A fasi cicliche l'umana avventura ci chiede conto delle scelte fatte a livello personale e sociale, come pure in campo professionale. In questo breve saggio Piergiorgio Reggio, da anni impegnato nell'educazione di giovani e adulti, prova a rendere ragione di tali cammini.  Si confronta così senza più remore con l'esperienza di Barbiana e il suo mito educativo, da lui stesso incontrati e praticati fin da giovane studente. E lo fa a partire dal ricordo dello schiaffo ricevuto ("Venne preso a sberle il nostro conformismo educativo e sociale", p. 9) e dalla provocazione a interrogarsi, ieri come oggi, sul proprio ruolo di educatore, obiettore, genitore, insegnante. Piergiorgio Reggio ci introduce fin da subito nel cuore di questo mito - l'educazione come giustizia - attraverso il fare scuola di don Milani, prima ai giovani operai di San Donato poi ai figli dei montanari del Mugello. Non si tratta di riscriverne la biografia o semplicisticamente riprodurne la pratica pedagogica, magari tradendone lo spirito, quanto piuttosto di tornare a quell'esperienza per attingervi i cosiddetti temi generatori, le istanze di fondo per una nuova prassi educativa critica e creativa. O, come dice Paulo Freire, a cui l'A. compara l'azione milaniana, per imparare a diventare umani, cioè "essere più". Bisogna allora accettare di credere fiduciosamente nella relazione maestro-allievo, per stare insieme non solo "nel mondo", ma anche e soprattutto "col mondo", secondo la felice espressione coniata dal pedagogista brasiliano. Ovvero imparare sempre, ovunque e da chiunque, come lo stesso priore di Barbiana faceva, sforzandosi di aprire i suoi ragazzi alla conoscenza di sé e appunto del mondo, attraverso occasioni di formazione esperienziale (lettura di giornali e lettere, incontri con ospiti o visite di interlocutori esterni, viaggi di lavoro all'estero, ecc.), per poi spingerli a porsi domande e a cercare insieme le possibili risposte circa i motivi profondi che generano ingiustizia e violenza. 

Nell'introduzione Reggio ci aiuta a riflettere sul fatto che oggi viviamo un passaggio generazionale di vaste e profonde dimensioni, in cui diventa sempre più necessario tornare al senso ultimo del nostro educare ("in epoca generalmente considerata di crisi, nella quale sembrano non essere più presenti la speranza educativa e la convinzione che un altro mondo sia possibile", p. 10). Dopo il primo capitolo, in cui si declina, come già accennato, la forte provocazione milaniana e il mito dell'educazione come giustizia sociale, egli ci accompagna nei luoghi e negli ambienti abitati dal sacerdote fiorentino. Quindi focalizza l'attenzione sul ruolo fondamentale del rapporto maestro–allievo: una relazione di per sé asimmetrica, ma proprio per questo portatrice di potenzialità reciproche, nella rispettiva diversità dei ruoli. Non solo: vissuta anche in una dimensione domestica, in cui cioè non c'è distinzione tra vita e apprendimento, dove appunto si vive la piena e appassionata adesione di chi insegna al mondo di chi impara. "Io do attenzione, tenerezza, ascolto e non chiedo niente. E' una carta vincente" (p. 49). Da ciò consegue la consapevolezza quotidiana e insistente del valore/potere della parola, che appare allora condizione essenziale della coscienza critica, strumento non solo di riscatto sociale, ma vero e proprio diritto di cittadinanza. Si pensi solo alla scrittura collettiva delle due Lettere più famose: quella ad una professoressa e l'altra rivolta ai cappellani militari toscani. L'educazione diventa così un atto politico. E' dare/restituire la parola agli oppressi, ai "muti" di ogni tempo e spazio, per riconoscere e affrontare insieme i problemi, cercando la soluzione dei conflitti con modalità nonviolente, attraverso cioè il dialogo, il confronto, il lavoro su di sé, alla continua e incessante ricerca della verità. 

Ma allora come insegnare? Come imparare? Insomma cosa bisogna fare per fare scuola? A queste domande tentano di rispondere gli ultimi due capitoli. Certo non esistono ricette precostituite… Anche se don Milani, proprio perché cercava di trasformare i fatti in apprendimenti, cioè in esperienze concrete di vita, poteva a ragione scrivere: "Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter far scuola" (p. 88). Perché non si è educatori naturalmente o per vocazione, ma per "edificazione" personale, per scelta esistenziale prima che per compito professionale, perché chi impara ci sta a cuore, ci interessa, è lui al centro quale persona unica e irripetibile, non la nostra conoscenza astratta e generica.

E oggi è ancora possibile un'educazione milaniana? A quest'ultima domanda Piergiorgio Reggio rimanda a sé e a ciascuno di noi la responsabilità di intraprendere nuovi sentieri di ricerca, come s'addice a una educazione realmente critica e creativa ovvero esperienziale. Tre allora sono le possibili azioni e direzioni da intraprendere:

  • esplorare gli ambienti, cioè costruire senso, vivendo radicati nei luoghi che abitiamo;
  • imparare con gli altri, investendo in relazioni particolarmente significative e in comunità di reciproco apprendimento;
  • imparare, ultimo ma non ultimo, da noi stessi, praticando cioè l'autoformazione culturale ma soprattutto umana, direi del carattere. 

Fino a sperimentare sulla propria pelle, nella e dalla pratica quotidiana, che veramente "il sapere serve solo per darlo" (p. 91).