivisione. Del noto, del pregresso. L’imprevisto è bandito, taciuto.

Poi ci sono i Cacciatori come me, dove la forza la detiene e gestisce completamente il singolo individuo perché son guai a cacciare insieme: un rumore maldestro e tutta la selvaggina scappa via. Ci si divide, ci si sparpaglia. Ognuno per sé e la Dea della caccia per tutti. Non c’è un orario da seguire, ma una attenzione da sviluppare insieme al sesto senso. Gli strumenti sono individuali, c’è chi si trova meglio con l’arco, chi con il fucile o chi li porta sempre entrambi e per essere sicuri di carica, potenza, impatto dei proiettili, si costruiscono autonomamente. Con gli altri cacciatori non c’è sincerità né vera unione, si comunica per paradossi: c’è burla e depistaggio, la preda è una, e i cacciatori tanti. Il cacciatore ha tutto con sé, non si confida, non confida neanche nell’aiuto di altri, non confida nella società, lui con la società ha un solo rapporto: la compravendita delle prede al termine della battuta di caccia. 

Svolgo il mio lavoro da smartworker: ma chi è uno smartworker se non un Cacciatore che vive tra Coltivatori? Questa autodefinizione dimostrata empiricamente, mi fa a tratti rabbia, a tratti sorridere.

Verso i clienti sono lo SmartWorker, il Cacciatore, mi muovo per obiettivi, seguo la preda, ma tento anche di anticiparla, di leggere dalla stampa di settore se posso sapere dove si troverà, dove la incontrerò. Dove potrò aspettarla al varco. Non ho ritmi: ho opportunità da cogliere e la fame interiore di opportunità e l’insaziabilità di cercarne altre. Quando trovo un Cliente, posso rimanere a contrattare una soluzione con lui per settimane. E poi per altre settimane configurargli quello che gli serve, lavorando dalla montagna, dalla collina, dal mare, dove sono collegato attraverso strumenti che uso di interconnessione telefonica o parabolica o satellitare, o dal bar sulla spiaggia facendo semplici gesti su un tablet. Con i miei clienti uso il telefono e stabiliamo insieme modi e tempi di firma del contratto, ci mandiamo messaggi di ammiccamento, SMS rapidi ed efficaci, dove non arrivo con la posta, arrivo con whatsapp, ma dove non arrivo con il telefono, c’è la presenza, l’aperitivo strumentale al bar a scambiare qualche informazione. Le distanza non sono un problema: caro cliente, sono disposto a girare mezza regione o a salire in macchina per venire da te nella provincia di Teramo e poi andare a Civitanova Marche nello stesso pomeriggio se vuoi che ti assista.

Poi rientro in Azienda, periodicamente in modo fisico, virtualmente circa ogni quattro ore attraverso i sistemi informatici a cui sono agganciato. Verso la mia azienda sono e rimango un uomo di Gruppo, un Coltivatore, mi muovo cioè per ritmi, tempi, regole, valori, gerarchie, imposte dall’Organizzazione. L’Organizzazione ha i suoi ritmi: il 27 del mese per pagarti lo stipendio e rimborsarti le spese, una codifica fiscale per quello che fai, ti rimborsa alcune cose a cui hai diritto, e ti elenca quelle a cui diritto non hai. Autorizza alcune attività al di fuori delle mura dell’ufficio, ma ne vieta altre… L’Organizzazione obbedisce a leggi e norme su privacy, anti-corruzione, responsabilità sociale e bilancio di sostenibilità. 

Non ultimo, in azienda hai dei coordinatori, dei responsabili, dei capi, che ti incorniciano il lavoro all’interno di una strategia generale, ad una tendenza aziendale di mercato, di finanza, di business. L’organizzazione vuole “capacitarsi” di quello che fai, di come ti muovi, di cosa combini là fuori, insomma. E questo è legittimo oltreché sacrosanto in termini di controllo dei budget e di contabilità industriale e analitica.

Ma.

Continui a chiederti perché lo chiamano “smart” working, proprio così: smart. Ti viene il dubbio che ne esista uno “sciocco”: il “silly” working. 

Ripensi alla tua giornata smart:

ore 7.00 sveglia. il computer è programmato per mandare email a tutti alle 8.00, ora in cui arriveranno in ufficio i colleghi in azienda e cominceranno a lavorare, tempo di un caffè, una chiacchiera e la partenza del lavoro, alle 8.30 saranno tutti già alla scrivania da un pezzo a lavorare le proprie pratiche e a leggere la posta elettronica – facebook, twitter e linkedin sono vietati in azienda.

Ore 7.30 fine colazione e lettura twitter, linkedin e facebook: mio padre è partito per la casa al mare e mi saluta, il mio ultimo articolo è stato condiviso due volte da ieri e il cliente che devo visitare oggi lo ha letto! I miei leader tecnologici hanno twittato alcune considerazioni sull’accaduto dell’ultima settimana-bene! lo userò come argomento nell’incontro di oggi.

Ore 8.00  Accendo il condizionatore perché comincia a far caldo – la bolletta anche questo mese sarà più salata del solito, termino di vestirmi per uscire. 

Ore 9.00  esco di casa diretto al parcheggio e incontro la signora delle pulizie sul pianerottolo. E’ imbarazzata perché da un po’ di tempo faccio smartworking ma ieri è andata in tivù la notizia di imminenti provvedimenti di cassa integrazione nelle aziende del mio comparto e lei mi fissa senza parlare. Chissà cosa penserà. ODDIO lo so cosa pensa! Pensa che mi abbiano cassaintegrato perché sono uscito di casa a quest’ora tarda. La rassicuro con uno “salve signora… oggi lavoro da casa!! Sa com’è! Sono di smartworking… (Eh… fa lei come a dire – non è una vergogna la cassaintegrazione, non c’è bisogno di inventare scuse…) … insisto: “sono di smartworking… lavoro a distanza… si insomma… lavoro a casa!” come se si possa lavorare a casa: il lavoro è sacrificio, o si lavora, o si sta a casa. Mi sto seccando perché non capisco perché io debba giustificarmi… 

Ore 10.00 Mi spiega la motivazione per autogiustificarmi una telefonata di mia suocera che per chiarirmelo me lo tatua sull’amor proprio: “senti ciao siccome oggi non andavi al lavoro, ti volevo ricordare che se vuoi aggiustiamo la lavastoviglie”. Respiro profondamente “no non è che non vado al lavoro, sono a casa per fare smartworking ma poi devo anche andare dai clienti dovrò uscire” – “Ah?” -fa lei – “Ci hai ripensato? Non rimani più a casa?”. “Sì, ci ho ripensato” taglio corto “a dopo, ciao” Butto giù il telefono solo quando mi ricorda che “visto che sono in giro” c’è sempre quella raccomandata assicurata da andare a ritirare di persona all’ufficio postale e che se non ci vado io……

Ore 11.00 Ho già chiamato tre clienti e due fornitori. Ho un orecchio cotto dal telefonino perché per la fretta non riesco ad attivare gli auricolari blutooth. Mi scrive mio padre sul messanger di Facebook “ciao Pa’ ho problemi con il pc, e’ sparito Google” a ottant’anni ha tutto il diritto di esprimersi come se la più importante azienda di Mountain View avesse chiuso i battenti nella notte senza che se ne accorgessero i mercati. Lo chiamo “ciao papa’, fai tap sulle applicazioni e trascinale in home page sul tablet” – “che ci fai a casa?” non sto a casa – “non lavori oggi?” lavoro a distanza papà, t’avevo spiegato- no? - quella faccenda dello smartworking… - “sì ma l’occhio del padrone ingrassa il cavallo, fatti vedere dai capi sennò chissà cosa pensano” ok papà ciao a dopo – “guarda che da quando hai preso a non andare a lavorare sei diventato irascibile, un mio collega dopo due settimane che non lo vedevano lo licenziarono, non ti fidare”.

 

Ore 12.00 La bellezza dello smartworking è che non hai la “mensa” puoi mangiare sano: entro in un bar vegano: centrifuga, hamburger vegano e caffè 12 euro. A mensa erano 7. A quanto pare “mangiare sano” costa. Ma non voglio diventare come certi miei colleghi con le pance da “smartworkers”(eh sì, le pause, in casa, portano spesso verso il frigorifero….)

Ore 13.00 In viaggio verso il cliente mi telefonano tutti: “hai letto la posta?” – no sono in viaggio – “mi serve solo che mi rispondi OK” – ok accosto e te lo scrivo. Dopo tre chilometri incontro una piazzola di sosta, trovo il tablet per rispondere e invece no: la email a cui bastava che rispondessi OK è un capitolato infinito di frasi coordinate e subordinate che sotto il sole sfocano l’una nell’altra. Rispondo OK sulla fiducia, mi capacito che possa essere anche così che si finisca licenziati.

Ore 16.00 Sono stato dal cliente e sono tornato. Rientro in casa. Incontro mio suocero: “ma non avevamo detto di riparare la lavastoviglie?” mi guarda come se io avessi dribblato l’appuntamento fingendo di dover uscire esattamente negli orari utili alla manutenzione dell’elettrodomestico. “Lo facciamo stasera?” la butto là io – “Fa niente chiamo un tecnico” tronca lui.

Ore 19.00 Sto ancora lavorando all’offerta del cliente di oggi pomeriggio, mio nipote sta parlando con mia moglie ogni tanto mia cognata entra in stanza e insiste: vuoi dar retta un istante al ragazzo? Deve presentare un compito domani! “sto lavorando” faccio io. “Certo ma sei chiuso nello studio da due ore di fila” Fa lei, noi in ufficio almeno abbiamo le macchinette del caffè…

 

Ed eccoti qua, allora. Che ti ritrovi a valutare cosa sei allorquando ritrovi la tua Community all’interno di intere società composte da Organizzazioni cresciute in secoli di culture, capacità, indicatori di performance, che in 4 rivoluzioni industriali hanno affilato sempre e ricorsivamente gli stessi metodi di Coltivazione. Ed emerge ciò che sei quando fai smartworking: sei un libero Cacciatore nato da una famiglia di irreggimentati Coltivatori, e quando ti relazioni con loro senti tutte le differenze e le alterità. Tu, smartworker, rappresenti un salto evolutivo, un “salto quantico”, un “digital twin” che serve a fare da cinghia di trasmissione tra i mestieri, i saperi e le culture di un passato vetero-post-industriale, ed il futuro commercialmente liquido e ubiquo dei servizi che ancora non esistono ma dei quali possiamo intuire da qui l’imminenza, la pressione, l’attesa.

L’Organizzazione, in quanto tale, sapeva perfettamente che se avesse dovuto riprogrammare il proprio DNA per affrontare i mercati non avrebbe mai fatto in tempo (con le sue masse, con le sue truppe e metodi e ritmi e tattiche e strategie di manovra di bellica memoria ereditaria). Ha allora inventato un proprio anticorpo, lo smartworker, un supereroe con attrezzature “fuori ordinanza” e “permessi speciali” per arrivare là dove nessuna organizzazione tradizionale avrebbe saputo giungere, e fronteggiare l’ignoto dei business del futuro. Nello smartwoker, nato dai Coltivatori di un tempo, batte un cuore da Cacciatore, non teme l’imprevisto, neanche lo stigma della fallibilità lo assilla, perché sa che non deve stare attento a non fare errori: gli è sufficiente farne meno delle sue prede e degli altri cacciatori. A casa, in azienda, i pazienti Coltivatori lo aspettano per pagargli la cacciagione e per curarlo, se tornerà ferito. Loro – cosiddetti non-smartwoker – sapranno prendersene cura.