Mi chiamo Letizia, ho trent’anni (purtroppo ancora per pochissimo) e sono nata e cresciuta a Roma. Dopo gli studi classici e anche un po’ omologato-borghesi, mi sono laureata in economia a Tor Vergata. Per motivi diversi ho sempre sentito la necessità di andare a studiare fuori dall’Italia: un po’ perché a differenza di molti amici non ho fatto l’Erasmus ma soprattutto perché, per curiosità e anche ambizione, avevo voglia di sperimentare diversi metodi di studio e scoprire nuovi obiettivi o percorsi.
Per questo sono partita per il Regno Unito nel 2010 e, tra una cosa e l’altra, non sono più tornata, se non per un anno. Detta così potrebbe sembrare che questo Paese abbia rapito il mio cuore e mi piacerebbe poterlo dire – o forse no – ma non è così. Sono tornata in Italia nel 2011 per un dottorato a Roma ma poi quella stessa spinta, non completamente razionale, al cercare di nuovo e di più mi ha riportato all’estero l’anno dopo (tra l’altro nello stesso posto). Il dottorato si sa – anche se forse non abbastanza – è una cosa lunga, soprattutto quando non trovi subito la tua strada o la trovi ma poi la perdi. Fatto sta che tra dottorato, amore e lavoro sono ormai quasi 7 anni che sono qui.

(Soprav)ivere all’estero non è facile. In un paese come l’Inghilterra poi per me non lo è stato per niente. Non ho mai vissuto a Londra, l'immensa città-stato che poco ha a che vedere con il resto del Paese. Ci sono più di 250mila italiani ed in generale moltissimi stranieri. L’integrazione è più facile e, quando non lo è, è meno evidente. In ogni caso, io ho vissuto a Coventry, Leamington Spa (che ha meno abitanti di Monte Sacro a Roma) e Bristol, in ordine cronologico e forse un po’ anche di vivibilità (Bristol ovviamente è la migliore, tra le altre due è una brutta lotta).
Nei miei primi anni qui ho avuto molte difficoltà nell’accettare la maggior parte delle diversità culturali e ambientali tra l’Italia e l’Inghilterra: l’assenza del culto del cibo, il clima terribile, l’ostinata assenza di flessibilità, la mancanza di un passato artistico (a parte quello musicale semi-contemporaneo), la guida dal lato sbagliato, la repressione emotiva sfogata nell’alcool. Tutte queste cose nel loro complesso hanno sempre creato un senso di alienazione e solitudine culturale, che per qualcuno come me, che prende energie quasi interamente dalle interazioni con l’esterno, è stato a tratti spaventoso. Questo spavento è però rimasto abbastanza contenuto fino a quando sono rimasta nel contesto universitario che è estremamente internazionale, aperto e comunque pieno di italiani e quindi un po’ più familiare.
Quando però ho cominciato a lavorare a Bristol ho trovato un ambiente di soli inglesi (no non è vero, anche scozzesi). Ciò ha senza dubbio ingigantito questo senso di alienazione ma ha anche stimolato la consapevolezza di dover necessariamente provare a combatterlo, focalizzandomi sulle cose che rendono più facile la sopravvivenza all’estero o, in particolare, in questo Paese. In ordine sparso: imparare a prendersi cura degli altri anche a distanza, avere la possibilità di gestirsi in autonomia, sia finanziariamente che a livello pratico, sentirsi parte di una generazione che è il motore principale, e non lo scarto, della società, avere la consapevolezza che la mente si stia aprendo ogni giorno un po’ di più, lontano dalla propria comfort zone, scoprire che alla fine l’accento british non ce l’ha quasi nessuno e va bene anche così, avere la certezza che il pregiudizio, se esiste, è socialmente inaccettabile e che non importa quanti anni hai, di che sesso sei, da dove vieni o quali sono le tue preferenze sessuali. Davvero non importa. E questa è un’arma a doppio taglio perché a volte questo sistema, così giusto ma così freddo, così bilanciato ma anche così indifferente, mi fa sentire vittima di un inganno in cui si fa del bene non perché lo si voglia ma “solo” perché così si fa. E allora ci si può chiedere cosa succede se si dice alla gente che si può anche non fare così (e la risposta a volte la si trova durante il weekend nei pubs con la moquette impregnata di birra).

Quello che mi manca dell’Italia è il senso di familiarità. Di guardarmi intorno e sapere alla perfezione cosa sta succedendo, nel bene e nel male, di sentire discorsi in sottofondo e poterli intercettare anche senza prestare attenzione perché sono fatti nella mia lingua madre (purché non siano in qualche dialetto), di mangiare bene senza spendere metà stipendio. Mi mancano i motorini, mi mancano le persone che si prendono una confidenza mai autorizzata, mi manca a volte non passare inosservata, mi manca poter parlare del più e del meno senza annoiarmi a morte, mi manca capire quando sto antipatica a qualcuno e allo stesso avere io stessa motivi per non sopportare qualcuno.

Penso sia impossibile non sentire la mancanza delle proprie radici ma vorrei potermi sentire un po’ a casa anche qui, tra di loro. Però non sono mai riuscita davvero ad avvicinarmi all’identità di questo Paese. Quando sono venuta qui immaginavo di allontanarmi un po’ dall’Europa ma non così tanto: ho sempre respirato poca cultura, poca autenticità, poca tradizione e poca Europa e poca identità. So che molti miei amici o connazionali la vedono diversamente, ma ho sempre vissuto il risultato di Brexit con molta indifferenza, forse anche perchè non ho mai visto il mio futuro qui. Un po’ come se appena terminata una cena a casa tua, i più noiosi fanno per andarsene; un po’ ti chiedi se sono stati male, ma poi ti rendi conto che forse sono solo molto diversi da te.

Per quelli della mia generazione non esiste un pre-Europa, ma esiste un pre-Euro. E io non ho mai percepito che cosa volesse dire essere europeo o meno fino a quando è arrivato l’euro, durante le scuola medie. Ancora mi viene da sorridere per l’eccitamento e mistero che si erano creati intorno a questo evento per noi pre-adolescenti completamente ignari della politica e tantomeno dell’economia. Soprattutto, ho cominciato a capire cosa volesse dire essere europeo quando sono uscita per la prima volta da sola dal continente nell’estate del 2005 per andare ad una summer school negli Stati Uniti. Eravamo una cinquantina di 15enni da tutto il mondo. Io ero l’unica italiana e ricordo benissimo la sensazione di similarità che ho sentito con Louise, una ragazza danese. Anche se rischio di risultare retorica, ho proprio percepito il significato di comunità, nel senso di avere qualcosa in comune. Avevo ovviamente cose in comune anche con gli americani, i messicani, gli israeliani, i palestinesi ma dal punto di vista più astrattamente culturale mi sono ritrovata molto piu’ vicina a lei, nonostante fosse danese, nonostante quasi vivesse da sola ed io a Roma avessi il coprifuoco a mezzanotte o al massimo l’una, e nonostante avesse gia’ fatto il triplo delle mie esperienze. Sentivo che le nostre lenti culturali erano, in qualche modo, simili.

Ho cominciato a guardare all’Europa in senso critico e politico solo più avanti, durante l’Università. Ricordo ancora quanto ci sono rimasta male quando ho scoperto dal libro di Economia Monetaria che secondo alcuni modelli l’Europa non è un’area valutaria ottimale. Ricordo anche quanto ho considerato ingiuste o almeno poco lungimiranti tante decisioni di austerity dopo la crisi finanziaria. Nonostante abbia accumulato sempre più strumenti per criticare l’Europa, ho sempre dato per scontato di farne parte e vorrei poter continuare a farlo. Questo non vuol dire legitimmare qualsiasi cosa venga proposta o decisa dall’Unione Europea ma vuol dire riconoscerne e rispettarne le radici, pur criticandola e cambiandola. L’Europa è fatta anche di contraddizioni, strani giochi di potere, inefficienze politiche ed economiche ma ha il potenziale per essere uno strumento di pace e rispetto reciproco e un luogo dove forse si può preservare quella familiarità e quel senso di appartenza che tanto mi sono mancati in tutti questi anni.