Cari Nerina e Mimmo, care lettrici e cari lettori,
ho dato una lunga pre-occupata, ma insieme densa di cura, occhiata alle questioni poste dalla redattrice Nerina Garofalo e da Domenico Lipari e mi sono sentito, più del solito, più acutamente anziano/vecchio in questo mondo di collegati/soli. Cercherò di interloquire in maniera assolutamente sregolata e anarchica non seguendo il flusso delle suggestioni quanto quello delle mie emozioni, mi auguro approdanti a qualche connessione di pensiero.

L’altro ieri alle 8:50 stavo accingendomi a scendere dal tram n° 14 a Milano, alla fermata di Generale Cantore. Il tram non era affollato anche se era ora di punta; ormai la città si sta svuotando avendo forse, i milanesi, appreso più velocemente di altri urbanizzati la diluizione delle ferie. Quattro persone erano in procinto di scendere e attendevano l’accensione del segnale elettronico sul pulsante della porta a soffietto del tram. Davanti a tutti si tagliava un giovane uomo, 25 anni circa, ben piantato, Bruno il mio nipotino direbbe “palestrato”, abbigliato con canottiera alla Bossi, jeans larghi, zainetto a tracolla, auricolari bianchi ben ficcati nelle orecchie con filo di trasmissione che scompariva furtivo nella tasca destra dei jeans; cranio rigorosamente tosato. Il giovane uomo guardava fisso davanti a sé immerso, immagino, in un ascolto soave e trasognante. Immediatamente dietro compariva una signora, diciamo anziana, sui 65 anni, abbigliata con un leggero abito vestaglia, mezze maniche, molto elegante anche se di assoluta semplicità. La mano destra in tasca e la sinistra reggeva il manico di un piccolo carrello vuoto, pronto ad accogliere gli articoli che con alta probabilità la signora si accingeva ad acquistare nel vicino supermercato. Dietro la signora si poneva il sottoscritto e una coppia di giovani amoreggianti. La signora, dal fisico minuto,  un insieme di fragilità, almeno supposte, ha iniziato a chiedere sommessamente e non ricevendo risposta più risolutamente al giovane uomo che aveva davanti qualcosa circa la sua intenzione di scendere o meno dal tram.

La mia attenzione si è concentrata tutta sul giovane che non rispose nulla alle insistenti domande della signora: non poteva sentire nulla infatti, immerso nel suo mondo autistico, nella sua musica, nei suoi pensieri vaganti che sembravano uscirgli dal capo fisso rigidamente verso l’uscita che ha attraversato quando il tram si è fermato senza minimamente rendersi conto di essere stato oggetto di domande, in altre parole di un tentativo di organizzare una comunità lampo tesa al compito collettivo di organizzare l’uscita dal tram nell’interesse comune e dei singoli componenti a comunità in stato nascente. Ha vinto l’individualità, ha prevalso il rafforzamento di una pulsione identitaria e contemporaneamente una irruzione, nelle emozioni della signora, di una crescente incertezza connessa alla diminuzione giornaliera della possibilità di contatto e di dialogo; non tanto di un dialogo digitale che impera sovrano, quanto di un dialogo creaturale, fatto di attimi, di sguardi, di sfioramenti, di toccamenti, di sorrisi, di sviste sorprese. Rumore o musica e probabilmente musica celestiale nel sistema auditivo del giovane uomo e solitudine intrapersonale sulla piattaforma del 14 nelle prime ore di una mattinata d’estate a Milano. Per insipienza, negligenza e anagrafe non so quasi niente sullo smartworking; quando ne sento parlare rivado un po’ nostalgicamente alle campagne di fine anni 90 di Domenico Demasi sul telelavoro.

Credo di aver compreso che la tecnologia nella faccenda dello smartworking ha un grande ruolo e che la tecnologia come ci hanno insegnato Heidegger e Galimberti non sia una faccenda neutrale. Tecnologia è il laser nelle buone mani di un chirurgo provetto che estirpa un tumore proliferante nel corpo di una giovane vita e la orrenda macchina di Auschwitz. Aveva torto Adorno; si può fare poesia anche dopo Aushwitz. Hanno tentato con grande pudore e con alti risultati, Edith Bruck e Primo Levi. Si può fare poesia in tanti modi e la scorsa negli gente alle domande della nostra redattrice mi hanno fatto tornare alle immagini di Hello Denise, un film del 1995 per la regia di Hal Salwen. Attori sconosciuti, scarso successo di pubblico nel nostro Paese, quasi un cult movie ma, fuori da ogni dubbio, un film inquietante  per la sua capacità di preveggenza fino alla visionarietà.

 

Un gruppo folto di giovani donne e giovani uomini (copywriter, scrittori/scrittrici, pubblicitari/pubblicitarie, editor, artisti/artiste figurativi) lavorano tutte e tutti sepolti nei propri appartamenti/loculi parti umane di una rete comunicazionale fitta, insistente, assorbente. E’ doveroso storicizzare, siamo nel 1995 a Manhattan, New York. La tecnologia a disposizione di questi home worker sono la telefonia fissa, primi cellulari di volumi abnormi, fax e, ovviamente, le segreterie dei telefoni fissi. Questa comunità operante e parlante sviluppa conversazioni triangolari, linee dirette, con chiacchiere, pettegolezzi, menzogne, lacrime, scambi affettivi. Nella sala buia del cinema siamo come travolti dalla vorticosità del dialogo e di quella civile conversazione. Ma non si toccano quelle ragazze e quei ragazzi. Possiamo legittimamente immaginare che non si siano mai incontrati. La sequenza iniziale del film ci rimanda verso le 4 di notte, il viso stravolto dalla fatica e dalla delusione di una giovane donna che, nell’angolo cucina della propria abitazione, getta nella raccolta dei rifiuti una montagna enorme di cibo: prelibatezze di ogni tipo preparate per una festa cui nessuno ha aderito, pur all’interno di una ridda di assicurazioni di presenza e di partecipazioni. Nella parte centrale della narrazione accade un evento tragico, una delle protagoniste muore in un incidente stradale. Il dolore della comunità in rete è profondo e sincero. Tutti preannunciano la propria partecipazione alle esequie che in realtà vedono solo la presenza dei due affranti genitori e di una anziana zia, distrutta anche lei dal dolore per la morte così crudele della nipote.  Il fil ha il passo di una commedia che sa inventare una emergenza straordinaria. Arriva Denise, che come Diotima, absit iniuria verbis, non è parte della comunità, è straniera; nessuno sa da dove provenga. Ma Denise attende una creatura ed è ormai in stato di visibile maternità, frutto di una inseminazione artificiale.

Denise, a differenza dei membri cerebrali della comunità in rete, è creatura relazionale e durante le varie visite mediche con la struttura che l’ha aiutata a coronare il suo sogno di mamma, riesce a strappare, superando ogni riservatezza professionale, notizie sull’identità del donatore di seme, in altre parole sul padre biologico della sua creatura. Con nome e cognome Denise, ragazza veloce, risale all’indirizzo e al numero della telefonia fissa dell’ignaro padre che, da questo momento in poi della narrazione, subisce una progressiva stupefazione per quanto la vita gli ha scagliato addosso, a sua totale inconsapevolezza.  Dapprima scettico, riottoso ad accettare l’emergenza che gli può mutare la vita, è progressivamente travolto da una istintualità di base, capace di generargli in un crescendo quasi musicale la gioia interna irrifiutabile di una prossima sua paternità.  E allora una sera esce di casa e va incontro alla sua Denise che con un hello gli ha cambiato la vita ma che è stata insieme capace di donargli l’irripetibile, una piccola bimba. Sono gli unici due di quella comunità che si incontrato e che con altissima probabilità dopo l’incontro sul marciapiede di una strada di Manhattan cercheranno un luogo per fare l’amore confermando che al di là dell’inseminazione artificiale esistono ancora altre modalità di relazionarsi e di generare altre vite.

La narrazione di Hello Denise così anticipatrice, ricordo a tutte e a tutti che siamo nel 1995, rimanda a quella di Her, il recente film di  Spike Jonze, protagonista Joaquin Phoenix, che rinforza l’idea che la digitalizzazione possa essere in sé anche una cosa buona, e lo è senz’altro, ma che debba permettere di far convivere anche tutto ciò che l’antropologia di sapiens ha costruito lungo la speciazione umana e che la digitalizzazione in sé non può sostituire. In altre parole dobbiamo rifuggire dall’aut aut e abbracciare, secondo l’insegnamento di Beck, la cultura dell’et ... et e pensare e soprattutto sentire che la veglia e il sonno non debbano necessariamente cancellare il dormiveglia. 

 

Ciao, e felice smartworking

Giuseppe Varchetta