*In “Formazione & Cambiamento”, numero 51, maggio 2008
 
 
Where is the Life we have lost in living?
Where is the wisdom we have lost in knowledge?
Where is the knowledge we have lost in information?
 
 T.S. Eliot, The Rock (1934) 
 
 
REFLECT è un progetto europeo finalizzato a contribuire allo sviluppo professionale e culturale dei professionisti della formazione professionale (VET, “vocational education and training”)  i quali operano in istituzioni formative, aziende e altri contesti di formazione e apprendimento. Più specificamente l’obiettivo fondamentale del progetto è la diffusione di “pratiche riflessive” negli ambienti della formazione, a partire dall’ipotesi che la riflessività sia una meta-competenza complessiva che caratterizza in misura crescente una nuova cultura professionale dei formatori. Una cultura che emerge all’incrocio tra gli interessi degli stessi formatori al proprio auto-sviluppo da un lato e la complessa domanda rivolta ai sistemi di formazione professionale dai più diversi strati della società e dell’economia dall’altro. La riflessività può infatti essere considerata cruciale per un segmento significativo di  professionisti coinvolti in processi di cambiamento per molti aspetti più intensi di quelli che caratterizzano i docenti delle scuole e delle università.
 
La molteplicità degli obiettivi e delle interazioni che si attivano nell’ambito del campo della formazione – da assumere come parte del più vasto campo del lifelong learning  – non può essere governata solo attraverso regolazioni e programmi, per quanto innovativi, di tipo top-down e a livello macro. Dovrebbe invece essere gestita attraverso diverse iniziative a carattere bottom-up e di livello micro, direttamente guidate dai professionisti interessati in una logica di auto-sviluppo, eventualmente con il supporto di esperti esterni. Le “pratiche riflessive” possono essere considerate come tipici modi di pensare e agire dei professionisti della formazione nelle dimensioni micro e bottom-up in quanto incrementano le capacità necessarie in contesti in cui sono rilevanti aspetti di innovazione, problem-solving, cooperazione e apprendimento organizzativo. 
 
La necessità di sviluppare un nuovo tipo di professionista della formazione va affrontata – come si tenta di fare nelle pagine seguenti – considerando sia le politiche che guidano i processi di innovazione della formazione a livello europeo sia le dinamiche evolutive della knowledge economy che, per loro stessa natura, richiedono una moltiplicazione di sforzi in dimensioni locali e micro. Date queste coordinate sarà quindi possibile ripercorrere brevemente alcuni recenti necessità evolutive della formazione nel suo insieme e alcuni tratti ideal-tipici che caratterizzano il “professionista riflessivo della formazione”.
 
Lo sviluppo dei sistemi di formazione e del loro personale è uno dei maggiori aspetti dell’agenda politica europea legata alla cosiddetta strategia di Lisbona, avviata nel 2000, secondo la quale l’Europa dovrebbe essere trasformata nella più avanzata economia basata sulla conoscenza nel modo, mantenendo l’equilibrio tra le esigenze dell’innovazione e della competitività e quelle dell’inclusione sociale. 
In numerose prese di posizione delle istituzioni europee, generate a seguito della strategia di Lisbona, la formazione professionale rappresenta una leva fondamentale per tale trasformazione, da azionare attraverso specifiche politiche finalizzate a (i) assicurare la corrispondenza delle competenze (skills) della forza lavoro all’evoluzione economica e tecnologica; (ii) ridurre le disuguaglianze sociali e promuovere le diversità culturali; (iii) supportare gli sviluppi a livello individuale in modo da aiutare le persone per quanto riguarda la realizzazione del loro potenziale e le opportunità di “vivere una buona vita” (Consiglio Europeo, 2001). 
 
In questa prospettiva la VET e il lifelong learning sono strettamente connessi. Per molti aspetti le attività di VET sono viste infatti come il lato formale di un più ampio sforzo complessivo di miglioramento delle competenze e dei comportamenti sociali, nel cui ambito trovano posto anche altri tipi e livelli di formazione e educazione, connessi a obiettivi di apprendimento non-formale e informale.
Il lifelong learning, in questa prospettiva, è costituito da tutte le attività di apprendimento finalizzate intraprese su base continuativa con lo scopo di migliorare la conoscenza e le competenze (“skills and competence”) (Commissione Europea, 2000). Inoltre, viene incoraggiata la facilitazione degli accessi alle opportunità di apprendimento da parte non solo delle istituzioni tradizionali della educazione e della formazione ma anche di imprese e altre organizzazioni. Come si afferma in uno dei più rilevanti documenti ufficiali a questo riguardo, “mettere in pratica il lifelong learning richiede che ognuno possa lavorare efficacemente con gli altri – sia a livello individuale sia nelle organizzazioni” (Commissione Europea, 2001). Su questa base sono state create in tutti i paesi europei le importanti iniziative di “Formazione Tecnica Superiore” che, attraverso la collaborazione tra imprese, istituzioni formative e università, hanno permesso di realizzare interventi di VET nei più diversi settori produttivi.
 
Dopo i passi iniziali, in parallelo con l’evoluzione della costruzione europea, le finalità strategiche di Lisbona sono state ulteriormente specificate, attraverso diverse prese di posizione riferite alle decisioni assunte nell’ambito del cosiddetto “processo di Copenhagen” avviato nel 2002 e presentato nel documento “Education & Training 2010”.  Quest’ultimo fornisce parametri di benchmark per la misurazione dei progressi in diverse aree di sviluppo dell’educazione e della formazione (Consiglio Europeo e Commissione Europea, 2004). 
 
Tre sono gli obbiettivi principali che dovrebbero essere raggiunti dai sistemi VET a beneficio dei cittadini e dell’Unione Europea nel suo insieme: 
- migliorare la qualità e l’efficacia dei sistemi di educazione e formazione; 
- assicurare che siano accessibili a tutti; 
- aprire l’educazione e la formazione al più vasto mondo. 
 
Anche attività che non sono di apprendimento tramite insegnamento sono considerate parte integrante della missione della VET. Si tratta, in particolare, di attività di orientamento al lavoro a carattere lifelong, di ricerca delle opportunità formative, di supporto alle scelte che riguardano la mobilità e la cittadinanza. Allo stesso tempo si ritiene che processi di innovazione continua siano urgentemente necessari all’interno dei sistemi formativi.
 
Altre decisioni recenti confermano le direttive precedentemente indicate e le integrano nel quadro delle nuove politiche per la crescita e la creazione di posti di lavoro decise con la più recente revisione della strategia di Lisbona (Consiglio Europeo, 2006). Si ri-afferma che la formazione professionale è parte integrante e rilevante del lifelong learning, in quanto quest’ultimo deve fornire le conoscenze e le competenze (skills e competencies) richieste a tutti i cittadini europei nel mercato del lavoro e, più in generale, nella società della conoscenza. Ciò implica che la formazione professionale deve affrontare la “doppia sfida” di coinvolgere sia i giovani sia chi già lavora. Nel prossimo futuro devono quindi essere implementate nuove politiche nazionali che consentano sia di incrementare l’attrattività e la qualità della formazione sia di sviluppare strumenti comuni. In particolare ai sistemi formativi sono richiesti compiti come quello di sviluppare e testare un Sistema Europeo di Crediti Formativi  (ECVET) e un Quadro Europeo della Qualificazione (EQF) o come quelli di usare strumenti di assicurazione qualità e di coinvolgere con continuità tutti gli stakeholder implicati – come parti sociale e istituzioni rappresentative – nei processi di apprendimento/formazione (Consiglio Europeo, 2004).
 
Il policy-maker europeo è consapevole del grande sforzo richiesto ai formatori per far fronte a queste sfide. Nell’ambito dell’obiettivo di migliorare la qualità e l’efficacia della formazione sono infatti considerati aspetti-chiave, tra gli altri, quelli di: 
- identificare le competenze che i formatori devono possedere, dato il cambiamento del loro ruolo nella società della conoscenza;
- assicurare un sufficientemente elevato livello di ingresso nella professione insegnante, e al contempo fornire risposte alle esigenze a lungo termine della professione rendendo più attraenti le attività di insegnamento e addestramento;
- reclutare nel campo della formazione persone dotate di ampia esperienza professionale in altri campi (Consiglio Europeo, 2004).
 
Queste liste di obiettivi e azioni da intraprendere rappresentano un quadro altamente problematico per lo sviluppo della formazione nei prossimi anni. Saranno necessari diversi adattamenti per passare dal cielo dei princìpi allo scabro suolo delle realtà locali della formazione a differenti livelli. Adattamenti rilevanti sono naturalmente quelli legati alle differenze, disuguaglianze e squilibri che caratterizzano l’Europa allargata. Ma, più che quelli che hanno a che fare con le differenze sociali e nazionali  (che vanno armonizzate a livello legale-istituzionale),  gli adattamenti maggiormente significativi delle linee-guida europee sembrano quelli riconducibili alla complessità strutturale dei processi di sviluppo socio-economico. La natura di tali processi è infatti molto più variegata di quella raffigurata nella visione, spesso troppo lineare, del policy-maker europeo. 
 
Alcuni aspetti sembrano particolarmente rilevanti nell’attuale fase di definitiva instaurazione dell’economia della conoscenza in quanto rimandano alle caratteristiche non lineari dei diversi fenomeni connessi al valore delle risorse della conoscenza a livello sia sociale complessivo sia di singoli individui.
 
Un primo aspetto riguarda l’importanza delle competenze reali – e non solo delle qualificazioni formali – in tutti i settori di attività. L’economia della conoscenza è stata infatti anche definita come l’ “economia dell’apprendimento”, in quanto al suo interno “la chiave della performance economica non è più costituita da una determinata base di conoscenze ne dalle capacità di accesso all’informazione in quanto tali, ma piuttosto dall’abilità degli attori socio-economici e produttivi di sfruttare tali capacità in modo ottimale, attraverso il rapido adattamento a sempre mutevoli condizioni di mercato e lo sviluppo di nuove capacità non appena divengano obsolete quelle attualmente esistenti” (Lundvall and Borras, 1999: 23).
In questo modo viene messa in piena luce l’importanza, fondamentale negli attuali assetti economici e sociali, della differenza tra conoscenza esplicita e tacita. La conoscenza esplicita, equivalente a informazione facilmente trasferibile, assume valore solo quando si interseca con le diverse forme della conoscenza tacita, radicata in competenze e routines delle quali non è affatto facile il trasferimento e la replica. La conoscenza tacita appare in misura crescente come  l’insieme delle risorse che possono contribuire al vantaggio competitivo di imprese, territori, interi aggregati nazionali e locali, nonché degli stessi singoli individui (Archibugi and Lundvall, 2001). 
 
La conoscenza, da questo punto di vista, non solo cresce di importanza ma cambia di natura: va considerata come una risorsa che si rigenera continuamente in una molteplicità di situazioni e attraverso l’interazione di diversi attori. Mentre tradizionalmente il locus della creazione di conoscenza era identificato nell’accademia, in cui scopi e mezzi di tale creazione sono controllati da ristrette cerchie di scienziati, attualmente viene riconosciuta l’esistenza di una modalità più ampia di creazione della conoscenza (il cosiddetto “modo 2”) al quale contribuiscono attivamente anche ruoli non accademici, come tecnici e professionisti (Gibbons et al., 1994; Nowotny et al., 2001).  Un aspetto importante a questo riguardo, anch’esso dato troppo spesso per scontato, è legato al fatto che nelle società tardo-moderne la gran parte della conoscenza che ha valore economico e utilità per la vita viene sviluppata all’interno di organizzazioni. E’ infatti nella dimensione organizzativa e inter-organizzativa – dalle grandi multinazionali alle reti di imprese fino alla più piccola azienda – che hanno luogo le interazioni tra gli attori sociali che assicurano la creazione della conoscenza tacita e le opportunità di valorizzazione della conoscenza esplicita (Tomassini, 2006; 2007).
 
La stessa dimensione organizzativa è peraltro sottoposta a intense trasformazioni. Il tradizionale modello del lavoro centrato su grandi imprese, su impieghi a lungo termine e su ben definiti ruoli, mansioni e percorsi di vita è oggi largamente superato. Le strutture centralizzate delle grandi imprese si accoppiano sempre più spesso con radicali rimodellamenti delle attività e delle relazioni sociali-produttive, attraverso le applicazioni intensive di ICT, l’ outsourcing, il re-engineering, le strutture a progetto. I confini tra forma organizzazione e forma mercato tendono ad assottigliarsi. A seguito della struttura multi-polare dell’economia della conoscenza tende a moltiplicarsi la diffusione di piccole imprese dei più diversi tipi e in parallelo tendono sempre più ad articolarsi i modi di vita e di lavoro: continuamente nascono e scompaiono nuove specie di profili professionali e di competenze mentre i rapporti di lavoro di tipo dipendente e indipendente sono sempre più interconnessi. Devono continuamente essere scoperte nuove soluzioni che permettano a individui e gruppi di difendere il proprio valore di mercato, le proprie opportunità di apprendimento e aggiornamento, il proprio “senso di sé” nell’ambito di condizioni di lavoro e organizzazione che cambiano continuamente. 
 
In parallelo è necessario tenere conto della perdita complessiva di valore del fattore lavoro in quanto tale. Recenti studi su larga scala mostrano in modo esauriente che l’insieme del lavoro attualmente disponibile nell’economia globalizzata perde di valore rispetto al fattore capitale. Il lavoro – non questo o quel lavoro, che può singolarmente essere molto richiesto, remunerato e fonte di soddisfazioni, ma l’insieme del lavoro – è più che mai una merce assai abbondante, che di per sé non assicura quote crescenti di reddito ai suoi portatori. Il valore del lavoro è sempre meno direttamente correlato all’erogazione di energia fisica o mentale per scopi condivisi e sempre più invece all’ “incorporamento” di conoscenze e capacità di apprendimento che aggiungono valore rispetto a tali scopi. Ciò è riscontrabile a tutti i livelli, non solo necessariamente quelli di manager e professionisti, anche se in tali casi il fenomeno del valore è più diffusamente evidente. 
 
In questa chiave l’emergere della centralità delle risorse della conoscenza e della competenza appare come un fenomeno non neutro ma accoppiato con un incremento di importanza della dimensione del “rischio”, in particolare per coloro che hanno minori opportunità di accesso a tali risorse  (Beck, 1992, 2000). In parallelo le necessità di apprendimento non possono essere colte solo in termini di approvvigionamento incrementale delle informazioni e conoscenze utili in specifici contesti ma soprattutto in termini di “riflessività”, ossia di quella funzione critica (istituzionale, sociale, individuale) che consente l’uso competente di tali informazioni e conoscenze attraverso l’analisi e la riformulazione delle pratiche in atto negli specifici contesti  (Beck et al., 1994; Giddens, 1991). In una società complessa sono richieste sempre nuove capacità riflessive a tutti i membri della società stessa in modo di assicurarne l’auto-sviluppo nella vita e nel lavoro. La riflessività, da questo punto di vista, è la forma più alta e necessaria dell’apprendimento, una funzione continuamente richiamata dalle politiche europee ma troppo spesso considerata solo in termini di aggiornamento e adattamento della conoscenza formale. 
 
Le dinamiche contestuali sinora richiamate dovrebbero essere poste come punti di riferimento fondamentali per l’implementazione delle direttive e linee-guida europee in materia di formazione. Ad esempio, la finalità spesso evocata di assicurare la corrispondenza delle competenze della forza lavoro all’evoluzione economica e tecnologica non può essere compiutamente perseguita se non vengono presi in considerazione gli aspetti legati alla conoscenza tacita. La formazione professionale (VET) deve ovviamente trasferire conoscenza esplicita e rafforzare le competenze formali, come affermano i documenti ufficiali. Ma deve anche, in misura crescente, trovare modalità appropriate per supportare lo sviluppo della conoscenza tacita nei contesti organizzativi, ossia, in altri termini, per contribuire all’ampliamento delle capacità di apprendimento laddove si manifestano e si applicano, anche al di fuori degli schemi di qualificazione formale. 
Questo spostamento di focus dalla dimensione formale dell’apprendere a quelle non-formali e informali rappresenta un vettore fondamentale dei recenti cambiamenti strategici in campo formativo. Dall’essere una funzione rivolta a forme di domanda stabili e principalmente finalizzati a fornire programmi educativi/formativi stabili per i giovani, la formazione professionale è evoluta in relazione a finalità di fornire risposte multi-livello sia ai bisogni di adulti occupati e non occupati sia alle esigenze di aziende e altre organizzazioni. In altri termini, dall’essere guidata da una logica di qualificazione la formazione è stata recentemente spinta verso una logica di competenza. La prima è la logica dell’implementazione di programmi progettati in funzione dei profili professionali richiesti da ambienti a cambiamento lento. La seconda è invece quella per cui ciò che realmente conta è la capacità della formazione di supportare la continua integrazione di conoscenza esplicita e tacita e di contribuire al mantenimento di meccanismi sociali (cooperazione, aiuto reciproco, valori condivisi, sense-making collettivo) che assicurano lo sviluppo contestualizzato dell’apprendimento e della creazione di conoscenza.
 
Rispetto alle altre finalità spesso evocate  nei documenti europei – come quelle di ridurre le disuguaglianze sociali, di promuovere la diversità culturale e supportare i potenziali individuali – la formazione, come parte del più vasto campo del lifelong learning, deve più che in passato aiutare le persone sia a valorizzare le proprie esperienze di vita e di lavoro (Griffith and Guile, 2004) sia ad accrescere la consapevolezza delle proprie condizioni di cittadinanza. Quest’ultima dovrebbe essere considerata in termini non di appartenenza statica a entità statuali e istituzionali ma di partecipazione mobile a differenti attività e contesti attraverso adeguate competenze tecniche, sociali, discorsive ed etiche (Tomassini, 2006). Si tratta, a questo livello, di un obiettivo trasversale per la formazione nel suo insieme, spinta a moltiplicare le proprie sfere di attività in un arco di settori estremamente variegato. Più che mai il termine “formazione professionale” appare oggi come un’etichetta generica  che copre un’ampia varietà di pratiche, da quelle richieste per la preparazione tecnica di risorse umane altamente qualificate, ad esempio in settori hi-tech, a quelle connesse a interventi addestrativi rivolti ai target svantaggiati, che rappresentano gli “have-nots” dell’economia europea dell’apprendimento nell’era della globalizzazione. In ciascuno dei differenti ambienti di pratica formativa è richiesta in modo crescente la mobilizzazione di risorse individuali e collettive di diverso tipo (risorse cognitive, culturali, e anche emotive) finalizzate a far fronte ai processi dinamici e instabili dell’economia della conoscenza attraverso capacità di interpretazione della realtà e competenze che consentono performance di valore. 
 
L’impatto di queste tendenze sulle strutture e le routine formative è evidentemente forte: i programmi a lungo termine tendono a perdere la loro utilità in relazione a contesti in cui la velocità del cambiamento frequentemente eccede le capacità di previsione e pianificazione nella prospettiva educativa tradizionale. In  parallelo le strutture pesanti (come i centri di formazione aziendali) tendono a essere ri-articolate in stretta relazione con esigenze e domande locali. E’ per questo che le risorse umane della formazione vanno sotto stress. Ad esse vengono richieste nuovi modi di pensare e agire, a partire dalla rivoluzione copernicana individuata già negli anni Novanta del secolo scorso con il riconoscimento del passaggio “dall’insegnamento all’apprendimento”, ossia dal trasferimento della conoscenza alla facilitazione dell’apprendimento (Infelise, 1994; Arnold, 1994; Mehaut, 1994).
 
In molti contesti – anche a seguito dei condizionamenti imposti da obsoleti sistemi nazionali di regolazione – i modelli consolidati di attività formativa tendono ad essere ancora legati all’obiettivo istituzionale di produrre titoli in relazione a determinati schemi e programmi di qualificazione.  Ma è evidente una chiara tendenza alla trasformazione. Ad esempio le competenze di insegnamento evolvono in molti casi al fine di includere diversi approcci e tecniche (l’animazione, la simulazione, il lavoro di gruppo, etc.) che vanno ben al di là del  modello di attività basato sulla lezione. Inoltre, le competenze non di insegnamento (ad esempio legate alla consulenza, al supporto dell’innovazione, al trasferimento di tecnologie e allo sviluppo delle competenze) trovano collocazione in misura crescente tra i compiti dei formatori, nei contesti in cui la formazione gioca un ruolo nei processi di innovazione di imprese e di altre organizzazioni. Ancora, come esempio della moltiplicazione delle competenze necessarie, le recenti disposizioni legislative spingono numerosi formatori a divenire esperti nell’uso di tecniche per la valutazione dell’apprendimento “informale” e “non-formale”, come quelle in uso nell’area del “bilancio di competenza” (Le Boterf G., 1999).
 
Il campo della formazione è stato anche significativamente trasformato dalla crescente presenza di risorse non strettamente formative. Si assiste al progressivo assottigliamento dei confini rispetto ad altri professionisti (esperti, tecnici, accademici, manager) che operano come formatori nei più diversi contesti, da quelli tipicamente aziendali a quelli – definibili in termini di enlarged training/ learning systems (Conceicao and Heitor, 2001) – attivati per iniziative di sviluppo locale attraverso la cooperazione tra aziende, università e altre istituzioni formative.
 
REFLECT è dedicato ai professionisti della formazione a partire dall’ipotesi che le trasformazioni attualmente in corso nei loro settori di attività richiedano nuovi approcci allo sviluppo in cui possano essere convogliate anche le spinte individuali all’apprendimento e all’auto-miglioramento. 
 
In particolare il progetto è finalizzato a contribuire allo sviluppo dei professionisti della formazione attraverso l’introduzione di valori e pratiche basate sulla  riflessività, assumendo quest’ultima come funzione equilibratrice rispetto alla spinta alla standardizzazione generata da recenti iniziative europee (come ad esempio lo European Qualification Framework).  Tale spinta può infatti ostacolare l’evoluzione verso una maggiore flessibilità delle pratiche formative e verso l’accrescimento delle abilità dei professionisti della formazione nel gestire lo sviluppo dei loro contesti. In altre parole sembra verificarsi un rischio di neo-burocratizzazione della formazione nell’ambito di tendenze che, al contrario, richiederebbero attitudini di maggiore orientamento al cliente e priorità allo sviluppo delle competenze reali più che l’attenzione alle qualifiche formali (Tomassini, 2007b). La riflessività come funzione tipica di individui e piccolo gruppi può aiutare ad evitare questo tipo di rischi valorizzando modelli di attività guidati da principi di apprendimento dalla pratica, autonomia, e self-empowerment.
 
I profili ideal-tipici cui si rivolge il progetto sono quelli dei professionisti della formazione che affrontano le proprie attività sulla base dei principi sopra delineati. In questa prospettiva i criteri di razionalità tecnica derivanti da fonti disciplinari e regolamentari non vengono trascurati ma connessi dinamicamente con attitudini e capacità riflessive. Seguendo Schoen (1983), il “professionista riflessivo della formazione” può essere una definizione appropriate per questi attori. Da un lato, in termini generali, questa definizione rappresenta il bisogno di accresciute capacità riflessive, tipico dell’impegno in ogni campo professionale e anche della stessa cittadinanza neo-moderna, considerando che la reflessività – come già sottolineato – è il tratto cruciale di una  modernità in cui convergono aspetti quali: l’autonomia nell’uso delle risorse disponibili di informazione e conoscenza, l’apprendimento continuo, il self-monitoring e la “prevalenza dell’azione sulla struttura” (Giddens, 1990).  Da un altro lato i professionisti della formazione appaiono coinvolti in processi che hanno a che fare con ciò che è stato definito come “doppia riflessività”, in quanto devono sviluppare riflessività per sé stessi e allo stesso tempo devono introdurla come forma, e contenuto in alcuni casi,  dei propri interventi.
 
Favorire lo sviluppo di professionisti riflessivi della formazione ha diverse conseguenze in termini di politiche e azioni per la formazione dei formatori. A questo livello devono essere messe in campo visioni e tecniche innovative sia nei modelli tradizionali “classroom-based” sia per quanto riguarda gli strumenti, sempre più usati, dell’e-learning. Queste visioni e tecniche possono essere introdotte in termini di prospettive culturali innervate su processi bottom-up di auto-trasformazione delle pratiche organizzative e professionali, non contraddittorie rispetto a interventi top-down (es. piani di sviluppo formativo su larga scala) che tendano agli stessi obiettivi.
L’idea di fondo è che quello di riflessivo non è uno status formale, da raggiungere attraverso programmi e riconoscimenti di qualche tipo. Al contrario la riflessività rappresenta un orientamento di fondo per lo “sviluppo professionale continuo” dei professionisti della formazione basato su principi quali: l’apprendimento continuo dalla pratica, lo sviluppo di attitudini di ricerca, la partecipazione e la cooperazione, la mobilitazione di  risorse personali.
 
Il primo di tali principi, l’ “apprendimento continuo dalla pratica”, riguarda la volontà di continuo miglioramento dei risultati dell’attività e l’impegno nell’ auto-sviluppo delle competenze. Quest’ultimo può prendere corpo nell’ambito di pratiche che “richiedono innumerevoli atti di riconoscimento, giudizio e abilità nella performance” e che in alcuni casi prende la forma di una professional artistry dispiegata all’interno di “situazioni uniche, incerte e conflittuali” (Schoen, 1987). Le pratiche riflessive, anche nell’accezione di metodi per lo sviluppo della riflessività, devono direttamente riguardare situazioni di vita reale e il knowing che circola in tali situazioni. Nei termini proposti da Schoen, il knowing-in-action è ciò da cui dipende la vita quotidiana dei professionisti, ciò che rappresenta il loro comportamento intelligente, il modo caratteristico della loro conoscenza pratica ordinaria, il locus del loro learning by doing. “Riflettere nell’azione”, da questo punto di vista, rappresentano il lato consapevole del “pensare-mentre-si-agisce” e dell’accumulazione di conoscenza tacita che consente il trasferimento dei risultati della riflessione nei sempre mutevoli eventi della pratica professionale (Schoen, 1983). Questi aspetti sono alla base della crescita cumulativa della conoscenza personale e organizzativa attraverso cui il professionista giunge a instaurare quella continua “conversazione riflessiva con la situazione” che Schoen giudica come la caratteristica più tipica del professionista riflessivo.
 
L’idea delle “attitudini di ricerca” si riferisce a un tipo di professionista della formazione che  si pone allo stesso tempo come esperto, soggetto di apprendimento e ricercatore, continuamente interessato all’analisi delle esperienze che hanno luogo nella vita professionale a differenti livelli, (in cui le dimensioni “pedagogiche”, “relazionali” e “organizzative” sono tenute insieme all’interno del continuum delle attività). Riflessione e ricerca sono per molti aspetti termini gemelli, soprattutto in relazione al fatto che la riflessione-in-azione incorpora una logica sperimentale di esplorazione. Come notato da Schoen, questa prende le mosse dalla prova delle ipotesi come mezzo per creare un migliore incontro tra strategie d’azione e condizioni operative. In tal modo possono sorgere nel tempo diversi repertori di soluzioni che contribuiscono a ulteriore apprendimento e sviluppi professionali. “Quando qualcuno riflette-in-azione diventa un ricercatore nel contesto della pratica. Non dipende più dalle categorie di una determinata teoria o tecnica, ma costruisce una teoria del caso unico. La sua indagine non è limitata a una deliberazione circa i mezzi legata a un precedente accordo sui fini. Egli non mantiene separati mezzi e fini  ma li definisce interattivamente al momento in cui inquadra le situazioni problematiche. Egli non separa il pensare dal fare” (Schoen, 1983: 68). 
 
Partecipazione e cooperazione sono principi che riflettono la natura intrinsecamente sociale e organizzativa delle pratiche riflessive nella formazione. La necessità di spostare il focus dalla riflessione come compito di singoli individui alla riflessione come processo sociale e organizzativo è stata evidenziata da più punti di vista. Ad esempio, il termine organising reflection (la “riflessione che organizza”) rappresenta una prospettiva emergente, riferita a processi “sociali, situati, relazionali, politici e collettivi” che può consentire vantaggi sia teorici sia pratici (Reynolds e Vince, 2004). La riflessività, in questa prospettiva, gioca un ruolo importante nelle situazioni di lavoro in quanto interrompe i flussi dell’esperienza comune e può consentire l’emergere di nuovi livelli di conoscenza organizzativa (Gherardi and Nicolini, 2001). E può evitare fenomeni involutivi di isolamento “Nella maggior parte delle situazioni l’individuo da solo non può affrontare e risolvere problemi di natura organizzativa e meta-organizzativa..  una visione ristretta dell’apprendimento può neutralizzare la capacità di produrre apprendimento e cambiamento.. la riflessione individualizzata, privata rischia di essere uno sforzo sterile nella misura in cui gli individui da soli sono raramente nella posizione di poter apportare cambiamenti organizzativi sostanziali” (Nicolini et al., 2004: 81).
 
La “mobilitazione di risorse personali” richiama il fatto che la riflessività non è una questione semplicemente cognitiva. Gli usi realmente consapevoli delle conoscenze e informazioni disponibili sono quelli in cui viene coinvolta la conoscenza personale, che contiene anche aspetti affettivi, coinvolgimenti identitari, interessi ed emozioni, che vanno considerati parte integrante della conoscenza produttiva. Il lato soggettivo della riflessività riguarda quindi fenomeni come l’auto-riconoscimento, l’impegno e lo sforzo per la realizzazione degli obiettivi. In questi termini la riflessività è la funzione che aiuta le persone nella comprensione di sé stessi in quanto attori situati in specifici contesti operativi e, in qualche modo, fiduciosi nelle loro capacità. Ciò implica il coinvolgimento su un doppio asse: quello “sincronico”, riguardo a obiettivi e assunti correnti, e quello “diacronico”, rispetto al quale le azioni vengono intese nella loro temporalità, in relazione al divenire degli stessi attori e dei loro contesti, nonché al manifestarsi di risultati anche inattesi. Questa doppia natura della riflessività  può essere espressa dall’opposizione tra reflectivity (di natura sincronica) and reflexivity (di natura diacronica), evidenziata da recenti approcci critici e post-moderni (Cunliffe e Jun, 2002;  Cunliffe and Easterby-Smith, 2004).  In questa prospettiva la reflection è legata all’idea di uno specchio che riflette una realtà oggettiva, semplicemente “out there”, mentre la  reflexivity – da pensare soprattutto in termini di self-reflexivity – è qualcosa che mette in questione le basi del pensiero, le regole date per scontate, i modi di pensare le pratiche e le relazioni con gli altri. La self-reflexivity, in particolare, è legata a “un processo interno attraverso cui esaminiamo noi stessi, includendo anche i nostri valori…  un processo che dipende dall’idea di un sé in trasformazione, che emerge e cambia continuamente in quanto interagiamo con gli altri, con l’ambiente e con la sfera pubblica”  (Cunliffe e Jun, 2002). 
 
Richiamando brevemente i diversi argomenti sinora trattati, sembra utile sottolineare in primo luogo l’importanza del passaggio da una logica di azione della formazione basata su obiettivi di qualificazione a un’altra logica basata su obiettivi di competenza. Questo è probabilmente il fenomeno più cruciale che ha oggi luogo in campo formativo, in relazione alle trasformazioni indotte nell’intero sistema socio-economico dal nuovo ruolo assunto dalle risorse della conoscenza, dell’apprendimento e della competenza. Questo passaggio comporta cambiamenti sostanziali nelle strumentazioni e negli habitus professionali di tutti gli attori del campo formativo.  L’accresciuta necessità di comportamenti riflessivi e l’implementazione di pratiche riflessive, da questo punto di vista, è una delle maggiori conseguenze di tendenze complessive in cui il coinvolgimento dal basso diventa indispensabile anche per il successo delle politiche di tipo top-down. L’avvio di iniziative per lo sviluppo della riflessività rappresenta, da questo punto di vista, una spinta al riequilibrio degli effetti inattesi di diverse politiche e misure che rischiano di rinforzare la tendenza neo-burocratica alla standardizzazione delle forme e dei risultati delle attività formative. Di contro a questa tendenza, nuove iniziative a supporto della riflessività possono contribuire a raggiungere obiettivi rilevanti a livello sia individuale sia organizzativo. In termini organizzativi tali iniziative potrebbero essere altamente coerenti con la necessità delle istituzioni formative di approssimarsi alla metafora della learning organisation, funzionante attraverso diversi meccanismi auto-gestiti che possono garantire più elevati livelli di efficacia e affidabilità. In termini individuali tali iniziative potrebbero soddisfare il desiderio di maggiori opportunità di auto-riconoscimento e sviluppo professionale autonomo, secondo una tendenza che è comune a un vasto arco di professioni nell’economia della conoscenza.
 
E’ ovvio che sono necessari tempo e sforzi per rendere disponibili gli approcci riflessivi a più vasti pubblici nel mondo della formazione. In questa prospettiva REFLECT può essere visto come rappresentativo di una nuova generazione di progetti di ricerca e sviluppo, a supporto di orientamenti politici che tengano conto dell’importanza delle risorse umane impiegate nei processi formativi: orientamenti aperti allo sviluppo di nuove competenze professionali, riferite non a insieme di compiti da eseguire in forme routinarie ma a “pratiche” che richiedono partecipazione consapevole e innovazione. 
 
 
Referenze bibliografiche
 
Archibugi D., Lundvall B.-A. (2001) “Europe and the Learning Economy” introduction to D. Archibugi, B.-A. Lundvall (2001)
 
Archibugi D., Lundvall B.-A. (2001) The Globalising Learning Economy: Major Socio-Economic Trends and European Innovation Policies, Oxford: Oxford University Press
 
Arnold R. (1994), “Learning Organization: in cosa consiste effettivamente e quali aspetti della formazione aziendale sono messi in discussione?”. In L. Infelise (ed.).
 
Beck U. (1992), Risk Society, Towards a New Modernity, London, Sage Publications.
 
Beck U., Giddens A., Lash S., (1994), Reflexive Modernization: Politics, Tradition and Aesthetics in the Modern Social Order, Cambridge, Polity. 
 
Beck U., (2000), Schone neue Arbeitswelt. Vision: Weltburgergesellshaft, it. ed.  (2000), Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, Torino, Einaudi.
 
Burton-Jones A. (1999), Knowledge Capitalism: Business, Work, and Learning in the New Economy, Oxford, Oxford University Press.
 
Castells M. (2000) The Rise of the Network Society, London: Blackwell 
 
Conceicao P., Heitor M. (2001) “Universities in the Learning Economy. Balancing Institutional Integrity and Organizational Diversity”, in D. Archibugi, B.-A. Lundvall (2001)
 
Cunliffe A. L., (2002), “Reflexive Dialogical Practice in Management Learning”, Management Learning, 33(1).
 
Cunliffe A. L., Jun J. S., (2002), Reflectivity as intellectual and social practice, paper for the Public Administration Theory Network
 
Cunliffe A.L., Easterby-Smith M. (2004), “From Reflection to Practical Reflexivity: Experiential Learning as Lived Experience”. In M. Reynolds M., R. Vince (eds).
 
Dierkes M., Child J., Nonaka I., eds, (2001)  Handbook of Organizational Learning and Knowledge, Oxford, Oxford Univ. Press
 
European Commission, (2000), Memorandum on Lifelong Learning, web document
 
European Commission, (2001), Making a European Area of Lifelong Learning a Reality, web document
 
European Council, (2004), Council Conclusions on future priorities in the field of vocational education and training (follow-up to the Copenhagen process) , web document
 
European Council, 2006, The Helsinki Communiqué, web document
 
European Council and European Commission, 2004, Joint Report on Education & Training 2010 : the success of Lisbon strategy hinges on urgent reforms, web document   
 
Foray D., Lundvall B. A. (eds.), (1996), Employment and growth in the knowledge-base-economy, OECD Documents, OECD, Paris
 
Gherardi S., Nicolini D., (2001), "The Sociological Foundation of Organizational Learning", in M. Dierkes, J. Child and I. Nonaka (eds).
 
Giddens A., (1991), Modernity and Self-Identity: Self and Society in the Late Modern Age, Cambridge, Polity Press.
 
Giddens A, (1990), The Consequences of Modernity, Cambridge, Polity.
 
Griffith, T.; Guile, D., (2004), Learning through work experience for the knowledge economy: issues for educational research and policy. Luxembourg, CEE Publications, Cedefop, 48 
 
Kuhn M., Simons R.-J., Tomassini M. (eds), (2006) Towards a Knowledge Based  Economy? Knowledge and Learning in European Educational Research, New York-Berlin, Peter Lang
 
Infelise L. (ed), (1994), La formazione in impresa: nuove frontiere in Europa. Milano: Franco Angeli.
 
Le Boterf G. (1999), Competénce et navigation professionelle, Paris, Editions d’Organisation.
 
Méhaut P. (1994), “Impresa e formazione continua: proposta per un quadro di analisi comparata”. In L. Infelise (a cura di)
 
Montedoro C., Pepe D.,  a cura di, (2007) Le pratiche ed i modelli della riflessività nella formazione, Milano, Franco Angeli.
 
Nicolini D, Sher M., Childerstone S., Gorli M, (2004), “In search of the “structure that reflects”: promoting organizational reflection in a UK Health Authority”, in M. Reynolds and  R. Vince (eds.)
 
Nowotny H., Scott P., Gibbons M. (2001), Rethinking Science: Knowledge and the Public in an Age of Uncertainty. Oxford: Polity Press. 
 
Reynolds M., Vince R. (eds), (2004), Organizing Reflection, Burlington, Ashgate.
 
Talamo A., Roma F., a cura di, (2007), La pluralità inevitabile: le identità in gioco nella vita quotidiana, Milano, Apogeo.
 
Tomassini M. (2006), “Learning and citizenship in organisations: outcomes and perspectives from research studies under EC 4th and 5th Framework Programmes”, in M. Kuhn et al. 
 
Tomassini M, (2007a) “L’identità nei sistemi di lavoro e organizzazione: una prospettiva tardo-moderna”, in A. Talamo e F. Roma, (a cura di).
   
Tomassini M., (2007b) “La riflessività dei professionisti della formazione: verso lo sviluppo di pratiche riflessive in contesti di formazione professionale”, in C. Montedoro e D. Pepe,  (a cura di)