Sono arrivata a Lisbona perché mi sono innamorata del portoghese.
Per un lungo periodo ho ricondotto questa attrazione verso la lingua di Pessoa a un viaggio in Brasile che ho fatto a vent’anni con la mia migliore amica, durante gli anni dell’università. Poi ho capito che quella è stata soltanto la seconda tappa di un viaggio linguistico cominciato almeno dieci anni prima, a Villa Aldobrandini di Frascati, dove i miei genitori mi hanno portato a sentire un concerto dei Madredeus.
Quella musica struggente, accorata, cantata in una lingua incomprensibile e misteriosa ha lavorato dentro di me per anni, fino a quando, da grande, ho capito che si trattava del modo di parlare di un popolo che occupa una lingua stretta di terra schiacciata tra la Spagna e l’Oceano Atlantico. Su queste note romantiche e spinta da un desiderio di evasione tipico dei vent’anni, ho fatto richiesta per l’Erasmus a Lisbona, della durata di un anno, e l’ho vinto. Studiavo antropologia alla Sapienza di Roma, abitavo con degli amici in una casa allegra e piena di gente a Piazza Bologna, riuscivo a guadagnare abbastanza bene con le ripetizioni  e avevo un fidanzato a Milano. Ero contenta di come andavano le cose, ma volevo partire, trasferirmi da qualche parte, immergermi in una cultura aliena e vedere che cosa si provava. Non c’era una meta che desiderassi più del Portogallo: se ne sentiva parlare ancora poco, conoscevo la lingua, perché nel frattempo l’avevo studiata, e amavo il fado e Pessoa. E poi il mio coinquilino mi aveva detto che Lisbona era la città europea più bella che avesse mai visto (poi ho scoperto che però era anche l’unica!). Mi sembravano degli ottimi motivi per volerci vivere.
Così ho preso qualche libro di antropologia e a settembre del 2010 sono arrivata a Lisbona insieme al mio paziente fidanzato dell’epoca, che aveva deciso di accompagnarmi in questa nuova avventura, prima di sparire per sempre dalla mia vita.

Lisbona era allegra, gialla e piena di sole: molti di noi l’hanno ribattezzata la città della luce, alcuni mesi dopo.
Ho trovato casa nel quartiere più incasinato della città, ho cominciato a frequentare l’università, ho stretto le prime amicizie (che poi sono rimaste anche le più solide) e ho trovato un nuovo fidanzato. Nel giro di un mese la mia piccola vita di ventiquattrenne è cambiata del tutto, ero felice di vivere fuori, di conoscere ogni giorno persone e strade nuove, di innamorarmi della città più malinconica d’Europa e di sentire che trasferirsi all’estero non era poi così male… Ricordo un anno pieno di euforia, scoperte quotidiane, nuovi legami, curiosità e salti nel vuoto: un anno indimenticabile. Ho dato tutti gli esami previsti, ho ballato su ritmi nuovi, ho mangiato e bevuto alcune delle cose più buone della mia vita e soprattutto ho ascoltato tantissima musica dal vivo, perché la sera Lisbona si trasforma in un’isola tropicale, in cui si suona fino al mattino.
Allo scadere del periodo di Erasmus, così, ho deciso di rimanere a Lisbona, mentre tutti gli amici (o quasi) tornavano a casa per finire l’università. Lisbona e io avevamo ancora molto da dirci, tanto che ho avuto un indirizzo portoghese per altri due anni. Ho continuato a studiare a distanza, tornando a Roma soltanto per sostenere gli esami all’università. Mentre ero a Lisbona lavoricchiavo, ma soprattutto camminavo, prendevo treni, scoprivo quel piccolo grande Paese che si affaccia sull’oceano e mi entusiasmavo.

Studiare i luoghi, la storia e la cultura portoghese ha cambiato il mio sguardo inesorabilmente, lasciandomi in eredità la passione per i bar gestiti da persone anziane, per le mattonelle colorate (gli azulejos), per la musica di inizio 900, per i bar al porto che friggono il pesce anche di notte, per i tram d’epoca, per i castelli dei Mori, per il salmone e l’interesse spasmodico per le dittature (quando ero lì ho svolto una ricerca antropologica su Salazar che ho presentato in un’università turca).

Di casa mi mancavano soltanto i miei e gli amici e sono tornata a Roma per fare un altro lungo viaggio che mi ha portata in India, dove ho svolto la mia ricerca di antropologia sul campo. Dopo l’India ho lasciato definitivamente il mio indirizzo portoghese e mi sono ributtata nella vita romana: avevo molto da recuperare e soprattutto dovevo mettere radici da qualche parte. Farlo a casa all’inizio mi è sembrato un piano folle e un po’ forzato dagli eventi, ma sicuramente necessario e oggi sono contenta di averlo fatto, anche perché bisogna imparare a restare, secondo me.

Quando sono tornata in Italia, mi è capitato di leggere “Il mondo di ieri” di Zweig, un libro che, tra le tante cose, racconta la creazione delle frontiere europee, l’invenzione dei passaporti, la divisione di quello che un tempo era stato unito, la decadenza di una comunità artistica transfrontaliera che vedeva Milano, Vienna, Parigi e Torino nella stessa mappa geografica. Ricordo di aver pensato all’Europa che avevo conosciuto nei baretti di Lisbona e di Porto, così naturalmente spalancata all’altro, socievole, intrigante, collaborativa, allegra. Ricordo di aver pensato alle centinaia di persone che avevo incrociato in tre anni, a tutte le lingue che avevo sentito parlare, ai dialetti che avevo imparato a capire, alle confidenze che avevo scambiato, ai libri che avevo letto, ai cibi che avevo assaggiato e alle canzoni che avevo imparato a memoria.
L’Europa dei miei vent’anni era pacifica, entusiasta e un po’ sprovveduta, come eravamo noi, buttati in cento sulle rive del Tago a sentire musica e a sentirci leggeri.