Per chi vede nell'e-learning un'opportunità per cambiare radicalmente la nostra relazione con la conoscenza, è particolarmente frustrante constatare come in questo ambito prevalgano spesso visioni limitate e applicazioni contraddittorie. Nella progettazione dei processi di apprendimento in rete, ad esempio, molti si concentrano sulla cosiddetta (e presunta) innovazione tecnologica, dimenticando che l'innovazione in quanto tale non implica né vantaggi né cambiamenti, a meno che non sia funzionale all'elaborazione di modelli metodologici e organizzativi in grado di delineare un nuovo paradigma formativo.

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Si potrebbero fare molti esempi in tal senso: si pensi a certe applicazioni autoreferenziali della Realtà Virtuale, o all'enfasi che si crea talora attorno a qualche ambiente social più o meno alternativo: sembra quasi che si siano finalmente aperte le porte della conoscenza, anche se poi l'enfasi dura quasi sempre lo spazio di un anno accademico. Ma uno dei più eclatanti di questi fenomeni è stata probabilmente l'associazione automatica tra la tecnologia dei dispositivi mobili (in particolare il tablet) e il concetto di Realtà Aumentata. Qualche tempo fa c'è stato un momento in cui non si parlava d'altro. Il messaggio era indubbiamente attraente: la più grande innovazione tecnologica dopo il Big Bang (il tablet, anzi, l'iPad come quasi tutti lo chiamavano, confidenzialmente) poteva permetterci di osservare la realtà sovrapponendo ad essa uno o più "strati" di informazioni capaci di restituircene versioni alternative o arricchite, un po' come se le visioni di Borges e quelle di Murray Leinster sugli universi paralleli fossero sul punto di avverarsi.
Ovviamente, non è andata proprio così: a parte il fatto che l'orgasmo collettivo sui tablet si è affievolito rapidamente (anche perché era sostanzialmente legato a fenomeni commerciali), si è capito che "aumentare" la realtà non era poi così semplice e il più delle volte consisteva soltanto nell'appiccicare delle informazioni su delle immagini, operazione di per sé non necessariamente inutile ma certamente, sul piano cognitivo, di impatto ben più limitato di quanto possa apparire. Anzi, si potrebbe addirittura obiettare che aumentare la realtà attraverso un filtro tecnologico rappresenta un'operazione superflua, semplicistica, quando non riduttiva proprio sul piano cognitivo, poiché espone al rischio di perdere il contatto diretto con la realtà in quanto tale, fino a configurare uno scenario che mi piace commentare sinteticamente con una battuta dove si contaminano Mao-Tse Tung e Sherry Turkle...

Il fatto è che non si tratta di aumentare la realtà ma di aumentare la conoscenza della realtà, utilizzando le tecnologie non come filtri selettivi ma come veri e propri strumenti cognitivi. La relazione tra tecnologie utilizzate, contenuti associati ai parametri della realtà con cui si dovrebbe interagire e modalità di interazione con la realtà, va quindi radicalmente ripensata.
L’ipotesi di lavoro più plausibile in tal senso è legata ad alcune potenzialità specifiche dei dispositivi mobili, ma si fonda su precisi principi metodologico-didattici. Delle tecnologie portatili, ad esempio, si potrebbe sfruttare una caratteristica peculiare, che è la geolocalizzazione del dispositivo stesso.
Se andiamo in giro con un tablet (o con uno smartphone di ultima generazione), il dispositivo sa dove ci troviamo e può di conseguenza sapere cosa c'è attorno a noi e parlarcene. La cosiddetta Realtà Aumentata si basa su questo presupposto, ma tende a considerare l'associazione tra la nostra posizione geografica e gli oggetti che ci circondano in quella posizione come un punto di arrivo, fraintendendo tra il bisogno di farci sapere cosa (che significa spesso riferirci cose ovvie, tipo segnalarci un ristorante nei dintorni) e la nostra voglia, o necessità, di imparare qualcosa.