Il cambiamento non è questione di norme, ma di empowerment delle persone
Certamente il piano di riforme che il Governo ha messo in campo in questa legislatura è stato il più ambizioso nella storia pur lunga delle riforme della PA. Moltissimi sono i provvedimenti approvati e molti anche quelli che sono ancora oggi in via di approvazione. Molto si è fatto quindi, eppure una lettura d’insieme ci restituisce un senso d’incompiutezza e d’insoddisfazione che accomuna questa alle altre “riforme epocali” dell’amministrazione pubblica, tutte pensate per essere risolutive e tutte archiviate con sovrabbondanti, ma spesso inapplicati, risultati normativi e scarsissimi effetti sulla vita dei cittadini e delle imprese.
È quindi necessario interrogarci su cosa non ha funzionato in queste ondate successive di riforme che ci hanno spesso lasciato solo ingombranti gore normative. Il più grave limite che noi leggiamo è l’illusione che l’innovazione sia un problema di norme. Ma l’innovazione non si fa con le norme e neanche solo con le visioni strategiche: è questione di paziente costruzione di percorsi di cambiamento, di attenzione e accompagnamento, di cassette degli attrezzi e di formazione, di empowerment delle organizzazioni e di engagement delle persone. Una riforma fatta di norme che rinnovellano altre norme, in una sorta di gioco delle scatole cinesi dove la forma diventa contenuto, non porta all’innovazione, ma è foriera di quella paralisi da sovrabbondanza normativa che è la condizione attuale di molte amministrazioni.
Non servono quindi nuove riforme, ma un investimento serio di risorse economiche, professionali e politiche per accompagnare il cambiamento dei comportamenti in un clima di fiducia.
Nella nostra esperienza del FORUM PA, che segue ormai da trent’anni i tentativi di cambiamento dell’amministrazione, questo sforzo si chiama empowerment. Parliamo di empowerment per intendere il processo di potenziamento delle capacità degli individui o dei gruppi nel compiere scelte e nel trasformare queste scelte in azioni e risultati desiderati, considerandone quattro elementi chiave, in termini di accesso a: informazione; inclusione e partecipazione; responsabilità; capacità organizzative di base. L’empowerment si regge su un binomio fondamentale: autonomia e responsabilità.
In questo senso si apre una prospettiva non da poco per le azioni di formazione: non tanto insegnare alle persone come eseguire correttamente una procedura, nell'ottica del mero adempimento di un compito, ma dare loro il potere di cambiare le cose attraverso la formazione. Non una formazione “teorica” e meramente procedurale, ma una formazione orientata a produrre il cambiamento di cui impiegati pubblici hanno urgente bisogno o meglio a cui hanno diritto.

Cinque scelte che abbiamo di fronte
L’ambiente in cui l’azione di empowerment delle persone e delle organizzazioni deve oggi situarsi è quello contraddistinto da scelte non scontate che, a seconda delle direzioni che prenderemo, come in un susseguirsi di bivi, ci possono portare a modelli di amministrazioni pubbliche molto diversi tra loro. Sono cinque coppie di tesi e antitesi che, se non troveranno giuste sintesi attraverso l’attenzione alle persone, manderanno al macero qualsiasi riforma.

Il primo bivio è quello tra quella che chiamiamo ormai comunemente “burocrazia difensiva” e una nuova forma di government che abbiamo designato come “Stato partner”. Burocrazia difensiva è quell'atteggiamento per cui è solo non facendo che si evitano rischi. È burocrazia difensiva pretendere un doppio canale digitale, ma anche cartaceo per i documenti, perché “non si sa mai”. È burocrazia difensiva chiedere cento pareri prima di applicare un’innovazione e non far nulla sino a che non si ricevono. È burocrazia difensiva pensare che in questo caos l’unica salvezza è quella di restare fermi, di aspettare che passi il vento dell’innovazione, che tanto dura al massimo il tempo di un Governo, poi tutto cambia. Chiunque conosca da dentro la PA sa quanto questi atteggiamenti sono diffusi e come sono difficili da estirpare, specie con la minaccia continua di nuovi e vecchi “babau”, spesso pericoli più immaginari che reali, come la Corte dei Conti o l’ANAC.
Antitesi della burocrazia difensiva è lo “stato partner”. Si tratta di un necessario cambio di paradigma che ci faccia passare dall'idea di uno Stato provvidente che autorizza (lo Stato regolatore), produce (lo Stato produttore), assiste (il Welfare State) ad uno Stato partner che si muove in un concetto di rete, che detiene la funzione di stimolo dell'intelligenza collettiva, che sostiene, e dove necessario guida e abilita, la società verso la transizione ad un modello collaborativo.
Una possibile sintesi tra queste così diverse concezioni del ruolo del “civil servant” può essere trovata solo nell’accompagnamento delle persone e nella rassicurazione che tale accompagnamento può garantire. Meno norme quindi, meno regolamenti e più manuali.

Una seconda scelta è se mettere, in questi anni così difficili per la finanza pubblica, la massima enfasi sull’efficienza, il razionale uso delle risorse, gli output o piuttosto sull’efficacia, sull’impatto delle politiche pubbliche sulla vita dei cittadini, sugli outcome. Sembra scontato che si debba perseguire insieme efficienza ed efficacia, ma si dà spesso spazio a rigurgiti ingenuamente efficientisti che, nati dal New Public Management, non hanno trovato mai piena realizzazione nel nostro Paese, ma ci hanno lasciato l’inappagato desiderio di una PA organizzata come azienda. Immagine che è stata per altro abbandonata da tutte le democrazie moderne. Ma questa managerialità fordista (di cui la smania dei “tornelli” è sintomo caricaturale), porta con sé un grave pericolo: la tentazione di vedere una notte in cui tutti i gatti sono grigi, in cui tutte le PA sono uguali. Ne consegue la tendenza a ipernormare, ma anche a dare scarso o nessuno spazio alla diversità, all’autonomia, alle specificità. Dimenticare però che il fine dell’amministrazione non è funzionare meglio o “fare di più con meno”, come pure tante volte abbiamo sentito, ma abilitare i cittadini a risolvere i loro problemi e a raggiungere i loro obiettivi è pericolosissimo. È alla base di quell’autoreferenzialità che è ancora causa di molti di quei comportamenti “difensivi” di cui parlavamo. Anche qui la sintesi può essere trovata solo in un’operazione di “sensemaking”, di condivisione dei significati e dei fini dell’azione pubblica, di continua valutazione ed autovalutazione basata su quanto quello che fa l’amministrazione incide sul benessere equo e sostenibile dei cittadini e delle comunità.

La terza alternativa che abbiamo davanti è “spaziale”, riguarda infatti come collochiamo l’amministrazione nello spazio immaginario in cui si svolge la vita dei cittadini. Per spiegarlo meglio rifacciamoci ad un esempio classico della “nuova” PA: quello dei servizi online. L’amministrazione digitale, che ha assorbito innovazione tecnologica ma non ha cambiato pelle, immagina un luogo unico, una specie di Grande Portale Gentile, dove c’è tutta la PA e dove il cittadino che cerca bene, e che sa anche cosa cercare, trova tutti i servizi e tutte le informazioni. “Venite da noi e troverete quel che cercate” sembrano dire questi imbonitori digitalizzati, peccato però che siamo uno dei Paesi europei con la massima disponibilità di servizi digitali e siamo tra gli ultimi nel loro effettivo uso (dietro di noi solo Slovacchia, Bulgaria e Romania). La scelta antitetica che auspichiamo prende atto che i cittadini non sono sui portali, ma che usano altri strumenti e altri ambienti e piuttosto che chiamarli dove è l’amministrazione, spinge l’amministrazione ad andare dove sono loro. Insomma meno portali, meno servizi a cui non accede nessuno e più “app”, più “mobile services”. Come si fa? Anche qui è questione di insegnare ai nostri tecnologi a guardare fuori e a mettere davvero al centro i cittadini, ma non in teoria, immaginando cosa dovrebbero fare, ma in pratica, guardando a quello che in effetti fanno.

Legata a questa scelta di collocazione è il quarto bivio: quello che vede da un lato l’atteggiamento di chi guarda ai cittadini come a clienti portatori di bisogni da soddisfare e dall’altro la convinzione che essi siano “azionisti” portatori anche e soprattutto di saperi e di soluzioni. Nel primo caso rafforzeremo quello che Cassese chiamava il “paradigma bipolare” che definiva come “il paradigma fondamentale del diritto pubblico nel XX secolo: due poli separati, né convergenti, né contrattanti, ma in contrapposizione, a causa della superiorità di uno sull’altro” [1]. Nel secondo caso immagineremo la PA come una “Amministrazione condivisa”, come la chiama Gregorio Arena, in cui sono anche i cittadini che autonomamente si propongono all’amministrazione come alleati per perseguire insieme l’interesse generale sulla base dell'art. 118, ultimo comma della Costituzione. In questa seconda accezione dell’amministrazione condivisa, che si può realizzare grazie al principio di sussidiarietà, cittadini attivi ed amministrazioni stabiliscono rapporti fondati sulla collaborazione e l'integrazione, nonché su quel principio di autonomia “relazionale” grazie al quale tutti i soggetti che partecipano alla rete creata dalla sussidiarietà sono da considerare come portatori di risorse, ognuno secondo le proprie capacità e possibilità” [2].

Per questo cambiamento culturale così forte l’unica possibilità è quella dell’uscire dal palazzo e “governare con la rete” che vuol dire accettare che la missione di un’amministrazione si concretizza sempre più spesso al di fuori dell’amministrazione stessa attraverso complesse connessioni tra molteplici organizzazioni pubbliche e private che devono essere coordinate. Significa accettare che il manager pubblico diventi soprattutto un “manager della rete”, un mediatore in grado di semplificare ed unire i talenti di una comunità verso un fine comune e politicamente condiviso. Verso la costruzione di “valore pubblico”. E per creare “valore pubblico”, ossia restituzione di valore ai contribuenti, le responsabilità della pubblica amministrazione non possono più essere imperniate sulla gestione di persone e programmi, ma sull’organizzazione ed il coordinamento di risorse che molto spesso appartengono in tutto o in parte ad altri soggetti.

L’ultima contrapposizione è quella da cui siamo partiti: tra riforme fatte solo di norme e invece accompagnamento al cambiamento che si basi sull’attenzione alle persone.
Il tema del capitale umano mette al centro quello che, dal nostro punto di vista, rimane l’elemento critico delle dinamiche di cambiamento. Le politiche di innovazione dovrebbero essere incentrate e supportate da processi di coinvolgimento e di condivisione degli obiettivi, definite sui reali bisogni di coloro che ne sono i destinatari, pena il rischio concreto che vengano vissute come aliene e quindi osteggiate proprio da chi dovrebbe esserne il motore.
Per far questo, proprio nel momento in cui la fiducia dei cittadini nei confronti di amministrazioni e istituzioni è ai suoi minimi storici, è importante sperimentare e sostenere nuove forme di collaborazione, nuovi modelli di amministrazione che vedono protagonisti i territori e che noi proponiamo si fondino sulle "quattro E”, che stiamo applicando nei diversi percorsi di innovazione e che sono diventate strumento operativo per sostenere il cambiamento: Endorsement, nel senso di costruire e rafforzare la volontà politica, sollecitando la classe politica e amministrativa di vertice a svolgere un ruolo attivo nel supporto dei processi di innovazione, a fare propri approcci nuovi nel rapporto tra governanti e cittadini, a sostenere i fenomeni emergenti collegandoli alla propria agenda politica. Engagement, per promuovere la cultura della partecipazione e il coinvolgimento reale dei cittadini e degli attori (interessati e destinatari) nei processi di innovazione. Aprire al dibattito pubblico, alla consultazione collettiva, alla condivisione di strategie e azioni per rispondere in maniera efficace ai bisogni e alle esigenze del territorio. Empowerment, per fornire agli operatori della PA momenti di formazione interna e occasioni di presa di coscienza della propria mission specifica. Sviluppare competenze e strumenti per fare innovazione. Creare le condizioni (capacity building) affinchè si diffondano all’interno delle Amministrazioni la cultura dell’innovazione e le pratiche collegate. Enforcement, così da adottare misure specifiche e puntuali per dare effettiva attuazione agli approcci innovativi.
Con uno slogan: meno norme, più manuali, più reti, più confronto e valutazione reale, accompagnando così, con fiducia e umiltà, le persone in un percorso di cambiamento che solo così diventa anche trasformazione di comportamenti e non solo riforme di carta.

 

[1] S.CASSESE, L’arena pubblica. Nuovi paradigmi per lo Stato, “Rivista trimestrale di diritto pubblico” (2001), pag. 602-604

[2] G.ARENA; su www.forumpa.ithttp://www.forumpa.it/riforma-pa/amministrazione-condivisa-lalleanza-vincente-fra-cittadini-e-istituzioni

 

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