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Le riforme della Pubblica Amministrazione che si sono succedute negli anni sono molteplici e tutte orientate a modificare i processi di lavoro al fine di renderli più efficienti ed efficaci in un contesto in perenne cambiamento. Perseguire l'efficienza e l'efficacia, termini abusati nel pubblico come nel privato, è comunque una condizione indispensabile se i processi di lavoro della PA sono tesi a erogare servizi a cittadini ed imprese. Le politiche di crescita del Paese richiedono anche una maggiore produttività delle amministrazioni pubbliche e la loro capacità di offrire servizi adeguati a imprese e cittadini. Ma da cosa è alimentata la produttività della PA? Dalla riduzione dei costi? Dalla riorganizzazione dei servizi? Da procedure puntuali ma rigide? Sicuramente da tutti questi elementi, ma è anche determinata in modo preponderante dalla qualità del personale: le competenze possedute, l’esperienza maturata, la motivazione al lavoro, il senso del servizio al cittadino, le capacità personali, i valori in cui si crede. E se la produttività della PA è determinata dalla qualità del personale, quest’ultima è garantita dalla capacità di aggiornamento e sviluppo delle competenze. Pertanto la formazione – se non la si considera una spesa ma un investimento – potrebbe essere uno strumento rilevante per l’innovazione del capitale umano.
Sviluppare competenze per il cambiamento
Il cambiamento di un ente regionale è possibile se si interviene sui processi e sull’organizzazione ma anche se si agisce sulle politiche per il personale. Questa premessa è alla base delle politiche per lo sviluppo delle competenze e l’aggiornamento delle conoscenze del personale regionale.
Il metodo di lavoro condiviso da Regione Lazio e ASAP si basa sull’ascolto e sulla rilevazione degli effettivi fabbisogni dei vari stakeholders al fine di sviluppare piani formativi in linea con le esigenze dei destinatari. Una delle primarie attività svolte è, dunque, rispondere alle esigenze specifiche dell’organizzazione regionale attraverso la rilevazione dei bisogni di formazione delle varie strutture che ne fanno parte.
La rilevazione dei fabbisogni, che consiste in un lavoro complesso di analisi della domanda di formazione e non esclusivamente in una rilevazione quantitativa tramite la somministrazione di questionari, prevede:
L’insieme di questi strumenti permette di raccogliere informazioni utili che consentono alla Regione Lazio di formulare il Piano Triennale di Formazione, un documento approvato dalla Giunta Regionale che individua i principali obiettivi strategici dell’Ente: valorizzare il capitale umano, promuovendo lo sviluppo delle competenze professionali al fine di contribuire al miglioramento della qualità dei servizi ai cittadini e alle imprese; sviluppare la cultura della legalità attraverso l’implementazione delle azioni formative sulla prevenzione della frode e della corruzione; potenziare l’efficienza economico-finanziaria del sistema regionale, contribuendo alla trasparenza dell’amministrazione pubblica; incrementare la soddisfazione dei portatori d’interesse, facendo leva su elementi di innovazione e competitività.
Il Piano Formativo regionale, dunque, è un Programma in continuo divenire che, se da un lato deve rispondere in maniera flessibile alle esigenze di un territorio complesso e in evoluzione, dall’altro svolge il compito di connettore delle diverse iniziative intraprese dalla Regione all’interno di un quadro ragionato e sinergicamente coerente.
Obiettivi di sviluppo di Regione Lazio
In linea con il Sistema di misurazione e valutazione della Performance implementato dall'amministrazione regionale le finalità perseguite in termini di politiche di sviluppo e formazione del personale corrispondono, essenzialmente, ai seguenti quattro macro obiettivi:
Sulla base di questi obiettivi è stato così elaborato il Piano formativo di Regione Lazio da parte di ASAP, che opera in stretta sintonia con l’Area Controllo di gestione regionale, formazione e programmazione dei fabbisogni della Direzione Regionale Affari Istituzionali, Personale e Sistemi Informativi. In quanto agenzia in house regionale ASAP si occupa di aggiornamento, qualificazione e specializzazione del personale dipendente nonché di supporto ai processi di innovazione organizzativa con l’impiego di metodologie avanzate.
In questo articolo si riporta l'esperienza di Regione Lazio relativa ad uno dei quattro obiettivi ed in particolare quello che interessa la strategia di sviluppo delle competenze manageriali dei Dirigenti e dei dipendenti appartenenti alle categorie D, C e B. Questa esperienza relativa allo sviluppo delle competenze manageriali è stata riportata nel paper di studio di Daniel Gerson sulla tematica delle skills nel Civil service dei paesi OCSE (Mapping skills needs for high performing civil service: Attracting, retaining and developing public employees of the future). Lo studio è stato presentato il 25 aprile a Parigi in occasione del simposio del Public Governance Committee dell’OCSE congiuntamente all’incontro annuale del gruppo di lavoro OCSE su Public Employment and Management (PEM).
Linee guida del Piano
Le linee guida che hanno indirizzato la progettazione e l'implementazione del Progetto di Regione Lazio sono state:
Tale Progetto è stato costruito anche in riferimento ai seguenti criteri:
Per tali interventi sono state sperimentate soluzioni formative e metodologie di apprendimento “non convenzionali” e principalmente interattive, al fine di creare momenti di scambio e di apprendimento collaborativo attraverso la conduzione dei lavori da parte di uno staff di docenti e facilitatori, esperti della formazione con particolare riguardo ai temi della comunicazione, del team building e dei comportamenti manageriali.
Il progetto ha avuto il compito di supportare e sviluppare una strategia della “sostenibilità delle risorse umane” attraverso la messa in atto di processi volti a garantire - nel tempo - la comunicazione, la formazione, la motivazione, il coinvolgimento, lo sviluppo del capitale sociale e intellettuale dell’organizzazione regionale. Dunque le misure adottate per incrementare la sostenibilità sono state:
Tre percorsi integrati
Per implementare la strategia di sviluppo delle competenze manageriali dei Dirigenti e dei dipendenti appartenenti alle categorie D, C e B sono stati realizzati tre percorsi formativi, che condividono il medesimo approfondimento tematico. Infatti, per consentire un effettivo cambiamento della PA, oltre ad intervenire su aggiornamenti normativi e acquisizione di nuove competenze e conoscenze, è necessario sviluppare adeguate capacità relazionali. Per questo motivo, facendo riferimento al modello delle capacità presente nel Sistema di misurazione e valutazione della Performance, sono stati progettati tre percorsi con una medesima matrice di contenuti, ma differenziati per i tre gruppi di destinatari (dirigenti; categorie D; categorie B e C)
Il percorso “Olimpo: leadership e governo delle relazioni interne” rappresenta la prima sperimentazione italiana del modello di Social Enterprise applicato ad una pubblica amministrazione. Questo percorso iniziato nel maggio del 2015 e concluso ad ottobre dello stesso anno, è stato rivolto a complessivi 167 dirigenti della Regione Lazio ed è inserito in una strategia di sviluppo organizzativo della dirigenza regionale, collegata al piano degli obiettivi strategici dell’amministrazione. Gli elementi innovativi che hanno caratterizzato il percorso sono due: l’utilizzo di un Serious Game, come Training Tool, e Yammer, una piattaforma on line finalizzata a favorire la collaborazione tra dirigenti nelle attività lavorative.
Il percorso “Agorà: dialogare con il cliente interno ed esterno” rivolto ai funzionari regionali (categoria D) si inserisce in una strategia di cambiamento della cultura e degli stili gestionali della Regione Lazio, orientata all’inter-funzionalità, al miglioramento del dialogo all’interno dell’organizzazione tra colleghi e verso l’esterno, alla creazione di sinergie e allo sviluppo del problem solving in un’ottica trasversale ed integrata. Dal punto di vista metodologico il ricorso alla piattaforma e-learning “Moodle” si è rivelato un utile e innovativo strumento didattico consentendo ai partecipanti di creare una community nella quale poter partecipare alle discussioni, condividere idee e soluzioni nonché consultare i materiali didattici. Attraverso l’ambiente virtuale di Moodle è stato facilitato sia il processo di apprendimento da parte dei dipendenti, sia la somministrazione on line di questionari di gradimento.
I numeri hanno confermato la buona riuscita del percorso formativo “Agorà” che ha visto, in percentuale, una partecipazione pari al 70% del totale previsto, con un numero di 1.022 partecipanti effettivi.
Il percorso “World Café per l’Agenda Digitale” ha visto il coinvolgimento di 1.600 dipendenti di categoria B e C delle sedi regionali centrali e periferiche. Il percorso rientra nella strategia per realizzare il “Lazio Digitale 2020”, ossia il piano per l’implementazione di una Amministrazione regionale capace di utilizzare pienamente le opportunità offerte da Internet e dalle tecnologie, allo scopo di assicurare ai cittadini uno sviluppo sostenibile e duraturo.
Le azioni dell’Agenda Digitale della Regione Lazio sono articolate in 5 aree di intervento due delle quali sono ritenute prioritarie dall’Ente: Amministrazione digitale aperta e intelligente e Cittadinanza e competenze digitali. Con il World Café la Regione Lazio ha inteso realizzare un percorso di comunicazione e formazione per il proprio personale con l’obiettivo di promuovere una diffusione sistemica e massiva dei temi inerenti l’Agenda Digitale improntata ad una governance regionale orientata sui temi della partecipazione, sull’apertura e sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione. Il percorso, iniziato nel mese di ottobre 2015 e conclusosi nel mese di febbraio 2016, ha visto lo svolgimento di 20 sessioni di World Café ciascuna delle quali ha coinvolto circa 100 dipendenti impegnati in dieci tavoli di lavoro. Tramite la metodologia della facilitazione è stato possibile generare conversazioni importanti su progetti complessi ma in modo concreto, divertente e produttivo su ciascuno dei tre focus individuati: efficienza dei processi interni; coinvolgimento dei cittadini; miglioramento dei servizi.
L’importante coinvolgimento di 1.600 dipendenti regionali ha consentito di raccogliere un numero elevato di contributi che, successivamente, sono stati analizzati e sintetizzati dal team di progetto e che hanno rappresentato la base per la costruzione di un questionario volto a pesare la percepita urgenza delle varie proposte progettuali. Il materiale è stato organizzato e sistematizzato in un questionario on line di circa 60 items che è stato sottoposto ai partecipanti di World Café per una ulteriore valutazione in termini di urgenza, desiderabilità e fattibilità. Sulla base di questa indagine, la Direzione Affari istituzionali, Personale e Sistemi informativi, in collaborazione con l’Area Agenda Digitale della Regione Lazio e con ASAP, ha analizzato le idee di intervento e le preferenze indicate dai dipendenti regionali, al fine di individuare le azioni da intraprendere nel 2017.
Valore aggiunto del progetto: co-progettazione, engagement e cambiamento
Le azioni congiunte messe in campo attraverso i tre percorsi, secondo il concetto base di complementarietà, mostrano come si può intervenire per “scardinare” alcune resistenze che ancora ostacolano il pieno cambiamento all’interno della Regione Lazio realizzando progetti di innovazione che abbiano come finalità sia l’attualizzazione e lo snellimento dei processi, sia l’aumento di efficacia ed efficienza dei servizi che l’ente mette a disposizione dell’utente esterno.
Inoltre, grazie allo sviluppo delle capacità trasversali è possibile supportare una strategia delle risorse umane che prevede tra gli obiettivi:
I tre percorsi formativi hanno potuto raggiungere risultati importanti in termini di coinvolgimento, di miglioramento della comunicazione interna ed esterna e di facilitazione grazie all’uso di nuove tecnologie. La sperimentazione di soluzioni formative e metodologie di apprendimento “non convenzionali” e interattive ha offerto la possibilità di creare momenti di scambio e di apprendimento collaborativo.
Il punto focale di un processo formativo bottom-up è coinvolgere attivamente i dipendenti, in quanto “esperti” e portatori d’interessi sia rispetto ai problemi che alle possibili soluzioni, rivolgendo loro iniziative di formazione specifiche. L’esperienza diretta dei partecipanti consente di identificare le basi per elaborare e gestire, in maniera condivisa, soluzioni, idee e azioni.
Per queste ragioni la valorizzazione dell’individuo non può basarsi solo su metodi didattici tradizionali o di tipo operativo e simulativo. Vanno messi a punto approcci e metodi che spostano il focus della formazione da un’impostazione top-down ad una bottom-up: nonostante la rilevanza del ruolo del formatore e del committente nella definizione e gestione del percorso formativo, è basilare il coinvolgimento e la partecipazione dei componenti di un’organizzazione al fine della crescita e dello sviluppo.
Il fallimento dell’esperienza del progetto “Rete per una Formazione di Qualità” (RFQ)
Al recente fallimento del tentativo di riforma della pubblica amministrazione da parte del Ministro Madia (sanzionato dalla sentenza n. 251/2016 della Corte costituzionale e dall’immobilismo politico che ne è derivato) bisogna aggiungere quello settoriale della riforma della funzione “Formazione” nelle pubbliche amministrazioni.
Tra il 2010 e il 2011 – sono ormai trascorsi più di cinque anni – è sembrato che il processo di cambiamento che avrebbe dovuto essere innescato dalla cosiddetta riforma Brunetta potesse essere sostenuto da una azione formativa legata ai processi organizzativi di attuazione della riforma.
L’allora Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione (SSPA), ora Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA), avviò nel 2011 il progetto “Una rete per la formazione di qualità” (RFQ), su impulso e finanziamento del Dipartimento della Funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri.
L’obiettivo principale che il Progetto RFQ si pose fu quello di far crescere nelle pubbliche amministrazioni la consapevolezza che la formazione è uno strumento di costruzione e crescita delle competenze delle persone che concorrono al raggiungimento degli obiettivi strategici e di performance di una organizzazione pubblica. RFQ puntava a potenziare la capacità degli Uffici Formazione delle amministrazioni nella programmazione, gestione e valutazione degli interventi.
Le linee fondamentali del Progetto RFQ riguardavano: modelli di pianificazione delle attività formative; standard di valutazione ex-ante, in itinere ed ex-post; nuove modalità relazionali tra i professionisti della formazione pubblica (la rete); nuovi percorsi di sviluppo delle competenze dei professionisti della formazione pubblica. Le attività di RFQ erano basate sul consenso e riconoscimento reciproco degli aderenti al Progetto, come anche sulla condivisione, produzione e valorizzazione dei prodotti.
Non era quindi un progetto formativo tradizionale, ma un laboratorio aperto, fortemente orientato ai risultati che favoriva le interazioni formali (interventi formativi d’aula, seminari, incontri periodici, riunioni di coordinamento) e quelle spontanee e informali, anche tramite una piattaforma web interattiva, per aiutare l’insieme dei dirigenti e degli addetti alla formazione delle diverse amministrazioni pubbliche a diventare una comunità di pratica e a sviluppare nuove competenze.
Il principale prodotto di RFQ furono le «Linee guida per la formazione nelle pubbliche amministrazioni» che si posero la finalità di fungere da standard scientifico-metodologico per:
Le Linee Guida erano supportate dal serious game «Programmare la formazione», che accompagnava, fase per fase, il responsabile della formazione nel processo di definizione dei fabbisogni e nella predisposizione del piano formativo triennale.
Le attività della comunità di pratica e il lavoro sul campo consentirono di riflettere su nuove ipotesi di assetto della funzione formazione nelle pubbliche amministrazioni. Le attività svolte nell'ambito di RFQ misero a disposizione, infatti, una significativa massa di conoscenze tratte dal vivo delle esperienze degli attori sul campo. Da queste riflessioni e da queste conoscenze nacque la ricerca «La funzione formazione nelle pubbliche amministrazioni», che è ancora possibile scaricare dal sito della SNA al seguente indirizzo: http://sna.gov.it/cosa-offriamo/ricerca-e-progetti/rete-per-la-formazione-di-qualita-rfq/la-funzione-formazione-nelle-pubbliche-amministrazioni/
Il naturale sviluppo della ricerca fu la realizzazione del «Percorso formativo per lo sviluppo delle competenze della funzione formazione nelle pubbliche amministrazioni», articolato in moduli didattici che coprivano ben 13 aree di competenze professionali e comportamentali dei dirigenti e dei funzionari addetti agli uffici per la formazione del personale pubblico.
Infine, le attività di RFQ furono affiancate da due azioni trasversali di supporto all’apprendimento cooperativo:
Alla fine del 2015, dopo quattro anni di lavoro comune, pur potendo vantare una serie di risultati e prodotti che avrebbero potuto costituire un modello operativo di qualità per lo sviluppo della funzione “Formazione”, RFQ chiudeva le attività nell’indifferenza del Dipartimento della Funzione pubblica e dei vertici decisionali delle pubbliche amministrazioni coinvolte nel progetto.
D’altro canto, sul piano della regolazione legislativa, la sostanziale indifferenza del legislatore nei confronti delle necessità formative del personale delle PP.AA. era stata, nel frattempo, formalmente sanzionata, oltre che con il taglio del 50% dei fondi per la formazione, anche con l’abrogazione dell’obbligo di predisporre un piano della formazione che, ove posto adeguatamente in correlazione con il piano dei fabbisogni di personale, avrebbe dovuto guidare le pubbliche amministrazioni nella definizione di razionali politiche del personale. La sua abrogazione ha avuto il triste suono di una campana a morte rispetto alla fiducia nella capacità progettuale delle PP.AA. di programmare e sviluppare le competenze dei propri dipendenti e di valorizzare l’enorme potenziale umano che ancora oggi – in modo quasi incredibile – è possibile rinvenire nelle risorse umane a loro disposizione.
La mancata riforma del sistema formativo e le potenzialità delle competenze nascoste nelle pieghe delle nostre amministrazioni
In realtà, negli ultimi anni si sono avvicendati vari tentativi di riforma della pubblica amministrazione che hanno coinvolto, a volte anche con sovrapposizioni di norme incoerenti tra loro, l’assetto del sistema dell’offerta formativa nelle pubbliche amministrazioni: una delega al Governo per il riordino delle scuole pubbliche di formazione (2012); un DPR di attuazione della delega con l’istituzione del sistema unico del reclutamento e della formazione (2013); un decreto legge che ha unificato le scuole nella SNA (2014); una nuova delega al Governo per la riforma della PA, con implicazioni sulla formazione (2015); una bocciatura parziale della predetta legge delega da parte della Corte costituzionale (2016).
Tutte queste norme puntano a modificare la funzione ‘formazione’ prevalentemente sul lato dell’offerta; il lato della domanda, ovvero quello rappresentato dall’esplicitazione dei bisogni di acquisizione e sviluppo delle competenze da parte delle singole pubbliche amministrazioni, è stato trascurato, tanto da arrivare, come accennato più sopra, ad abrogare la norma che prevedeva l’obbligo di predisposizione di un piano di formazione.
Gli inequivocabili segnali di disattenzione si sono moltiplicati con la soppressione delle strutture adibite alla gestione della formazione in alcuni ministeri e, da ultimo, con la soppressione dell’Ufficio per la formazione del personale pubblico nel Dipartimento della Funzione pubblica. Tutto ciò in controtendenza con quanto sta avvenendo nel settore privato, soprattutto per effetto della diffusione delle nuove tecnologie digitali e al fine di rispondere alle pressioni dei mercati globalizzati.
Se le prospettive legislative di un miglioramento del ruolo delle politiche formative si dovessero commisurare a quanto appena detto, parrebbe davvero difficile, se non impossibile, nutrire solide speranze.
Pur tuttavia, l’esperienza passata ci dice con chiarezza che eventuali innovazioni di tipo legislativo e regolamentare non producono di per sé un cambiamento nelle prassi e nei comportamenti consolidati delle persone e che, anche sul piano formativo, l’attuazione di eventuali riforme richiederebbe, a sua volta, competenze e abilità elevate per governare i nuovi processi organizzativi. È, insomma, sul concreto governo dei processi che si misura la capacità delle amministrazioni pubbliche di innovare e cambiare in modo duraturo ed efficace. Ciò significa che la loro capacità gestionale e l'efficace attuazione di politiche pubbliche – pur se in larga misura condizionate dalla presenza di normative legali e contrattual-collettive (anche il sindacato dunque ha significative responsabilità in materia…) più o meno favorevoli alla crescita del capitale umano – dipende, a ben vedere, in larghissima misura dalla cultura organizzativa e dalla spinta verso l’arricchimento delle competenze individuali che in qualsivoglia modo siano in grado di svilupparsi e diffondersi nel loro interno. Non si spiegherebbero altrimenti, a parità di condizioni regolative, le significative differenze che si riscontrano tra un’amministrazione e l’altra e, all’interno di ciascuna amministrazione, tra i vari dipartimenti, divisioni, uffici, sedi territoriali etc.
In questa prospettiva, forse alcuni spiragli di ottimismo potrebbero rinvenirsi nella recente immissione, negli ultimi anni, di giovani leve dirigenziali che hanno acquisito, nella loro formazione universitaria e post-universitaria – ovvero svolta a seguito di superamento dei concorsi di accesso al ruolo o nell’ambito degli stessi corsi-concorso gestiti dalla SSPA – competenze manageriali in campo organizzativo, ovviamente inclusive di conoscenze relative all’importanza del ruolo della formazione nella gestione dei processi di riorganizzazione e reingegnerizzazione delle attività amministrative. A loro, dunque, si potrebbe guardare con una certa fiducia, al fine di una riscoperta della centralità dei processi formativi del personale a disposizione delle strutture da essi gestite, pur sempre scontando le rigidità interne che derivano dalla perdurante struttura burocratico-amministrativa delle amministrazioni in cui operano.
In verità, non si tratta di guardare con fiducia ai soli dirigenti di fresca nomina, ma anche alle migliaia di giovani funzionari che – a macchia di leopardo e con tanta discontinuità – sono comunque riusciti ad accedere ai ruoli delle varie amministrazioni dopo lunghi anni di precarietà ed attesa, e che, essendo in larga parte portatori di una formazione di livello universitario, sono comunque stimolati dall’incredibile processo di diffusione delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (ICT) in ogni interstizio della loro quotidianità. In tal senso, essi sono comunque consapevoli della necessità di conservare, migliorare, e sviluppare le loro competenze in quanto applicate o applicabili al lavoro svolto a diretto sostegno dei responsabili delle strutture in cui lavorano.
Il progetto “Rete degli Agenti del Cambiamento” (RAC) e le sue ambizioni
È proprio pensando a questi soggetti, la cui ampia presenza nelle pubbliche amministrazioni è innegabile e ben conosciuta a chi – come gli autori di questo articolo – ha trascorso numerosi anni della propria vita lavorativa a contatto con i partecipanti dei corsi di formazione manageriale organizzati per tanti anni dalla SSPA, che è maturata l’idea del Progetto “Rete degli agenti del Cambiamento”. Tale progetto, che manifesta una forte continuità logica con il Progetto RFQ di cui si è parlato in apertura, è stato infatti concepito, nel giugno del 2014, da un piccolo gruppo di docenti e ricercatori, gravitanti intorno alla SSPA. L'intento è stato quello di promuovere, tra dirigenti e funzionari pubblici, lo sviluppo di idee e soluzioni innovative per il miglioramento di specifici processi delle amministrazioni, tramite attività guidate di cooperazione in rete. Attraverso un approccio collaborativo e aperto, il Progetto intende promuovere e sviluppare modelli stabili di pianificazione, sviluppo e reingegnerizzazioni di processo, al fine di migliorare le competenze ed aumentare la motivazione del personale, dirigente e non, con effetti positivi sui comportamenti e sulle prestazioni individuali correlate alle esigenze di ammodernamento delle istituzioni.
Alla base del Progetto c’è la fiducia della presenza, nelle nostre amministrazioni, di un grande patrimonio di conoscenze che non aspettano altro se non di essere valorizzate. Su tale base, esso mira, appunto, a stimolarne l’applicazione concreta in progetti di innovazione e modernizzazione dei processi amministrativi, nonché a promuovere la diffusione della loro conoscenza, per fini di condivisione delle migliori pratiche.
Al fine di descrivere in poche parole il Progetto RAC, va detto anzitutto che l’assoluta novità dell’iniziativa e la correlata difficoltà di prevedere l’effettivo grado di partecipazione di dirigenti e funzionari hanno fatto propendere per un riutilizzo del Programma informatico con cui ha funzionato il Progetto RFQ, per contenere al massimo i costi iniziali. Si è dunque ‘riciclato’ quel programma, dando vita ad una piattaforma articolata in tre aree, corrispondenti alle funzioni di documentazione, discussione e progettazione.
In altre parole, le finalità della piattaforma sono, sinteticamente, quelle di facilitare la comunicazione e l’interazione tra i componenti, anche attraverso la circolazione di documentazione di particolare interesse, di facilitare la discussione tra i partecipanti sui problemi che riguardano il mondo delle attività amministrative, in specie quelli di carattere organizzativo, di supportare la condivisione di strumenti metodologici per la progettazione di interventi di innovazione e modernizzazione degli uffici amministrativi e del loro funzionamento, infine, ma non certo da ultimo, di consentire la loro concreta implementazione in ambiente collaborativo.
La registrazione e l’accesso sono stati consentiti, in fase iniziale, solo a dirigenti e funzionari selezionati fra coloro che hanno partecipato a corsi di management organizzati o promossi dalla SNA. Ulteriori dirigenti e funzionari potranno più avanti essere registrati su presentazione di uno degli iscritti. Al di là di questo aspetto, peraltro, l’elemento forse più significativo del progetto è la fondamentale partecipazione, in qualità di ‘capifila’ di dirigenti e funzionari che – nell’ambito dei predetti corsi di formazione – si sono distinti soprattutto per aver concepito e quindi posto in attuazione un concreto progetto di riorganizzazione o reingegnerizzazione della propria amministrazione. A tali capifila è stata assegnata una funzione motrice delle discussioni e della progettazione di interventi, nell’ambito di varie aree tematiche che sono state individuate in via sperimentale dal Comitato di coordinamento scientifico del progetto1. La corretta e proficua interazione tra questi capifila, i componenti del Comitato predetto e le due figure ‘tecniche’ che supportano la piattaforma (il Project Manager e il Content Manager), nonché tra tutti costoro e gli iscritti alla piattaforma, rappresentano al tempo stesso il problema di maggiore complessità del Progetto, ma anche la più interessante modalità gestionale del medesimo, perché in tale interazione si riassume la sostanza più pregnante dell’originale attività formativa a distanza che costituisce il cuore del Progetto RAC.
Al momento è ancora presto per trarre le prime analisi, anche di tipo statistico, sul suo andamento. Complicazioni burocratiche, tecniche, finanche di tipo personale (l’uscita di alcuni componenti per motivi di lavoro derivanti da nuovi incarichi) hanno fortemente rallentato non soltanto la partenza, ma anche le prime fasi di attività. È stato peraltro entusiasmante constatare come, dopo l’invio di due e-mail ai dirigenti e funzionari potenzialmente interessati al Progetto, alla piattaforma abbiano aderito circa 200 persone, dando così prova inconfutabile della fondatezza dell’intuizione originaria.
Sarà ancora più soddisfacente se, alla fine del periodo di sperimentazione del Progetto (la cui durata è al momento prevista fino al 31 dicembre 2017) si potrà riscontrare l’effettiva utilizzazione della piattaforma da parte di un numero rilevante di dirigenti e funzionari, non soltanto per la consultazione di documenti e per la partecipazione a discussioni di carattere generale, ma soprattutto per la discussione e l’implementazione di concreti progetti di innovazione e modernizzazione delle proprie amministrazioni.
È la prima volta, forse, che in Italia si dà vita ad un progetto formativo di questo tipo; ma sarebbe soprattutto particolarmente emblematico se si raggiungessero gli obiettivi interessanti sopra descritti con un investimento relativamente piccolo di risorse umane e finanziarie.
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1 Aree tematiche: Organizzazione e redistribuzione del personale; Tempi di lavoro; Formazione; Benessere organizzativo; Merito e motivazione; Reingegnerizzazione e/o riorganizzazione; Soddisfazione utenza (front-office); Controllo di gestione; Trasparenza e anticorruzione; Comunicazione; Costi di funzionamento.
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Oltre la formazione apparente
La formazione nelle amministrazioni pubbliche è da tempo oggetto di attenzione e di interesse sia di attori politici ed istituzionali, che ad essa attribuiscono una certa importanza ai fini del cambiamento degli apparati pubblici, sia di agenzie pubbliche e private, di studiosi e consulenti, che proprio sulla formazione nelle PA concentrano gran parte delle loro attività. Il tema merita nuove attenzioni tanto più in una fase del dibattito pubblico caratterizzata da una focalizzazione degli sforzi sulle politiche di riforma degli apparati dello Stato. In questo articolo cercherò di chiarire il contributo che la formazione può dare ai processi di innovazione. L’idea centrale è quella di assumere la conoscenza del funzionamento organizzativo degli apparati pubblici come referente principale della formazione e in tale prospettiva, indirizzare le pratiche formative oltre il giuridicismo che ne caratterizza i contenuti ed oltre lo scolasticismo dei metodi prevalenti. Si tratta di andare oltre la “formazione apparente” (Maggi 1974), ossia di superare le attività di facciata (le si fa per vincoli di legge, ma sono irrilevanti rispetto alle dinamiche dell’organizing) tipiche di gran parte delle esperienze del nostro Paese, per assumere la relazione tra formazione e processi organizzativi come nucleo centrale di ogni politica formativa. Una simile prospettiva richiede – oltre che un intenso cambiamento di culture e abitudini cristallizzate – una nuova consapevolezza dell’importanza delle principali dimensioni tecniche dell’agire formativo.
Per una formazione pertinente
Una riflessione preliminare sull’azione formativa nelle PA muove dalla consapevolezza della crescente rilevanza che va assumendo la questione del cambiamento organizzativo e culturale degli apparati pubblici. Non c’è dubbio sul fatto che le misure normative degli ultimi quindici/venti anni, al di là di ogni analisi sulla loro concreta attuazione, abbiano cominciato ad introdurre, almeno sul piano formale, qualche innovazione nel corpo degli ordinamenti dell’amministrazione (e su tale constatazione la maggior parte delle riflessioni disponibili sembra convergere).
Il vero problema si pone quando si passa dalla dimensione normativa a quella delle azioni capaci di sostenere i processi di cambiamento: in effetti, il successo di una strategia di innovazione non può essere affidato solo alle leggi le quali, come è noto, sono una condizione indispensabile, ma del tutto insufficiente. Occorrerebbe insomma essere in grado di accompagnare il cambiamento. Ma per riuscire in una simile impresa non basta una visione strategica; è necessario conoscere il campo d’azione, poiché, da questo punto di vista, è più che mai vero, come è stato notato da Weick, che “un’organizzazione non può sapere dove va se non sa che cosa è” (Weick 1997). Purtroppo, su questo terreno, in Italia occorre misurarsi con un grave deficit di conoscenze sistematiche riguardanti il funzionamento delle PA a tutti i livelli della loro articolazione. Mancano, infatti, analisi sul fenomeno burocratico italiano che siano, ad esempio, comparabili per spessore e paradigmaticità agli studi crozieriani sulla burocrazia francese (Crozier 1969 e 1988). La ricerca promossa nei primi anni ‘80 del secolo scorso dall’allora ministro della Funzione Pubblica Giannini (Formez 1983), data la sua impostazione prevalentemente giuridica descrittiva dei dispositivi procedurali degli apparati, non ha potuto affrontare in termini interpretativi la questione del funzionamento dei sistemi d’azione della pa. È dunque cruciale che le autorità pubbliche e la comunità scientifica assumano un impegno di ricerca finalizzato a colmare i limiti conoscitivi ed a portare indicazioni utili all’azione di sostegno delle politiche di cambiamento. Tuttavia, partendo dalle conoscenze disponibili, comprese quelle intuitive e di senso comune rintracciabili nel dibattito corrente, vi sono alcuni punti di attacco condivisi che aiutano ad immaginare percorsi virtuosi e potenzialmente efficaci. Uno di essi è costituito dalla critica del garantismo e della cultura della conformità normativa che sono i capisaldi che storicamente hanno determinato quello scambio perverso tra basse retribuzioni da un lato e garanzia del posto di lavoro dall’altro: uno scambio che, a sua volta, ha di fatto generato un sistema burocratico pesante e fondato sulla bassa qualità delle prestazioni lavorative. Alla cultura lavorativa tradizionale bisogna cercare di sostituirne una basata sulle seguenti opzioni di principio: a) decentramento decisionale; b) responsabilità; c) riconoscimento dei meriti; d) orientamento al cittadino; e) professionalismo.
Queste opzioni di principio assumono una rilevanza cruciale dal nostro punto di vista, poiché valgono come ancoraggio di azioni che facciano leva non solo sull’applicazione delle riforme, ma anche e soprattutto su una strategia di ri-motivazione che restituisca senso, dignità e identità organizzativa e sociale al lavoro dei quadri pubblici. L’ultima in particolare, quella legata al professionalismo, ci porta direttamente sul terreno della formazione.
Ma occorre chiedersi quale formazione bisogna promuovere per le PA. Una prima risposta segnala una formazione che sappia superare i limiti che ne caratterizzano l’esperienza tradizionale, la quale – se si escludono rare eccezioni – è emblematicamente contrassegnata da forme acute di scolasticismo sul piano delle pratiche e di giuridicismo su quello dei contenuti.
A questo livello, sul versante metodologico l’innovazione dovrebbe investire sia l’azione progettuale sia gli stili di realizzazione. Quanto ai contenuti, bisognerebbe introdurre nella struttura della formazione dei quadri pubblici (specie se dirigenti) alcune aree di saperi tradizionalmente semi-clandestine nelle (o del tutto escluse dalle) attività didattiche – come, ad esempio, l’implementation e la valutazione delle politiche, la conoscenza organizzativa, la cultura dei servizi, il management delle risorse umane. Occorrerebbe inoltre favorire lo sviluppo di una cultura della formazione che sia in grado di assumere e valorizzare alcuni tra i più promettenti contributi della ricerca in campo formativo ed organizzativo tra i quali bisogna segnalare la nozione di competenza professionale (Cepollaro 2008) con tutte le implicazioni che da tale recupero potrebbero derivare per una formazione efficace: poiché infatti la nozione di competenza si riferisce a comportamenti organizzativi osservabili (sono saperi di base reintrepretati contestualmente dai soggetti che ne detengono i contenuti), costituisce un punto di snodo che rende feconda la relazione tra azione organizzativa e processi formativi. Sulle competenze (ed a partire dal loro sviluppo per via didattica), la formazione per le PA può agire a crescenti gradi di impegno, nella consapevolezza del fatto che ogni intervento orientato allo sviluppo di competenze (di base, tecnico-specialistiche e comportamentali) implichi almeno un minimo retroterra di esplorazione dell’organizzazione.
Centralità della relazione tra azione formativa e dinamiche organizzative
La rilevanza del rapporto tra organizzazione e formazione è da tempo oggetto di riflessioni (Maggi 1974 e 1988; Quaglino 1985 e 2005; Morelli, Varchetta 1998; Lipari 1995, 2002 e 2010) influenzate da orientamenti oscillanti tra due opposti punti di vista: da un lato, si punta a precisare l’utilità della formazione in rapporto alle (e in quanto “variabile dipendente” delle) scelte di politica organizzativa; dall’altro, si cerca di costruire in modo autonomo il senso tecnico e l’identità professionale di un insieme di pratiche la cui utilità nelle organizzazioni è ormai ampiamente riconosciuta. In ogni caso, è fuori discussione il fatto che in tale relazione trovi fondamento il variegato campo di culture professionali della formazione. Inoltre tale relazione esibisce una sua dinamica che riflette i cambiamenti ai quali sono interessati tanto il mondo delle organizzazioni quanto quello della formazione. Infine, pur essendo in questa relazione largamente reciproca l’influenza dei due mondi, l’approdo ad una visione integrata è un processo non facile né scontato: si è infatti passati, nel tempo, da prospettive (teoriche e pratiche) nettamente separate, a configurazioni interpretative in cui emerge una crescente sensibilità sulla necessità di nette convergenze tra le due dimensioni, per giungere in tempi più recenti al progressivo consolidamento dell’idea secondo cui l’azione formativa da un lato è parte integrante delle pratiche organizzative delle quali talora anticipa rilevanti fenomeni innovativi (Lipari 2002), dall’altro è associata alla dimensione dell’apprendimento dei soggetti coinvolti e delle stesse organizzazioni. Tale lettura, che enfatizza l’importanza per l’azione formativa di una sua connessione con le dinamiche dell’organizing, non intende affatto subordinare le istanze soggettive degli individui in formazione a quelle dell’organizzazione. La dinamica tra attore e sistema (Crozier, Friedberg 1978) è oltremodo complessa e non ammette operazioni riduzioniste tendenti a descriverla nei termini della prevalenza dell’uno sull’altro: da un lato, infatti, esiste il sistema con le sue oggettivazioni, i suoi vincoli, le sue regole e le sue logiche di funzionamento; dall’altra il soggetto con le sue preferenze, le sue intenzioni, i suoi obiettivi e i suoi desideri che non sempre coincidono con (anzi, spesso divergono da) quelli del sistema al cui interno agisce. Tale interpretazione – secondo cui nessuno dei due “elementi” è riducibile all’altro – consente di meglio cogliere la dinamica delle relazioni tra soggetti che vivono concretamente l’organizing ed aiuta l’azione formativa a misurarsi con questi fenomeni senza pregiudizi e formule precostituite. Alla luce di questa considerazione sembrano condivisibili le preoccupazioni di Quaglino (2005) quando mette in guardia dalle possibili derive deterministiche di una visione troppo ancorata al “mondo organizzativo” e dunque dai possibili rischi di appiattimento delle istanze individuali alle logiche dell’organizzazione. Allo stesso modo bisogna fare attenzione anche alle fughe nel soggettivismo che, di fatto, rischiano di costruire mondi astratti difficilmente compatibili con la realtà: per chi “fa formazione” mantenere il necessario l’equilibrio tra le due dimensioni rappresenta sempre un esercizio faticoso e impegnativo.
La relazione costitutiva con l’organizing rappresenta il punto di ancoraggio da cui emergono e si affermano le principali categorie concettuali e di metodo dell’azione formativa in progressiva presa di distanza e affrancamento rispetto alle culture, agli orientamenti e alle modalità operative tipiche dell’educazione stricto sensu dalle quali la formazione trae la sua origine. È la stessa dinamica di tale processo (oltre che le culture tecniche che ne hanno ispirato i tratti fondamentali) ad accompagnare la trasformazione dell’intero apparato concettuale e di metodo della formazione. Da un lato, infatti, la cultura e le pratiche formative evolvono man mano che, distanziandosi sempre di più dagli ambiti originari delimitati dai confini dell’educazione tradizionale, si situano in contesti d’azione caratterizzati da un riferimento diretto al mondo del lavoro e a quello delle organizzazioni: in questo senso, si dà formazione solo se e nella misura in cui essa è associata ad un’idea di accrescimento di competenze professionali (e da questo punto di vista si può effettivamente parlare di formazione pertinente (Lipari 1995)1. Dall’altro, la graduale affermazione ed il consolidamento di un bagaglio di teorie, tecniche e metodi segue un movimento di progressiva presa di distanza dai fondamenti pedagogici delle culture di origine basati, come è noto, sull’ipotesi dell’addestramento di chi “deve essere formato”, per accedere (sempre più decisamente) a visioni e pratiche in cui irrompe anche la soggettività (dunque la disponibilità) di chi partecipa alle attività formative con la consapevolezza di essere dentro un processo di apprendimento.
Riferimenti bibliografici
Cepollaro G. (2008), Le competenze non sono cose, Milano, Guerini e Assocaiti
Crozier M. (1988), Stato modesto, stato moderno, Roma, Edizioni Lavoro (nuova ed. con nuova “Introduzione” di D. Lipari, 2010) [ed. or. 1987]
Crozier M. (1969), Il fenomeno burocratico, Milano, Etas [ed. or. 1964]
Crozier M., Friedberg E. (1978), Attore sociale e il sistema, Milano, Etas [ed. or. 1977]
Formez (1983), Ricerca sull'organizzazione ed il funzionamento delle Amministrazioni Centrali dello Stato (indice generale + 3 volumi), Roma, Formez
Lipari D. (2010), Formatori. Etnografia di un arcipelago professionale, Milano, FrancoAngeli
Lipari D. (2002), Logiche di azione formativa nelle organizzazioni, Milano, Guerini e Associati [nuova ed. 2010]
Lipari D. (1995), Progettazione e valutazione nei processi formativi, Edizioni Lavoro [nuova ed. con “Prefazione” di G. Cepollaro, 2009]
Maggi B. (1974), La formazione apparente: alcune ipotesi di ricerca, in «Studi organizzativi», n. 1
Maggi B. (1988), Formazione e organizzazione, Roma, Ediesse
Morelli U., Varchetta G. (1998), Cronaca della formazione manageriale in Italia: 1946-1996, Milano, Angeli
Quaglino G. P. (1985), Fare formazione, Bologna, Il Mulino [2a ed., Milano, Cortina, 2005]
Quaglino G. P. (2005), «Posfazione» a Fare formazione, Milano, Cortina, 2005, 2a ed.
Weick K. E. (1997), Senso e significato nell'organizzazione, Milano, Cortina [ed. or. 1995].
1 Con l’espressione “formazione pertinente” (Lipari 1995) intendo designare le attività formative coerenti con le esigenze concrete dei contesti (organizzativi e istituzionali) ai quali esse si rivolgono. Si contrappone alle pratiche che con efficace e fortunata formulazione Maggi (1974) definisce in termini di “formazione apparente”: attività slegate dai processi organizzativi che possono essere utili per i singoli partecipanti, ma ininfluenti per l’organizzazione.
Il cambiamento non è questione di norme, ma di empowerment delle persone
Certamente il piano di riforme che il Governo ha messo in campo in questa legislatura è stato il più ambizioso nella storia pur lunga delle riforme della PA. Moltissimi sono i provvedimenti approvati e molti anche quelli che sono ancora oggi in via di approvazione. Molto si è fatto quindi, eppure una lettura d’insieme ci restituisce un senso d’incompiutezza e d’insoddisfazione che accomuna questa alle altre “riforme epocali” dell’amministrazione pubblica, tutte pensate per essere risolutive e tutte archiviate con sovrabbondanti, ma spesso inapplicati, risultati normativi e scarsissimi effetti sulla vita dei cittadini e delle imprese.
È quindi necessario interrogarci su cosa non ha funzionato in queste ondate successive di riforme che ci hanno spesso lasciato solo ingombranti gore normative. Il più grave limite che noi leggiamo è l’illusione che l’innovazione sia un problema di norme. Ma l’innovazione non si fa con le norme e neanche solo con le visioni strategiche: è questione di paziente costruzione di percorsi di cambiamento, di attenzione e accompagnamento, di cassette degli attrezzi e di formazione, di empowerment delle organizzazioni e di engagement delle persone. Una riforma fatta di norme che rinnovellano altre norme, in una sorta di gioco delle scatole cinesi dove la forma diventa contenuto, non porta all’innovazione, ma è foriera di quella paralisi da sovrabbondanza normativa che è la condizione attuale di molte amministrazioni.
Non servono quindi nuove riforme, ma un investimento serio di risorse economiche, professionali e politiche per accompagnare il cambiamento dei comportamenti in un clima di fiducia.
Nella nostra esperienza del FORUM PA, che segue ormai da trent’anni i tentativi di cambiamento dell’amministrazione, questo sforzo si chiama empowerment. Parliamo di empowerment per intendere il processo di potenziamento delle capacità degli individui o dei gruppi nel compiere scelte e nel trasformare queste scelte in azioni e risultati desiderati, considerandone quattro elementi chiave, in termini di accesso a: informazione; inclusione e partecipazione; responsabilità; capacità organizzative di base. L’empowerment si regge su un binomio fondamentale: autonomia e responsabilità.
In questo senso si apre una prospettiva non da poco per le azioni di formazione: non tanto insegnare alle persone come eseguire correttamente una procedura, nell'ottica del mero adempimento di un compito, ma dare loro il potere di cambiare le cose attraverso la formazione. Non una formazione “teorica” e meramente procedurale, ma una formazione orientata a produrre il cambiamento di cui impiegati pubblici hanno urgente bisogno o meglio a cui hanno diritto.
Cinque scelte che abbiamo di fronte
L’ambiente in cui l’azione di empowerment delle persone e delle organizzazioni deve oggi situarsi è quello contraddistinto da scelte non scontate che, a seconda delle direzioni che prenderemo, come in un susseguirsi di bivi, ci possono portare a modelli di amministrazioni pubbliche molto diversi tra loro. Sono cinque coppie di tesi e antitesi che, se non troveranno giuste sintesi attraverso l’attenzione alle persone, manderanno al macero qualsiasi riforma.
Il primo bivio è quello tra quella che chiamiamo ormai comunemente “burocrazia difensiva” e una nuova forma di government che abbiamo designato come “Stato partner”. Burocrazia difensiva è quell'atteggiamento per cui è solo non facendo che si evitano rischi. È burocrazia difensiva pretendere un doppio canale digitale, ma anche cartaceo per i documenti, perché “non si sa mai”. È burocrazia difensiva chiedere cento pareri prima di applicare un’innovazione e non far nulla sino a che non si ricevono. È burocrazia difensiva pensare che in questo caos l’unica salvezza è quella di restare fermi, di aspettare che passi il vento dell’innovazione, che tanto dura al massimo il tempo di un Governo, poi tutto cambia. Chiunque conosca da dentro la PA sa quanto questi atteggiamenti sono diffusi e come sono difficili da estirpare, specie con la minaccia continua di nuovi e vecchi “babau”, spesso pericoli più immaginari che reali, come la Corte dei Conti o l’ANAC.
Antitesi della burocrazia difensiva è lo “stato partner”. Si tratta di un necessario cambio di paradigma che ci faccia passare dall'idea di uno Stato provvidente che autorizza (lo Stato regolatore), produce (lo Stato produttore), assiste (il Welfare State) ad uno Stato partner che si muove in un concetto di rete, che detiene la funzione di stimolo dell'intelligenza collettiva, che sostiene, e dove necessario guida e abilita, la società verso la transizione ad un modello collaborativo.
Una possibile sintesi tra queste così diverse concezioni del ruolo del “civil servant” può essere trovata solo nell’accompagnamento delle persone e nella rassicurazione che tale accompagnamento può garantire. Meno norme quindi, meno regolamenti e più manuali.
Una seconda scelta è se mettere, in questi anni così difficili per la finanza pubblica, la massima enfasi sull’efficienza, il razionale uso delle risorse, gli output o piuttosto sull’efficacia, sull’impatto delle politiche pubbliche sulla vita dei cittadini, sugli outcome. Sembra scontato che si debba perseguire insieme efficienza ed efficacia, ma si dà spesso spazio a rigurgiti ingenuamente efficientisti che, nati dal New Public Management, non hanno trovato mai piena realizzazione nel nostro Paese, ma ci hanno lasciato l’inappagato desiderio di una PA organizzata come azienda. Immagine che è stata per altro abbandonata da tutte le democrazie moderne. Ma questa managerialità fordista (di cui la smania dei “tornelli” è sintomo caricaturale), porta con sé un grave pericolo: la tentazione di vedere una notte in cui tutti i gatti sono grigi, in cui tutte le PA sono uguali. Ne consegue la tendenza a ipernormare, ma anche a dare scarso o nessuno spazio alla diversità, all’autonomia, alle specificità. Dimenticare però che il fine dell’amministrazione non è funzionare meglio o “fare di più con meno”, come pure tante volte abbiamo sentito, ma abilitare i cittadini a risolvere i loro problemi e a raggiungere i loro obiettivi è pericolosissimo. È alla base di quell’autoreferenzialità che è ancora causa di molti di quei comportamenti “difensivi” di cui parlavamo. Anche qui la sintesi può essere trovata solo in un’operazione di “sensemaking”, di condivisione dei significati e dei fini dell’azione pubblica, di continua valutazione ed autovalutazione basata su quanto quello che fa l’amministrazione incide sul benessere equo e sostenibile dei cittadini e delle comunità.
La terza alternativa che abbiamo davanti è “spaziale”, riguarda infatti come collochiamo l’amministrazione nello spazio immaginario in cui si svolge la vita dei cittadini. Per spiegarlo meglio rifacciamoci ad un esempio classico della “nuova” PA: quello dei servizi online. L’amministrazione digitale, che ha assorbito innovazione tecnologica ma non ha cambiato pelle, immagina un luogo unico, una specie di Grande Portale Gentile, dove c’è tutta la PA e dove il cittadino che cerca bene, e che sa anche cosa cercare, trova tutti i servizi e tutte le informazioni. “Venite da noi e troverete quel che cercate” sembrano dire questi imbonitori digitalizzati, peccato però che siamo uno dei Paesi europei con la massima disponibilità di servizi digitali e siamo tra gli ultimi nel loro effettivo uso (dietro di noi solo Slovacchia, Bulgaria e Romania). La scelta antitetica che auspichiamo prende atto che i cittadini non sono sui portali, ma che usano altri strumenti e altri ambienti e piuttosto che chiamarli dove è l’amministrazione, spinge l’amministrazione ad andare dove sono loro. Insomma meno portali, meno servizi a cui non accede nessuno e più “app”, più “mobile services”. Come si fa? Anche qui è questione di insegnare ai nostri tecnologi a guardare fuori e a mettere davvero al centro i cittadini, ma non in teoria, immaginando cosa dovrebbero fare, ma in pratica, guardando a quello che in effetti fanno.
Legata a questa scelta di collocazione è il quarto bivio: quello che vede da un lato l’atteggiamento di chi guarda ai cittadini come a clienti portatori di bisogni da soddisfare e dall’altro la convinzione che essi siano “azionisti” portatori anche e soprattutto di saperi e di soluzioni. Nel primo caso rafforzeremo quello che Cassese chiamava il “paradigma bipolare” che definiva come “il paradigma fondamentale del diritto pubblico nel XX secolo: due poli separati, né convergenti, né contrattanti, ma in contrapposizione, a causa della superiorità di uno sull’altro” [1]. Nel secondo caso immagineremo la PA come una “Amministrazione condivisa”, come la chiama Gregorio Arena, in cui sono anche i cittadini che autonomamente si propongono all’amministrazione come alleati per perseguire insieme l’interesse generale sulla base dell'art. 118, ultimo comma della Costituzione. In questa seconda accezione dell’amministrazione condivisa, che si può realizzare grazie al principio di sussidiarietà, cittadini attivi ed amministrazioni stabiliscono rapporti fondati sulla collaborazione e l'integrazione, nonché su quel principio di autonomia “relazionale” grazie al quale tutti i soggetti che partecipano alla rete creata dalla sussidiarietà sono da considerare come portatori di risorse, ognuno secondo le proprie capacità e possibilità” [2].
Per questo cambiamento culturale così forte l’unica possibilità è quella dell’uscire dal palazzo e “governare con la rete” che vuol dire accettare che la missione di un’amministrazione si concretizza sempre più spesso al di fuori dell’amministrazione stessa attraverso complesse connessioni tra molteplici organizzazioni pubbliche e private che devono essere coordinate. Significa accettare che il manager pubblico diventi soprattutto un “manager della rete”, un mediatore in grado di semplificare ed unire i talenti di una comunità verso un fine comune e politicamente condiviso. Verso la costruzione di “valore pubblico”. E per creare “valore pubblico”, ossia restituzione di valore ai contribuenti, le responsabilità della pubblica amministrazione non possono più essere imperniate sulla gestione di persone e programmi, ma sull’organizzazione ed il coordinamento di risorse che molto spesso appartengono in tutto o in parte ad altri soggetti.
L’ultima contrapposizione è quella da cui siamo partiti: tra riforme fatte solo di norme e invece accompagnamento al cambiamento che si basi sull’attenzione alle persone.
Il tema del capitale umano mette al centro quello che, dal nostro punto di vista, rimane l’elemento critico delle dinamiche di cambiamento. Le politiche di innovazione dovrebbero essere incentrate e supportate da processi di coinvolgimento e di condivisione degli obiettivi, definite sui reali bisogni di coloro che ne sono i destinatari, pena il rischio concreto che vengano vissute come aliene e quindi osteggiate proprio da chi dovrebbe esserne il motore.
Per far questo, proprio nel momento in cui la fiducia dei cittadini nei confronti di amministrazioni e istituzioni è ai suoi minimi storici, è importante sperimentare e sostenere nuove forme di collaborazione, nuovi modelli di amministrazione che vedono protagonisti i territori e che noi proponiamo si fondino sulle "quattro E”, che stiamo applicando nei diversi percorsi di innovazione e che sono diventate strumento operativo per sostenere il cambiamento: Endorsement, nel senso di costruire e rafforzare la volontà politica, sollecitando la classe politica e amministrativa di vertice a svolgere un ruolo attivo nel supporto dei processi di innovazione, a fare propri approcci nuovi nel rapporto tra governanti e cittadini, a sostenere i fenomeni emergenti collegandoli alla propria agenda politica. Engagement, per promuovere la cultura della partecipazione e il coinvolgimento reale dei cittadini e degli attori (interessati e destinatari) nei processi di innovazione. Aprire al dibattito pubblico, alla consultazione collettiva, alla condivisione di strategie e azioni per rispondere in maniera efficace ai bisogni e alle esigenze del territorio. Empowerment, per fornire agli operatori della PA momenti di formazione interna e occasioni di presa di coscienza della propria mission specifica. Sviluppare competenze e strumenti per fare innovazione. Creare le condizioni (capacity building) affinchè si diffondano all’interno delle Amministrazioni la cultura dell’innovazione e le pratiche collegate. Enforcement, così da adottare misure specifiche e puntuali per dare effettiva attuazione agli approcci innovativi.
Con uno slogan: meno norme, più manuali, più reti, più confronto e valutazione reale, accompagnando così, con fiducia e umiltà, le persone in un percorso di cambiamento che solo così diventa anche trasformazione di comportamenti e non solo riforme di carta.
[1] S.CASSESE, L’arena pubblica. Nuovi paradigmi per lo Stato, “Rivista trimestrale di diritto pubblico” (2001), pag. 602-604
[2] G.ARENA; su www.forumpa.ithttp://www.forumpa.it/riforma-pa/amministrazione-condivisa-lalleanza-vincente-fra-cittadini-e-istituzioni
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Dalle mansioni ai ruoli, alle competenze
La consapevolezza dell’importanza della gestione per competenze delle risorse umane si sta diffondendo anche negli enti pubblici. Gli attuali scenari mutevoli e dinamici, che generano – senza fermarsi mai – una sempre crescente variabilità socio-economica, professionale e tecnologica, hanno infatti portato ad organizzazioni altrettanto fluide e instabili, nelle quali è strategico e cruciale riconoscere la fondamentale importanza delle risorse umane – delle persone – con il loro complesso carico di capitale intellettuale ed emotivo nell’ambito dei contesti organizzativi. In particolare, il focus dell’azione amministrativa incentrato sulla rispondenza delle attività e dei progetti al soddisfacimento dei bisogni dei cittadini e – d’altro canto - i sempre più stringenti vincoli assunzionali impongono agli enti l’introduzione o la rivalutazione di sistemi gestionali orientati a migliorare e valorizzare la qualità delle risorse umane.
Recentemente, la riforma della pubblica amministrazione ha rimarcato fortemente l’importanza delle competenze anche in ambito pubblico, sia nei criteri direttivi per la riforma della dirigenza sia nei criteri direttivi per il riordino del lavoro pubblico: dovranno essere definiti i requisiti di competenza ed esperienza per ciascun incarico dirigenziale e dovranno essere rilevate le competenze possedute per tutto il personale. Le competenze, dunque, sono il ponte tra persona e organizzazione e possono diventare il linguaggio comune tramite il quale costruire il cambiamento.
Si tratta di una rivoluzione culturale, che vede protagoniste le persone nel ruolo di “agenti del cambiamento”, sia agenti professionisti (professionalità ad hoc in grado di spiegare le logiche, i principi e le utilità di sistemi integrati di gestione delle risorse umane), sia agenti non professionisti (ciascun amministratore, dirigente o dipendente pubblico sensibilizzato e formato sui temi oggetto di innovazione).
Nel 2013, il Comune di Parma ha avviato un progetto strategico pluriennale di change management denominato “Valorizziamoci”, finalizzato all’introduzione del sistema per competenze nella gestione delle risorse umane – dalla selezione alla valutazione, alla formazione –. Colonna portante e cuore del progetto è un percorso di formazione a supporto del cambiamento articolato in diversi interventi formativi chiamato “Sviluppare competenze per valorizzare competenze”, presentato in occasione dell’edizione 2015 del Premio Filippo Basile di AIF. Il quadro teorico di riferimento preso a riferimento è l’approccio psicologico individuale, rappresentato dai lavori di McClelland, Boyatzis, Spencer e Spencer, per cui il concetto di competenza viene inteso come una caratteristica intrinseca individuale causalmente collegata ad una performance efficace o superiore in una mansione o in una situazione, misurata sulla base di un criterio prestabilito.
Un processo partecipativo: formazione intervento e focus group per costruire il modello delle competenze
Il punto di partenza di tutto il cambiamento in atto nel Comune di Parma è stato la costruzione del modello delle competenze generali/trasversali (cioè indipendenti dal profilo professionale) dell’ente. In questo articolo, viene descritto il processo di costruzione del modello, che ha rappresentato una esperienza molto importante, sia perché realizzata interamente a costo zero, valorizzando quindi le risorse interne all’ente, sia perché è stato portato avanti in un’ottica di partecipazione e condivisione, attraverso l’utilizzo della metodologia del focus group.
Il nostro modello è stato realizzato con un approccio deduttivo, cioè “dall’alto”, cercando tuttavia nel contempo di favorirne il più possibile la condivisione. In considerazione delle scarse risorse economiche a disposizione, non ci è stato possibile procedere con un più corretto approccio di tipo induttivo, cioè “dal basso” (consistente principalmente nella somministrazione di interviste di tipo BEI a campioni di best practicers e low practicers). Si è quindi partiti da un set di competenze base, elaborato dagli esperti delle Risorse Umane grazie ad una accurata analisi della letteratura esistente in materia di competenze e ad un benchmarking con quanto già realizzato da altre Pubbliche Amministrazioni. Si è così ottenuto un ampio elenco di competenze e capacità. Tuttavia, occorreva calare questo modello nella realtà specifica, personalizzandolo, eliminando competenze, aggiungendone altre, pensando a quali potevano essere le competenze strategiche per la realtà organizzativa. Soprattutto, non doveva limitarsi ad un’attività della funzione Risorse Umane; si auspicava invece il coinvolgimento e la partecipazione attiva del personale dell’ente.
La costruzione del modello è quindi sì avvenuta partendo da modelli predefiniti, ma si è poi aperta nell’ottica della partecipazione e della condivisione grazie al focus group, che, per le sue caratteristiche, ci ha permesso di realizzare una esperienza di formazione-intervento veramente coinvolgente. In questo senso, lo scopo del focus è stato quindi duplice: 1) raccogliere e condividere indicazioni e riflessioni per creare il modello delle competenze; 2) favorire il confronto e la riflessione, contribuendo alla nascita e alla diffusione di una “cultura delle competenze” propedeutica al processo di cambiamento in atto.
Ci si è quindi concentrati sulla progettazione dei focus group, non solo a livello di contenuti ma soprattutto a livello di processo. Prima dei focus group, i partecipanti selezionati sono stati convocati con comunicazione scritta, tramite mail, in cui sono stati esplicitati i nominativi dei partecipanti e i criteri di selezione, l’obiettivo degli incontri, gli orari e la durata, la sede degli incontri, le modalità di restituzione degli esiti. Sono, inoltre, stati forniti materiali da leggere per prepararsi all’incontro: il set di competenze proposto come base di lavoro, una raccolta di modelli di competenze di altre Pubbliche Amministrazioni, le slide di presentazione del nostro progetto strategico in corso.
In apertura del focus group sono stati esplicitati e condivisi gli obiettivi dell’incontro, l’oggetto di indagine, le modalità di conduzione/partecipazione utilizzate e gli aspetti logistici e temporali. Nella fase vera e propria di confronto, per stimolare la discussione e l’interazione dei partecipanti sono stati utilizzati sia materiali-stimolo (alcune slide e il modello di base con l’elenco di competenze elaborato dalle Risorse Umane, cioè la nostra base di lavoro) sia alcune domande-stimolo (ad esempio: 1) quali sono i punti di forza e i punti di criticità dell’introduzione del sistema delle competenze nella gestione delle risorse umane? 2) quali sono le competenze ritenute strategiche per il presente e il futuro dell’organizzazione? 3) proviamo a definire queste competenze? quali sono i comportamenti che possono essere ricondotti alle competenze individuate?) Infine, in chiusura, è stato richiesto un veloce feedback a caldo sull’interazione e sono state fornite informazioni sui prossimi passi e sulla comunicazione degli esiti.
In totale sono stati progettati e realizzati cinque focus group: due con il personale dirigenziale, uno con i responsabili intermedi, due con personale di vario livello e profilo. Questa è stata dunque la fase realizzativa, dell’aula, delle dinamiche di gruppo, dell’interazione vera e propria. Dopo ogni focus group, ai partecipanti di ciascun gruppo è stato inviato un report di sintesi dell’incontro cui hanno preso parte. Inoltre, al termine dell’intero processo di condivisione, è stata restituita a tutti i partecipanti una nuova versione del modello delle competenze proposta come base di lavoro iniziale, aggiornata e personalizzata con le competenze che – così come emerso dai focus in base alle osservazioni e alle indicazioni raccolte – il Comune di Parma ritiene essere strategiche per il proprio personale in senso trasversale, indipendentemente cioè dal profilo professionale ricoperto.
Le prime applicazioni del modello per una gestione delle risorse umane basata sulle competenze
Quali competenze sono emerse in modo condiviso dai focus group? Quali competenze sono state ritenute strategiche per la nostra organizzazione e per lavorare nei nostri “tempi di crisi”, soprattutto in una Pubblica Amministrazione che stenta a crescere? Applicazione e sviluppo delle conoscenze, autonomia, problem solving e innovazione, comunicazione, lavoro di gruppo, orientamento al cambiamento e flessibilità, gestione delle emozioni e dello stress, pianificazione e programmazione, coordinamento e sviluppo dei collaboratori.
All’interno del modello queste competenze sono state articolate in cluster omogenei e, per ciascuna di esse, è stato definita una descrizione e alcuni indicatori comportamentali. I nostri obiettivi sono quindi stati raggiunti e – aspetto molto rilevante – si è creato un certo dibattito nell’ente intorno all’introduzione delle competenze nella gestione delle risorse umane. Il coinvolgimento si è sviluppato con successo e spontaneità nel corso degli incontri, con grande interesse e partecipazione. Anche i contenuti espressi dai gruppi sono sempre stati molto centrati e pertinenti rispetto al tema proposto.
Il set di competenze proposto come base di partenza è stato effettivamente calato nella realtà dell’ente ed è stato così creato il modello delle competenze generali/trasversali del Comune di Parma.
Il modello costruito grazie ai focus group è stato poi ufficialmente approvato e formalizzato alla fine del 2014 dall’Amministrazione come “modello delle competenze generali/trasversali del Comune di Parma”, previo confronto con i vertici, con l’OIV (Organismo Indipendente di Valutazione) e soprattutto con le organizzazioni sindacali. Nel biennio 2015/2016 si è iniziato ad utilizzarlo: nella valutazione della performance individuale; nell’ambito della selezione per le mobilità interne e le riconversioni professionali; nell’ambito della formazione, per la costruzione sia del piano formativo annuale, sia dell’albo dei formatori interni. Si tratta naturalmente di attività in itinere, ma che, pezzo dopo pezzo, procedono realmente.
In particolare, nell’ambito della valutazione, le competenze generali/trasversali del modello dell’ente sono state inserite alla fine del 2014 all’interno delle schede di valutazione come item per la valutazione della performance individuale. Tale applicazione è stata accompagnata da un percorso formativo rivolto ai dirigenti e posizioni organizzative per sensibilizzarli e responsabilizzarli al ruolo di valutatori e ad apprendere ed esercitare tale ruolo con sensibilità e senso critico. La formazione è stata svolta dagli specialisti delle Risorse Umane, affiancati dall’OIV, e si è articolata, in un prima parte, in lezione di tipo tradizionale, in cui è stato presentato il modello delle competenze e in cui sono state illustrate con esempi tutte le competenze previste, e, in una seconda parte, in simulazioni ed esercitazioni, in cui i partecipanti hanno potuto sperimentare le proprie capacità osservative, in modo da imparare e riconoscere i comportamenti collegati alle competenze del modello.
Durante il percorso progettuale sono stati, inoltre, pubblicati diversi comunicati nella intranet ed è stata realizzata, su input del vertice politico-amministrativo, un’assemblea plenaria con tutto il personale per illustrare tutti i cambiamenti in atto.
Al di là delle competenze individuate e della loro applicazione, l’aspetto importante di questa esperienza di formazione-intervento tramite focus group è proprio il processo, un processo di condivisione e partecipazione curato con grande attenzione, nella consapevolezza che la mappatura e la gestione del patrimonio immateriale di conoscenze e competenze dell’ente deve essere portata avanti in modo condiviso e accompagnando il cambiamento stesso con interventi formativi.