1. Partecipazione

Oggi di partecipazione si muore, non nel senso letterale del termine. La partecipazione è diventata un fenomeno molto presente nella nostra vita, invasiva ed energivora, divoratrice delle nostre risorse, in primis del tempo. Quelle che constatiamo tutti i giorni sono le dimensioni abusate e debordanti del concetto. Si dimentica, invece, che la partecipazione è e deve essere trasversale e propedeutica alla co-costruzione della conoscenza; supportare ed influenzare i processi decisionali e l’opinione pubblica (informata); migliorare e fluidificare i processi di comunicazione e notifica di quanto avviene di rilevante per gli individui, i gruppi e la società; creare relazioni e supportare reti sociali (e di aiuto); dar vita a meccanismi di accountability (il “rendere conto”, soprattutto di soggetti pubblici) e di engagement estesi, oltre che di condivisione, dato che l’implementazione delle azioni (e la ricaduta degli effetti) necessita sempre più di una estensione degli attori; concorrere con le risorse, si pensi soltanto alle partecipazioni di natura economico-finanziarie e patrimoniali; migliorare l’apprendimento, le expertise, le social e soft skills; perché no, portare ad una migliore convivenza sociale ed una affermazione dei diritti fondamentali degli individui, attraverso una “allocazione vincolante di valori” (Verba, Nie, 1972). Insomma interessare tutta la catena strategico-operativa delle azioni umane, a vario livello e con vari gradi di libertà, ben sapendo che non possiamo partecipare sempre e comunque a tutto, pena l’immobilismo, l’irrigidimentazione della catena e l’inutilità dei principi alla base del concetto.

La partecipazione è prendere parte e concorrere a qualcosa assieme ad altri. Il problema nasce se il principio deve essere assoluto o situato. Se assoluto allora si pone in termini sempre in contrasto ed in alternativa al sistema, come somma energia anarchica. Se situato, invece, va analizzato e ridefinito in funzione delle culture, dei tempi e delle esigenze, a supporto e miglioramento delle forme di governo o di dominio pubblico. Un solo esempio. Quando una pubblica amministrazione è incaricata di prendere una decisione, decidere una policy o implementare una azione di piano se la partecipazione è del primo tipo allora sarà scontro, scalzamento di autorità, pressione sociale atta ad affermare il principio che l’autorità è sempre pubblica e collettiva, mai coercitiva; se, invece, la partecipazione è del secondo tipo allora sarà cooperazione, supporto ed influenza dell’autorità, che avrà sempre l’ultima parola. Naturalmente è una generalizzazione iperbolica, finalizzata ad evidenziare le due posizioni, in genere denominate radicale e riformista, ma quasi mai presenti in queste forme assolute.

Da queste prime riflessioni si evince che la partecipazione è un concetto, anche un ideale, che aspira ad essere un paradigma (Kuhn, 1969) pervasivo di ogni ambito della vita associata di singoli, gruppi e comunità. In alcuni ambiti, ha già una sua storia di declinazioni operative. Si pensi alla pianificazione e governo del territorio, alle politiche pubbliche, ai vari ambiti di gestione delle risorse naturali ed al legame stretto che c’è tra partecipazione e sviluppo locale o tra essa e la sostenibilità. Ma anche in termini di rapporti con il potere, la potremmo declinare come “governance”, “accountability”, “sussidiarietà”. Spesso confondendo la partecipazione con la democrazia deliberativa, quando l’enfasi è soprattutto spostata su aspetti dialogici.

Altre volte viene sovrapposta a concetti quali apprendimento sociale, organizzativo, empowerment. La partecipazione è, anche, in grado di aumentare lo spazio del dominio pubblico sia in termini di soggetti e di competenze che in termini di conoscenze e risorse, aspetti che la vedono come una occasione importante per la gestione della conoscenza, la risoluzione dei conflitti, la mediazione, etc…

La partecipazione cambia le posizioni dei vari attori e ne allinea gli sforzi creando fiducia, fidelizzazione e forme di collaborazione, fattori indispensabili per la relevance, effectiveness e la sustainability delle azioni pianificate e legate alla vita associata. Oltre, a questi aspetti di breve e medio periodo occorre considerare gli aspetti di lungo periodo, quali l’empowerment (individuale e collettivo) ed il social learning. Il partecipare a processi di produzioni di conoscenze si dimostra essere uno strumento formidabile di apprendimento, rende le comunità competenti, a patto che sia una azione iterata nel tempo ed abbia una qualche circolarità. Ma la partecipazione è necessaria non solo per il problem setting e il problem solving, anche per il team building, il capacity building e per tutte le azioni di networking. Lega in maniera indissolubile problemi, soluzioni (o proposte alternative) a reti di attori, aspetto enfatizzato in tanta letteratura riguardante “Large Group Interaction Methods”, “Consensus Building Approach”, “action-research” ed altre modalità di azione facilitate (Sclavi, 2011).

La partecipazione quando attivata e legittimata si configura come diritto-dovere con marcata auto-determinazione e solidarietà, oltre che enfasi sull’impegno e sulla responsabilità, data la destrutturazione dei rapporti verticali e del meccanismo di delega.

2. Rapporto tra partecipazione e regole

Volendo fare subito una prima scrematura, diremo che la partecipazione può essere auto-diretta o etero-diretta, ossia organizzata al suo interno in moto autonomo o facilitata da altri soggetti, come avviene ad esempio nel caso della progettazione partecipata. In entrambi i casi, tutte le forme di partecipazione che conosciamo (sociale, politica, religiosa, economica, etc…) hanno sempre necessità di ancorarsi ad un set di regole esterno e a determinati setting (spazi che hanno regole proprie). Sono cornici necessarie per garantire la riuscita se non proprio l’esistenza della partecipazione stessa.

Molti autori hanno enfatizzato l’importanza di questi spazi simbolici di interazione comunicativa finalizzata. Bobbio (2002) aveva introdotto il termine di “arene deliberative”, per indicare spazi di discussione e lavoro  finalizzati alla risoluzione di problemi comuni attraverso la tecnica del lavoro nel piccolo gruppo, anche con un numero di soggetti molto grandi. Nel piccolo la gestione dei problemi e delle conflittualità è minore. Nei gruppi formati per l’occasione i giochi di forza cambiano ed anche la geometria degli interessi e degli umori.

I gruppi, però, non sono esenti dai problemi generati dalle loro stesse dinamiche (in e out; chiusure cognitive; leadership e membership; conformismo; estremizzazione delle posizioni, etc…), come sottolineava già Kurt Lewin ad inizio del secolo scorso (Garramone, Aicardi, 2010).
Aspetto di notevole interesse è la riproposizione di setting che ricordano oltre alle aree dei gladiatori per le loro dinamiche, le piazze o gli spazi circolari della socialità per gli aspetti relazionali e di contenuto. Tutta l’attenzione della partecipazione e dei suoi metodi mira a ripristinare questi due tipi di spazi, per produrre consenso, intelligenza collettiva, cambiamenti e lenire i livelli di disaccordo. Se le discussioni spontanee delle piazze sono “incontri del primo tipo” e se le assemblee istituzionali, molto diverse per natura dalle precedenti, le definiamo come “incontri di secondo tipo”, allora le arene della partecipazione non possono essere che “incontro del terzo tipo”, diverse dalle precedenti, ma una loro sintesi, alla ricerca spasmodica dell’informalità (degli “incontri del primo tipo”) e dell’esecutività e deliberatività (propria degli “incontri di secondo tipo”). Molto spesso questa sintesi avviene attraverso la fusione di filosofie di condotta (ad esempio l’ascolto attivo) con le tecnologie (e tecniche di lavoro) al fine di far emergere preferenze, elaborare proposte e strutturare strategie condivise, in tempi il più possibile ridotti (Garramone, Aicardi, 2011).

C’è una vasta gamma di setting (e di relative regole) che i metodi della partecipazione hanno generato. Potremmo incunearla tra due modelli estremi, l’Open Space Technology (OST) e il Town Meeting. Essi propongono due approcci diversi attraverso setting diversi per natura e peso. Per natura diremo subito che il primo propende per l’auto-organizzazione e la leadership mobile, il secondo per una ben determinata organizzazione ed una sorta di “headship di natura operativa”, ossia dei membri selezionati per eseguire quanto stabilito nella riunione a livello di città (Garramone, Aicardi, 2011). Per peso, evidenzieremo che mentre l’OST è una sorta di non-conferenza, il Town Meeting è una forma di autogoverno locale. Questo solo per chiarire la questione di come sia sfumata e complessa l’analisi e la tecnologia dei processi decisionali.

3. L’OST, ovvero la partecipazione con poche regole

Per quanto riguarda i setting, possiamo avere cornici leggere e cornici pesanti.

Faremo un breve focus soprattutto sulle cornici leggere, ovvero sui setting che funzionano con un set risicato di regole, attraverso l’OST, un metodo che nasce a metà degli anni ottanta del secolo scorso grazie ad un antropologo e fotogiornalista, poi consulente ed organizzatore di convegni. Osservatore così attento da trasformarsi in sociologo delle organizzazioni, Owen fa una scoperta importante riguardo al momento dei coffee break nei meeting e convegni. È questo il momento più intenso e proficuo degli incontri-eventi, molte volte è il momento in cui emergono e vengono veicolate informazioni importanti ed utili. Su questa scoperta si innesta una invenzione. Owen inventa un metodo che risolve il problema capovolgendo la situazione. I meeting e i convegni saranno dei coffee break dilatati. Solo così avranno maggiore efficienza ed efficacia. Il suo metodo cercherà poi di ricreare l’informalità della situazione del coffee break attraverso un basso grado di formalizzazione del metodo. Userà poche regole (4 principi, 2 metafore e 1 legge) ed un facilitatore a scomparsa, ovvero un facilitatore che sarà attivo solo in fase di start up del processo ed in fase di chiusura, rendendo così possibile la creazione di momenti di auto-organizzazione.

La semplicità del metodo fa la sua fortuna, sia in termini di apprendimento che di gestione.
Nel dettaglio, i 4 principi riguardano la modalità di selezione dei partecipanti (“Chiunque venga è la persona giusta”); l’efficacia o l’orientamento valutativo del processo di partecipazione (“Qualsiasi cosa accada è l’unica che poteva accadere”); e la programmazione dell’agenda (“In qualsiasi momento l’OST cominci, è il momento giusto”; e “Quando è finita è finita”).
La legge, invece, innesca una sorta di captatio benevolentia o di istituzionalizzazione dell’utilità (prosociale) del singolo (“se ti accorgi che non stai né imparando né contribuendo alle attività, alzati e spostati in un luogo in cui puoi essere più produttivo”).
La legge legittima anche l’autogestione ed evita l’etichettamento di comportamenti devianti o socialmente sanzionati, supportata dalle metafore, che potremmo definire una sorta di catalogazione della pluralità di comportamenti che possono essere messi in campo: il “bombo”, per indicare persona rumorosa che accende il conflitto; la “farfalla”, persona dolce che rende il clima pacifico; la giraffa, tipica trasposizione dei curiosi che vengono lì solo per vedere senza partecipare alle discussioni; o la mosca, fastidiosa e forse inutile. Le metafore, poi, sono anche occasioni per coinvolgere i partecipanti ad inventarne di nuove, creando consenso, interiorizzazione e fidelizzazione al metodo.
Ma tutto il metodo è una grande macchina per il gioco ed il coinvolgimento. Catturare consenso e lascia aperti spiragli di conquista delle regole, senza minacciare l’efficacia o il funzionamento della tecnica-metodo (Garramone, Aicardi, 2010).

4. Due occasioni di partecipazione: pianificazione e formazione

Infine, due impieghi della partecipazione possono mostrare la grande variabilità e trasversalità del concetto stesso. Una di queste è la pianificazione. La progettazione partecipata attiva già in esperienze comunitarie del dopoguerra, si è andata sempre più consolidando a partire dagli anni sessanta (Garramone, 2007) per diventare negli anni novanta armamentario dei programmi complessi e di tutta la costruzione di politiche pubbliche urbane stile Agende 21 Locali (Mattiazzi et al., 2017).

La partecipazione porta così contenuti, consenso, valutazione delle alternative ed implementazione dei piani. Diviene anche occasione di apprendimento collettivo e capacity building tanto dei destinatari quanto dei tecnici incaricati dei piani stessi. E sull’aspetto della formazione occorre soffermarsi anche per considerare l’uso del concetto in altri ambiti quali quelli organizzativi e di management, dove la partecipazione diviene strumento di vero e proprio di apprendimento organizzativo e di empowerment collettivo.

 

Bibliografia essenziale

Garramone V., Aicardi M. (a cura di) (2010), Paradise l’OST? Spunti per l’uso e l’analisi dell’Open Space Technology, Franco Angeli, Milano.
Garramone V., Aicardi M. (a cura di) (2011), Democrazia partecipata ed Electronic Town Meeting. Incontri ravvicinati del terzo tipo, Franco Angeli, Milano.
Garramone V. (2007), L’intervista aperta, le immagini di una città e la voce degli invisibili che si muovono a Potenza, Consiglio Regionale della Basilicata (scaricabile al sito http://consiglio.basilicata.it/consiglioinforma/detail.jsp?otype=1140&id=100490&typePub=100241).
Mattiazzi G., Garramone V., Lancerin L., Francesco Musco F. (2017), “Partecipazione pubblica in Veneto: verso una tecnologia dei processi decisionali”, Economia e Società Regionale, XXXV (1), pp. 81-98.
Verba S., Nie J.(1972), Participation in America. Political democracy and social equality, Harper & Row, New York.
Kuhn, T. (1969), La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, traduzione A. Carugo (1° ed. originale: The Structure of Scientific Revolutions, 1962, The University of Chicago).
Bobbio, L. (2002), “Le arene deliberative”, Rivista Italiana di Politiche Pubbliche, 3, pp. 5-29.
Sclavi M. (2011), “La trasformazione dei conflitti. Disciplina accademica sui generis e sapere della vita quotidiana”, Riflessioni Sistemiche, n.4, pp. 114-24.
Owen H. (2008), Open Space Technology. Guida all’uso, Genius Loci editore, Milano, traduzione G. de Luzenberger (1° ed. originale: Open Space Technology: A Use’'s Guide, 1992, Berrett-Koehler, Oakland).