Chi parla male pensa male e vive male.
Bisogna trovare le parole giuste.
Le parole sono importanti.

(Nanni Moretti, Palombella Rossa, 1989)
 

 


Assumo come nucleo della mia riflessione l’ammonimento di Nanni Moretti contenuto nel celebre dialogo tra il protagonista di Palombella rossa e una giornalista che utilizza un linguaggio sciatto e fitto di luoghi comuni. In particolare, del messaggio di Moretti mi preme sottolineare come «parlare male», ossia usare le parole in modo impreciso, approssimativo – o, peggio, fuorviante – abbia conseguenze permanenti di corrosione e distorsione del pensiero, della realtà e dell’esperienza. Se poi è condivisibile l’idea secondo cui «fin dalla prima parola pronunciata dall’essere umano nella storia del linguaggio, l’atto di apporre dei significanti […] serve a far emergere dal caos il suo significato, il suo contenuto» (A. Marcolongo, Alla fonte delle parole, Milano, Mondadori, 2019, p. 17), allora appare chiaro come i significanti (ossia le parole, appunto) abbiano l’enorme responsabilità di generare i significati che attribuiscono contenuto e senso alla realtà e all’agire.
Partendo dunque dall’importanza della scelta e dell’uso delle parole, decisiva ai fini della costruzione sociale dei significati, intendo qui proporre un ragionamento finalizzato a demistificare e depotenziare il lemma formazione nell’uso che (ormai correntemente) se ne fa per riferirsi ad una varietà di pratiche riconducibili ad azioni che sono di fatto assimilate alla sfera dell’educazione. L’alternativa è l’assunzione integrale della nozione di apprendimento sia nel linguaggio degli addetti ai lavori, sia nello svolgimento delle loro pratiche professionali.  

Comincio con l’esplorazione delle attribuzioni di significato acquisite e consolidate nel tempo dal termine formazione e dalle pratiche alle quali esso rinvia. Si tratta di un lemma che qui assumo nell’accezione convenzionale con cui è utilizzato nel gergo professionale e di senso comune che indica «il vasto campo delle attività educative extra/post-formali: 1) rivolte a soggetti adulti già impegnati nella (o da avviare alla) vita professionale; 2) legate (direttamente o indirettamente) al mondo del lavoro e delle organizzazioni; 3) orientate, nei concreti contesti in cui sono realizzate, da finalità di apprendimento che riguardano al tempo stesso le dimensioni cognitive, esperienziali e relazionali degli attori implicati» (D. Lipari, Progettazione e valutazione nei processi formativi, Roma, Edizioni Lavoro, 1995, p. 7). Riprendo questa mia definizione che risale a molti anni fa perché la ritengo sufficientemente ampia (ma al tempo stesso delimitata) per descrivere i processi ai quali si fa riferimento con il termine formazione. In ogni caso la sottolineatura riguarda: (i) il fatto che si allude ad interventi educativi extra/post-formali rivolti prevalentemente a soggetti adulti; (ii) il legame con il lavoro e il mondo delle organizzazioni; (iii) la centralità dell’apprendimento. Pur rifacendomi a questa formulazione non dimentico che le definizioni possibili sono tante e le differenze tra loro sono date dalla maggiore o minore enfasi attribuita alle dimensioni costitutive del concetto. In effetti assumere e proporre una definizione equivale ad una scelta di campo che corrisponde in un certo senso all’esplicitazione del punto di vista da cui si osserva il fenomeno da essa sintetizzato. Pertanto la mia formulazione altro non è che l’esplicitazione del mio punto di vista. Trovo interessante, a questo proposito, la rassegna delle definizioni di “formazione” ricorrenti nel dibattito italiano proposta da Quaglino allo scopo di mettere in evidenza come, proprio attraverso le definizioni del concetto si possa in larga misura risalire ad una varietà di orientamenti teorici, a volte distinti e a volte convergenti, che sono alla base di indirizzi metodologici e di pratiche professionali. Tale rassegna evidenzia chiaramente come le definizioni non siano affatto neutre, ma rappresentino precisi punti di vista ed opzioni teoriche e di metodo ad essi corrispondenti. Attraverso l’operazione di «raccolta di un certo numero di definizioni di formazione sufficientemente esplicite» da essere auto-evidenti, Quaglino descrive «… quella sorta di andirivieni tra piani temporali e riferimenti tematici che ha connotato lo sviluppo del dibattito sulla formazione e che in qualche misura ne ha segnato le fatiche ad avanzare verso una più solida identità tra differenti polarità e particolarismi, forzature e aperture, nonché verso una matura fondazione teorica» (G. P. Quaglino, «Postfazione» a Fare formazione, Milano, Cortina,  2005, p. 176).
Accettare – sia pure convenzionalmente – questa denominazione della quale si fa largo uso1 e il cui significato, proprio per questa ragione, è condiviso da quanti si riferiscono alle pratiche alle quali rinvia, non esclude la necessità di un ragionamento critico orientato a chiarire le ragioni per le quali ritengo che l’uso del termine “formazione” debba essere relativizzato e ciò perché le ragioni di precisione linguistica (di per sé più che sufficienti ad espungerlo dal nostro lessico) sono rafforzate dal fatto che, nelle condizioni attuali delle teorie e pratiche alle quali allude, è diventato del tutto  inadeguato a descrivere le azioni, gli approcci e i metodi legati ai processi di apprendimento. Anche volendolo accettare per mera convenzione che garantisca la continuità del discorso (tanto in quello degli addetti ai lavori quanto in quello più comunemente diffuso) per designare l’insieme delle pratiche educative sviluppatesi con riferimento al mondo del lavoro e delle organizzazioni, non significa, tuttavia, dover rinunciare ad una riflessione critica sul suo significato letterale e sulle possibili valenze simboliche e di senso che, proprio modellandosi attorno a questo significato, si strutturano dando luogo ad interpretazioni fuorvianti che si riflettono sulle pratiche e sul loro concreto dispiegarsi. Il motivo per cui ritengo altamente problematico l’uso del termine formazione (e a maggior ragione la sua trasformazione in concetto teoricamente fondato) risiede proprio nella parola stessa: formare rinvia direttamente ad una pratica in base alla quale è possibile dar forma ad un oggetto secondo un disegno preordinato. Questa interpretazione sottende una relazione tra un soggetto/agente che si propone di plasmare qualcosa a suo piacimento da un lato, e dall’altro, quel qualcosa, appunto, disposto/pronto a farsi plasmare e ad assumere la forma che l’altro ha deciso debba avere. Nella prospettiva di questa metafora, formare presuppone l’esistenza di un oggetto modellabile che risponda passivamente (magari opponendo la resistenza tipica di alcuni materiali inerti, che tuttavia è destinata a cedere) all’azione, in ogni caso coercitiva, tesa a modificarne la configurazione. Presuppone inoltre una soggettività capace di governare il processo di tras-formazione imposto all’oggetto. Ora, è del tutto evidente come, nelle pratiche alle quali ci riferiamo quando parliamo di formazione, una simile riduzione sia fuori da ogni logica (e da ogni possibilità di successo) anche nei casi in cui l’azione formativa assuma come proprie teorie e metodi assai vicini al significato letterale del termine in esame. Il motivo è connesso al fatto che si ha a che fare con persone in carne ed ossa anziché con oggetti malleabili e plasmabili. È quasi ovvio sottolineare il fatto che la soggettività degli attori ha un ruolo decisivo. Coloro che decidono di partecipare ad un’attività formativa per un loro scopo specifico (ad esempio, per acquisire un determinato contenuto di sapere), lo fanno perché spinti da una qualche strategia rispondente ad una libera scelta che si misura inevitabilmente con una proposta data (un corso, ad esempio, o un seminario) rispetto alla quale non viene mai meno il loro esercizio critico e la loro capacità di negazione2. Al tempo stesso, l’agire al quale l’idea corrente di formazione allude è innanzitutto una pratica relazionale dove si incontrano (dovendo necessariamente trovare accettabili mediazioni ed accordi) soggetti portatori di interessi e di obiettivi non necessariamente convergenti. Tutto ciò porta a sottolineare come sia del tutto improponibile una logica formativa aderente al significato letterale del termine formare. Certo, è possibile una visione dell’azione formativa improntata alla logica del “plasmare oggetti” (e in letteratura ancora se ne trovano); una simile visione non solo corrisponde ad un’idea arcaica, ma soprattutto (proprio per le ragioni legate all’irriducibilità dei soggetti a meri oggetti pronti a farsi modellare), è illusoria e destinata all’insuccesso.
Con questo esercizio di evidente forzatura della metafora del formare non intendo tanto sostenere che, nelle esperienze diffuse di formazione da molti di noi conosciute e frequentate, le pratiche correnti siano degli interventi coercitivi e passivizzanti, quanto piuttosto segnalare i limiti di una tradizione di teorie e di culture nelle quali l’azione didattica è prevalentemente concepita come un intervento unidirezionale (di qualcuno che trasmette saperi o conoscenze pratiche a qualcun altro che ne è privo e che dall’assunzione di quelle informazioni debba necessariamente essere trasformato in base a precise strategie, appunto, formative) nel quale le dimensioni soggettive del destinatario (che si esprimono in desideri, premesse, aspirazioni, interessi, ecc.) sono messe tra parentesi o comunque nettamente ridimensionate, così come, per conseguenza, è elusa la dimensione dell’inter-soggettività che inevitabilmente caratterizza questo tipo specifico di pratica sociale. Tale prospettiva tende, tra l’altro, a mettere in evidenza come, per descrivere i processi ai quali ci riferiamo, tra i tanti termini disponibili nel lessico (comune, ma anche in quello tecnico), quello legato all’idea di “formare” sia il meno utile. È  addirittura meno utile – proprio per il suo tratto riduzionista, reificante e coercitivo – di quelli che alludono all’”addestramento” (che pure trova in alcuni modelli di pratiche una precisa corrispondenza) o all’”indottrinamento” (che rinvia a significati di trasmissione/assunzione secondo modalità meccaniche il più delle volte mnemonicamente fondate di determinati contenuti ideologici), oppure all’”ammaestramento” (che corrisponde a specifiche tecniche di addomesticamento degli animali da ridurre a comportamenti docili e comunque adeguati alle aspettative degli umani con i quali sono destinati a convivere: si pensi ad esempio al dressage dei cavalli)3. Da questo punto di vista sarebbe perfino più utile il recupero del caro, vecchio concetto di “educazione”, se esso non fosse riferito a pratiche legate al mondo-scuola (e dunque rivolte a soggetti in età evolutiva): e-ducare infatti significa accompagnare, come suggerisce la sua forma originaria (deriva dal latino ē-dūcĕre = trar fuori, condurre da un luogo), e allude ad una modalità relazionale in base alla quale qualcuno che abbia un’esperienza riconosciuta, scorta qualcun altro lungo una via a lui ignota e che, grazie alla guida di cui dispone, può imparare a percorrere autonomamente. Pur rinviando alla presenza determinante di un’autorità talora indiscussa e dalla quale spesso si è dipendenti (si pensi ai bambini), l’idea di e-ducare introduce sfumature di significato che segnalano non solo la possibilità di scambi relazionali tra chi porta/guida e chi è portato/guidato, (dunque riconoscono una soggettività a chi è guidato/si fa guidare), ma anche un tratto di aleatorietà e di indeterminazione circa il punto di arrivo di un percorso che dipende evidentemente da tante variabili, non ultima quella legata alla qualità delle relazioni e degli scambi tra gli attori implicati. Interessante notare come un sinonimo di portare/guidare che coglie quest’ultima sfumatura di significato è quello di condurre (cum-dūcĕre) che sta ad indicare appunto il guidare insieme un processo indipendentemente ogni altra specificazione su chi è il protagonista principale dell’azione. Non mancano, poi, tra le tonalità semantiche che è possibile individuare, varie oscillazioni interpretative che, ad esempio, possono essere, tra le altre, quelle comprese tra i poli opposti del portare autoritariamente e dell’accompagnare discretamente (o amorevolmente). Si tratta di riconoscere – questo è il punto cruciale del mio discorso – la soggettività e l’autonomia dei soggetti impegnati in un percorso di questo tipo.
Si coglie agevolmente il senso della critica: essa intende mettere in guardia dai rischi reificanti e di coercizione derivanti da interpretazioni troppo letterali dell’idea di “ormare”, specie nelle pratiche in cui i protagonisti sono soggetti adulti impegnati nella (o da avviare alla) vita professionale. Per venir fuori dalle secche di una rappresentazione di questo tipo e per dare un senso effettivo e rispondente a ciò che realmente questi fenomeni racchiudono, è necessario mettere in gioco, secondo prospettive rinnovate e capaci di recuperare la necessaria centralità agli attori, le categorie della soggettività e dell’inter-soggettività in quanto tratti costitutivi di ciò che convenzionalmente chiamiamo “azione formativa”. E, da questo punto di vista, l’apprendere (letteralmente: afferrare e far proprio l’oggetto verso il quale si indirizza l’attenzione e l’interesse), diventa il concetto cruciale a partire dal quale non solo si rivaluta la dimensione soggettiva di chi partecipa ad un evento rendendosi protagonista di una dinamica relazionale in cui agiscono altri soggetti, ma anche (e proprio per questo) si mette in luce la rilevanza dell’inter-azione, dello scambio, del dialogo, dell’apprendere insieme.
Il punto di vista sull’apprendimento che intendo qui proporre, mette in evidenza la necessità di andare oltre le visioni classiche che descrivono il fenomeno come strettamente legato alla sfera individuale (oltre che associato a specifiche relazioni d’insegnamento del tutto separate dalla pratica) per delineare una prospettiva sociale e decentrata: gli attori sociali sono costantemente immersi in una realtà (le  loro vite e gli innumerevoli mondi che abitano) preesistente rispetto a loro e che si pone davanti alla loro esperienza con tutte le sue oggettivazioni (il linguaggio, le regole, le norme, le istituzioni, le tradizioni, gli oggetti materiali, gli artefatti, ecc.). È la complessa realtà – intesa come costruzione sociale e storico-culturale preesistente – che funge da punto di riferimento orientativo per l’azione di tutti e che impegna l’esperienza dei soggetti conoscenti i quali, per diventare attori sociali, cioè attori capaci di stare nel mondo con pertinenza, sono chiamati a confrontarsi con essa per appropriarsene.  
L’apprendimento, dunque, altro non è che il modo del tutto particolare con cui l’esperienza soggettiva degli attori entra in relazione con il mondo, caratterizzato non solo dalle oggettivazioni storicamente e culturalmente date, ma anche da altri attori che sono al mondo e del mondo fanno esperienza. Ma il modo di rapportarsi con il mondo preesistente e con gli altri non si configura nei termini di un rispecchiamento della realtà oggettivata nella coscienza del soggetto e nemmeno nei termini dell’impressione di segni su una tabula rasa passiva pronta a farsi incidere. Al contrario, il modo di rapportarsi al mondo preesistente si configura secondo una dinamica in cui la coscienza è attiva e riflessiva. Da questo punto di vista la riflessività della coscienza (F. Crespi, Azione sociale e potere, op. cit.), intesa come capacità di arrestare il flusso ordinario della condotta di routine, per interrogarsi su di essa ed orientarne il senso e come capacità di negazione (ivi), ossia come capacità di disconoscere le oggettivazioni, di opporsi ad esse e di cambiarle, diventa il tratto fondante del soggetto, della sua libertà, della sua capacità di implicarsi, anche con passione, nei processi in cui è impegnato; in una parola è il tratto costitutivo della sua capacità di apprendere.
L’apprendimento non è dunque riducibile alla dimensione mentalistica, ma è un fenomeno che investe simultaneamente la sfera esperienziale, quella emotivo-affettiva e quella cognitiva. Inoltre, non riguarda la dimensione strettamente individuale, perché, quale che sia la particolare modalità di apprendere esperita da ciascun soggetto, essa è sempre legata al campo delle relazioni intersoggettive e delle relazioni con oggetti/artefatti materiali.
La sfera intersoggettiva ha a che fare con l’insieme delle relazioni che ciascuno mette in atto nel momento in cui si rapporta con altri soggetti dotati delle stesse caratteristiche di soggettività (con rilevanti implicazioni sul versante delle dinamiche di partecipazione, di solidarietà, di cooperazione, di transazione, di potere e di conflitto). È importante a questo proposito sottolineare come la sfera intersoggettiva non sia riducibile solo alle relazioni di prossimità, ma riguardi anche quelle caratterizzate da una certa distanza sia spaziale che temporale: nel primo caso, esse sono garantite dalla mediazione della scrittura o della parola (scambi epistolari, telefonici, telematici, ecc.); nel secondo, dalla tradizione orale o scritta (racconti, documenti, letteratura, ecc.); e in entrambi i casi è sempre il linguaggio il medium che rende possibile l’intersoggettività.
La dimensione delle relazioni con oggetti/artefatti materiali (B. Latour, «Una sociologia senza oggetto? Note sull’interoggettività», in E. Landowski, G. Marrone, a cura di, La società degli oggetti. Note sull’interoggettività, Roma, Meltemi, 2002) rinvia ad un analogo (anche se apparentemente meno immediato) intreccio relazionale: nel momento stesso in cui entriamo in relazione con il mondo, non solo ci misuriamo con altri soggetti, ma anche con l’insieme degli oggetti prodotti dagli altri o con materiali che noi stessi trasformiamo in oggetti. Ora, questi artefatti, proprio per il fatto di entrare nella sfera della nostra esperienza, entrano direttamente nel gioco relazionale in cui siamo implicati influenzando in vari modi (cioè: sostenendo o, viceversa, vincolando) la nostra azione.
L’insieme di questi tratti costitutivi dell’apprendere, ne mette in evidenza tanto la dimensione sociale, quanto il carattere situato, esperienziale e pratico: l’esperienza che noi facciamo con il nostro agire si sedimenta nel bagaglio delle nostre conoscenze in parte come frutto di acquisizioni intuitive derivanti dal fare e dal veder fare che si trasformano in routine d’azione; in parte – nei casi in cui le conoscenze di routine non sono sufficienti o soddisfacenti – come esito della rielaborazione intellettuale ed emozionale e della conseguente assimilazione (J. Dewey, Come pensiamo, Firenze, La Nuova Italia, 1961) di un’azione di successo che ha modificato in modo più o meno rilevante una condotta pratica. Emerge, in sintesi, un’interpretazione in cui l’apprendimento si configura come un processo di partecipazione sociale fondato sull’esperienza nel quale entrano in gioco simultaneamente (i) l’acquisizione di competenze (tecniche e relazionali) situate, (ii) la costruzione dell’identità individuale e sociale, (iii) l’attribuzione di significato all’esperienza, (iv) il riconoscimento dell’essere parte di un insieme che condivide saperi, valori, linguaggi e identità.

 

1 Anche se solo in italiano e nelle lingue neolatine e non in inglese, ad esempio, e neppure in tedesco che usa il ben più efficace concetto di Bildung.

2 Sul concetto fenomenologico di “capacità di negazione” della coscienza, cfr. F. Crespi, Azione sociale e potere, Bologna, il Mulino, 1989.

3 A proposito di “ammaestramento” o, meglio, di educazione intesa come ammaestramento: è tipica delle visioni settecentesche dell’educazione (non del tutto fuori corso nel nostro tempo) prevalenti nelle culture gerarchiche delle scuole militari come testimoniato dall’iscrizione che campeggia sul portale dell’ingresso dell’accademia militare «Nunziatella» di Napoli (io l’ho letta una ventina di anni fa e l’ho trascritta perché mi ha davvero colpito): «Questa Accademia perché nell'arte della guerra e degli ornati costumi la militar gioventù ottimamente ammaestrata crescesse a gloria e sicurezza dello Stato Ferdinando IV PFI con regal magnificenza fondò nell'anno del suo regno XXIV».